(di Matteo Garrone, 2015)
Usando una versione lievemente imbastardita di un ossimoro, potremmo affermare che Il racconto dei racconti è un film meravigliosamente noioso. Durante la visione dell'opera di Matteo Garrone mi sono annoiato a più riprese e allo stesso tempo sono contento d'aver visto il film, e ancor di più provo un grande piacere nel pensare che un film come questo Garrone abbia avuto il coraggio di realizzarlo e l'abbia girato qui in Italia. Non sono pazzo, questo lo dico giusto per tranquillizzarvi, almeno non credo di esserlo e in ogni caso, che lo sia o meno, nessuno ha ancora diagnosticato la mia pazzia, quindi fino a prova contraria mi avvalgo della facoltà di credere di esser sano. Sono fermamente convinto che, appurato il ristagnare nel campo della commedi(ol)a nel quale il Cinema italiano è ormai da anni impantanato, tutti i tentativi di creare qualcosa di diverso, di osare ed esplorare generi differenti, vadano lodati se non in alcuni casi addirittura santificati. Sotto questo punto di vista con Il racconto dei racconti Matteo Garrone crea una vera meraviglia, un film che lascia a bocca aperta per il dispiego di energie messe in campo. Si parte dall'adattamento per immagini di tre brevi novelle, delle fiabe in realtà, che affondano nella tradizione popolare, popolana ancor meglio, fiabe tratte da Lo cunto de li cunti, opera del campano Giambattista Basile che negli anni 30 del '600 imbastisce un opera simile al Decamerone di Boccaccio, una raccolta di novelle dal sapore fantastico al quale Garrone guarda per il suo film. Ne esce una sorta di fantasy nostrano che regge benissimo la concorrenza di prodotti internazionali in virtù dell'ottimo lavoro svolto dai comparti tecnici e grazie a un cast di prim'ordine che dispiega fior di attori provenienti da diverse nazioni.
Assistiamo a tre storie amalgamate in un'unica narrazione nella quale i protagonisti dei tre sviluppi si lambiscono solo accidentalmente senza mai influenzare le vicende l'uno degli altri. Tre regnanti, tre regni, una serie di location maestose, fiabesche, selezioni di un territorio italiano spaventosamente bello, castelli all'apparenza inespugnabili, dimore incantevoli, borghi pittoreschi, natura selvaggia e incontaminata, un Paese ritratto nei suoi tratti più meravigliosi, messo completamente al servizio della narrazione e che crea un proscenio naturale sul quale muovere i personaggi diventa oltremodo facile. E che personaggi, signori, vien da dire! Il cast messo in scena da Garrone è stellare: nel regno di Selvascura i regnanti sono la Regina Salma Hayek e il Re John C. Reilly, coppia che non riesce a procreare e che darà frutto solo grazie all'intervento di un negromante e a un grandissimo sacrificio. In seguito al sortilegio attuato per dare un erede alla Regina, le gravidanze saranno due, quella reale e quella di una popolana, due figli identici e albini (Christian e Jordan Lees) che diverranno inseparabili a dispetto del parere contrario della Regina. Il Re di Roccaforte, un viscido Vincent Cassel, invece è un lussurioso perdigiorno che in testa ha una cosa sola (e all'epoca non c'era il calcio e non c'erano le auto); innamoratosi di una donzella dalla voce angelica cade in un tragico errore, la donna è in realtà una vecchia megera che farà di tutto per protrarre la conveniente situazione. Ad Altomonte il regnante Toby Jones (tanto di cappello) tenta con diversi mezzucci di tenere legata a sé la figlia Viola (Bebe Cave), fanciulla che si avvicina a grandi passi all'età da marito, distratto dall'arrivo di una pulce gigante perderà di vista l'interesse per la figlia mettendo il frutto dei suoi stessi lombi in serio pericolo. Ma le donne, si sa, hanno una marcia in più.
