domenica 27 febbraio 2022

DISTRETTO 13 - LE BRIGATE DELLA MORTE

(Assault on precinct 13 di John Carpenter, 1976)

Film culto degli anni 70 e vero e proprio esordio per Carpenter, il precedente Dark Star era infatti un lavoro eseguito come tesi di laurea e poi con qualche difficoltà distribuito al pubblico. Distretto 13 - Le brigate della morte si attesta nel filone dei b-movies solidi e di valore, realizzati con tempi e budget ridotti ma che nonostante questo riescono a ritagliarsi uno spazio nei cuori degli spettatori e in larga parte della critica diventando col tempo dei veri e propri cult, destino comune a diversi film di Carpenter, regista semplicemente adorato dai suoi fan. Carpenter non nasconde a quei tempi il desiderio di poter girare un western, per questioni di budget il film diverrà un western urbano, in modo da poter sfruttare location a portata di mano e decisamente più economiche di quelle che si sarebbero dovute ricreare in studio per tornare ai tempi del vecchio west. In maniera dichiarata Carpenter guarda allo splendido Un dollaro d'onore, la critica ci vede nella struttura, giustamente, anche La notte dei morti viventi di Romero, in fondo i film a tema "assedio" hanno dinamiche ben precise da rispettare e le analogie sono facilmente verificabili. Con queste fonti e queste idee ben in mente Carpenter piazza i suoi pezzi sulla scacchiera, giocherà una partita fatta di tensione e senso di minaccia incombente per resistere alla quale non si potrà far altro che mettere da parte tutte le differenze e gli attriti e collaborare per il bene comune, insegnamento ai più apparentemente impossibile da recepire nella vita reale ancora oggi.

Los Angeles. Il quartiere di Anderson è abbandonato al crimine, i cittadini per bene hanno in massa lasciato la zona per trasferirsi in aree più centrali e civili della metropoli californiana: le strade sono deserte, gruppi di criminali riuniti in folli drappelli si ergono contro le forze dell'ordine per vendicarsi di un blitz costato la vita a sei delinquenti. Anche il distretto 13 è in via di smantellamento, per trasferirsi in una zona più centrale del quartiere e meno isolata. Nella sera della chiusura definitiva il neo tenente della polizia Ethan Bishop (Austin Stoker) viene incaricato di presiedere alle operazioni, fino al distacco di corrente e linee telefoniche. Nello stesso tempo un autobus di sicurezza trasporta alcuni prigionieri verso il carcere di Sonora dove uno di questi, Napoleone Wilson (Darwin Joston) dovrà essere giustiziato, con lui anche il detenuto Wells (Tony Burton). Per le strade di Anderson ci sono anche il signor Lawson (Martin West) e sua figlia Kathy (Kim Richards) in viaggio nel tentativo di convincere la primogenita di Lawson a lasciare la zona e il poco di buono con cui si è messa. I destini di tutte queste persone si incontreranno per vari motivi al distretto 13, insieme ad alcune persone lì impiegate come le assistenti Leigh (Laurie Zimmer) e Julie (Nancy Kies), dovranno resistere a un assedio da parte di una banda di criminali decisa ad attuare i loro propositi di vendetta.

Film molto diretto, asciutto, senza fronzoli girato da Carpenter in un decennio dove le violenze nelle metropoli statunitensi non erano notizia rara; nonostante l'assenza di troppi orpelli il regista non manca di mostrare idee e stile, sia nella regia che nella costruzione dei personaggi, ad esempio il Napoleone Wilson di Darwin Joston a guardarlo bene contiene in nuce alcuni elementi che saranno portati all'eccesso dal mitico Jena Plissken dell'altrettanto mitico Kurt Russell, così come per il contesto di cui 1997: Fuga da New York è esasperazione di quello di Distretto 13, un po' come se qui Carpenter avesse iniziato a prendere le misure per l'escalation a venire. La tensione crescente è data da una minaccia criminale incombente poco visibile e impossibile da identificare, le motivazioni dell'esplosione di violenza sono pretestuose, c'è la vendetta che viene perpetrata però in maniera casuale e che coglie le vittime più innocenti, non c'è margine di trattativa, solo resistenza per la quale le parti in causa (poliziotti, condannati a morte, vittime, impiegati) dovranno far fronte comune con le poche risorse a disposizione per non soccombere. La sequenza del primo attacco al distretto, crivellato da una pioggia di proiettili, è girata da Carpenter con grande maestria nonostante i pochi mezzi a disposizione, probabilmente la scena migliore del film. Il nemico non si vede, l'inizio dell'assedio è evidenziato da finestre che si rompono, oggetti che esplodono, documenti che volano per l'ufficio, muri e arredi che si bucano, rumore assordante che fa da contrappunto all'egualmente efficace score musicale composto dallo stesso regista, il frastuono dell'assedio stride con il silenzio innaturale dal quale il quartiere abbandonato è afflitto di giorno. Bel lavoro fatto sui personaggi, l'onesto e umano Bishop, l'affascinante Napoleone che si rivelerà uomo migliore di quel che poteva apparire in principio (sua la frase "Nella mia situazione, i giorni sono come le donne: ognuno diventa dannatamente prezioso. E finiscono sempre per lasciarti") e la coraggiosa Leigh. Oggi Distretto 13 può apparire un film vecchio, superato, troppo diretto, troppo poco "costruito" rispetto a prodotti ai quali siamo abituati oggi, è un film che però senza deviazioni arriva dritto al punto, non c'è nemmeno consolazione alla fine, solo il forte legame che si può creare tra uomini, tra sopravvissuti. Remake francese del 2015 di  Jean-François Richet, si dice che anche quello non sia male, il titolo è semplicemente Assault on precinct 13.

giovedì 24 febbraio 2022

AS TEARS GO BY

(Wong gok ka moon di Wong Kar-wai, 1988)

