lunedì 30 marzo 2020

ASSASSINIO SULL'ORIENT EXPRESS

(Murder on the Orient Express di Sidney Lumet, 1974)

La filmografia da regista di Sidney Lumet è parecchio nutrita (poco più di una quarantina di titoli); nel 1974, anno d'uscita di questo Assassinio sull'Orient Express Lumet era più o meno a metà della sua produzione, l'adattamento di quello che è il romanzo più noto di Agatha Christie, all'interno della filmografia del regista, è schiacciato tra due opere di altissimo livello e di tutt'altro genere rispetto al giallo classico tanto caro alla scrittrice inglese. Nel 1973 Lumet aveva infatti portato al cinema la storia di Serpico con il grande Al Pacino nel ruolo del protagonista, con lo stesso attore nel '75 Lumet sigla Quel pomeriggio di un giorno da cani, in mezzo a queste due grandissime pellicole sembra strano veder comparire i baffetti del poco simpatico Hercule Poirot. Un Cinema completamente diverso da quello degli altri due titoli eppure Lumet non manca di far sentire forte la sua mano rendendo il viaggio di questo storico treno, così come il treno stesso, la sua locomotiva, i suoi vapori, i suoi interni, il suo sferragliare deciso verso una bufera di neve di grandi proporzioni, uno dei protagonisti di questo enigma della stanza chiusa (o meglio, del vagone chiuso).

La trama è per lo più nota, tenteremo di non offrire il fianco a spoiler a vantaggio di chi non avesse mai letto il libro e non avesse mai visto nessuna delle trasposizioni portate sullo schermo (magari nemmeno la recente porcheria firmata Branagh). Lumet (o lo sceneggiatore Paul Dehn) decide di aprire il film con un prologo assente nel libro, la ricostruzione di un vecchio accadimento delittuoso dal quale prendono le mosse gli eventi narrati in Assassinio sull'Orient Express: sul celebre convoglio sul quale sta viaggiando Poirot (Albert Finney) avviene un delitto, l'industriale Samuel Ratchett (Richard Widmark) viene trovato morto nella sua cuccetta, pugnalato nottetempo ben dodici volte. Si scoprirà che la vittima si portava dietro un passato molto oscuro, ma chi tra gli altri passeggeri dello scompartimento poteva avere motivo o interesse nell'uccidere Ratchett? Nel vagone un'eterogenea miscela di caratteri che permette a Lumet di schierare quello che per l'epoca era un vero parterre de roi, oltre ai già citati Finney e Widmark nel cast compaiono Sean Connery, Lauren Bacall, Anthony Perkins, Ingrid Bergman, Michael York, Jaqueline Bisset, Jean-Pierre Cassel (papà di Vincent), Vanessa Redgrave, Jon Gielgud e altri ancora, per chi ama il Cinema di qualche anno fa è ben chiara la portata del cast ingaggiato per l'occasione.


Proprio sulle prove d'attore si regge un film basato su uno sviluppo che per forza di cose è strutturato in maniera statica e verbosa, tra confronti, scambi d'opinione e interrogatori in un ambiente che potrebbe risultare fin troppo claustrofobico se non fosse per la capacità di Lumet di quando in quando di portare la camera all'esterno del treno, con riprese sui movimenti dello stesso e sull'incombente bufera bianca che costringerà l'Orient Express a una sosta forzata. Spicca tra tutti un Albert Finney (scomparso l'anno scorso) capace di dare all'ispettore belga una connotazione sopra le righe, a volte anche eccessiva, in mezzo a un cast di grandissimi professionisti che si accaparrò anche una statuetta nella notte degli Oscar (vinse la Bergman come non protagonista) su ben sei nomination. I ritmi non sono forsennati ma l'attenzione dello spettatore viene indubbiamente catturata nella lunga ricostruzione finale dell'investigatore. Assassinio sull'Orient Express ha un incedere d'altri tempi, oggi forse impensabile, si è provato a modernizzare il tutto con il remake di Branagh già citato sopra, anche in questo caso cast di gran lusso per un esito decisamente più sconfortante. In determinati casi più moderno non significa necessariamente migliore.

venerdì 27 marzo 2020

THE ACCOUNTANT

(di Gavin O'Connor, 2016)

Se amate i thriller con forti dosi action qui c'è pane per i vostri denti, The accountant di Gavin O'Connor soddisfa tutte le caratteristiche fondamentali che questo genere di film deve avere per intrattenere al meglio il suo pubblico.

Christian Wolff (Seth Lee) è un bambino che soffre di una forma di autismo ad alto funzionamento, cresce con un padre rigido e anaffettivo (Robert Treveiler), un ufficiale dell'esercito americano che crede nell'addestramento e nella disciplina e che sottopone i suoi due figli a continue prove che faranno diventare il bambino un adulto del tutto peculiare. Da grande Chris (Ben Affleck) è quello che all'apparenza sembra un ordinario contabile, una sorta di commercialista che tiene la contabilità delle piccole attività commerciali situate nei pressi del suo ufficio. Le crisi dell'infanzia sono ormai superate, della sua particolare condizione resistono la difficoltà nel relazionarsi con le altre persone e nel comprendere le emozioni del prossimo, l'abitudine a comportamenti metodici e l'avversione per le cose lasciate in sospeso. In realtà la grande sensibilità di Chris per i numeri e l'abilità di andare a fondo nelle cose, unite all'addestramento ricevuto dal padre e all'innata avversione ai contatti con gli altri, hanno reso il contabile la persona perfetta per tenere in ordine e con la dovuta riservatezza i conti di svariate imprese criminali. Sul versante della giustizia abbiamo il capo del Dipartimento del Tesoro Raymond King (J. K. Simmons) che è a conoscenza dell'esistenza del contabile e vorrebbe tanto mettergli il sale sulla coda, recluta con un espediente poco pulito la giovane analista Medina (Cynthia Addai-Robinson) per farle identificare questa misteriosa figura. Per ovviare all'interessamento del Dipartimento del Tesoro, il contatto tra il contabile e i cartelli criminali impone a Chris di occuparsi per un periodo di un caso "pulito", un'incarico per una grossa azienda che si ritrova con uno strano buco nel bilancio, ma le cose invece di stabilizzarsi peggioreranno molto in fretta.