I costumi di Parrini sono lussuosi, calzano alla perfezione agli attori e al racconto, la regia di Garrone ci restituisce immagini deliziose, le musiche di Alexandre Desplat sono quanto di più indovinato si potesse scegliere per questo film, le scenografie di Capuani incontestabili, il comparto attoriale nostrano è garantito dai circensi interpretati da Massimo Ceccherini e Alba Rohrwacher, la fotografia di Peter Suschitzky illumina tutto alla perfezione. Il racconto dei racconti è un'opera magniloquente, indiscutibile, che è riuscita a tediarmi non poco. Ma nulla è rimproverabile a Garrone o al film, tutto deriva da una mia personale idiosincrasia per ciò che è fiabesco o fantasy, per un tipo di racconto popolare che semplicemente non tocca le mie corde. In fondo il film non mi è piaciuto un granché ma pazienza, ben vengano film come questo, autori coraggiosi capaci di portarci fuori dalla provincia, lontano dalle dispute dialettali, dai tradimenti, dai quarantenni persi e immaturi, dalle seghe mentali sui cellulari, dalle tette e dai culi in vacanza al mare. Non mi è piaciuto, ma in qualche modo lo ho amato.
martedì 29 gennaio 2019
domenica 27 gennaio 2019
UN GUSTO PER LA MORTE
(A taste for death di P. D. James, 1986)
Erano ormai diversi anni che non prendevo in mano un libro della James, scrittrice di romanzi gialli (con l'eccezione del fantascientifico I figli degli uomini) e creatrice della saga dell'Ispettore Adam Dalgliesh. Nel 1986, anno d'uscita de Un gusto per la morte, la signora James conta già sessantasei primavere essendo nata nel 1920 a Oxford, è madre di due figlie, vedova, membro della Camera dei Lord inglese sul versante conservatore. Queste brevi note biografiche, che possono sembrare elencate nelle prime righe di questo post unicamente per prassi e con funzione conoscitiva, si rivelano invece importanti per spiegare e avvalorare le motivazioni che mi hanno fatto apprezzare questo libro (e la prosa della James) ben più di quanto avrei pensato di fare a inizio lettura. Pur avendo già letto altri romanzi della scrittrice, magari in anni di minor consapevolezza letteraria, il mio giudizio sulla stessa, già buono, la relegava con alcune importanti differenze sulla scia dei maestri del giallo classico inglese, a (in)seguire i grandi come Agatha Christie o Conan Doyle. La distanza rimane, però oggi sono un po' più pronto ad affermare come la James sia un'ottima scrittrice (tanto che mi è anche venuta la voglia di recuperare altri suoi libri, appartenenti a un genere che sto negli anni abbandonando quasi totalmente). Un'ottima prosa con caratteristiche che difficilmente si assocerebbero a una signora della sua età, con la sua educazione e il suo aspetto sempre molto compito da tipica nonnina inglese intenta a sorseggiare un buon te, magari in compagnia dei nipotini (che non ho idea se avesse o meno). La scrittura della James, sempre connotata da una spiccata eleganza, non ha remore di scavare nel sudicio, nella crudeltà dell'uomo, nei peggiori vizi di poveracci e privilegiati, con un'inclinazione che colpisce nel palesare, sempre con classe e in maniera irreprensibile, anche le abitudini più sconvenienti in fatto di inclinazioni sessuali dei suoi personaggi, aspetto che non ci si aspetterebbe di trovare negli scritti di quella che all'epoca dell'uscita del romanzo era un'arzilla vecchietta ormai attempata (e che ci ha lasciati nel novembre del 2014 all'età di novantaquattro anni).