A differenza di ciò che è accaduto al cinema di Taiwan, una delle industrie cinematografiche più importanti della sfera cinese, dove per portare sugli schermi tematiche adulte e poco edulcorate si è dovuto aspettare la New wave dei primi anni 80, il cinema di Hong Kong ha iniziato ad assaporare la sua età adulta decisamente prima, favorito da un'indipendenza politica che gli permise di non dover subire le ingerenze della censura da parte della Repubblica Popolare Cinese iniziando già dai primi anni 70, se non addirittura prima, a proporre una scelta di generi molto diversificata, prodotti sempre popolari, con film volti per lo più a garantire buoni incassi, ma dove non mancavano dosi di violenza, erotismo e libertà impensabili negli stessi anni in Cina o a Taiwan. L'esplosione del cinema di Hong Kong, soprattutto a partire dagli anni 70 del secolo scorso, grazie anche alla popolarità raggiunta dai film con protagonista Bruce Lee, garantì all'industria del Paese di aprirsi verso l'occidente diventando così uno dei mercati più floridi non solo in Asia ma in tutto il mondo, favorendo dei canali di importazione ed esportazione delle opere (con conseguenti introiti per case cinematografiche e sale) e dando via in seguito a una mobilità vivace per registi e attori che non mancarono di realizzare diverse opere per Hollywood. Tra i registi che attirarono l'attenzione internazionale, a partire dalla seconda metà degli anni 80, compare proprio Wong Kar-wai che fin da questo suo esordio si dimostra un autore capace di mettere in scena un film dalle caratteristiche popolari, in questo caso un mix di romanticismo e gangster movie, ma con una cifra di stile che già iniziava a mostrare peculiarità del tutto personali esplose poi in opere successive fino ad arrivare a capolavori indiscussi come In the mood for love.

Come dicevamo As tears go by racchiude una storia d'amore in un contesto criminale. Ah Wah (Andy Lau) è un delinquente di media levatura che gestisce un suo piccolo giro per una triade di Hong Kong; il ragazzo si accontenta di vivacchiare dei suoi traffici e di togliere costantemente dai guai il suo amico fraterno Mosca (Jacky Cheung), un buono a nulla testa calda deciso a tenere sempre il punto per non macchiare il suo onore da teppista da quattro soldi, questo atteggiamento lo mette spesso in conflitto con i capi di altre triadi come lo spietato Tony (Alex Man Chi-leung) con conseguenti conflitti per porre rimedio ai quali è chiamato in causa sempre Ah Wah. Un giorno il giovane riceve una chiamata da sua zia che gli chiede di ospitare a casa sua la cugina malata Ah-ngor (Maggie Cheung) che necessita di visite urgenti in ospedale. Una volta a Hong Kong la ragazza dovrà assistere ai turbolenti rientri notturni di questo cugino dalla vita affatto pacata, spesso arrabbiato, ferito, sanguinante. Tra i due nasce una certa complicità che farà intravedere ad Ah Wah possibilità di una vita diversa da quella che conduce, i legami con l'amico Mosca e con la vita che si è scelto però non saranno facili da sciogliere, in agguato sembra esserci un destino beffardo che non permette ai protagonisti di discostarsi troppo da un percorso che sembra già tracciato in maniera ineludibile.

Ottimo esordio per Wong Kar-wai che riesce a coinvolgere ed emozionare fin dal suo primo film. Dall'inquadratura iniziale su splendido sottofondo musicale emerge da subito l'occhio del regista per l'inquadratura, l'importanza estetica dell'immagine curata in maniera mai invadente ma trattata come se fosse un gioiello prezioso che brilla al collo di una splendida donna: la notte trafficata di Hong Kong, una parete di schermi che proietta un cielo blu solcato dalle nuvole, le luci notturne e i riflessi della città ci si specchiano dentro, le insegne al neon pennellano tocchi di giallo e di rosso, una bellissima composizione che è ottima presentazione di ciò che vedremo e sentiremo nel corso del film. As tears go by è una sorta di omaggio al Mean streets scorsesiano, quasi un remake dicono alcuni, d'altronde il connubio tra Scorsese e Hong Kong non finirà qui, il premiato The departed muove infatti i passi dalla saga di Infernal affaires alla quale prende parte proprio il nostro protagonista Andy Lau, a dimostrazione di come il cinema di Hong Kong e quello occidentale si siano abbracciati l'un l'altro. Wong Kar-wai costruisce un gangster movie con tutte le caratteristiche del caso spezzato da una vicenda romantica sempre lambita in punta di piedi ma che regala i momenti più emozionanti, bellissima la sequenza con Take My breath away dei Berlin cantata in cantonese da Sandy Lam. Il sapore degli anni 80, nonostante la latitudine a noi lontana, si sente tutto, la selezione musicale è magnifica e incornicia esplosioni di violenza che non lesinano di mostrare le conseguenze dei colpi subiti, tutto il racconto è pervaso da quel senso dell'onore, da quel legame d'amicizia che impedisce ai protagonisti di svoltare, di allontanarsi dal basso e dal marciume, il personaggio di Mosca è l'esempio di chi non si accontenta di una vita abitudinaria e sfoga nel crimine e in azioni sempre più spregiudicate la paura di essere considerato una nullità dalla società attorno a lui. Ma quel che più rimane sono i gesti, le parole, i momenti, i bicchieri nascosti, le magliette bagnate dal sangue. Grande esordio.

lunedì 21 febbraio 2022

CIAO AMERICA!

