domenica 31 dicembre 2017

IL RAGAZZO INVISIBILE

(di Gabriele Salvatores, 2014)

Potremmo dire che in qualche modo, senza esagerare, all'interno dello spesso asfittico panorama nostrano, Salvatores si può collocare tra quei pochi registi dotati di una certa dose di coraggio che tentano di spingere il nostro Cinema e il suo sguardo un poco più in là dei nostri confini e della sempiterna commedia. Il regista aveva iniziato a sperimentare già nel lontano 1997 con la fantascienza di Nirvana passando poi per altri tentativi particolari come Amnèsia o Quo Vadis Baby che sconfinava nel giallo/noir. Nell'epoca dei cinecomics Salvatores guarda al film di supereroi ibridato con il racconto di formazione, producendo un film adatto anche (e soprattutto) ai giovanissimi o addirittura ai bambini. Quello che più interessa del film è infatti la vicenda umana e quotidiana del protagonista Michele Silenzi (Ludovico Girardello), un adolescente figlio di una poliziotta vedova (Valeria Golino) che frequenta la scuola come tutti e che come tanti viene infastidito dai bulletti di turno, si innamora di una delle compagne di classe, ha qualche problemino con lo studio e via discorrendo. È proprio questo aspetto del film che può essere meglio recepito dai ragazzi, poi c'è tutto il contorno super, molto derivativo e abbastanza d'accatto, che ovviamente vivacizza la proposta ed esce dai soliti binari tracciati dal Cinema italiano degli ultimi tempi, per questo rendiamo merito al regista nonostante nel suo complesso il film non sia davvero nulla di eccezionale. Il ragazzo invisibile può rientrare tranquillamente nel Cinema di serie B, ma non tanto in quella serie B fatta da mestieranti, artigiani e mezzi poveri che ha prodotto anche ottimi esiti nei decenni passati, qui non è una questione di mezzi o di investimenti, è semplicemente questione di livello. Ci sono i grossi calibri, alle loro spalle, in serie B, si colloca questo film che rimane comunque un prodotto molto dignitoso, assolutamente godibile e per lo Stivale finanche originale, certo non ha molto di nuovo da dirci ne nulla di particolarmente interessante o spettacolare da offrirci.

Michele vive a Trieste, frequenta la scuola e non è tra i ragazzi più popolari della sua classe, è un tipo abbastanza solitario, gli piace la nuova compagna di classe Stella (Noa Zatta) e non è particolarmente amante dello studio. Prima di andare a una festa in maschera proprio a casa di Stella, Michele adocchia un bel costume da supereroe che vorrebbe acquistare, purtroppo i bulli Ivan (Riccardo Gasparini) e Brando (Enea Barozzi) gli rubano i soldi necessari all'acquisto, così Michele dovrà ripiegare su un costume dei cinesi molto cheap, comprato in un negozietto che ha il sapore del negozio di Chinatown in cui fu comprato il famoso Gremlin del film omonimo. Dopo l'ennesima umiliazione proprio per via del costume, Michele desidera ardentemente un cambiamento e scompare, diventa invisibile, il costume (forse) gli ha davvero donato dei poteri. Inizia per Michele tutta una prevedibile operazione di riscatto che non dimentica di passare, ovviamente, dallo spogliatoio femminile al termine dell'ora di ginnastica, ma dietro alla faccenda dell'invisibilità c'è tutta un'origin story da narrare che guarda ai classici schemi abusati dei comics supereroistici americani e che aprirà al sequel nelle sale nei prossimi giorni.


Come detto sopra niente di che, però il film dimostra che si può fare, non tanto il film italiano sui supereroi che non ci appartengono e del quale non si sentiva nemmeno il bisogno, dimostra però che si può guardare seriamente al nuovo, al genere, si può sfruttare al meglio la nostra cultura, anche fumettistica se vogliamo, uscendo finalmente dalla commedia, abbiamo un bagaglio pieno di personaggi che se presi seriamente potrebbero trovare al Cinema uno sfogo credibile. Un bel filmone d'avventura con protagonista Corto Maltese, un film romantico, dal budget grosso, oppure un western moderno con Tex e Carson, un horror con Dylan Dog ma fatto per bene, c'è Valentina, c'è un sacco d'altra roba. Ma senza guardare necessariamente al fumetto, Salvatores ci dimostra semplicemente che c'è altro. Non sarà un capolavoro ma magari anche Il ragazzo invisibile ha contribuito a smuovere un po' le acque.

venerdì 29 dicembre 2017

DOCTOR WHO - C'ERA DUE VOLTE

Se questo è davvero l'ultimo episodio che Steven Moffat ha deciso di scrivere per il serial Doctor Who, non si poteva chiedere un commiato migliore allo sceneggiatore che, pur tra alti e bassi, ci ha regalato tantissime emozioni nel corso di questi ultimi anni. Lo speciale natalizio Twice upon a time chiude diversi cerchi: la run di Peter Capaldi come Dottore, la vita del dodicesimo Dottore aprendo alla sua tredicesima incarnazione, in qualche modo chiude anche tutto un percorso che affonda le radici nella prima gestione del buon Dottore, quella dei primi anni 60 in cui il protagonista era interpretato da William Hartnell, rappresenta l'ultimo saluto di Bill Potts (Pearl Mackie) e Nardole (Matt Lucas), gli ultimi compagni del Timelord, e ovviamente conclude la gestione Moffat dello show. Ancora una volta il Dottore di Peter Capaldi si dimostra essere il Dottore morale, quello capace di insegnarci qualcosa che avremmo già dovuto apprendere da eoni, è il Dottore della gentilezza, del gesto unico, magari anche piccolo e semplice, per il quale vale la pena di vivere un'intera esistenza di sacrificio. Lo spirito del dodicesimo Dottore si unisce qui allo spirito del ricordo e a quello del Natale andando a creare un episodio capace di commuovere e di far uscir fuori tutte le potenzialità di un personaggio fantastico che in fin dei conti potrebbe non arrivare mai alla fine (ed è in piedi già dal lontano 1963), Moffat per un'ultima volta riesce a creare quelle atmosfere per cui vale la pena guardare Doctor Who nonostante le varie ingenuità e le cadute di tono (neanche poi tante) disseminate qua e là nel corso degli anni.

Si riprendono i fili della narrazione da dove li avevamo lasciati, abbiamo un Dottore (Peter Capaldi) in punto di morte che decide di non voler cambiare, di non voler cedere alla rigenerazione, un Dottore che forse è solo stanco, roso da anni e anni di battaglie e combattimenti e che pensa di meritare anche lui un punto di chiusura, il meritato riposo, la morte del Timelord. Abbiamo due dottori in punto di morte che decidono di non voler cambiare, di non voler cedere alla rigenerazione, anche il primo Dottore, interpretato magnificamente da David Bradley (l'Argus Gazza di Harry Potter) con grande adesione all'originale, si trova nella stessa situazione; grazie a un incidente nel flusso del tempo i due si incontreranno per affrontare la Testimonianza, un'entità che raccoglie i ricordi e metterà il buon Dottore un'ultima volta di fronte alla compagna Bill Potts, data ormai definitivamente per persa.