Regia solidissima da parte di Gavin O'Connor che incornicia una storia davvero ben strutturata, capace di assestare almeno un paio di ottimi colpi di scena riusciti e spiazzanti, di quelli millimetrici dove l'illuminazione arriva al cervello dello spettatore giusto l'attimo prima del disvelamento sullo schermo, acuendone così l'impatto emotivo. Ottimo l'impianto più dinamico, consolidato da diverse sequenze d'azione realizzate con grande professionalità, nel mezzo emerge un Ben Affleck calato alla perfezione nella parte, fisico imponente per un ruolo che non esige troppa espressività, e qui con il vecchio Ben i critici più cattivelli potrebbero andarci a nozze; sia quel che sia il ragazzone in The accountant non risulta mai fuori posto, anzi. Sviluppata con pennellate lievi la crescita del rapporto tra Chris e la contabile della Living Robotics (l'azienda con l'ammanco) Dana Cummings (Anna Kendricks) che riuscirà a far breccia nell'animo complesso dell'uomo, rapporto che regalerà almeno un momento toccante e ben orchestrato. Nel cast anche Jon Bernthal, volto condannato al ruolo del fetente e che difficilmente delude, un J.K. Simmons inossidabile e ancora Jeffrey Tambor, John Lithgow, professionalità da vendere.

The accountant è quello che dovrebbe essere un buon thriller d'azione: ritmi sostenuti, caratteri ben delineati e non troppo banali, scene action coinvolgenti, un tocco di romanticismo che non guasta e soprattutto una costruzione ben studiata e non prevedibile. Puro intrattenimento, certo, ma di quello da cui esci con una cera soddisfazione.

A SERIOUS MAN

(di Joel ed Ethan Coen, 2009)

Sappiamo tutti come in tempi di guerra fosse uso tra le fila dei vari eserciti utilizzare messaggi cifrati, comunicazioni criptate in modo da non poter essere decifrate in caso fossero state intercettate dal nemico, il destinatario per tradurre questi messaggi in linguaggio comprensibile necessitava di un codice di traduzione, una chiave di lettura utile per dipanarne il contenuto. A serious man dei fratelli Coen si apre con un breve episodio, completamente slegato dal resto del film, che potrebbe considerarsi proprio una sorta di codice: cosa aspettarci da questa storia, come possiamo interpretarne il senso, e soprattutto... c'è un vero senso da estrapolare? In questo prologo, recitato in lingua yiddish, in un piccolo villaggio in Polonia un uomo porta a casa un'ospite, un vecchio che lo ha appena aiutato in un momento di difficoltà. La moglie del padrone di casa vede nell'uomo un dybukk, vocabolo della lingua ebraica che indica una sorta di fantasma, un'anima posseduta dal maligno. Nelle radici della cultura ebraica sta il cuore del film dei Coen, registi di origine ebraica anch'essi, cresciuti nel Minnesota, proprio come il protagonista di A serious man.

Un uomo serio, dove l'accezione del termine va forse intesa come "retto" e dove "retto" va inteso come "moralmente integro" e non in altro senso. Larry Gopnik (Michael Stuhlbarg) cerca di essere un uomo retto, nella vita non fa molto altro, lascia che le cose accadano, non è un uomo di grandi iniziative, non ha un grande rapporto con i figli né particolari passioni da coltivare: molta pazienza, onestà, poco coraggio. La sua serie di sfortunati eventi inizia quando la moglie (Sari Lennick) gli confessa di essersi innamorata e di averlo tradito con il suo amico Sy Ableman (Fred Melamed) e di volere il divorzio in modo da potersi risposare "nella fede" con il suo nuovo amante. La figlia Sarah (Jessica McManus) si preoccupa solo dei suoi capelli e di recuperare venti dollari dal fratello Danny (Aaron Wolff), un adolescente in fissa con i Jefferson Airplane (siamo nel 1967). E poi il lavoro da precario come insegnante di fisica all'Università è a rischio, un suo studente cerca di corromperlo per ottenere una sufficienza, il fratello Arthur (Richard Kind) che gli si è piazzato in casa ha una fissa con i numeri e con il gioco e si mette nei pasticci, la moglie lo caccia di casa affabilmente, e poi, e poi, e poi ancora...


Larry subisce e si fa delle domande. Ma in tutto questo, nella vita di un uomo retto, un uomo che sta accompagnando suo figlio verso il Bar mitzvah, che ruolo ha Hashem (il Nome, in riferimento a Dio)? E perché nella rettitudine Larry è costretto a subire una prova dopo l'altra? La risposta non ce l'ha il giovane Rabbino Scott (Simon Helberg, il Wolowitz di The big bang theory), non ce l'ha il maturo Rabbino Nachtner (George Wyner) e nemmeno il vecchio Rabbino Marshak (Alan Mandell). Forse, ma solo forse, la risposta ce l'hanno i Jefferson Airplane.

Come (quasi) sempre l'approccio dei Coen a qualsiasi materia ha del comico, qui però si ride sempre a denti stretti, anche i momenti più divertenti, e ce ne sono, hanno quel che di amarognolo che rimane lì ad aleggiare, per chi non ha una natura strabordante magari può avere passaggi di comprensione verso un protagonista inadatto ad emergere e che cerca una spiegazione che da solo non si può dare, e che in fin dei conti nemmeno nessun'altro può dargli, e forse il senso ultimo di A serious man è addirittura il senso ultimo della vita, l'aspetto tragico e che i Coen sembrano sostenerne la totale assenza, un messaggio difficile da digerire in un'epoca fatta di training motivazionali e pseudominchiate per diventare finalmente l'uomo di successo! In questa società che speranze possono avere i Larry Gopnik, e hai voglia a invocare il nome di Hashem (il Nome appunto). E se il senso ultimo fosse semplicemente un bel pezzo rock?

martedì 24 marzo 2020

È STATO UN ATTIMO

(di Sandrone Dazieri, 2006)

Il primo incontro con i romanzi di Sandrone Dazieri risale a un po' di anni fa, a quando il suo libro d'esordio, Attenti al gorilla, venne pubblicato all'interno della collana Le strade del giallo in allegato a Repubblica. La copertina invogliava: uno scorcio milanese, a occhio un naviglio nebbioso, che richiama da subito il poliziottesco anni 70. Serbo ancora un bel ricordo di quel primo incontro, poi un po' per la volontà di lasciare meno spazio tra le mie letture a gialli e noir soprattutto se con protagonisti seriali come il Gorilla, un po' perché preso da altro il Dazieri lo abbandonai, nonostante da diversi anni questo È stato un attimo occhieggiava dalla mia libreria. Ora, con l'intento di recuperare i libri in giacenza da tempo sui miei scaffali, ho preso in mano questo che è il sesto romanzo dell'autore (se non contiamo quello rivolto ai ragazzi) e che non vede come protagonista il Gorilla bensì un delinquentello di mezza tacca di nome Santo "Trafficante". L'aspettativa per il nuovo incontro con la prosa di Dazieri devo ammettere era alta e senza indugio posso andare a dirvi che in qualche maniera sono uscito dalla lettura di questo romanzo con un pizzico di delusione. Di per sé la vicenda di Santo Trafficante è anche ben costruita, sfrutta l'espediente del protagonista affetto da amnesia che poco a poco deve ricostruire un buco nella sua vita passata (e qui si tratta di un buco di molti anni) trovandosi nel presente a vivere l'esistenza di quella che all'apparenza potrebbe essere completamente un'altra persona, e in effetti così è per Santo che per questo nuovo sé stesso che pian piano scopre di essere non prova nemmeno troppa simpatia.