(Greetings di Brian De Palma, 1968)

Opera giovanile di un De Palma alle sue prime esperienze con il lungometraggio, Ciao America! sigla anche l'esordio accreditato di un giovanissimo Robert De Niro, due nomi destinati a diventare grandi riferimenti del cinema americano tutto, accomunati in un'opera oggi indubbiamente invecchiata ma che contiene in sé germi di temi poi cari a De Palma (quelli sull'immagine e sullo sguardo) e ripresi lungo tutto il corso della sua carriera; ci sono richiami alla struttura dei film della Nouvelle Vague francese e soprattutto i primi passi di un cinema che andrà ad allontanarsi da quello dei grandi studios di Hollywood diventando sempre più indipendente, anche a livello produttivo, dando poi vita a quel movimento di grandissimo interesse denominato New Hollywood del quale proprio De Palma sarà uno dei nomi di spicco. Non ancora trentenne De Palma aveva fino ad allora diretto una serie di corti e il suo lungo d'esordio, Murder à la mod; con Ciao america!, commedia dissacrante e critica verso la gestione politica U.S.A., il regista si aggiudica niente meno che l'Orso d'argento al Festival di Berlino grazie a una regia sperimentale, indubbiamente ancora acerba, ma in qualche modo moderna e innovativa.

Tre amici: Paul (Jonathan Warden) è stato convocato per espletare le visite mediche in vista della chiamata alle armi per il Vietnam, il ragazzo si rivolge ai due suoi amici John (Robert De Niro) e Lloyd (Gerritt Graham) per trovare un modo per farsi riformare ed evitare quindi la partenza per il fronte, ne seguiranno discussioni sconclusionate e assurde dalle quali verrà fuori l'ipotesi più gettonata: fingersi omosessuale. Nel frattempo Paul, affatto omosessuale e alla ricerca di una ragazza, si affida ad appuntamenti combinati da un computer che lo porteranno agli incontri più disparati. John lavora in una libreria e ha un che del guardone, con giri di parole che vorrebbero dare un senso di dignità e cultura al suo operato, cerca di adescare delle giovani fanciulle in modo da poterle riprendere mentre si spogliano con la scusa della creazione di un progetto artistico. L'ultimo del trio è Lloyd, un ragazzo assolutamente ossessionato dall'assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Lloyd studia e ristudia tutti i documenti sul caso, nella sua abitazione ha un sacco di foto dell'evento, anche quando si trova a letto con una donna trova il modo di compiere ricerche che possano avallare le sue teorie di complotto sul celebre delitto. La storia avanza per frammenti e piccoli episodi e si concluderà in Vietnam dove uno dei tre protagonisti continuerà a perseguire le sue fissazioni.

Film interessante dal punto di vista storico e nell'ottica di approfondimento del lavoro di un regista che muoveva qui i suoi primi passi, ancora incerti per lo meno nei contenuti. Ciao America! non ha una trama, procede per situazioni mettendo in campo una comicità in alcuni passaggi anche demenziale, De Palma mette in campo qualcuna delle trovate tipiche delle comiche (le camminate velocizzate) e il sottofondo musicale dai toni allegri contribuisce a creare un'atmosfera più che distesa. In realtà c'è di fondo una critica a un Paese che già in quegli anni tendeva a imbellettarsi a favore dei media per compiere le peggiori atrocità nel mondo reale, Ciao America! si apre e si chiude su spezzoni di discorsi pubblici del Presidente Lyndon B. Johnson, utilizzati in chiave molto ironica, affronta la perdita definitiva d'innocenza degli Stati Uniti (che non c'è mai stata in realtà) con l'assassinio di Kennedy e si congeda dal pubblico con una smaccata presa in giro di un Paese con una moralità allo sbando (il riferimento è alla classe politica e dirigenziale, non di certo al mutare dei costumi). Nel complesso il film non è tra i più memorabili girati da De Palma: molto scollato, fortunatamente breve, con qualche bel momento e le prime riflessioni sulle immagini e sull'atto del guardare (l'artista di strada, le foto dell'omicidio del Presidente, i video di Johnson), elementi che il regista proporrà a più riprese nei suoi film (Omicidio in diretta, Redacted, Omicidio a luci rosse, etc...), Ciao America! manca però di struttura e di passaggi realmente coinvolgenti, anche i personaggi non rimangono impressi nonostante uno di questi, quello interpretato da De Niro, sarà protagonista di un sequel un paio d'anni più tardi dal titolo Hi, Mom! 

sabato 19 febbraio 2022

BENVENUTI A ZOMBIELAND

(Zombieland di Ruben Fleischer, 2009)

Benvenuti a Zombieland è una commedia horror che in maniera inspiegabile nel nostro paese non ha trovato la via delle sale cinematografiche per approdare direttamente in home video. Non ci troviamo di certo di fronte a un capolavoro, non di meno il film di Fleischer aveva tutte le carte in regola per meritare una maggiore attenzione da parte dei nostri distributori, non fosse altro che per il cast di sicuro richiamo composto da Woody Harrelson, Emma Stone, Jesse Eisenberg, Abigail Breslin, Amber Heard e Bill Murray; dopo aver visto il film la scelta appare in effetti poco spiegabile. Non è un film che possa vantare grande profondità questo Zombieland però è innegabile che sia un prodotto ben diretto, ben interpretato da ottimi attori a loro agio nel contesto e soprattutto molto, molto divertente. Le situazioni comiche e le battute in Zombieland si susseguono con un ritmo incalzante, incastonate tra citazioni pop, sottotesti leggeri, soluzioni di regia ruffiane ma funzionali e il cameo esilarante di un Bill Murray ormai icona, non sarà L'alba dei morti dementi ma alla fine ci si diverte davvero parecchio.

L'America è stata devastata dal solito virus, un'evoluzione di quello della "mucca pazza" questa volta; la piaga ha trasformato la maggior parte della popolazione in zombie affamati di carne umana. I sopravvissuti si contano sulle dita di una mano (noi ne incontriamo appena cinque), tra di loro c'è Columbus (Jesse Eisenberg), un giovane sfigato che si è dato delle regole ben precise per sopravvivere il più a lungo possibile all'apocalisse zombie, tra queste c'è quella di mantenersi in forma, questi zombie infatti corrono e sono anche veloci, sparare sempre due volte, controllare i sedili posteriori delle auto, non guidare senza la cintura allacciata e cose di questo tipo. Il protagonista senza nome (nel nuovo mondo ci si identifica con la città di origine o di destinazione, per lui appunto Columbus) sta cercando di tornare dalla sua famiglia di cui sente per la prima volta in vita sua la mancanza, durante il viaggio incontra Tallahassee (Woody Harrelson), un vero duro ammazzazombie che ha come scopo principale quello di trovare una scorta delle sue merendine preferite, i Twinkie, il cui sapore gli ricorda i bei tempi andati, quando ancora aveva qualcuno per cui valesse la pena vivere. La coppia mal assortita deciderà di fare un pezzo di strada insieme finché incapperà nel duo composto dalle giovani Wichita (Emma Stone) e Little Rock (Abigail Breslin), due fanciulle dirette al parco giochi Pacific Playland di Los Angeles e molto meno indifese di quel che possano sembrare all'apparenza.