L'incontro tra i due Dottori è uno scontro tra generazioni, entrambe versioni attempate del personaggio, cosa che permette a Moffat di inscenare più di un siparietto tra i due, arrivano da realtà completamente diverse, il primo con convinzioni e modi propri della nostra società degli anni 60 (vedi l'idea della donna ad esempio), il dodicesimo decisamente più moderno, anche nel look ovviamente. Ottima anche la riproposizione del sobrio Tardis del primo Dottore, dai colori molto più freddi e pacati rispetto alla sua versione moderna decisamente più fantascientifica e colorata. Ma sono ancora una volta i contenuti a farla da padrone in un episodio a mio modo di vedere molto ben riuscito: bellissimo il confronto tra il ricordo di Potts e il dodicesimo Dottore, un confronto che farà capire ancora una volta al Timelord la sua importanza e necessità nel ruolo di protettore dell'universo, ottime le riflessioni sul conflitto, sulla necessità di cose solo apparentemente semplici e scontate come solidarietà e gentilezza. Insomma ancora una volta il Dottore commuove, riempie il cuore, e alla fine anche lui capisce che no, non è ancora tempo per riposare, "in fondo un'altra vita non può far male a nessuno", anzi. E così, rigenerazione. Ma i tempi cambiano, oggi il mondo è donna. Il Dottore è donna (Jodie Whittaker). Tutto questo cambiamento era ormai necessario.

lunedì 25 dicembre 2017

REGALI 2017

Eccoci un'altra volta pronti per quella che è diventata un po' una tradizione della giornata di Natale, il relax serale con la conta e la condivisione virtuale dei regali. Come già ripromessomi l'anno scorso basta bilanci, procediamo quindi a gongolarci tra i balocchi che ci riportano un poco a quando eravamo più piccoli, a un tempo in cui ancora si avvertiva tutta la magia del Natale che per fortuna a casa nostra, avendo una bambina ancora piccola (più o meno), non manca neanche adesso.

Anche quest'anno Babbo Natale ha spaziato tra più generi di regalo, dall'utile al dilettevole, dal più frivolo al più serioso. Prima di aprire virtualmente i pacchi, auguro ancora a tutti buone feste e spero che nessuno di voi sia stato, e sarà nei prossimi giorni, meno che felice, un abbraccio a tutti voi.

E ora andiamo a incominciare.


Solitamente l'aspetto più frivolo del Natale è in carico a mio cognato, che dall'Inghilterra torna nel Bel Paese carico degli oggetti più improbabili o quantomeno originali. Quest'anno siamo rimasti abbastanza con i piedi per terra (più o meno viste le doti del personaggio coinvolto nel regalo) con una classica Mug d'annata targata Marvel Comics ritraente un Iron Man decisamente vintage.




Mia moglie ha invece pensato alla mia cronica avversione per l'acqua, bevo troppo poco (magari birra, ma acqua troppo poca) cercando di invogliarmi almeno con un oggetto utile con un bel design, cosa che di per sé non guasta... borraccia della Sigg del classicissimo color acciaio.




I miei sono andati sul vestiario, sempre apprezzato, belle scelte coadiuvati anche dall'aiuto di mia moglie, purtroppo le taglie sono sballate e sarà tutto da cambiare, seguiranno magari aggiornamenti in merito :)




E ora ne approfitto per un piccolo quiz, ancora mia moglie, che cosa mi ha regalato?




Chiudiamo con l'immancabile carta, nutrimento per la mente, a parte l'agenda utile per la prossima annata lavorativa, mio fratello ha optato per Sospetto dell'interessantissimo scrittore Percival Everett, il botto però, almeno per me, lo fa mia moglie con il Jerusalem di Alan Moore, opera ambiziosissima dell'autore e sciamano che ha cambiato il volto del fumetto americano, ora ci prova con la letteratura grazie a un'opera monumentale che supera le 1500 pagine. L'attesa cresce spasmodica, mi ci vorrà però del tempo prima di affrontare questa grande (e impegnativa) avventura.


E voi cosa avete ricevuto di bello? Forza, condividete.

domenica 24 dicembre 2017

ULTIMO TANGO A PARIGI

(di Bernardo Bertolucci, 1972)

Ciò che più ho apprezzato del film scandalo di Bernardo Bertolucci è l'assenza di morbosità nell'inusuale (e sicuramente forte) rapporto che si viene a instaurare tra i due protagonisti lungo lo svilupparsi della storia narrata. È noto come Ultimo tango a Parigi scosse in maniera decisa il mondo del Cinema dei primissimi 70, provocando disagi tra gli esponenti di stampa e pubblico, soprattutto tra le frange più perbeniste e bigotte delle rispettive categorie, finendo anche tra le mani della magistratura che dopo diverse vicende giudiziarie ne decretò la distruzione. Il film scomparve così per diverso tempo e solo alcuni anni più tardi venne nuovamente riabilitato agli occhi del pubblico, ancor oggi Ultimo tango a Parigi si porta dietro una sorta di alone da "film proibito", al giorno d'oggi ormai cosa poco comprensibile, ma tutte le chiacchiere sull'opera, scena del burro in primis, non fanno che offuscare il valore di un ottimo film che va decisamente oltre quelle due o tre cose sulle quali ci si è sempre soffermati.

Sicuramente per l'epoca, nonostante fosse passato il '68 e sul sesso alcuni discorsi erano già stati messi in piazza negli anni precedenti, Ultimo tango a Parigi non poteva che risultare controverso. Poco si parlò probabilmente dell'abilità di Bertolucci nella messa in scena di una storia d'amore molto particolare, di situazioni estreme se vogliamo, e nemmeno ci si soffermò troppo su alcune sequenze davvero ben girate, una su tutte quella sorta di inseguimento tra Marlon Brando e la Schneider nella salita verso l'appartamento, lei in ascensore, lui sulle scale, ripresi in una sorta di vertigine, di spirale colma di desiderio, scelte artistiche, come tante altre, che nobilitano il film insieme alla fotografia di Vittorio Storaro, alle musiche di Gato Barbieri ma soprattutto grazie all'adesione a due personaggi non facili da parte di due bellissimi interpreti, ovviamente Marlon Brando e Maria Schneider, giovane talento quest'ultimo purtroppo in larga parte schiacciato dalla popolarità che raggiunse il film e da tutte le polemiche che ne segnarono l'uscita. È un amore nato dal desiderio, dall'attrazione priva di conoscenza e che tale, almeno da parte di lui, vuole rimanere, un appartamento vuoto come rifugio dal passato, da tutte le influenze esterne, dai nomi, dai dubbi, dai rimorsi, dalla vita come tutti la conoscono; solo un rapporto, un uomo, una donna, il sesso, le risate, chiacchiere e discorsi sul momento, sull'istante, sullo scoprirsi per quel che si è ora, al netto delle identità, del vissuto, del passato. Un desiderio. Due desideri, semplici, comprensibili, nonostante tutte le apparenze anche candidi per alcuni versi.


Paul (Marlon Brando), americano residente a Parigi, è rimasto vedovo in seguito al suicidio della moglie che gli ha lasciato la gestione di un alberghetto di poche pretese. L'uomo è in crisi in seguito alla morte della moglie, dopo un primo incontro pressoché casuale con la giovane Jeanne (Maria Schneider) durante il quale si consuma un primo rapporto sessuale tra i due, inizierà una relazione fatta di incontri e passione durante i quali lui e lei si racconteranno poco l'uno dell'altro principalmente per volere di Paul, non si diranno nemmeno i loro nomi, orpelli ritenuti inutili da lui. Se Paul è ormai privo di legami, Jeanne è invece fidanzata con un aspirante regista, il Jean-Pierre Léaud tanto caro a Truffaut, ciò nonostante il rapporto con il più maturo Paul sarà per lei totalizzante.