Santo detto Trafficante è un piccolo spacciatore che vivacchia di espedienti, ha il suo giro di clienti, qualche piccolo affaruccio finché un giorno incontra Max, altro delinquente come lui, i due decidono di mettersi in società, ancora droga, piccoli furtarelli, un bel giro finché Max non decide di tradire Santo, il tutto culmina con una bella botta in testa ai danni del nostro. Quando Santo si risveglia si ritrova sul pavimento di un bagno pubblico, molto elegante, non come quello del baretto di Oreste che era solito frequentare, vestito di tutto punto e circondato da elegantoni, uscendo gli viene incontro una giovane donna distinta, elegante anch'essa, che lo tratta come se fosse il suo fidanzato o suo marito, una donna che ovviamente lui non ricorda d'aver mai visto. Uscito dal bagno si rende conto d'essere all'interno del Teatro alla Scala, un luogo che mai avrebbe pensato di poter frequentare. Da quel momento Santo dovrà ricostruire il suo passato recente nei panni di una persona totalmente diversa da quel che ricordava, tra una nuova posizione, soldi a palate, amanti, accuse di omicidio e nuovi amici/nemici.

Dazieri conosce bene il mestiere, sa come dare il giusto ritmo alla narrazione per coinvolgere il lettore, capitoli brevi in ognuno dei quali succede qualcosa, piccoli cliffhanger disseminati in chiusura di quasi tutti i capitoletti che facilmente possono diventare come le ciliege che una tira l'altra. Il romanzo alla fin fine si lascia leggere, non ci sono momenti di stanca o fasi morte, per carità, tutto funziona più che bene, il problema è che non c'è nemmeno nulla di così accattivante. Nei miei ricordi ormai sbiaditi legati al romanzo d'esordio dello scrittore di Cremona c'era una descrizione d'ambiente molto avvolgente, un'atmosfera capace di catturarti che qui un po' manca, ci sono diversi riferimenti alla vecchia Milano ma il tutto non riesce a penetrare sottopelle, anche il protagonista non è così accattivante, i coprotagonisti rimangono tutti un poco distanti dal lettore, insomma, il romanzo alla fine intrattiene il giusto ma non cattura mai veramente. Per una lettura d'intrattenimento, specie in epoca di quarantene da coronavirus, È stato un attimo fa il suo dovere, per avere qualcosa di più che si debba tornare alle successive avventure del Gorilla? A letture avvenute l'ardua sentenza.

sabato 21 marzo 2020

MIDSOMMAR - IL VILLAGGIO DEI DANNATI

(Midsommar di Ari Aster, 2019)

Midsommar è un film disturbante, una visione diversa e, per aver suscitato alcune emozioni particolari, anche riuscita. Difficile per un film come questo esprimere un giudizio secco: mi e piaciuto?, non mi piaciuto?, forse è presto per dirlo, il film sedimenterà e di conseguenza arriverà il responso. Di per sé già questo dovrebbe bastare a promuovere Midsommar, fin troppi sono i titoli che passano e vanno senza lasciar traccia, l'opera seconda di Ari Aster certamente non è tra queste. Non è nemmeno così semplice indicare un filone, un genere a cui attribuire il film, la critica lo ha segnalato come esponente di quell'horror folk che viene fatto risalire al The wicker man di Robin Hardy essenzialmente per l'ambientazione all'interno di una comunità rurale che nella fattispecie celebra il solstizio estivo. Spiazzante la scelta di girare in pieno Sole un film che di tinte horror effettivamente ne ha diverse, ambientarlo in Svezia durante il periodo in cui non arriva mai il buio, ogni grottesca devianza qui prende corpo alla luce del Sole, in pieno giorno, spesso davanti agli occhi di tutti, situazione straniante che dona quel pizzico di originalità capace di tener desta l'attenzione dello spettatore. Anche il registro è ambiguo, la convivenza di scene truci, malsana inquietudine strisciante con situazioni più grottesche, quasi caricaturali, rende difficile inquadrare per bene le situazioni messe in scena da Aster che sono conseguenza diretta di un prologo decisamente più urbano e moderno.


Dani (Florence Pugh) e Christian (Jack Raynor) hanno un rapporto non troppo sano, lei ha una sorella bipolare che continua a mandarle messaggi allarmanti che Dani non sa come gestire, vede in Christian un appoggio, un rifugio più sicuro di quanto sia in realtà, lui infatti è più interessato ad organizzare uscite con i suoi amici, vorrebbe lasciare Dani ma non ne ha il coraggio, men che meno quando il peggio che Dani temeva accade davvero. Preso dal senso di colpa per aver organizzato delle vacanze all'insaputa della ragazza, Christian la invita ad andare con lui in Svezia, nella comune in cui è cresciuto il compagno di college Pelle (Vilhelm Blomgren) e dove si terranno i festeggiamenti del Midsommar, con loro ci saranno anche Josh (William Jackson Harper), interessato alla comunità per la sua tesi di antropologia, e Mark (Will Poulter) che ha interesse più che altro per le svedesi. Arrivata in loco la compagnia di giovani incontrerà prima altri coetanei tra i quali il fratello di Pelle e poi la comunità e le sue usanze, non ci vorrà molto perché la vacanza assuma i toni dell'incubo, un incubo solare, avvolgente e stordente, facendo un parallelo musicale Midsommar potrebbe avere l'incedere di un lungo brano stoner.