Di apocalissi zombie ne abbiamo viste a iosa, Benvenuti a Zombieland si rivela essere una delle più divertenti insieme a quelle proposte dal già citato L'alba dei morti dementi di Edgar Wright o da I morti non muoiono di Jim Jarmush nel quale è protagonista proprio Bill Murray. Nel film di Fleischer è presente anche qualche velata critica alla società moderna, pensiamo all'isolamento tecnologico di Colombus che prima della piaga vive da recluso nella sua camera passando il tempo sul web a giocare ai videogiochi e senza sentire il bisogno di un contatto umano: famiglia non pervenuta, coraggio per parlare alla ragazza della stanza 406 (Amber Heard) inesistente. Ad ogni modo il succo del film non è di certo la denuncia sociale ma quello del puro divertimento, in questo sia il regista che la coppia di sceneggiatori (Reese e Wernick) non falliscono, se anche alcune soluzioni di Fleischer risultano già viste, come la presenza costante di scritte in sovrimpressione a scandire le regole fondamentali per sopravvivere all'apocalisse, il risultato finale è molto convincente con alcune punte di genio (riservate alla comparsa di Murray nel ruolo di sé stesso). Harrelson è un grande, lo sappiamo, e qui si mangia la scena interpretando questo duro rozzo ma dal cuore tenero, Eisenberg e la Stone costruiscono una bella coppia da rom-com adolescenziale infilata in una struttura che è quella del road movie durante il quale i protagonisti troveranno dei buoni motivi per dare fiducia al prossimo e per affrontare le difficoltà presentate dal nuovo mondo insieme, poggiando la loro nuova vita sulla solidarietà e sulla nuovissima regola del "goditi le piccole cose", quelle quotidiane, come può essere il sapore di una merendina. L'aspetto però da tenere in maggiore considerazione, e mi ripeto, è che Zombieland è un film molto divertente, se volete farvi due risate qui andate sul sicuro. Menzione particolare per la colonna sonora che spazia da Willie Nelson ai Blue Oyster Cult, da Hank Williams alla splendida in apertura For whom the bell tolls dei Metallica fino ad arrivare al tema di Ghostbusters. Bill Murray docet.

giovedì 17 febbraio 2022

LE SABBIE DI MARTE

(The sands of Mars di Arthur C. Clarke, 1951)

Qualche settimana fa RCS ha mandato nelle edicole italiane l'ennesimo "numero uno" di una di quelle tante iniziative meritorie che negli ultimi anni, in allegato a diversi quotidiani (La Gazzetta dello Sport e Il Corriere della Sera), hanno contribuito a portare segmenti di cultura popolare a un pubblico potenzialmente vasto a prezzi per tutte le tasche (o quasi). L'editore ha in anni recenti fatto la felicità di tanti appassionati di fumetto, editando per esempio in ordine cronologico tutte le principali serie storiche della Marvel Comics con l'iniziativa Super Eroi Classic, qualcosa di diverso e più moderno è stato fatto con gli eroi della DC Comics, da pochissimo è partita un'iniziativa imperdibile per gli amanti delle historietas argentine con la ristampa di alcuni tra i più popolari protagonisti di Lanciostory, per non parlare poi di fumetto francese, italiano, collezioni musicali, modellini, e via di questo passo. Questa volta l'iniziativa coinvolge la storica Urania che dai primi anni 50 porta nelle case di molti italiani un'appassionata selezione dei migliori scrittori internazionali che hanno fatto della fantascienza il loro cavallo di battaglia. La collana, dal titolo Urania - 70 anni di futuro, vuole celebrare i settant'anni dello storico marchio che avviò le sue pubblicazioni proprio con questo Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke nel lontano 1952 e allo stesso tempo offrire una scelta di titoli e scrittori che possa illustrare ai lettori più o meno neofiti del genere le potenzialità delle varie declinazioni di cui la branca larga della science fiction letteraria si compone.

Con Le sabbie di Marte di Clarke si inizia questo viaggio assaporando il filone più classico della fantascienza, quello legato con rispetto ai suoi aspetti più tecnici e scientifici. Liberiamo subito il campo da ogni sorta di dubbio, questo non vuol dire che Clarke si perda in inutili cavilli o in descrizioni minuziose delle varie tecnologie o di fenomeni scientifici fino ad arrivare al tedio, anzi, tutt'altro, Le sabbie di Marte è un libro molto piacevole e scorrevole che si lascia leggere in pochissimo tempo, ciò che qui si respira in misura maggiore è la voglia di avventura, il senso di scoperta, la caparbietà della colonizzazione e la speranza di nuove possibilità, per spirito il romanzo si potrebbe paragonare a un racconto che narra le esplorazioni di Lewis e Clark alla scoperta dell'ovest americano ad esempio, è completamente assente il pessimismo delle distopie o della fantascienza che profetizza futuri cupi e tempi bui, quella di Clarke è un'apertura romantica e ottimista al futuro, basata con perizia sulle ancora scarse conoscenze dell'epoca riguardo ciò che il cosmo avrebbe potuto offrire nell'immediato futuro. Ricordiamo che siamo nel 1951, l'esplorazione spaziale da parte dell'uomo non era ancora cominciata, i dati sul pianeta rosso erano completamente assenti, eppure le ipotesi di Clarke non sono affatto campate per aria, indubbiamente più sognanti e positive verso la vita di ciò che si sono poi rivelate in realtà, ma le recenti scoperte sulla possibilità di presenza di ghiaccio nel passato di Marte e di composizioni minerali a noi note, dimostrano che tutto sommato la freccia non è finita poi così lontano dal bersaglio. 