Negli ultimi anni abbiamo visto cose come il Ninphomaniac di Lars Von Trier, la forte carica erotica di Ultimo tango a Parigi non risulta più così scabrosa, funziona ancora benissimo grazie alla sensualità di Maria Schneider (per le donne grazie a quella di Brando probabilmente), al contrario di quanto si possa pensare spesso innocentissima e naturale nei suoi nudi, grazie alla chimica scaturita dall'incontro tra i due che non sono i più alti esponenti della bellezza, la Schneider è sicuramente più sensuale che bella, Brando bellissimo in gioventù è in parte oramai sfiorito, ma funziona soprattutto in virtù di una bella storia, quella dell'incontro tra un uomo e una donna, la più usata, qui rivista in chiave originale e non banale. Lasciamo quindi perdere il burro, godiamoci il film per quel che è, sottolineando magari le prestazioni di due attori che qui sono diventati i personaggi, dentro la storia in maniera incredibile. Come per tutte le storie forti, soprattutto quelle d'amore, il finale tragico era forse inevitabile, più di tutte le polemiche per le quali il film viene principalmente ricordato.

giovedì 21 dicembre 2017

A-Z: A PERFECT CIRCLE - MER DE NOMS

Incrocio di numerosi talenti gli A Perfect Circle, sorta di progetto parallelo per più d'uno dei suoi componenti che fanno cerchio intorno alla figura carismatica e talentuosa di Maynard James Keenan, cantante e frontman del gruppo californiano dei Tool. In principio del nuovo millennio, complice un temporaneo stop forzato della sua band principale, Keenan riprende i fili di un discorso iniziato anni prima con Billy Howerdel, vero ispiratore della nascita della band. Howerdel è un tecnico del suono con collaborazioni più che prestigiose in curriculum, durante un tour a seguito della band dei Fishbones avviene il primo contatto tra i due, Billy lascia qualcosa di suo da ascoltare a Maynard, i due si piacciono, l'incontro porterà i suoi frutti solo alcuni anni più tardi, quando le condizioni saranno propizie e i tempi maturi per la nascita degli A Perfect Circle. Coperti i ruoli per la voce della band e per una chitarra, non resta che trovare gli altri membri utili per andare a comporre un cerchio perfetto. Il produttore Troy Van Leeuwen, in seguito in forza anche ai Queens of the Stone Age, prende in mano una seconda chitarra, il basso viene ceduto alla presenza femminile di Paz Lenchantin, preparazione classica alle spalle, bassista autodidatta che qui si adopera anche nell'uso del violino e ricama sulle seconde voci, a completare il tutto il batterista Josh Freese, turnista di lusso e componente dei The Vandals già dal 1990. Il talento c'è, l'incrocio di influenze anche, il gruppo promette davvero bene e alla resa dei conti, con l'uscita dell'esordio Mer de Noms nel maggio del 2000, la band non delude. Sull'album indubbiamente aleggia continuo il richiamo al sound originale e inconfondibile dei Tool, diverse sono le differenze ma molte anche le similarità tra le due band, non ultima certamente la voce caratterizzante di Maynard James Keenan che entrambi i progetti hanno in comune, Mer de Noms ha il pregio di essere appetibile per tutti i fan dei Tool ma soprattutto ha quello di aver reso un certo tipo di suono, particolare, oscuro, probabilmente più accessibile per una fetta di pubblico potenzialmente più ampia, pur mantenendo grandissima onestà artistica e un livello qualitativo complessivo decisamente alto (io poi continuo a preferirgli i migliori album dei Tool, ma questo è un altro paio di maniche).

L'attacco è deciso, la metrica dei versi, il cantato di Keenan, l'incedere del brano d'apertura - The Hollow - non possono non far pensare alla band madre del cantante, anche le atmosfere, comunque meno malate di quelle solitamente evocate dai Tool, riportano ad ascolti già noti pur avendo il giusto tocco di freschezza, e subito alla mente tornano i movimenti a scatti degli inquietanti omini visti in diversi video del gruppo di Maynard, un'ottima apertura per un brano costruito in maniera impeccabile, perfetta la sezione ritmica dettata dalla batteria vivace di un Freese in gran spolvero. Il basso oscuro della Lenchantin ci introduce al mantra cadenzato di Magdalena, un misto di sacro e profano, tema importante per il versante delle liriche presenti nell'album, giocano qui un ruolo importante anche le chitarre di Van Leuween e Howerdel nell'attivare il giusto coinvolgimento emotivo improvvisamente troncato solo per traghettare l'ascoltatore dentro Rose, altro pezzo riuscito che alterna sezioni delicate e inserti di acustica a parti più aggressive e rabbiose, alleggerite nella coda finale dal violino della Lenchantin. Judith è forse tra i brani più vicini allo stile dei Tool fra quelli incisi per l'album, presenta versi forti a tematica religiosa subito stemperati da quelli più affascinanti della successiva Orestes, pezzo più riflessivo, più lento ma che mantiene una coerenza di stile apprezzabile. Intro sognante per una composizione di classe, 3 Libras, aperta dall'acustica e dal violino e contraddistinta da una linea melodica avvolgente e sensuale, brano che accelera nel finale e che rimane uno dei più riusciti all'interno di un lavoro più che valido dalla prima all'ultima traccia. La versione malata de La bella addormentata (Sleeping beauty) riporta la band sui binari a lei più consoni e battuti, Thomas si distingue per le parti acustiche, per il resto risulta essere tra gli esiti meno interessanti del lotto. Un sapore orientale aleggia tra le note della strumentale Renholdër: arpeggi delicati, archi in sottofondo, vocalizzi suadenti e un bel lavoro trattenuto sulle percussioni, ottimo intermezzo ben costruito che precede l'attacco di Thinking of you, ossessione mentale e bruciante, altro pezzo ben strutturato, caldo e attraente, mantra inquieto e insano che sfocia nella più speranzosa Breña, canzone dalle belle armonie. Si chiude con la minimale Over costruita su note di piano e M'bira, strumento dell'Africa sud orientale.

È un disco compatto Mer de Noms, intrigante, ben studiato e strutturato, una di quelle uscite capaci di attrarre a sé un pubblico eterogeneo, non solo amante del rock più oscuro e pesante. È soprattutto un album ben suonato, con professionalità ed eleganza, in grado di mostrare ed esibire una capacità compositiva d'eccellenza senza mai sfociare in sterili virtuosismi, tutto è calibrato al punto giusto, senza eccessi ne cadute di tono. È un rock alternativo, personale che si sviluppa in territori che ogni tanto è piacevole ritrovarsi a battere.



Mer de noms, 2000 - Virgin Records

Maynard James Keenan: voce
Billy Howerdel: chitarra, basso, tastiere, piano
Troy Van Leeuwen: chitarra
Paz Lenchantin: basso, violino
Josh Freese: batteria, percussioni

Tracklist:
01  The hollow
02  Magdalena
03  Rose
04  Judith
05  Orestes
06  3 libras
07  Sleeping beauty
08  Thomas
09  Renholdër
10  Thinking of you
11  Breña
12  Over

giovedì 14 dicembre 2017

LIEBSTER AWARDS 2017


Torna anche quest'anno l'ormai celebre Liebster Award versione 2017, e anche quest'anno ho avuto l'onore di essere stato premiato da un blog amico, ringrazio di cuore quindi Giulietta de La collezionista di biglietti per il suo gentile pensiero e mi auguro di poter continuare (magari anche a ritmo un po' più sostenuto) a creare contenuti interessanti per almeno un pugno di voi splendide personcine che siete la fuori :)
Ne approfitto per ricordare che il Liebster nasce per far conoscere e apprezzare quei blog meritevoli di menzione che navigano in mari ancora relativamente piccoli (blog sotto i 200 followers), è sempre un piacere quindi aderire a iniziative di questo tipo e diffondere il verbo...