Formalmente intrigante, ben girato, il film di Aster assesta più d'un colpo basso, ma quel che lascia storditi è proprio l'incedere lento e allucinato della storia che dosa un buon crescendo di tensione con passaggi grotteschi, quasi parodistici, ben sottolineati dal volto da bisteccone americano di Christian (la scena dell'accoppiamento per esempio) o dai comportamenti accondiscendenti dello svedese Pelle. Nel mezzo la presenza di un'ottima Florence Pugh che passa da un dramma estremo (e per noi più familiare nonostante la malattia e la tragedia) a uno completamente incomprensibile all'interno di una comunità chiusa, talmente distante da poter essere considerata quasi un mondo alieno. Da capire, interpretare, il rapporto che c'è tra la prima parte del film, con la relazione fallimentare tra i due giovani, la mancanza di comunicazione, e ciò che accade nella comunità, alcuni eventi potrebbero essere letti in concatenazione al rapporto tra Dani e Christian, ma il grado di smarrimento che si prova guardando Midsommar non lascia spazio a interpretazioni troppo lucide.

Midsommar è un buon film? Chissà, rimane il fatto che opere come questa vale comunque sempre la pena di guardarle, anche solo per uscire da sentieri fin troppo battuti, sicuramente non si può accusare Ari Aster di aver confezionato un film banale.

mercoledì 18 marzo 2020

ANARCHIA - LA NOTTE DEL GIUDIZIO

(The purge: Anarchy di James DeMonaco, 2014)

Ad appena un anno di distanza dall'episodio precedente James DeMonaco raddoppia e sforna Anarchy, il seguito de La notte del giudizio, ancora una volta in collaborazione con la Blumhouse Production di Jason Blum, casa di produzione che nel giro d'una quindicina d'anni (anche meno) si è creata un seguito affezionato grazie alle saghe di Paranormal activity, a questa di DeMonaco e a film come Whiplash, Le streghe di Salem, etc, massimizzando la capacità di far fruttare al botteghino opere dai costi relativamente contenuti.

Con Anarchia - La notte del giudizio il regista riprende il discorso già esplorato nel film capostipite della saga, declinandolo però in maniera diversa e mettendo in campo dinamiche lontane da quelle che ci mostrò narrando le vicende della famiglia Sandin nel primo episodio. Se nel film precedente la struttura narrativa era quella dell'assedio, con una famiglia altoborghese a fronteggiare la notte dello sfogo asserragliata in casa propria, qui abbiamo un gruppo di personaggi che si troveranno a dover sopravvivere a una città ostile, un campo di battaglia da attraversare nel corso di una lunga notte; lampante il richiamo a classici del genere come I guerrieri della notte di Hill o Fuga da New York di Carpenter. Ma facciamo un passo indietro, cos'è la notte dello sfogo? In un'America prossima ventura governata dai Nuovi Padri Fondatori, per mantenere sotto controllo la criminalità e il tasso di aggressività dei cittadini, una volta l'anno si celebra "la notte dello sfogo", una nottata durante la quale tutto è concesso, dall'assassinio al furto fino allo stupro, tutto nel nome di un fantomatico bene collettivo che consentirà di riprendere la normale routine quotidiana senza crimini né contrasti in quanto tutta l'aggressività viene scaricata in questo momento istituzionale. Ma dietro la facciata del controllo della criminalità si nasconde il solito vecchio adagio, ovverosia la tutela dei privilegi di quello schifosissimo 1% ricco della popolazione, in fondo chi se non i più poveri rischia di più in una notte nella quale servono soldi e attrezzature per potersi difendere a dovere da violenti e disperati (e ricchi annoiati)? Quale modo migliore per abbattere costi e "pesi morti"?


L'ora del coprifuoco si avvicina, la sirena sta per suonare. Liz (Kiele Sanchez) e Shane (Zach Gilford) sono una coppia in procinto di divorziare che sta tornando a casa, su una strada a scorrimento veloce la loro auto rimane in panne, nei pressi una banda di giovani mascherati e armati li adocchia pregustando il banchetto di violenza a venire. Eva (Carmen Ejogo) e Cali Sanchez (Zoe Soul) sono madre e figlia, una famiglia in difficoltà economiche che non riesce a far fronte alle spese per curare il vecchio Rico, padre di Eva. Leo Barnes (Frank Grillo) è un ex sergente che durante la notte dello sfogo ha idea di vendicare la morte del figlio, ucciso da un uomo rimasto impunito. Sullo sfondo le prediche dell'attivista ribelle Carmelo (Michael Kenneth Williams), un nero a capo di un gruppo di rivoluzionari che denunciano i veri motivi che stanno dietro allo sfogo. Le dinamiche tra i vari personaggi sono facilmente intuibili fin da subito, da prima che gli stessi si incontrino sulla strada, sono tutti personaggi archetipo che hanno la funzione di muovere la vicenda in una direzione ben precisa, senza sorprese, anche in questo capitolo DeMonaco ci sbatte in faccia la sua critica alla moderna società statunitense, con una classe agiata e benestante pronta a calpestare il suo prossimo con noncuranza e disprezzo, appassionata di armi e violenza in maniera orgasmica, vero male dietro al disfacimento americano (e non solo). L'assunto politico è grossolano, poco approfondito ma genuinamente efficace, per chi ha un minimo di spirito proletario in corpo non può non voler veder morti quei luridi bastardi, in barba al buonismo imperante.


Come nel primo episodio ciò che realmente funziona in Anarchia - La notte del giudizio, e lo rende riuscitissimo forse ancor più del predecessore (personalmente ho apprezzato ancor di più questo secondo capitolo) è proprio la gestione dei tempi, del ritmo e dell'accumulo di tensione, acuito dal fatto che per quei poveri protagonisti si inizia a provare vera empatia, speri che sfuggano alla violenza nelle strade, emanazione diretta del potere e dei suo traviati prodotti. Tante cose lo spettatore se le aspetta, non di meno resta la soddisfazione nel vederle accadere. Aiutano la riuscita anche alcuni look accattivanti dei desperados che abitano le strade notturne, la scansione del tempo, il sottotesto sociale e i rapporti interpersonali. Rimane alta fino alla fine la curiosità su chi tra i protagonisti riuscirà a vedere l'alba. Piccolo spoiler, non ce la faranno tutti.

lunedì 16 marzo 2020

WORLD WAR Z

(di Marc Foster, 2016)