L'Ares è una nave destinata a percorrere in futuro la rotta Terra/Marte; durante il volo di collaudo all'equipaggio ridotto al minimo si aggiungerà un unico passeggero, lo scrittore di fantascienza Martin Gibson che fungerà da cronista per quel che riguarda le esperienze di viaggio spaziale e la vita dei primi coloni su Marte, pianeta dove una nuova società è in corso di allestimento. Nella prima fase di viaggio Gibson avrà modo di confrontarsi con lo scettico equipaggio composto dal comandante Norden, dall'ufficiale di macchina Hilton, dall'ufficiale di rotta Mackay, dal dottor Scott, dall'esperto di elettronica Bradley e dal giovane Jimmy Spencer, una sorta di recluta pronta a farsi le ossa con le prime esperienze di volo stellare. Con il passare dei giorni Gibson prenderà confidenza sia con la vita di bordo sia con i nuovi compagni, tra piccoli inconvenienti e qualche sorpresa anche personale lo scrittore giungerà infine su Marte, pronto all'esplorazione di questa nuova colonia al comando del Presidente Hadfield, uomo di valore che non tarderà a guadagnarsi la stima di Gibson.

Le sabbie di Marte presenta una fantascienza priva di scontri e contrasti, le uniche battaglie presenti sono quelle burocratiche tra la Terra e la nuova colonia per l'assegnazione di fondi e risorse, quella di Clarke è una narrazione fatta di esplorazione e avventura, qualche piccolo mistero da svelare, rispetto e amicizia, relazioni personali e cronaca di viaggio, l'approccio è molto positivista, molti appassionati considerano questo romanzo sì importante ma anche ormai un po' ingenuo e sorpassato, in realtà per chi come me non mastica fantascienza tutti i giorni la lettura si rivela piacevole e riporta a quella genuina meraviglia che il pubblico degli anni 50 può aver provato di fronte a narrazioni come questa, con l'idea che prima o poi, da qualche parte, in quello spazio l'uomo ci sarebbe arrivato. Per un'iniziativa come questa inoltre era forse doveroso, importante sotto il punto di vista sentimentale, tornare dove tutto è iniziato tanti anni fa; se lo scopo era quello di catturare nuovi lettori riportandoli a quella meraviglia ormai antica, Le sabbie di Marte è stata una bella scelta per rompere il ghiaccio, con la speranza che al suo interno si possano trovare tracce di nuove forme di vita aliena!

mercoledì 16 febbraio 2022

A RIVER CALLED TITAS

(Titas Ekti Nadir Naam di Ritwik Ghatak, 1973)

La World Cinema Project è una fondazione voluta e creata da Martin Scorsese volta a rintracciare, restaurare, preservare e divulgare opere cinematografiche dimenticate provenienti dalle più svariate aree del mondo; attualmente, con i progetti in corso d'opera, dal 2007 a oggi la WCP ha recuperato circa una cinquantina di titoli altrimenti difficilmente visibili per gli spettatori promuovendone la diffusione, tra queste opere compare anche A river called Titas del regista Ritwik Ghatak ora disponibile nel catalogo di Raiplay. Il cinema di origine indiana, al quale A river called Titas appartiene, non è di certo tra i più diffusi qui in Italia; se esuliamo dall'esplosione di Bollywood legata a film con caratteristiche in qualche modo vicine al musical, ai numeri danzanti e al sapore esotico, il cinema proveniente dall'India è a noi pressoché sconosciuto, Ritwik Ghatak ne è stato uno dei maggiori esponenti insieme al più noto Satyajit Ray che citava proprio Ghatak come una delle maggiori influenze per i giovani registi nati con la generazione successiva alla loro. È un cinema molto diverso dai colori e dalla vivacità ai quali oggi colleghiamo istintivamente l'idea di Bollywood e del cinema indiano. A river called Titas è un film del '73 girato in bianco e nero che per temi e indole è più vicino alla nostra corrente neorealista, ovviamente con i dovuti distinguo derivanti dalla storia molto diversa dei due paesi d'origine. I temi sociali, i racconti della povera gente, le difficoltà morali e materiali di uomini e donne in condizioni di vita non sempre semplici, uniti allo sguardo sulla cultura dei luoghi, sulle tradizioni, sono la spina dorsale di questo film che si potrebbe definire fluviale, non solo per l'onnipresenza del fiume Titas, ma anche a causa della mole di personaggi ritratti e della lunghezza del film che supera le due ore e mezza di durata. Il lavoro della WCP ce lo restituisce in condizioni davvero ottime che esaltano la ricerca sulle inquadrature di Ritwik Ghatak.

Kishore (Prabir Mitra) è un giovane pescatore che vive in un villaggio di capanne lungo le rive del fiume Titas, in quel territorio che è oggi l'attuale Bangladesh. Insieme a un suo compagno Kishore parte per una battuta di pesca fermandosi poi per breve tempo in un altro villaggio. Qui, frettolosamente e quasi con l'inganno, Kishore si trova a sposare la giovane Rajar (Kabori Choudhury) sebbene al suo villaggio abbia già una donna con delle mire molto forti su di lui, Basanti (Rosi Samad). Nel ritorno verso casa la neo sposa viene rapita, solo anni dopo riuscirà a rintracciare il villaggio di quel marito di cui non sa praticamente nulla, arriverà al villaggio natale dell'uomo con un figlio di ormai dieci anni di nome Ananta (Shafikul Islam). Nel frattempo però Kishore ha perso il senno, sarà proprio Basanti a prendersi cura del ragazzo quando Rajar non potrà più farlo, ma gli uomini e il destino sono spesso cattivi, solo il fiume Titas continua a scorrere imperturbabile, almeno fino a un certo punto...