Ecco quindi le quattro semplici regole da seguire per alimentarne il fuoco:

1) Ringraziare e rispondere alle 11 domande di chi ti ha premiato
2) Premiare gli 11 blogger meritevoli che non raggiungono i 200 followers
3) comunicare la vincita agli altri bloggers premiati
4) Proporre ai premiati altre 11 domande.

Possiamo quindi passare a rispondere alle domande di Giulietta:

1) Serie tv preferita?
Beh, risposta non troppo facile da dare visto l'oceano di materiale valido prodotto negli ultimi anni in questo settore dell'intrattenimento. Rispondo attingendo a un miscuglio di cuore/affetto e reale impatto innovativo/qualitativo della serie in questione: Twin Peaks. Nonostante ami altri prodotti come The Walking Dead, Black Mirror e altro ancora, Twin Peaks resta nel mio cuore per quel che è stato e continua a meravigliarmi per quel che è ora, a venticinque anni di distanza, la terza serie (che sto ancora guardando) mi sta semplicemente ipnotizzando. Lynch può anche non piacere, ma io non riesco a staccare gli occhi dalle sue immagini.

2) Il miglior viaggio mai fatto?
In realtà ne porto due nel cuore. Per coinvolgimento sentimentale scelgo il giro della Scozia del 1997, primo viaggio in solitaria con la mia futura moglie, un ricordo indelebile, magnifico, momenti ai quali tornerei anche ora, subito, adesso. Poi la Scozia è stupenda.

3) Tra 10 anni ti vedi più o meno cinefilo di oggi?
Io spero di più, più che la passione decideranno sicuramente i percorsi della vita, i capricci del destino, di mio non ho nessuna intenzione di mollare.

4) Cane o gatto? O conigli o qualsiasi cosa ti piaccia.
Preferisco il cane, l'ho sempre preferito al gatto anche se il sogno sarebbe quello di tenere un cucciolo (ma solo cucciolo per ovvi motivi) di un grosso felino, non so, un bel cucciolo di leone, di tigre. Oppure l'oca, mi piace l'oca. Nella realtà però non ho animali domestici e in appartamento nemmeno li terrei, mia figlia vorrebbe il gatto, mia moglie è allergica...

5) Qual è la tua più grande paura?
Forse sarò banale ma è quella di non poter contribuire al mantenimento economico della mia famiglia, purtroppo il mio percorso lavorativo non è stato tutto rose e fiori e negli ultimi anni abbiamo perso ogni stabilità, comunque in qualche modo si va avanti.

6) L’albero di Natale lo fai l’8 dicembre oppure non resisti e lo fai prima?
No, ormai è una tradizione di famiglia anche per mia figlia, l'8 si aprono gli scatoloni e si addobba l'albero.

7) Ti piacciono le sorprese o preferisci avere il controllo su tutto?
Dipende. se le sorprese sono positive mi piacciono. Se sono mazzate sul collo allora preferisco averne il controllo :)

8) Estate rovente o inverno gelido?
Ma inverno gelido tutta la vita, 'fanculo l'Estate.

9) Il dolce che ti porteresti su un’isola deserta?
In realtà mi porterei più roba salata, la pizza, la pasta, cose così... se però devo scegliere un dolce opterei sicuramente per il gelato.

10) Sei un sognatore o hai i piedi per terra?
Sicuramente un sognatore, per alcuni versi almeno, uno di quelli però incapaci di concludere. Per le cose più attinenti al quotidiano ho un po' più i piedi per terra.

11) Da 1 a 10 valuta il tasso di interesse potenziale degli Oscar 2018.Mah, per me direi 5, mi piace sempre guardare cosa fa l'Academy di anno in anno, ma non è una cosa alla quale do molto peso. Poi in generale, per il mondo intendo, non saprei, probabilmente qualcosa dalle parti del 7.


And now, the nominees are...

2)   Cumbrugliume
8)   Ivano Landi
11) La collezionista di biglietti (lo so, forse non vale, ma nominai il blog già l'anno scorso e confermo, comunque Giulietta se vuoi ti dispenso dal rispondere alle domande :)


E ora le domande per gli undici fortunati (???)....

1)  Consigliami un libro, in poche parole dimmi perché dovrei leggerlo, se mi convinci me lo segno.
2)  Hai dieci giorni pagati da spendere in una singola città, quale sceglieresti?
3)  Il Doctor Who ti omaggia di un giro sul Tardis, in che epoca del passato vorresti andare e a vedere quale evento storico?
4)  Quale pensi sia l'aspetto più importante per passare una giornata serena sul posto di lavoro?
5)  Hai mai pensato di trasformare questa passione (il blogging, la scrittura) in una sorta di mestiere?
6)  Chi è il tuo ideale di donna/uomo (un nome di un personaggio riconoscibile da tutti, il tuo vicino/a di casa non vale)
7)  Voti, stelline, pallini, pollici versi o gaudenti... cosa pensi dei giudizi sintetici su di un'opera?
8)   Per te che ovviamente dedichi diverso tempo al web, quanta importanza ha ancora la carta stampata?
9)   Disco secco. Un solo titolo. Autore, titolo del disco e anno d'uscita.
10) Nottambulo? A che ora vai a dormire la sera?
11) Hai qualche strana fissazione, un gesto che fai spesso, magari un po' fuori dall'ordinario, una mania?

And here we are...

martedì 12 dicembre 2017

PARKING LOTS - PARKING WIZARD (e intervista)