Proprio la prosa della James, più che l'intreccio giallo molto classico, è ciò che in misura maggiore si apprezza leggendo Un gusto per la morte, colpiscono molto le descrizioni dei luoghi, delle vie di Londra; quelle dei posti noti riportano in maniera vivida alla mente luoghi magari visitati in passato, quelle relative invece ad ambienti meno noti o semplicemente sconosciuti al lettore, invogliano a usare moderni strumenti come lo Street View di Google per andare a curiosare tra le ambientazioni descritte nel romanzo. Ottimo il lavoro sulla costruzione dei personaggi che sembrano persone reali a tutto tondo: Dalgliesh, ormai Comandante, cresce romanzo dopo romanzo con la sua indole malinconica, il profondo rispetto per la vita umana (e per la morte) e i suoi dubbi sul corretto operato, etico e morale, delle stesse forze dell'ordine. Forse ancor meglio tratteggiati sono l'Ispettore Capo Massingham e la detective Kate Miskin, il primo discendente da una famiglia di privilegiati, un uomo all'apparenza solitario e vagamente misogino ma non privo di moti d'empatia e comprensione che crea un bel contrasto con la sveglia Kate Miskin, una donna che arriva dalla povertà, da situazioni familiari difficili, proiettata verso una carriera brillante e desiderosa di crearsi una vita piena di riconoscimenti, sul lavoro ma anche legati a una certa idea di status sociale. Questi contesti creano una bella dinamica tra i due colleghi, estrazioni differenti, guerra dei sessi, ambizioni. Questo tipo di lavoro, anche se in misura minore, viene riportato anche sui personaggi coinvolti nel caso, andando a creare un insieme molto interessante di caratteri e sviluppi strutturati in maniera molto convincente. In questo sta la vera maestria della James.
Da qualche tempo il Comandante Dalgliesh è stato incaricato di formare una squadra speciale che andrà ad occuparsi di delitti delicati e legati alle questioni di Stato. L'incarico ancora non è ufficiale ma il Comandante ha già reclutato l'ispettore Massingham, inoltre, reputando necessaria e utile la presenza di una mente femminile nel team, chiama a collaborare con la squadra l'agente Miskin per la quale Dalgliesh nutre un profondo rispetto. Quando Miss Wharton, in compagnia del piccolo Darren, scopre all'interno della chiesa di St. Matthew i cadaveri del deputato Paul Berowne e del vagabondo Henry Mack, per la squadra di Dalgliesh si presenta l'occasione per iniziare il rodaggio sul campo. Per il Comandante sarà un'indagine un po' dolorosa a causa della conoscenza, seppur superficiale, con la vittima. Per Massingham sarà l'occasione di affermare la sua posizione, per Kate quella per emergere. Nell'ambiente altolocato della famiglia Berowne sembrano invece in troppo pochi ad interessarsi alla morte dell'uomo politico, una scarsa empatia che renderà sospettabili molte delle persone coinvolte nell'indagine.
Un buon romanzo giallo nel quale si apprezza più il contorno che non le dinamiche legate al caso, comunque puntuali e convincenti. La scrittura della James ci immerge in altri luoghi, completamente, senza mai trascurare la credibilità dei personaggi. Non male come esito per un romanzo di questo tipo.