Cosa c'è di meglio per esorcizzare la preoccupazione da Covid-19 di un bel film su una pandemia di scala globale? Probabilmente nulla, fermo restando la vicinanza e la solidarietà per chi sta scontando nella realtà le conseguenze provocate dall'influenza da coronavirus. Di film su contagi diffusi su territori vastissimi ne abbiamo visti tanti, compresi quelli narrati in serie televisive come The Walking Dead o nello sceneggiato a puntate tratto da L'ombra dello scorpione di King (all'epoca le serie tv di stampo moderno ancora non erano state concepite); in molti di questi scenari l'origine del virus è sconosciuta o quantomeno nebulosa, altra caratteristica comune di queste pellicole, se ancora ha un senso chiamarle così visto lo strapotere del digitale, è l'impatto che il virus ha sulle strade delle città e sul paesaggio, irrimediabilmente mutato dal virus e dai comportamenti umani. In 28 giorni dopo di Danny Boyle ad esempio, vediamo un mondo svuotato, strade completamente deserte e popolazione decimata, in E venne il giorno di Shyamalan è direttamente il paesaggio, la natura, a portare il contagio, in questo World War Z di Foster invece ci viene mostrato come sia il panico delle persone a far si che il contagio si diffonda in maniera più rapida del dovuto grazie al loro riversarsi nelle strade in maniera caotica (e qui torna il motto ormai tristemente noto "statevene a casa vostra") .

Gerry Lane (Brad Pitt) è un buon padre di famiglia, innamorato della moglie (Mireille Enos), premuroso con i suoi due bambini. Durante un'uscita in auto la famiglia Lane si ritrova imbottigliata nel traffico, alla radio si captano frammenti di notizie di strani comportamenti che si diffondono tra la popolazione, nelle strade inizia a scatenarsi più d'una scena di panico, poi un'esplosione in lontananza, l'inconsapevolezza di cosa stia succedendo e la preoccupazione. Infine i mutati dal virus, un'epidemia che si diffonde rapidamente e che rende gli uomini e le donne altamente aggressivi, privi di raziocinio, degli zombi violenti ma a differenza dei loro antenati più celebri, quelli di Romero, questi zombi sono velocissimi e molto forti, arrestabili solo tramite un danno cerebrale di una certa entità. Per sfuggire a una situazione divenuta pericolosissima Gerry chiederà aiuto al suo amico Thierry (Fana Mokoena), sottosegretario alle Nazioni Unite, ente per cui lo stesso Gerry lavorava come investigatore sul campo. Thierry riuscirà a far portare in salvo Gerry e la sua famiglia, in cambio chiederà all'amico di tornare sul campo per investigare sull'origine dell'epidemia che pare possa trovarsi in Corea del Sud, da lì partirà una ricerca in giro per il mondo che diventerà una lotta per la sopravvivenza continua alla ricerca di una speranza che sembra ormai davvero flebile.


Almeno la prima mezz'ora del film è da cardiopalma, tensione costante, ritmi serratissimi, percezione di pericolo incombente sempre presente, la fuga della famiglia Lane per trovare un luogo sicuro è girata da Foster con grande maestria, inquadrature ravvicinate a dare un senso immersivo, scorci veloci su una minaccia inizialmente "sfocata". Poi si rallenta e si inizia a costruire la storia e la direzione in cui si vuole andare, le riprese si allargano, le vedute aeree si moltiplicano e restituiscono un'immagine di un mondo che va in rovina in tempi rapidissimi, orde di infetti intenti a propagare il contagio e ad annientare un'umanità impreparata all'emergenza e che nemmeno di fronte al disastro riesce ad essere inclusiva. Brad Pitt (qui anche produttore) è protagonista quasi assoluto di un film che può contare in ruoli secondari sulla presenza di grandi attori, il nostro Pierfrancesco Favino, David Morse e Peter Capaldi (il dodicesimo Dottore), si aggira all'interno di un film costruito essenzialmente (e molto bene) sulla tensione e sul ritmo, un survival action che pone comunque qualche spunto di riflessione, soprattutto di questi tempi. Il messaggio è amaro, la risoluzione del problema potrebbe essere solo un temporaneo viatico per la sopravvivenza in un mondo che dovrà affrontare le conseguenze del contagio, una guerra (non solo metaforica) ancora tutta da combattere.

domenica 15 marzo 2020

L'INESORABILE

(di Mauro Boselli e Claudio Villa, 2020)

Per il quarto anno consecutivo a firmare il Texone c'è un artista italiano, in questo caso uno di quelli già visti su Tex a più riprese nonché copertinista di innumerevoli albi del ranger texano. Manca ancora una volta all'albo speciale il nome di richiamo internazionale, l'ultimo visto su queste pagine è stato Enrique Breccia nel 2016, autore di un Texone fantastico, con una visione dei protagonisti davvero originale e inusuale. Ma attenzione, questa volta la mancanza del talento esotico non si farà sentire, alle matite arriva infatti quello che non si può che definire un "vero mostro" del tavolo da disegno, l'inattaccabile Claudio Villa, uno di quelli che avrebbe da insegnare delle cose praticamente a chiunque. L'alchimia con Boselli c'è e si vede, da tempo i due autori sono tra le colonne portanti dell'albo di Tex, Boselli per le sceneggiature, Villa per le copertine e di tanto in tanto per le tavole delle storie, i due mi sembra possano essere indicati come i genitori adottivi dei quattro pards, orfani di Bonelli e Galeppini prima, di Nizzi poi (tranquilli, è ancora con noi, si sta semplicemente dedicando ad altro), questi personaggi trovano nelle cure dei due interpreti un rifugio sicuro per portare avanti le loro imprese nelle lande assolate del sud ovest americano.

La realizzazione de L'inesorabile non è stata semplicissima, la sceneggiatura di Boselli era stata pensata proprio per le matite di Villa ma avrebbe dovuto esser serializzata su più numeri della testata mensile di Tex, poi arrivò la proposta da Sergio Bonelli (parliamo quindi di qualche tempo fa) di trasferire tutto sul Texone, occasione che ovviamente Villa non si fece sfuggire. Lungo la lavorazione del Texone per Villa ci fu del lavoro supplementare, oltre all'impegno per le copertine del mensile, si aggiunse quello delle cover della Collezione storica a colori allegata a Repubblica, un impegno non da poco che ha rallentato la realizzazione delle matite de L'inesorabile. Così, dopo anni di lavorazione, l'atteso Texone di Villa esce solo quest'anno, l'attesa però sembra più che ripagata.