Appiccicare etichette agli album è spesso una soluzione semplicistica e "di comodo", utile forse più a noi che scriviamo di musica che non alla nobile causa della diffusione di quei sound che riteniamo realmente validi, la suddetta pratica inoltre potrebbe rivelarsi fallace o quantomeno limitante in più di un caso. Il discorso può ritenersi valido proprio per questo Parking Wizards, esordio nel full-lenght dei toscani Parking Lots, album preceduto dall'ep Sex of the submarines del 2012. Non è facile tracciare una direzione univoca seguendo la strada percorsa dai Parking Lots, Parking Wizards è un calderone coerente di influenze e rimandi disparati che attraggono l'ago della bussola in direzione dei paesi anglosassoni ma che non è possibile circoscrivere a singoli termini quali shoegaze o a correnti musicali come il dream pop o l'indie rock. Dentro Parking Wizards c'è forse un poco di tutto questo ma c'è anche altro, e come non è possibile ricondurre tutto a un genere, non è nemmeno possibile ricondurre tutto a un'epoca, si percepisce tra le tracce dell'album un sound derivante da diverso rock dei 90 ma non mancano echi più vicini alla psichedelia dei 60 come influenze derivanti da grandi band attive nei decenni successivi. Diversi di questi input sono rintracciabili già nel primo singolo e brano d'apertura del disco, Big reaction, ottima scelta per presentare il lavoro, probabilmente il brano più significativo dell'intero Parking Wizards. Il pezzo denota una maturità compositiva già piena, la voce di Antonio De Sortis è calda e avvolgente, oltre ai già accennati richiami al rock dell'ultimo decennio del secolo scorso, sembra si avvertano vicinanze ai Dire Straits di Knopfler, qualche accenno ai primi U2, il testo è enigmatico, ermetico, derivante da un tipo di costruzione più britannica che nostrana e non solo per l'uso dell'inglese, utilizzata al meglio la batteria di Francesco Borselli, calibrata alla perfezione all'interno di un brano di ottimo impatto. La successiva Speak vive di un bel contrasto luce/buio dettato dall'intro oscura del basso di Alberto Mariotti e dalla vivacità delle chitarre, un bel brano graziato anche dal raddoppio vocale. Con Lamb in the mirror esce allo scoperto quella che è una seconda anima dei Parking Lots legata ai brani scritti e cantati da Alessio Pangos, più intimisti e dalle tematiche più universali, in qualche modo un'anima meno crepuscolare seppur velata da un tocco di malinconia. La psichedelia arriva con Tibet sia nella costruzione musicale e nel cantato più acido che nel testo del brano, la derivazione è classica, si evince un uso sapiente degli strumenti, una giusta misura nella dilatazione dei tempi, la capacità di mischiare tradizione e attualità con soluzioni giustamente lisergiche care al prog e allo psych rock dei decenni passati. Con l'attacco di A night in the woods sembra per un attimo di tornare tra i boschi di Twin Peaks per poi trovarsi subito catapultati in atmosfere meno inquiete, più consone al pop dei sixties grazie a sensazioni che risultano familiari ma alle quali non è facile dare nell'immediato forma e corpo. Segue Camel skin, altro brano piacevole, si evince un impegno notevole e non scontato per un esordio, anche nel lavoro fatto sull'uso e sulla pronuncia della lingua inglese, So many cigarettes è probabilmente il pezzo più sentimentale del disco, malinconico, esce qui molto bene la dolcezza della voce di Alessio Pangos, altro episodio molto piacevole prima della chiusura autocitazionista di The story of Parking Lots, brano nel quale si apre un immaginario tutto da esplorare. Tanta carne al fuoco ma ben dosata e amalgamata, ci sono impegno e capacità in questo Parking Wizards, siamo curiosi di vedere cosa ci proporranno in futuro questi maghi del parcheggio.



Parking Wizards, 2017 - Coypu Records

Antonio De Sortis: voce e chitarra
Alessio Pangos: voce e chitarra
Francesco Bobi Borselli: batteria
Alberto Mariotti: voce e basso

Tracklist:
01  Big reaction
02  Speak
03  Lamb in the mirror
04  Tibet
05  A night in the woods
06  Camel skin
07  So many cigarettes
08  The story of Parking Lots




INTERVISTA AI PARKING LOTS

MICiao ragazzi, solitamente con la prima domanda di un'intervista a tema musicale si chiede alla band di presentarsi. Anticipando un poco l'argomento, diciamo che ci troviamo a chiacchierare con Antonio De Sortis (voce e chitarra), Alessio Pangos (voce e chitarra), Francesco Borselli (batteria) e Alberto Mariotti (voce e basso), in arte e tutti insieme i Parking Lots. Potete dirci da quanto tempo suonate insieme, quanti anni avete (e qui ci farete molta invidia) e da quali esperienze musicali arrivate prima dell'uscita di Parking Wizards? Sentitevi liberi di completare la domanda con tutte le info che vi sembrano più significative.

FRANCESCO: Ciao a tutti. Nessuna invidia direi, siamo tutti non più giovanissimi, fra i trenta e i trentacinque, salvo Antonio, che non a caso continuiamo a trattare come un pischello malgrado sia ormai già un ometto fatto e finito (è del 1990). I Parking Lots si sono formati nel 2011, con Davide Fazio al posto di Alberto al basso, che gli è poi subentrato nel 2013. L'unico di noi a uscire con un'etichetta prima di Parking Wizards è Albe, che qualcuno di voi già conoscerà sotto i moniker Samuel Katarro o King of the Opera. Tutti abbiamo cominciato a esibirci in gruppi vari fin dal liceo: Antonio suonando Psych in Basilicata, Alessio ed io rispettivamente Brit pop e Post-rock, entrambi a Firenze.


MI: Parliamo di Parking Wizards e partiamo dal brano che avete scelto sia come singolo che come opener dell'album: Big reaction. Intanto vi facciamo i complimenti sia per il pezzo che denota una maturità compositiva di tutto rispetto, sia per la buona riuscita del video realizzato con una certa professionalità, a volte guardando i video di artisti italiani, anche di chiara fama, viene da mettersi le mani nei capelli (per non dire altro), voi ve la siete cavata bene. Quanto e come siete stati coinvolti nella realizzazione del video diretto da Silvia Dal Dosso? Se non erro il protagonista è Francesco, giusto? E ora la parte più difficile della domanda, sappiamo che i figli sono tutti piezz 'e core come si dice a Napoli, ma voi come mai avete scelto proprio Big reaction come primo singolo, cosa pensate che abbia in più o di diverso dagli altri pezzi dell’album.

FRANCESCO: Innanzi tutto grazie mille per i complimenti. Per quanto riguarda la scelta di Big Reaction, in realtà non è stata immediata, perché avevamo due o tre pezzi papabili come primo singolo, anche secondo i tipi di Coypu, la nostra etichetta. Inoltre non è frequentissimo uscire con una ballad, ma alla fine è un pezzo che ci mette davvero tutti d'accordo (risultato non banale), nonché uno di quelli di cui siamo più soddisfatti come riuscita a livello di registrazione e produzione. Venendo al video, in realtà il protagonista non sono io, ma Giorgio Kioussis – non ti preoccupare, più di una volta siamo stati presi per fratelli. Per la realizzazione abbiamo pensato subito a Silvia, che oltre a essere una professionista riconosciuta e una cara amica è dotata di una sensibilità che pensavamo si potesse sposare bene con le atmosfere che volevamo evocare. Alla fine ha fatto praticamente tutto da sola – regia, riprese, scene, montaggio – girando in 3 notti, e il risultato è andato oltre le aspettative (che erano comunque, conoscendola, già alte). Davvero bravissima!


MI: Curiosando tra i comunicati stampa legati all'uscita di Parking Wizards ho visto che si parla di shoegaze, influenze anni 90, indie rock, tutte cose che ci possono stare, forse un tantino limitanti, ascoltando Big Reaction ad esempio a me sono tornate alla mente anche cose più datate e band note come Dire Straits e U2, Knopfler in particolare, cosa c'è davvero dietro il vostro sound? Avete qualche punto di riferimento imprescindibile che magari noi, da ascoltatori, non abbiamo colto?

ANTONIO: In effetti al sound anni 90 siamo approdati col tempo, dopo un po’ che suonavamo insieme, credo ci descriva bene come band, più che individualmente. È una cifra che ci accomuna sul piano anagrafico, deriva da ascolti molto vari, sia USA che UK, dipende. Sono d’accordo quando dici che nel disco risaltano altre cose, precedenti o successive agli anni 90. Ad esempio io amo molto un certo tipo di cantato 70s, quindi è possibile che gli echi dei Dire Straits - che non sono un mio ascolto frequente - siano finiti nei pezzi filtrati da Dylan, a cui Knopfler deve molto - come tutta l’umanità, del resto. Poi in Parking Wizards abbiamo provato varie altre strade: non so dirti degli U2, sicuramente altre band a loro più o meno coeve, mi vengono in mente i R.E.M., i Mission of Burma, i Jesus and Mary Chain, gli Stone Roses, la scena Paisley Underground. Poi c’è un discorso sul folk che faccio fatica a riportarti ma che ha avuto un ruolo molto importante nella prima fase della band. Non so dove sia andato a finire, è possibile che echeggi da qualche parte anche qui in Parking Wizards.