Erano ormai diversi anni che non prendevo in mano un libro della James, scrittrice di romanzi gialli (con l'eccezione del fantascientifico I figli degli uomini) e creatrice della saga dell'Ispettore Adam Dalgliesh. Nel 1986, anno d'uscita de Un gusto per la morte, la signora James conta già sessantasei primavere essendo nata nel 1920 a Oxford, è madre di due figlie, vedova, membro della Camera dei Lord inglese sul versante conservatore. Queste brevi note biografiche, che possono sembrare elencate nelle prime righe di questo post unicamente per prassi e con funzione conoscitiva, si rivelano invece importanti per spiegare e avvalorare le motivazioni che mi hanno fatto apprezzare questo libro (e la prosa della James) ben più di quanto avrei pensato di fare a inizio lettura. Pur avendo già letto altri romanzi della scrittrice, magari in anni di minor consapevolezza letteraria, il mio giudizio sulla stessa, già buono, la relegava con alcune importanti differenze sulla scia dei maestri del giallo classico inglese, a (in)seguire i grandi come Agatha Christie o Conan Doyle. La distanza rimane, però oggi sono un po' più pronto ad affermare come la James sia un'ottima scrittrice (tanto che mi è anche venuta la voglia di recuperare altri suoi libri, appartenenti a un genere che sto negli anni abbandonando quasi totalmente). Un'ottima prosa con caratteristiche che difficilmente si assocerebbero a una signora della sua età, con la sua educazione e il suo aspetto sempre molto compito da tipica nonnina inglese intenta a sorseggiare un buon te, magari in compagnia dei nipotini (che non ho idea se avesse o meno). La scrittura della James, sempre connotata da una spiccata eleganza, non ha remore di scavare nel sudicio, nella crudeltà dell'uomo, nei peggiori vizi di poveracci e privilegiati, con un'inclinazione che colpisce nel palesare, sempre con classe e in maniera irreprensibile, anche le abitudini più sconvenienti in fatto di inclinazioni sessuali dei suoi personaggi, aspetto che non ci si aspetterebbe di trovare negli scritti di quella che all'epoca dell'uscita del romanzo era un'arzilla vecchietta ormai attempata (e che ci ha lasciati nel novembre del 2014 all'età di novantaquattro anni).
Proprio la prosa della James, più che l'intreccio giallo molto classico, è ciò che in misura maggiore si apprezza leggendo Un gusto per la morte, colpiscono molto le descrizioni dei luoghi, delle vie di Londra; quelle dei posti noti riportano in maniera vivida alla mente luoghi magari visitati in passato, quelle relative invece ad ambienti meno noti o semplicemente sconosciuti al lettore, invogliano a usare moderni strumenti come lo Street View di Google per andare a curiosare tra le ambientazioni descritte nel romanzo. Ottimo il lavoro sulla costruzione dei personaggi che sembrano persone reali a tutto tondo: Dalgliesh, ormai Comandante, cresce romanzo dopo romanzo con la sua indole malinconica, il profondo rispetto per la vita umana (e per la morte) e i suoi dubbi sul corretto operato, etico e morale, delle stesse forze dell'ordine. Forse ancor meglio tratteggiati sono l'Ispettore Capo Massingham e la detective Kate Miskin, il primo discendente da una famiglia di privilegiati, un uomo all'apparenza solitario e vagamente misogino ma non privo di moti d'empatia e comprensione che crea un bel contrasto con la sveglia Kate Miskin, una donna che arriva dalla povertà, da situazioni familiari difficili, proiettata verso una carriera brillante e desiderosa di crearsi una vita piena di riconoscimenti, sul lavoro ma anche legati a una certa idea di status sociale. Questi contesti creano una bella dinamica tra i due colleghi, estrazioni differenti, guerra dei sessi, ambizioni. Questo tipo di lavoro, anche se in misura minore, viene riportato anche sui personaggi coinvolti nel caso, andando a creare un insieme molto interessante di caratteri e sviluppi strutturati in maniera molto convincente. In questo sta la vera maestria della James.
Da qualche tempo il Comandante Dalgliesh è stato incaricato di formare una squadra speciale che andrà ad occuparsi di delitti delicati e legati alle questioni di Stato. L'incarico ancora non è ufficiale ma il Comandante ha già reclutato l'ispettore Massingham, inoltre, reputando necessaria e utile la presenza di una mente femminile nel team, chiama a collaborare con la squadra l'agente Miskin per la quale Dalgliesh nutre un profondo rispetto. Quando Miss Wharton, in compagnia del piccolo Darren, scopre all'interno della chiesa di St. Matthew i cadaveri del deputato Paul Berowne e del vagabondo Henry Mack, per la squadra di Dalgliesh si presenta l'occasione per iniziare il rodaggio sul campo. Per il Comandante sarà un'indagine un po' dolorosa a causa della conoscenza, seppur superficiale, con la vittima. Per Massingham sarà l'occasione di affermare la sua posizione, per Kate quella per emergere. Nell'ambiente altolocato della famiglia Berowne sembrano invece in troppo pochi ad interessarsi alla morte dell'uomo politico, una scarsa empatia che renderà sospettabili molte delle persone coinvolte nell'indagine.