L'attenzione del regista Ritwik Ghatar è tutta focalizzata sulla povera gente e sulla vita che questo gruppo di pescatori indiani conduce sulle rive del fiume. La vicenda è corale, a quella dei protagonisti si incrociano le storie di altri personaggi; il regista si tiene lontano dalla facile agiografia della "povera gente", in fondo abbiamo sempre sentito il motto per cui la solidarietà sta di casa tra gli ultimi. Beh, non qui, a parte per quel che riguarda il buon cuore di Basanti, Ghatar dipinge una società molto chiusa in caste che ha la tendenza all'abbandono dei più sfortunati, la stessa madre di Basanti vorrebbe liberarsi di Ananta che, indifeso, viene dalla donna visto solamente come un peso, un'inutile bocca in più da sfamare. Non mancano quindi interessi contrastanti, piccole rivalità e meschinità in una realtà dove è necessario industriarsi per andare avanti, legati al fiume che indifferente scorre. Sotto il punto di vista estetico il WCP ha effettuato un gran lavoro di restauro che permette di ammirare le belle riprese di Ghatar, inquadrature tutte ben pensate, spesso fisse o quasi, alcune davvero molto attraenti con il bianco e nero luminoso a riprendere gli effetti di luce sull'acqua, alcuni passaggi più dinamici e ravvicinati sui volti a sottolineare qualche momento di tensione e conflitto, qualche scarto onirico. Purtroppo la narrazione mantiene una certa distanza dai personaggi, non c'è quell'empatia che i protagonisti potrebbero far nascere, la coralità in questo senso non aiuta e si ha sempre l'impressione di guardare dal di fuori, con distacco, una vicenda (o più vicende) alla quale si fatica ad appassionarsi, mettiamoci anche il fatto che a queste condizioni due ore e mezzo non passano proprio in un attimo e a un certo punto la fatica si fa sentire. Consigliato quindi? Dipende, per l'appassionato di cinema che guarda anche con una "fame" storica e di conoscenza senz'altro sì, altrimenti non è detto che l'esperienza si riveli soddisfacente a tutti, però, ogni tanto, può valere magari la pena investire un po' d'impegno in più in qualcosa di diverso. A voi la scelta.

domenica 13 febbraio 2022

CHRISTINE - LA MACCHINA INFERNALE

(Christine di Stephen King, 1983)

Dal suo esordio con Carrie nel 1974 fino almeno ai primi anni 80 Stephen King sbaglia davvero pochissimo; anche i suoi titoli considerati non propriamente di primo piano, come questo Christine - La macchina infernale forse noto più per la versione cinematografica di John Carpenter che non per il libro del Re, offrono pagine e pagine di intrattenimento di gran livello cesellando intorno alla vicenda principale un ambiente e dei personaggi talmente credibili da far apprezzare la lettura del libro, paragrafo dopo paragrafo, anche in tutte quelle fasi interlocutorie dove apparentemente la vicenda principale non si sta sviluppando. In realtà la storia narrata da King è in costruzione continua, proprio in questo lo scrittore di Bangor è il Re, non solo nelle atmosfere da brivido ma anche in quella meticolosa ricostruzione d'ambiente della provincia americana, nella descrizione delle dinamiche familiari, in quel cogliere al meglio le età giovanili, i passaggi all'età adulta e quei rapporti umani, come l'amicizia, inevitabilmente destinati a cambiare, a evolversi e a mutare con il tempo e con i tempi. Al di là dei connotati orrorifici o sovrannaturali è tutto il resto che ogni volta mi convince di come King sia un grande scrittore che poco ha da invidiare ad altri nomi considerati dalla critica in misura maggiore, come se navigare all'interno del genere avesse meno dignità letteraria, annosa discriminazione che risale probabilmente all'alba dei tempi della letteratura moderna.

Dennis Guilder e Arnie Cunningham sono amici fin dai tempi delle elementari, i due non potrebbero essere più diversi: il primo è un bel ragazzo, atleta nella squadra di football delle superiori, un bravo studente e parecchio spigliato con il genere femminile; anche Arnie è molto bravo a scuola ma le similitudini tra i due finiscono qui. Arnie è quello che viene considerato un vero sfigato dai suoi coetanei: impacciato, la faccia devastata da un'acne impietosa, goffo e imbranato di fronte alle ragazze, incapace di avere una buona socialità con i suoi compagni. Eppure Dennis, che lo conosce bene e da tanto, ha modo di apprezzare le qualità nascoste di Arnie, un amico fedele, molto sciolto quando è con lui e capace di spiritosaggini davvero divertenti, tutte qualità che nel tempo hanno contribuito a creare un'amicizia profonda, tanto che non sono mancate a Dennis le occasioni per togliere Arnie dai guai di cui è spesso vittima a scuola. Durante una delle sortite sulla Duster del '75 di Dennis i due amici si imbattono in una vecchia Plymouth Fury del '58 abbandonata in un vialetto prospiciente una malconcia casetta unifamiliare. L'auto, quasi un completo rottame, appartiene a un vecchio militare ormai in pensione, Roland D. LeBay, un personaggio alquanto sgradevole che propone ad Arnie di acquistare la Fury che lui ha chiamato Christine. Per qualche strana ragione Arnie si innamora da subito dell'auto, Dennis cerca di far ragionare il suo amico più che convinto che il vecchio gli stia tirando un fregatura, purtroppo quella vecchia macchina diverrà per tutti ben più di una semplice fregatura economica, per Arnie Christine diverrà una vera e propria ossessione che metterà in discussione i rapporti del ragazzo con la sua famiglia, con l'amico Dennis e anche con Leight Cabot, una delle ragazze più belle della scuola che inspiegabilmente inizierà a provare una vera attrazione per Arnie.