MI: Altro aspetto direi fondamentale. Voi che siete i maghi del parcheggio, ma a Firenze riuscite a parcheggiare senza problemi? No perché qui a Torino da dove vi scrivo è abbastanza un casino.

FRANCESCO: Firenze, come la maggior parte delle città e dei posti in generale, ha molte facce: è anche un vero inferno per vari aspetti, fra cui non possono essere certo esclusi il traffico e i parcheggi. Diventare abili nell'arte del parcheggio è in sostanza una necessità. Diventare parking wizards è questione di talento e dedizione.



MI: Nonostante l'album abbia una personalità coesa e ben definita, mi sembra che si avvertano comunque le differenze tra le due anime dei Parking Lots, i brani scritti e cantati da Antonio mi sembrano più enigmatici, meno intelligibili e comunicano affidandosi maggiormente alla musica, i pezzi di Alessio presentano testi più chiari che esprimono temi universali e condivisi più immediati da raccogliere, anche musicalmente si percepisce un approccio alla musica ovviamente con delle differenze. Pur scrivendo i brani separatamente, che tipo di lavoro avete fatto per rendere le tracce dell'album comunque coerenti tra di loro?

ANTONIO: Nel periodo in cui abbiamo scritto Parking Wizards il processo di scrittura era molto privato, ora le cose sono un po’ cambiate. All'epoca ognuno scriveva per conto proprio, agli altri veniva presentato solo il materiale adatto a un certo tipo di riassemblaggio, di norma si trattava di uno scheletro voce e chitarra. In questo senso ho sempre dovuto fare una scrematura, per arrivare al vaglio di tutti una canzone deve già avere i connotati dei Parking Lots che non saprei bene come indicarti. La regia a quel punto passa alla band. Ecco perché nel disco si avverte forse questa ibridazione calcolata ma anche una cifra molto individuale e più cantautorale. Io preferisco mantenere un po’ di tensione nei pezzi, non risolverli del tutto, e anche i testi risentono di questa tendenza all'allusione. Pangos (Alessio) ha una cifra più da crooner moderno, sussurra, ma scrive cose più assertive, spirituali in un certo senso. Si sente che è un fissato dei Verve, un malato di Verve direi.


MI: Mi sembra che con l'inglese ce la caviamo bene, non è una cosa scontata per artisti italiani che decidono di esprimersi in un'altra lingua. La scelta è stata naturale o avete dovuto rifletterci sopra? Anche i testi li elaborate da subito in inglese?

ANTONIO: L’alternativa finora non si è mai posta. A prescindere dai nostri ascolti individuali, ci riteniamo una band derivativa. Deriviamo da molte cose e ci affiliamo a tante scuole diverse, ma sono tutte inglesi o americane. Io non so quanto bene me la cavi, ma Pangos (Alessio) ha vissuto e suonato a Londra, Bobi (Francesco) negli Stati Uniti, Alberto ha alle spalle vari dischi solisti di altissimo livello scritti sempre e solo in inglese. È il nostro mondo, musicalmente, la scelta è stata naturale.


MI: Parliamo di immaginario. In un'intervista che ho recuperato in rete si parlava dell'immaginario dei luoghi altri, laterali, proprio come potrebbe essere un parcheggio, magari uno di quelli americani, l'idea della periferia che comunque diventa mito, e l'idea di riportarla anche qui da noi; bello il concetto "sarà pure un parcheggio, ma noi di quel parcheggio siamo i maghi, i re in qualche modo". In fondo tutti apparteniamo a qualche luogo. Due cose. La prima: è un immaginario affascinante che viene sublimato spesso anche da altre forme d'arte, cinema e letteratura in primis. Legato a questo immaginario, cosa vi piace in quelle due arti, fateci i nomi, vogliamo qualche titolo: film, autori, libri…
La seconda: fatto salvo per Big reaction (influenzato forse anche dal video) e per l'artwork, ho faticato un po' a trovare questo immaginario tra le tracce del disco, durante l'ascolto mi si aprivano immagini più legate alla natura, quasi in maniera istintiva, soprattutto nei pezzi di Alessio, è vero che tra chi la musica la scrive e chi la ascolta ci sono sensibilità diverse, diversi vissuti che possono portarci a interpretazioni differenti, forse però c'è qualcosa che non ho colto?

FRANCESCO: In realtà la prima arte a cui abbiamo attinto quando abbiamo pensato al nome del gruppo è stata la musica: ci siamo accorti che i parking lots ricorrevano in una serie di canzoni stupende ma molto diverse fra loro: Jungleland di Springsteen, Heart of Darkness degli Sparklehorse, Grounded dei Pavement, per citarne solo tre.
Nella letteratura a me personalmente viene in mente il secondo racconto de La ragazza dai capelli strani di David Foster Wallace, uno dei miei contemporanei preferiti. Se poi acconsentiamo a definire il drive-in come un parcheggio sui generis, allora includerei anche La sottile linea scura di Joe Lansdale. Di scene cinematografiche cult nei parcheggi in film che ci piacciono, invece, ce ne sono a bizzeffe: il combattimento fra Myagi e l'istruttore fanatico del Cobra Kai in Karate Kid II, la scena mozzafiato con la cover di Song to the Siren in Strade perdute di Lynch, l'ultima di McLovin e i poliziotti in Superbad (la migliore commedia high school americana mai realizzata), De Niro che s'incazza e fa fuori Bridget Fonda in Jackie Brown di Tarantino, per non parlare di Drive di Nicolas Winding Refn, che inizia con l'inseguimento fino al parcheggio dello Staples Center di Los Angeles e si conclude, con l'inevitabile duello finale, sempre in un parcheggio. Il massimo comune denominatore, a pensarci bene, sembrerebbe proprio il decadentismo dell'America dei grandi spazi e dei sogni infranti, un po' desolato, un po' white-trash.
ALESSIO: La natura è certamente una fonte di ispirazione primaria per me, ho sempre cercato di renderla una presenza costante ed effettivamente lo è, in ogni mio pezzo. Credo anche che certe suggestioni dall'immaginario country e folk più vicine alla natura siano un elemento legante dell’intero disco, non mi viene effettivamente in mente una sola canzone, mia o di Antonio, in cui non siano presenti, ad eccezione forse di Speak.


MI: Viene il tempo di salutarci. Cosa state preparando per i prossimi mesi? Avete qualche appuntamento già fissato? Intanto vi ringrazio e vi saluto, sperando di avervi nuovamente da queste parti in un prossimo futuro. Ciao, alla prossima.

ANTONIO: Il disco è uscito da pochissimo e abbiamo appena iniziato a portarlo dal vivo. La data zero è stata al Tender di Firenze qualche giorno fa. Abbiamo già varie date nei prossimi due - tre mesi, e ne stiamo pianificando altre per anno nuovo. C’è una novità in cantiere per Natale, ma preferisco non anticipare nulla :)
Grazie mille della chiacchierata, un saluto alla redazione di Magazzini Inesistenti, see you at the crossroad which is actually a parking lot.