Un buon romanzo giallo nel quale si apprezza più il contorno che non le dinamiche legate al caso, comunque puntuali e convincenti. La scrittura della James ci immerge in altri luoghi, completamente, senza mai trascurare la credibilità dei personaggi. Non male come esito per un romanzo di questo tipo.
venerdì 25 gennaio 2019
LITTLE ODESSA
(di James Gray, 1994)
Little Odessa è il film di un regista all'esordio che contiene in nuce gli elementi, gli stilemi e un tipo di narrazione che con maggiore maturità si concretizzeranno nelle opere successive di James Gray, autore a inizio carriera sicuramente non troppo prolifico, da questo film alla realizzazione de I padroni della notte di cui abbiamo parlato qualche giorno fa trascorrono infatti ben tredici anni, riempiti solo dall'opera seconda The Yards: tre film in quasi tre lustri, sicuramente una maturazione artistica ben ponderata. È un esordio questo molto compatto, essenziale, poco spettacolare, all'apparenza povero e stilisticamente retrodatato, un film scandito da un incedere coerente e privo di scene madri, costante nei toni, privo di esplosioni (non solo materiali) di qualsiasi tipo se non quella emozionale scatenata dalle sequenze finali. Little Odessa racconta una storia che si costruisce scena dopo scena, minuto dopo minuto, senza concedere né divagazioni né soprassalti allo spettatore, corre dritta per il suo sentiero, magari brullo e scosceso, per alcuni versi anche deprimente, racconta un mondo, un ambiente ripreso anche nei film successivi di Gray con esiti sicuramente più accattivanti.
Little Odessa è un quartiere del distretto di Brooklyn, città di New York, storicamente associato all'immigrazione di matrice russa. La famiglia Shapira, russi di religione israelita, vive nel quartiere in qualche modo governato dal boss Boris Volkov (Paul Guilfoyle) che con il primogenito di Arkady Shapira (Maximilian Schell) ha più d'un conto in sospeso. Questo figlio degenere, Joshua (Tim Roth), è un sicario a pagamento che proprio a causa dei contrasti con il boss di Little Odessa è in esilio forzato lontano da Brooklyn ormai da diverso tempo. Con l'occasione di un lavoretto da portare a termine proprio nel vecchio quartiere, Joshua torna ai suoi luoghi, non passerà molto tempo prima che qualcuno noti il ritorno del "figliol prodigo" che non ha mai perso un posto di rilievo nel cuore del fratello più giovane, l'ormai adolescente Reuben (Edward Furlong). Tra le strade di Brighton Beach Joshua troverà i suoi vecchi amici, la sua ex fiamma Alla (Moira Kelly), i contrasti con suo padre che per questo figlio prova vergogna e sconforto, l'amore del fratello e una madre malata in fin di vita (Vanessa Redgrave). Troverà anche la vendetta del boss?
Come accadrà anche per I padroni della notte, seppur con dinamiche differenti, sotto i riflettori ci sono i legami familiari, inscindibili ma portatori sempre di dolore e sofferenza. Per Joshua c'è il ricordo di un padre onesto ma violento, che disprezza il figlio e ripone le speranze nel secondogenito, un uomo stanco che accudisce una moglie morente e allo stesso tempo la tradisce con la più bella e giovane amante. Reuben è perso tra la malattia della madre, l'assenza del fratello e il dover nascondere al padre di aver ormai abbandonato la scuola. La madre, come solo le donne sanno fare, è pietosa verso tutti, compreso quel figlio assassino, nonostante il dolore del cancro. L'esistenza degli Shapira a Little Odessa ha il sapore della condanna, in una tragedia dai toni shakespeariani anche l'unica speranza per il futuro rischia di essere stroncata prima ancora di nascere.