Oltre che nel campo del sovrannaturale Stephen King ci accompagna in un momento di passaggio per un'amicizia storica destinata a incrinarsi, i due protagonisti sono all'ultimo anno del college, soprattutto in Dennis affiora a più riprese la preoccupazione per la fine di un'età spensierata che si paleserà nel più inquietante dei modi, l'affaccio al mondo degli adulti presenta numerose incognite, anche i legami più forti, quelli di una vita e quelli nati in momenti di estrema preoccupazione, subiranno scossoni ai quali difficilmente potranno resistere. King lavora benissimo sui rapporti, tratteggia bene le famiglie d'origine dei due ragazzi, il loro legame con i genitori, non mancano come in molti suoi romanzi i bulli e i delinquentelli a rendere la vita difficile ai protagonisti. Se dal punto di vista dei brividi e della tensione il re ha prodotto esiti più interessanti di questo Christine, sul piano meramente narrativo il libro corre che è una bellezza, pagina dopo pagina si costruisce un mondo che sembra essere sempre più vero e familiare, la prosa dello scrittore del Maine non lascia scampo, è una carta moschicida per lettori, King è uno di quegli autori al quale spesso ci si accosta durante gli anni dell'adolescenza e che poi, per un motivo o per l'altro, non si abbandona mai per davvero, perché tornare in quei paesini pieni di minacce striscianti e orrori quotidiani è un piacere al quale non è facile rinunciare.

venerdì 11 febbraio 2022

SHIVA BABY

(di Emma Seligman, 2020)

Il lungo corso della pandemia e il concomitante e sempre crescente successo delle varie piattaforme streaming, pur essendo stato un duro colpo per esercenti e per il classico iter di fruizione dei film nelle sale cinematografiche, ha forse aperto le porte a una maggiore visibilità per prodotti altrimenti destinati a rimanere sconosciuti o a circolare nella sola nicchia dei circuiti festivalieri; tra questi film distribuiti direttamente online, magari previo passaggio breve in sala o appunto in qualche Festival per i prodotti più fortunati, ci sono diverse opere dirette da mano femminile, molte di queste parecchio interessanti, penso ad esempio a The cloud in her room della cinese Zheng Lu Xinyuan, al First cow di Kelly Reichardt per esempio e anche a questa deliziosa commedia diretta dalla canadese Emma Seligman, classe 1995 e radici ben piantate nella cultura ebraica della famiglia d'origine. Nato dall'elaborazione di un cortometraggio che la Seligman realizzò come tesi di laurea alla Tisch School of the Arts dell'università di New York, Shiva baby contiene alcuni elementi che come dichiarato dalla stessa Seligman stanno molto a cuore alla regista: in prima istanza la presenza di una protagonista bisessuale descritta con grande naturalezza in un film dove l'accento non cade in maniera preponderante sugli orientamenti sessuali del personaggio; si esplorano inoltre le relazioni di potere derivanti dai rapporti sessuali, il titolo fa riferimento infatti al fenomeno delle sugar babies, giovani studentesse che per denaro intrattengono rapporti con un uomo solitamente più maturo e più benestante di loro, fenomeno diffuso negli U.S.A. anche a causa della difficoltà di molti studenti nel ripagare i debiti universitari o anche solo per garantirsi una disponibilità economica ed essere così indipendenti. Tutto ciò ovviamente affogato in una divertentissima rappresentazione della cultura ebraica che ha valso alla giovane regista accostamenti, a parere di chi scrive poco pertinenti, con il cinema di Woody Allen.

Danielle (Rachel Sennott), dopo aver consumato un rapporto con il suo sugar daddy Max (Danny Deferrari), si ricongiunge in fretta ai suoi genitori per partecipare a uno shiva, più precisamente al banchetto che segue la funzione del funerale (in realtà lo shiva è un periodo di lutto che dura sette giorni). Il padre e la madre tengono molto alle tradizioni, Danielle ha partecipato a numerosi di questi eventi, in questo caso la ragazza a malapena è a conoscenza di chi sia il morto, il rinfresco sarà così l'occasione per incontrare parenti e vecchi conoscenti, per Danielle sarà più che altro una tortura durante la quale dovrà ripetutamente giustificarsi perché non ha un ragazzo, perché non mangia abbastanza, perché ancora non si è iscritta all'università e non ha un lavoro serio, a differenza della sua ex ragazza Maya (Molly Gordon) caparbiamente lanciata verso il mondo dell'età adulta. Tra scuse varie e piccole bugie Danielle ne approfitta per spizzicare qualcosa e battibeccare con Maya finché alla celebrazione si presenta proprio Max, vecchio conoscente di Joel (Fred Melamed) e Debbie (Polly Draper), i genitori di Danielle i quali insisteranno per presentare Max alla figlia dando il via a una serie di incontri imbarazzanti, ma le sorprese non finiranno qui.

Girato per esigenze di budget in un'unica location, fatto salvo per la scena iniziale, Shiva baby ha il piglio di una commedia in salsa ebraica dal forte sapore claustrofobico; la casa in cui si tiene il rinfresco funebre, affollatissima, diventa via via sempre più una prigione in cui le situazioni imbarazzanti e di disagio per Danielle si affastellano una sull'altra. Man mano che il film procede, al lato divertente si unisce anche un senso di oppressione e di angoscia che la Seligman dosa in maniera brillante, l'istinto di Danielle sarebbe quello di fuggire, per lo spettatore la sensazione che cresce minuto dopo minuto è quella della detonazione imminente, con il passare dei minuti ci si aspetta che qualcuno dica o faccia la cosa sbagliata e che la situazione esploda definitivamente. Nel creare questa tensione all'interno di una commedia la giovane regista è molto brava a gestire gli spazi, a stare tantissimo sugli interni, a seguire Danielle con primi piani plurimi, a cadenzare i dialoghi e gli scambi di battute con il giusto ritmo, sorretta da un cast di ottimo livello dove oltre alla brava protagonista si distinguono Fred Melamed (per rimanere in campo ebraico A serious man e tanto, tanto Woody Allen) e Polly Draper, i genitori di Danielle. I temi inseriti dalla Seligman nella sua opera non oscurano la vicenda che prima di tutto rimane una fresca e veloce commedia ebraica, ottima prova per una regista esordiente sicuramente da tenere d'occhio per il prossimo futuro.