Chiudiamo l'intervista scusandoci con Francesco per averlo scambiato per Giorgio Kioussis e con Giorgio Kioussis per averlo scambiato per Francesco, facendo i complimenti ai ragazzi per i loro gusti su libri e cinema e promettendo di applicarci con la maggior dedizione possibile per diventare anche noi maghi del parcheggio nelle varie città in cui risiedono i redattori di Magazzini Inesistenti. Alla prossima.

domenica 10 dicembre 2017

CAPITAN JACK

(di Tito Faraci e Enrique Breccia, 2016)

Capitan Jack è il genere di Texone che personalmente vorrei sempre vedere in edicola, un'opera che travalica i confini nazionali, esula da tutto ciò che già è stato visto in casa Bonelli, un albo che propone in copertina il nome di un grande maestro del fumetto ma soprattutto presenta tavole al suo interno dalla personalità spiccata, insomma, traducendo in poche parole, è un Texone che ha il vero sapore dell'evento. Lasciamo perdere che la sceneggiatura di Tito Faraci qui non si avvicina nemmeno lontanamente all'essere una delle più interessanti o memorabili partorite per il più noto tra i ranger del Texas, la storia si lascia leggere, accompagna le tavole di Breccia senza particolari sussulti, ma non è questo un problema, certo una bella storia appassionante sarebbe stata meglio, ma di buone storie di Tex se ne trovano tutti i mesi nella serie regolare, nei volumi speciali e nelle varie ristampe dedicate al personaggio, qui è l'interpretazione che conta.

L'approccio di Enrique Breccia al Tex è più caricaturale e caricato di quello cui siamo abituati noi lettori, ciò nonostante il disegnatore argentino, figlio del grande Alberto Breccia, riesce a non togliere forza e ruvidezza al personaggio, anzi, dona a Tex uno sguardo duro e all'occasione il giusto ghigno beffardo. La prima tavola si apre con un campo lungo, vista dall'alto su un tipico ranch di coloni, la scena è osservata da quello che sembra l'occhio spettrale di un gufo, la tavola è armonica, i tantissimi brevi tratti ordinati segnano gli scuri delle vignette, i volti di Elizabeth e di suo padre sono carichi, i nasi accentuati, i tratti forti, Breccia si sofferma sui dettagli del paesaggio, piccoli animali, in vignette d'attesa che dettano i tempi, c'è una grandissima capacità di sguardo, tanto dinamismo, volti ed espressioni magnifiche. Tex compare per la prima volta in questo albo mostrandosi in una vignetta di profilo, massiccio, mento pronunciato, naso aquilino, in tutto il suo vigore, le dinamiche di Breccia sembrano nate per il cinema, angolature molto varie, avanzi da galera della peggior specie, sequenze movimentate, una maestria degna di un grande nell'illustrare la notte, i boschi, le inquadrature strette sulle mani, sugli oggetti, sulle bestie.


In alcuni flashback Breccia cambia tecnica, alleggerisce il tratto, elimina i neri pieni continuando a tenere un altissimo livello di dettaglio, regalandoci tutto il dinamismo di una stampede, il furore delle battaglie, la bellezza della natura, tavole dal sapore più sognante, altre più cruente e terrene. Davvero uno dei pochi casi dove una storia non così memorabile non va a inficiare il lavoro di una artista così personale e riconoscibile. A mio modo di vedere uno dei Texoni più interessanti in assoluto, almeno per quel che concerne il reparto grafico, peccato non sia possibile ogni anno ammirare un'interpretazione del Tex così originale.

SERATE D'ANIMAZIONE

Avendo una bambina in età ancora pre-adolescenziale (ma ci siamo quasi ahimè), continuano ad essere frequenti le serate passate tutti insieme sul lettone a guardare film o cartoni animati dedicati ai ragazzi, purtroppo meno di un tempo dato che Laura cresce e sempre più spesso ha piacere di dedicarsi ai "suoi" telefilm le cui puntate vanno in replica a ciclo continuo, ovviamente lei le guarderebbe anche cento volte l'una. Quindi Alex & Co., Maggie e Bianca, Soy Luna, I Thundermen, School of Rock, etc... tutta roba che mamma e papà anche no, please. Però ancora qualcosina insieme si riesce a vedere, alcune di queste cose riescono ancora ad accontentare più o meno tutti. In questi giorni abbiamo dato un'occhiata a...


SI SENTE IL MARE
(Umi ga kikoeru di Tomomi Mochizuki, 1993)

È partita la ricerca dei film minori dello Studio Ghibli, factory d'eccezione fondata dai maestri Miyazaki e Takahata che già in passato, oltre ai comprovati capolavori noti a tutti, ci aveva riservato delle bellissime sorprese. Si sente il mare è forse una delle produzioni meno conosciute dello studio, prodotto per la televisione giapponese, il lungometraggio (poco più di un'ora) vede quella che al momento è l'unica regia di Mochizuki per lo Studio Ghibli. Più vicino per temi e sensibilità ai primi lavori di Takahata (pur con i dovuti distinguo) che non alle tematiche ecologiste e spirituali di Miyazaki, il lavoro di Mochizuki non riesce però a raggiungerne le vette pur rimanendo un'opera tutto sommato godibile anche se ascrivibile tra le cose meno impressionanti dello Studio. Triangolo sentimentale tra Taku, giovane studente impiegato part-time in un ristorante in qualità di lavapiatti, il suo amico e coetaneo Yutaka, legato a Taku fin dai tempi di alcune proteste studentesche portate avanti insieme, e la giovane Rikako, studentessa appena trasferitasi a Kōchi dalla capitale Tokyo. Una storia d'amore molto trattenuto, interiorizzato, adatta a un pubblico più o meno coetaneo dei protagonisti o più giovane, delicato nella narrazione, lineare e priva di particolari sussulti, se ne apprezza il versante grafico, l'animazione giapponese quando ben realizzata riserva un piacere per l'occhio che in qualche modo arriva al cuore, un piacere diverso e spesso precluso allo spettatore di tanta animazione statunitense anche ben più blasonata. Non il meglio di Ghibli ma un film al quale una visione la si può concedere. Ad ogni modo Laura non ha apprezzato molto.



LA RICOMPENSA DEL GATTO
(Neko no ongaeshi di Hiroyuki Morita, 2002)

Film più recente dello Studio Ghibli e nato come spin-off de I sospiri del mio cuore, bel film d'animazione che avevamo visto già qualche anno fa con Laura dove comparivano brevemente alcuni personaggi qui invece protagonisti. In questo lungometraggio di Morita la componente fantastica è predominante. La giovane Haru salva un gatto che sta per essere investito da un camion, il gatto in questione però non è un gatto qualunque bensì il principe dei gatti, figlio del re dei gatti il quale, per mostrare tutta la sua gratitudine ad Haru inizia a farla inseguire da un branco di gatti fino a riuscire a trasportarla ne loro regno allo scopo di farla maritare con il principe. Solo i funzionari dell'Ufficio Affari dei Gatti, l'aristocratico Baron e l'ex delinquente Muta, potranno dare una mano a Haru per tornare nel mondo degli umani, ovviamente la bambina non vuole saperne di sposare un gatto. Film divertente e spensierato, graziato come al solito dai bellissimi disegni dello studio e da diversi personaggi davvero ben riusciti e adorabili. Mancano i grandi temi, i percorsi di crescita qui lambiti superficialmente, ciò nonostante il film si rivela un divertissement che non delude, non di certo all'altezza dell'opera nella quale i personaggi sono stati creati ma comunque una bella visione, da Laura sicuramente più apprezzata della precedente.