Tutto, dalla fotografia alla regia, finanche la recitazione di attori sicuramente di razza come Tim Roth, risulta dimesso, volutamente sottotono, quasi abbruttito, opaco, privo di speranze come lo sono le vite dei protagonisti, avviate su un percorso di disillusione e dolore. Mettendo il film in prospettiva, come inizio di carriera di un regista che guarda molto al Cinema classico americano di un certo tipo, Little Odessa è da considerarsi un buon esordio, film di sicuro valore, ancora grezzo e certamente migliorabile, che però è stato utile per James Gray come affermazione di una strada artistica perseguibile, affermazione confermata dai numerosi premi ricevuti dall'opera prima, su tutti il Leone d'Argento e la Coppa Volpi per la Redgrave al Festival di Venezia. James Gray incarna la speranza di un ricambio generazionale, necessario e prezioso in vista della futura (ahimè inevitabile) dipartita di alcuni vecchi leoni ai quali noi tutti siamo sinceramente legati e che si avviano purtroppo verso un'età quanto meno veneranda. Gente insostituibile alla quale comunque probabilmente farà piacere sapere di avere qualche discepolo degno del loro nome.
Little Odessa è il film di un regista all'esordio che contiene in nuce gli elementi, gli stilemi e un tipo di narrazione che con maggiore maturità si concretizzeranno nelle opere successive di James Gray, autore a inizio carriera sicuramente non troppo prolifico, da questo film alla realizzazione de I padroni della notte di cui abbiamo parlato qualche giorno fa trascorrono infatti ben tredici anni, riempiti solo dall'opera seconda The Yards: tre film in quasi tre lustri, sicuramente una maturazione artistica ben ponderata. È un esordio questo molto compatto, essenziale, poco spettacolare, all'apparenza povero e stilisticamente retrodatato, un film scandito da un incedere coerente e privo di scene madri, costante nei toni, privo di esplosioni (non solo materiali) di qualsiasi tipo se non quella emozionale scatenata dalle sequenze finali. Little Odessa racconta una storia che si costruisce scena dopo scena, minuto dopo minuto, senza concedere né divagazioni né soprassalti allo spettatore, corre dritta per il suo sentiero, magari brullo e scosceso, per alcuni versi anche deprimente, racconta un mondo, un ambiente ripreso anche nei film successivi di Gray con esiti sicuramente più accattivanti.
Little Odessa è un quartiere del distretto di Brooklyn, città di New York, storicamente associato all'immigrazione di matrice russa. La famiglia Shapira, russi di religione israelita, vive nel quartiere in qualche modo governato dal boss Boris Volkov (Paul Guilfoyle) che con il primogenito di Arkady Shapira (Maximilian Schell) ha più d'un conto in sospeso. Questo figlio degenere, Joshua (Tim Roth), è un sicario a pagamento che proprio a causa dei contrasti con il boss di Little Odessa è in esilio forzato lontano da Brooklyn ormai da diverso tempo. Con l'occasione di un lavoretto da portare a termine proprio nel vecchio quartiere, Joshua torna ai suoi luoghi, non passerà molto tempo prima che qualcuno noti il ritorno del "figliol prodigo" che non ha mai perso un posto di rilievo nel cuore del fratello più giovane, l'ormai adolescente Reuben (Edward Furlong). Tra le strade di Brighton Beach Joshua troverà i suoi vecchi amici, la sua ex fiamma Alla (Moira Kelly), i contrasti con suo padre che per questo figlio prova vergogna e sconforto, l'amore del fratello e una madre malata in fin di vita (Vanessa Redgrave). Troverà anche la vendetta del boss?