Nonostante l'impegno principale di Villa negli ultimi anni sia stato quello di realizzare le copertine di Tex, illustrazioni di sicuro impatto ma in qualche modo statiche, lontane dall'arte dello storytelling necessario per costruire una narrazione fluida e dotata del giusto ritmo, sembra proprio che il disegnatore lombardo non abbia perso confidenza con le storie lunghe. Al suo servizio trova un'ottima sceneggiatura di Boselli che riprende un tema caro all'epopea del vecchio west, quello delle famiglie criminali, manipoli di tagliagole capeggiati magari da tre o quattro fratelli, uno più balordo dell'altro, in questo caso si tratta dei Logan, uno della loro stirpe, il finora scaltro Henry, sta per assaggiare l'esperienza della forca, controllato a vista dai tutori della legge di Tucson, Arizona. Questi uomini coraggiosi non basteranno a fermare la furia dei Logan, ed è qui che entrano in scena Tex e Carson per tentare di risistemare le cose.

Il Tex Willer di Villa è forse quello che più di tutti dà l'idea della forza, l'immagine dell'uomo granitico, inscalfibile e capace di porre rimedio a qualsiasi angheria. E così è tutto il Texone di Villa, un'opera che trasuda potenza da tutte le tavole, basti guardare nella seconda pagina la prima inquadratura sul volto dello sceriffo Tom Rupert che dà l'idea da subito di un uomo tutto d'un pezzo. Proprio sui volti Villa produce un lavoro egregio, su quello del giovane Steve traspare una nota fuori posto d'eccessiva sicurezza, Harry Logan ha l'aria del figlio di buona donna, Manuel Logan quella del viscido calcolatore e così via... La scansione della storia in vignette ha un passo molto dinamico, scorre che è un piacere, il lettore si trova catapultato in un'avventura insieme a quello che è il Tex che molti di noi hanno in mente quando si pensa al personaggio, quello di Villa, che insieme al suo creatore grafico Aurelio Galeppini è uno degli artisti che l'hanno ritratto più volte. Villa ci regala anche una versione imperiosa di Tiger Jack e un Kit Carson monumentale, figure leggendarie a loro agio sia tra gli spazi aperti del deserto che tra le assi di legno dei saloon più scalcagnati.

Ognuno poi giudicherà secondo il suo gusto, a mio avviso però oggi Tex è il Tex di Villa, la sua interpretazione è quella che aleggia nell'immaginario collettivo, vuoi per la maestria del disegnatore, vuoi perché centinaia di bellissime copertine hanno ridefinito i tratti del personaggio, fedeli all'idea creata da Galep ma indubbiamente più personali e moderni. Nel corso degli anni non tutti i Texoni sono riusciti a confermarsi indimenticabili, questa trentacinquesima uscita è sicuramente una di quelle da tenere da conto.


venerdì 13 marzo 2020

PUSH

(di Paul McGuigan, 2009)

Racconto confusionario e pasticciato difficile da digerire causa la poca chiarezza e folate di noia che fanno capolino tra una sequenza e l'altra, Push di Paul McGuigan si inserisce nel filone dei supereroi urbani, anonimi e senza costumi, costretti ad occuparsi più di sopravvivere che non di salvare il mondo e adoperarsi per il bene comune. Lo scenario è quello di Hong Kong, città dove si nasconde tra la moltitudine l'americano Nick (Chris Evans), un uomo dotato di poteri telecinetici. Nel suo passato un forte trauma legato alla figura paterna e alla Divisione, una branca opaca del Governo che si occupa di questi super esseri allo scopo di sfruttarli per i suoi fini, nella fattispecie per lo sviluppo di un siero per accrescerne abilità in modo da usarli come armi. L'origine dei superumani viene fatta risalire agli esperimenti del Terzo Reich e alle loro ricerche volte all'occulto e a tutto ciò che era fuori dall'ordinario. Da questi esperimenti sorgono persone in grado di muovere gli oggetti con il pensiero, i trasportatori, proprio come Nick, ci sono manipolatori capaci di modificare la volontà delle altre persone, i veggenti che hanno a disposizione sprazzi di futuro, e ancora segugi, cancellatori, occultatori, suturanti, sterminatori, etc...

Nick, che ha avuto trascorsi da bambino con la Divisione, viene rintracciato a Hong Kong da due segugi; insieme alla veggente adolescente Cassie (Dakota Fanning) Nick riesce a sfuggire ai suoi inseguitori solo per rimanere coinvolto in un'intricata vicenda che vede protagonista la manipolatrice Kira (Camilla Belle) e un campione di un farmaco sperimentale sulle cui tracce c'è proprio la Divisione ai comandi di un altro manipolatore, Henry Carver (Djimon Hounsou) nonché una banda di super delinquenti cinesi tra i quali spicca la veggente Pop Girl (Li Xiaolu). Tra scopi non sempre chiari e personaggi fantomatici le pedine si muovono con un ritmo forsennato, rutilante e rumoroso capace di ottenebrare l'attenzione delle spettatore. L'accumulo action di situazioni e poteri paranormali non giova a quello che dovrebbe essere la capacità principale di (chi narra) una storia, cioè suscitare in qualche modo l'attenzione di chi la sta seguendo.


Paul McGuigan punta molto sull'estetica delle sue inquadrature, abusando di colori acidi e di una fotografia molto caratterizzante ma fin troppo frastornante, mixa inquadrature sghembe e ritmi sostenuti a location distanti dal mondo occidentale che in alcuni passaggi si lasciano anche apprezzare, in un susseguirsi di scene dinamiche che invece di donare un incedere incalzante alla vicenda creano un effetto saturazione che fa sì che lo spettatore si senta stanco di seguire il film dopo la prima ora di visione (se va bene), fermo restando che questa stanchezza è data da un eccesso di stile e costruzione, in quanto a contenuti in Push non c'è nulla che richieda un minimo di sforzo intellettuale o emotivo. In diversi hanno accostato l'approccio ai personaggi di Push a quello che vari autori hanno avuto in passato con gli X-Men di casa Marvel, chi un minimo conosce la storia dei mutanti della casa delle idee sa che per anni sono stati curati con una dedizione rara nel mondo dei comics americani, siamo quindi proprio su un altro pianeta, i personaggi di Push sono semplici prototipi buttati in mezzo a una storia caciarona e poco divertente, vero problema per un film di questo genere.