CICOGNE IN MISSIONE
(Storks di Nicholas Stoller e Doug Sweetland, 2016)

Saltiamo in America per il secondo lungo della rinata Warner Bros Animation, Cicogne in missione. Una volta le cicogne portavano i bambini, poi accadde che una di queste si affezionò troppo alla bimba a lei affidata mancando la consegna e facendo saltare il sistema. Così la bimba, Tulip, rimase tra le cicogne e il gran capo Hunter decise di riconvertire il sistema creando la Cornerstore.com, azienda chiaramente ispirata ad Amazon per la quale le cicogne consegnano rapidamente ogni tipo di merce, un po' come a breve faranno i droni per Amazon. I bimbi quindi ora tocca farseli da soli. Tempo di promozioni, Junior potrebbe diventare il nuovo capo ma deve far fuori Tulip che non riesce a combinarne una giusta, poi mettici un po' di buon cuore, un po' di rimorsi di coscienza, dalla situazione, complice anche il desiderio del piccolo Nate di avere un fratellino, viene fuori un gran casino e le cicogne dovranno ricominciare in fretta e furia a consegnare bambini con conseguente inizio dell'avventura per Tulip e Junior. Divertente film per i più piccoli, senza troppi sottotesti per gli adulti ma comunque godibile. Createvi la famiglia che più vi piace, dove possa esserci più amore, che possa far star meglio tutti quanti. Ma soprattutto dedicate più tempo ai vostri figli, divertitevi con loro, fate le cazzate, mettete un po' da parte i soldi, il lavoro, fate i minchioni. Non male come messaggio, io mi ci ritrovo alla grande. Soprattutto per la parte del minchione. Alla prossima.

mercoledì 6 dicembre 2017

54

(di Wu Ming, 2002)

Wu Ming è un collettivo, transfuga da un precedente progetto a sua volta ancor più che collettivo denominato Luther Blissett, un progetto che diede alla luce nel 1999 lo splendido romanzo storico Q. Il termine cinese Wu Ming significa "senza nome", in realtà il gruppo di scrittori che sta dietro al nom de plume Wu Ming dei nomi veri e propri li ha, sono tutti anche noti, si tratta di Roberto Bui (Wu Ming 1), Giovanni Cattabriga (Wu Ming 2), Luca Di Meo (Wu Ming 3), Federico Guglielmi (Wu Ming 4) e Riccardo Pedrini (Wu Ming 5), autori di questo 54 e di una serie di altri romanzi, alcuni scritti a dieci mani, altri firmati da singoli componenti di questo talentuoso gruppo. Evitando di soffermarci sulla posizione da anti-divi della letteratura sostenuta dai componenti di Wu-Ming, scrittori dai volti pressoché sconosciuti, concentriamoci invece su una delle loro prime opere, 54, romanzo che possiamo definire storico seppur ambientato nel corso del secolo scorso, un tempo a noi ancora vicino, proprio in quel 1954 evocato dal titolo del libro.

È un romanzo corale 54, una storia che unisce in qualche modo le esistenze di personaggi molto diversi tra loro, per indole, provenienza, estrazione sociale, vissuti, una storia che mescola scenari ed episodi reali, appartenenti alla Storia con la maiuscola, protagonisti di fantasia o solo ispirati a persone realmente esistite ad altri invece noti a chiunque. Nella struttura, in chiave minore volendo, 54 potrebbe ricordare il lavoro svolto sulla Storia americana da James Ellroy, qui riportato e omaggiato da Wu Ming in chiave nostrana.

Siamo appunto nel 1954, la guerra è terminata da qualche tempo, c'è un paese in via di ricostruzione, un paese alla ricerca di un'identità politica, diviso tra eredi ideologici di quello che era il blocco sovietico (gli ex partigiani, il Partito Comunista) e i simpatizzanti del regime fascista, qui meno sotto i riflettori rispetto ai loro avversari. È un concatenarsi di piccoli e grandi eventi, di imprevisti, di incontri bizzarri e di malaffare che consente al collettivo Wu Ming di presentarci quello che era uno spaccato dell'Italia del periodo, una descrizione resa vivida e credibile dalla cultura inattaccabile di questi cinque scrittori. Si trattava per il ritorno di Trieste all'Italia, il blocco sovietico e quello occidentale tiravano per la giacca la zona dei Balcani e il suo leader, il maresciallo Tito, su più fronti ci si adoperava per instaurare una supremazia anche culturale, era l'epoca del Socialismo da una parte e del Senatore McCarthy dall'altra, la droga iniziava a circolare copiosa, i soldi anche. In questo scenario si muovono personaggi che daranno vita a strane combinazioni e improbabili incastri.

Steve Cemento è il guardaspalle di Salvatore Lucania, meglio noto come Lucky Luciano, si trova a Napoli per stare vicino al boss, sente la nostalgia della sua New York, sta pensando a una pensione anticipata. A Bologna il bar Aurora brulica di varia umanità, il vecchio Garibaldi, il battagliero Bottone, sempre pronto a chiacchiere a nuclearizzare chiunque non gli vada a genio, se solo avesse la possibilità di premere quel maledetto bottone..., il pugliese Walterun, il proprietario Capponi ma tra tutti spicca suo fratello minore Robespierre, per tutti Pierre, incontrastato re della filuzzi, variante di liscio in voga nelle balere bolognesi. McGuffin è un televisore americano, ultimo modello, proprio (e volutamente) come l'omonimo espediente narrativo, contribuisce a sostenere il ritmo della vicenda, incrocerà la strada del delinquentello Salvatore Pagano, destinato a una discreta escalation nel giro di poco tempo. Cary Grant è uno degli uomini più amati dalle donne, sinonimo di eleganza, attore in fase di stanca in procinto di intraprendere la via per una seconda giovinezza. Ettore è un ex partigiano, combattente riciclatosi nel contrabbando, altro guerriero è il padre dei fratelli Capponi, in esilio in Jugoslavia, Angela è la moglie infedele del dottor Montroni, uno dei maggiori esponenti del Partito Comunista in quel di Bologna. Tony è un ciccione sgradevole, nodo cruciale per una french-connection tutta delinquenziale. Criminali, gente anonima, attori famosi, delinquenti di mezza tacca, idealisti, persone oneste, elettrodomestici, combattenti... un miscuglio d'elementi capace di dar vita a un romanzo appassionante, denso di contenuti e allo stesso tempo molto divertente.

Wu Ming, già col precedente moniker Luther Blissett, ha dimostrato di essere in grado di imbastire vicende all'apparenza complesse riuscendo a tirarne fuori romanzi allo stesso tempo densi e leggiadri che si lasciano leggere con enorme piacere grazie a uno stile di scrittura fluido, mai pesante o pedante, pur infarcendo la storia narrata di numerosi spunti di approfondimento. È uno stile narrativo, proprio in relazioni a diversi scritti di Wu Ming (e non solo), qui da noi definito anche New Italian Epic, uno stile che trovo personalmente molto efficace e, gusto personale, a me molto congeniale. Il miscuglio di scenari reali e opera di fantasia qui raggiunge risultati davvero apprezzabili. Per conoscere. Per divertirsi. A un libro cosa chiedere di più?

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