martedì 8 febbraio 2022

AFTER LIFE

(di Ricky Gervais 2019/2022)

Viaggio sentito nell'elaborazione di un lutto, nella (non) accettazione di una perdita incolmabile, un viaggio durato tre stagioni e diciotto brevi episodi durante i quali l'ideatore e protagonista Ricky Gervais riesce a farci ridere a crepapelle per straziarci il cuore l'attimo dopo, il piccolo mondo di After life si frantuma più e più volte, si piange e poi si torna a ridere, proprio come accade nella vita, almeno per chi, incontrati i grandi dolori che questa ci sottopone, riesce in qualche modo a sopravvivergli. In fondo sta qui il succo di After life, trovare un modo, volontariamente o meno, per sopravvivere al dolore, per ricominciare, scavare e scavare e scavare fino a trovare la consapevolezza che la vita merita di essere vissuta, oltre la sofferenza, perché ci sarà sempre qualcuno da aiutare, qualcuno che avrà bisogno di un nostro gesto gentile, di un sorriso, di due chiacchiere davanti a un caffè, di quella solidarietà minima, di prossimità, che deve partire da noi e che è l'unico modo e l'unica terapia per farci andare avanti in un mondo pieno di stronzi (e a suo modo anche il protagonista un poco lo è), soluzioni semplici, all'apparenza anche irrealistiche ma non di meno, con la giusta spinta di volontà, affatto impossibili da realizzare. Il microcosmo che fa da sfondo al dolore di Tony (Ricky Gervais) è composto da quelli che la società considera dei perdenti, degli strambi, dei falliti, degli emarginati o semplicemente dei deboli. È all'interno di questo contesto che Tony, devastato dagli eventi, si trova a dare e ricevere, elaborando gli stadi del lutto e riversando la rabbia e il dolore derivanti dalla perdita della moglie Lisa (Kerry Godliman) sul suo prossimo. Saranno i colleghi e amici del Tambury Gazette, il giornale free press per cui Tony lavora, a cercare di tirare fuori dal pantano emotivo e dai propositi di suicidio il neo vedovo; loro e il cane che Lisa gli ha lasciato saranno gli appigli per evitare un naufragio preannunciato, insieme al vecchio padre con l'alzheimer (David Bradley), all'infermiera Emma (Ashley Jensen) che del padre si prende cura e ad Anne (Penelope Wilton), una simpatica signora incontrata al cimitero che sta affrontando lo stesso lutto che ha colpito Tony.

After life alterna la comicità cinica e caustica di Ricky Gervais a momenti di grandissima commozione, è un percorso ciclico che affronta il tema del dolore sotto diversi punti di vista, è una serie che poteva esaurirsi in maniera perfetta e convincente con la prima stagione, le due annate successive sono ampliamenti del discorso, visioni laterali del tema che lo arricchiscono ma che inevitabilmente tendono anche un poco a ripetere; ciò non vuol dire assolutamente che il lavoro di Gervais non rimanga piacevole per tutta la sua durata, anzi, si nota però qualche sbavatura, qualche personaggio frettolosamente abbandonato (la stagista Sandy), qualche forzatura magari anche volontaria (Tony sembra diventare un novello Cupido), eppure ci si gode il viaggio fino alla fine. Nel descrivere il percorso del protagonista che non riuscirà mai, come è normale che sia, a dimenticare Lisa, ad andare avanti per davvero, sono diversi i momenti toccanti, il finale della seconda stagione ad esempio nel quale Emma assume il ruolo di vera salvatrice, straziante la scena del limone, quel cercare in un'altra persona quella sensibilità, quelle abitudini che chi così tanto ha contato per Tony riusciva a rendere uniche e a posteriori così importanti. Il messaggio di speranza finale, costruito su una chiusura quasi fiabesca con l'atmosfera della fiera del paese, non può che essere condivisibile, magari utopistico, capace però di farci sentire tutta la forza di quel che potremmo fare nelle nostre vite ma che diviene irrealizzabile in una società che vuole l'individuo un'isola pronta a gareggiare solinga contro tutte le altre, in una competizione per lo più atta a vincere ed elargire dolore e sofferenza. Molto divertenti, anche se spesso abbozzati, gli strambi personaggi di contorno come il postino Pat (come la classica serie inglese per bambini, interpretato da Joe Wilkinson), la prostituta, o meglio professionista del sesso, Daphne (Roisin Conaty), Matt (Tom Basden), il cognato di Tony che non può nemmeno dar sfogo al suo dolore per la perdita della sorella impegnato com'è a controllare che Tony non si suicidi da un momento all'altro, o ancora l'apparentemente spigliata Kath (Diane Morgan) che soffre di una solitudine schiacciante. Insieme agli "scoop" di cui Tony e il collega Lenny (Tony Way) si occupano, sono proprio tutti questi personaggi a offrire divagazioni sul tema della sofferenza fungendo sia da motori comici che da spunti per altre riflessioni sul dolore declinato in sfumature differenti, sulle inadeguatezze, sulle solitudini e sulla vita di chi non è così fortunato come in fondo lo è sempre stato Tony finché ha avuto Lisa.

Accompagnato da un'ottima selezione musicale (e fuori dal finestrino dell'auto tutta quella musica di merda con cui la gente ci tortura orecchie e cervello), After life ci regala momenti di altissima televisione, ci frange l'anima ma allo stesso tempo riempie il cuore, passa dalla volgarità più becera a momenti di pura illuminazione discostandosi dallo standard di altri prodotti offrendo una cifra stilistica originale, marchio del suo autore e probabilmente di pochi altri. Forse di nessuno.

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