Per le donne (e gli uomini anche) che apprezzano, rimane Chris Evans come punto di forza, il ragazzone americano è sempre un bel figliolo, ma se in un film il punto di forza può considerarsi Chris Evans allora, forse, abbiamo un problema. Bocciato su tutta la linea, per me tedio allo stato puro.

mercoledì 11 marzo 2020

PACIFIC RIM

(di Guillermo del Toro, 2013)

Per giudicare per bene un film come Pacific rim sarebbe necessario spacchettarlo in più pezzi ed esaminarne le singole parti, proprio come lo scienziato Newton Geiszler (Charlie Day) fa con i mostruosi kaijū presenti nel film. Indubbiamente è da dieci il cuore che sta dietro l'idea, è noto come Del Toro coltivi dentro di sé una bella dose di fanciullino, quell'amore per le atmosfere e per i personaggi che lo avvincevano da giovane e che oggi sfogano in un approccio quasi nerd alla materia, pura passione che il regista messicano miscela per bene con una buona dose di talento e conoscenza delle tecniche, un miscuglio che è riuscito a dar corpo a un'idea molto affascinante per gli spettatori vicini alla sua generazione, portandola su grande schermo in modo che avesse un impatto visivo fenomenale e che nessun rimpianto avrebbe mai potuto suscitare nei nostalgici del genere. Poi c'è proprio il genere, l'idea in sé, non nuova ma quantomeno ambiziosa per un live action e capace di scatenare la classica acquolina in bocca per chi come me è cresciuto a mostri e robottoni. Per chi ha vissuto l'avvento delle tv private in Italia in prima persona, oltre ai classici Goldrake e Gundam, ha potuto solleticare la propria fantasia di bambino con i vari Mazinga e Mazinga Z, con il Daitarn III, Jeeg Robot d'acciaio, gli Astro Robot, il Trider G7, lo Space Robot etc., etc., senza dimenticare i film giapponesi del maestro Ishirō Honda con protagonisti i mostruosi Godzilla, Mothra, Gamera, Rodan e via discorrendo, il tutto sfociato anche nell'epoca dei telefilm giapponesi con superuomini protagonisti a vedersela contro enormi mostri di gomma che distruggevano metropoli di cartone, indimenticabili Megaloman e la sua fiamma di Megalopoli o il più elegante Ultraman. Tutte queste suggestioni richiamano un immaginario rinverdito poi anche dai manga e dagli anime del Sol Levante (pensiamo a Neon Genesi Evangelion ad esempio) di sicura presa per molti spettatori, l'idea di portare tutto questo al cinema, sebbene molto rischiosa non poteva che risultare vincente. A coronare la visione di Del Toro nel migliore dei modi c'è un impianto tecnico e visivo di altissimo livello, vedere i mecha (robottoni) presenti nel film muoversi e combattere i mostri marini che arrivano dalla breccia sul fondale del Pacifico è un'esperienza visiva molto appagante, fantasie d'infanzia convertite in immagini reali, rese ancor più vive dalla scelta di mostrare il lavoro sporco degli uomini dietro i robot, le ferite nella carne e nell'acciaio, le psicosi dei piloti dei mecha come la più moderna deriva del genere richiede. Quindi tutto perfetto? Diamo un bel nove in pagella a questo Pacific rim? Purtroppo no, perché al film mancano giusto un paio di tasselli per essere perfetto, quisquilie, un paio di piccole facezie accessorie come una storia avvincente e personaggi ben delineati e non ritagliati nel cartone da un artigiano ubriaco con una motosega in mano. E poi è presente quella fastidiosa tendenza a scavalcare la soglia delle due ore spesso appannaggio dei blockbuster non supportati da una storia così carica di contenuti e avvenimenti, neanche i film li pagassimo a peso o a minuto.


Se guardiamo Pacific rim nel suo complesso il castello di carte crolla miseramente, il film di Guillermo Del Toro rimane strepitoso da vedere, moltissimi frame presi come fermo immagine sarebbero dei bellissimi poster da appendere nelle camerette dei bambini o come arredo per sale virate al pop moderno, l'esperienza in sala sarà stata indubbiamente appagante. La vicenda però si dipana tra cliché e stereotipi, alcune sequenze richiedono una sospensione d'incredulità che va ben oltre la situazione generale che va da sé è fantascientifica con pochi punti di contatto con la realtà, cast e personaggi sono stereotipati e nulla esce di una virgola da un binario già tracciato e arcinoto a tutti. Riscatto, amicizia virile, intesa, contrasto, tutto senza una briciola d'inaspettato, si salvano le buffonate di Ron Perlman, sodale del regista da tempi immemori, il resto è in mano agli effetti speciali. Nel complesso il film si salva sul filo di lana, poteva essere qualcosa di decisamente più epico, ne è venuto fuori un prodotto appagante per gli occhi, oltre al sentore di metallo rimane però in bocca quel pizzico di delusione per qualcosa che poteva essere e che non è. Peccato, sarà per la prossima. Forse.

lunedì 9 marzo 2020

SULLY

(di Clint Eastwood, 2016)

Ennesimo capitolo del grande racconto sull'eroe americano portato avanti dal Cinema di Clint Eastwood. Con Sully ci si concentra ancora una volta sull'uomo comune che tramuta in un atto eroico il semplice svolgimento di quello che è il proprio dovere, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte prese nell'ottica di salvaguardare un bene comune, scelte difficili e portate a compimento contro tutti i pronostici avversi, rischiose ma poggiate su onestà d'intenti inattaccabile. La storia credo la ricordino tutti, il 15 gennaio 2009 il volo 1549 della US Airways è costretto a causa di un incidente che ne compromette la stabilità ad ammarare sull'Hudson, uno dei due fiumi che costeggiano Manhattan (l'altro è l'East River), le 155 persone a bordo si salveranno tutte, in 24 minuti le operazioni di soccorso vengono portate a termine da una macchina perfetta che permette di apporre un bel lieto fine a quella che potenzialmente avrebbe potuto diventare una tragedia di proporzioni enormi; ma la gran parte del merito di questa conclusione idilliaca va al comandante e pilota dell'aereo, il veterano Chesley Sullenberger detto Sully, migliaia di ore di volo alle spalle e un sangue freddo che ancor oggi sono in molti a benedire tutte le sere. Sully è la cronaca di questo - a posteriori -fortunato episodio, il corpo del film non è incentrato tanto su quello che succede in volo che ovviamente ci verrà mostrato, ma più che altro su tutto quello che avviene dopo, in fondo l'esperienza del volo 1549 dalla sua partenza dall'aeroporto La Guardia di New York fino all'ammaraggio sull'Hudson non dura che una manciata di minuti.


Clint Eastwood sforna un'altra opera importante, classicissima nella sua messa in scena, a sottolineare lo sguardo al Cinema classico sceglie uno degli attori più amati dal pubblico statunitense, quel Tom Hanks (ancora una volta grande) capace di impersonare in maniera perfetta l'uomo comune, l'uomo agli antipodi di quello che ti aspetteresti da un'eroe, la scelta di Hanks avvalora tutto l'impianto del film che ci restituisce in tutta la sua normalità il Sully che di lì a poco diverrà l'eroe nazionale del momento. Come successo nella realtà, il film ravviva la ferita ancora aperta dell'undici settembre, vedere un aereo volare a bassa quota sui cieli di Manhattan dev'essere stato un bel colpo per gli abitanti di New York, tutto quest'aspetto della vicenda viene mirabilmente rievocato grazie ad alcune drammatiche e spettacolari sequenze che dipingono lo stress post traumatico che il pilota dovrà affrontare a incidente ultimato e che gli procurerà incubi e visioni ad occhi aperti, stress aggravato indubbiamente dalle accuse mossegli dall'ente aeronautico americano che inizia a dubitare dell'operato di Sullenberger mettendolo sotto inchiesta insieme al copilota Jeffrey Skiles (Aaron Eckhart).


Al cuore della vicenda un uomo responsabile, che si carica sulle spalle il peso del suo lavoro, la vita di alcuni suoi amici (i membri dell'equipaggio) e di altre cento persone e che nell'arco di pochi secondi è chiamato a prendere una decisione difficilissima e che per questa, nonostante gli ottimi esiti, verrà messo sotto inchiesta dal suo stesso Paese (ma mai dall'opinione pubblica che lo adora). Gran parte del film guarda proprio alla ricostruzione dei fatti, le inchieste della commissione si basano su alcuni dubbi e su simulazioni al computer che sostengono che l'aereo avrebbe avuto il tempo e la possibilità per far ritorno al La Guardia o in alternativa all'aeroporto del New Jersey evitando così il rischio di morte per i passeggeri, tutte le statistiche indicano infatti che a un ammaraggio solitamente non si sopravvive. Eastwood tiene in perfetto equilibrio le sequenze che descrivono gli attimi concitati del volo e dell'ammaraggio con quelle che descrivono le ore prima della partenza, le vicende personali di Sully (conseguenze da stress comprese) e quelle dei soccorsi post incidente a quelle centrali dell'inchiesta che rimandano al filone del cinema giudiziario e che offrono le sequenze più emozionanti.

Andando al nocciolo il Cinema di Eastwood è ancora una volta una questione morale, la centralità dell'uomo che si assume una responsabilità e vince sul freddo calcolo, sulla macchina, sugli algoritmi, è il cuore di un uomo, di un Paese che si prende la rivincita su un progresso che spesso vorrebbe relegare la figura umana a margine, ma questo, fortunatamente, non sempre è possibile e molto spesso è controproducente, sappiamo che nulla è infallibile, a parte forse il vecchio Clint.

lunedì 2 marzo 2020

DUEL

(di Steven Spielberg, 1971)

Duel è l'esordio dietro la macchina da presa di un giovanissimo e già talentuoso Steven Spielberg, il film vanta anche il soggetto dello scrittore Richard Matheson ma è la grande capacità del regista nel creare tensione con pochissimi elementi a rendere Duel un gran film apprezzabilissimo ancora oggi. Nato come film per la televisione statunitense e girato in un paio di settimane circa, il film trova la via delle sale cinematografiche un paio d'anni più tardi, nel 1973 per la precisione; allungato di qualche minuto Duel è pronto per affrontare con successo il grande pubblico. L'idea vincente del futuro regista di E.T. e de Lo squalo è quella di portare in un contesto solare e molto comune i classici stilemi dell'horror, creando quella tensione e quella serie di sussulti tipici del genere senza mai mostrare in video nulla di realmente orrorifico; detta così può sembrare una cosa strana ma guardando Duel questa caratteristica esce prepotentemente con tutta la sua forza.

Alla base del film un contrasto banale: David Mann (un bravissimo Dennis Weaver sul quale poggia praticamente tutta la parte attoriale del film) è un commesso viaggiatore che deve chiudere un contratto di lavoro in un'altra città. Lungo l'autostrada che attraversa il deserto di uno degli Stati Uniti d'America Mann, a bordo della sua Plymouth Valiant del '71, sorpassa una grossa e malconcia autocisterna, per qualche strana ragione il conducente del veicolo prende il sorpasso come una questione personale. Follia? bieca competizione maschile scatenata da sovradosaggio di testosterone? semplice ignoranza? fatto sta che per il mite venditore inizierà un incubo difficile da prevedere che assumerà a tutti gli effetti i connotati della classica storia horror.


È incredibile con quanto poco materiale Spielberg costruisca con intelligenza davvero fina un crescendo di tensione capace di incollare lo spettatore alla poltrona lungo la visione di un film che vive di genio e poco altro. La prima scelta astutissima di Spielberg è quella di non mostrare mai il conducente dell'autocisterna, scelta che contribuisce ad alimentare un'alone di mistero che troverà il suo climax nella sequenza della tavola calda dove Mann si fermerà a mangiare. L'autista esiste, ne vediamo gli stivali, ogni tanto un braccio che sporge dal finestrino, accenni che escludono tutto ciò che si potrebbe pensare sovrannaturale (non è Christine, non è La macchina nera), c'è ma non lo identifichiamo, né noi né il protagonista, il suo camion diventa il mostro dei film horror. Il Peterbilt 281 del '55 è un veicolo dal muso sporgente con due fanali tondi in testata, caratteristiche che donano una specie di grugno cattivo al camion, nelle sequenze di inseguimento, dove la mole imponente della motrice arrugginita si avvicina minacciosa alla Plymouth di Mann, l'impressione è davvero quella di trovarsi alla presenza di una creatura minacciosa, idea rafforzata dalla magnifica scena al buio di una galleria, dove i fanali del camion sembrano occhi spettrali, vigili, in attesa della preda. L'effetto jump scare, fondamentale in molti horror per far saltare lo spettatore sulla sedia, è qui dato dal roboante clacson dell'autocisterna, sempre pronto a intervenire nei momenti più tesi. Ottime le riprese che inquadrano un road movie a cui manca il consueto elemento di crescita/formazione che solitamente il genere accompagna, rigirato qui in mera sopravvivenza e terrore, un gioco tra gatto e topo che si sviluppa in una tensione crescente bilanciata in maniera superba.


Per Duel è proprio il caso di dire che il buongiorno si vede dal mattino, la carriera di Spielberg parte con tutti i migliori presupposti, sappiamo tutti come è andata a finire, certo è che guardando alcune grosse produzioni come il recente Ready player one un po' di nostalgia per questi film più piccoli e artigianali la si prova.

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