Come accadrà anche per I padroni della notte, seppur con dinamiche differenti, sotto i riflettori ci sono i legami familiari, inscindibili ma portatori sempre di dolore e sofferenza. Per Joshua c'è il ricordo di un padre onesto ma violento, che disprezza il figlio e ripone le speranze nel secondogenito, un uomo stanco che accudisce una moglie morente e allo stesso tempo la tradisce con la più bella e giovane amante. Reuben è perso tra la malattia della madre, l'assenza del fratello e il dover nascondere al padre di aver ormai abbandonato la scuola. La madre, come solo le donne sanno fare, è pietosa verso tutti, compreso quel figlio assassino, nonostante il dolore del cancro. L'esistenza degli Shapira a Little Odessa ha il sapore della condanna, in una tragedia dai toni shakespeariani anche l'unica speranza per il futuro rischia di essere stroncata prima ancora di nascere.
Tutto, dalla fotografia alla regia, finanche la recitazione di attori sicuramente di razza come Tim Roth, risulta dimesso, volutamente sottotono, quasi abbruttito, opaco, privo di speranze come lo sono le vite dei protagonisti, avviate su un percorso di disillusione e dolore. Mettendo il film in prospettiva, come inizio di carriera di un regista che guarda molto al Cinema classico americano di un certo tipo, Little Odessa è da considerarsi un buon esordio, film di sicuro valore, ancora grezzo e certamente migliorabile, che però è stato utile per James Gray come affermazione di una strada artistica perseguibile, affermazione confermata dai numerosi premi ricevuti dall'opera prima, su tutti il Leone d'Argento e la Coppa Volpi per la Redgrave al Festival di Venezia. James Gray incarna la speranza di un ricambio generazionale, necessario e prezioso in vista della futura (ahimè inevitabile) dipartita di alcuni vecchi leoni ai quali noi tutti siamo sinceramente legati e che si avviano purtroppo verso un'età quanto meno veneranda. Gente insostituibile alla quale comunque probabilmente farà piacere sapere di avere qualche discepolo degno del loro nome.
giovedì 24 gennaio 2019
CARNAGE
(di Roman Polanski, 2011)
Carnage è un film di altissimo valore nel quale Roman Polanski riesce a mantenere in un equilibrio perfetto lo stampo teatrale originario dell'opera (il dramma di Yasmina Reza Il Dio del massacro) e una costruzione che rientra a pieno diritto nella categoria del grande Cinema. La prima scena è ripresa in camera fissa, proprio come se lo spettatore fosse seduto nella poltrona di un teatro, eppure la prima è anche l'unica scena in esterni, siamo in un parco dall'altra parte del fiume rispetto al famoso skyline di New York, un gruppo di bambini gioca in lontananza, le musiche di Alexandre Desplat accompagnano i giochi in tono allegro, il gruppo di bambini si muove, lo score musicale si incupisce, diventa tribale, inizia un alterco, un bastone colpisce un volto. Il gioco al massacro può cominciare.
Nell'appartamento dei coniugi Longstreet, Penelope (Jodie Foster) e Michael (John C. Reilly), genitori del bambino offeso che si ritrova con un labbro gonfio e due denti di meno, vengono invitati i Cowan, genitori dell'aggressore, coppia composta da Nancy (Kate Winslet) e dal marito Alan (Christoph Waltz). Lo scopo dell'incontro è quello di risolvere la questione in maniera civile; nelle intenzioni poco nascoste e parecchio prevedibili di Penelope c'è quella di dimostrare quanto la piccola (gretta?) classe alto-borghese si sia emancipata dai bassi istinti e di come sia in grado di gestire relazioni adulte e mature con dei perfetti sconosciuti in una situazione più o meno delicata (e della quale in fondo frega poco a nessuno, a parte forse proprio a Penelope, bambini inclusi). Le due coppie partono con le migliori intenzioni: scrivono una relazione, si accertano dello stato di salute dei rispettivi figli, portano avanti cordialmente (ma con vistose punte di fastidio) tutta una serie di inutili convenevoli. Arriva poi il momento in cui si dovrebbe dare un taglio al tutto, i Conway dovrebbero tornare a casa loro, ma quell'appartamento, quella sala, quel corridoio che porta all'ascensore, quel bagno, sembrano divenire una sorta di prigione impossibile da abbandonare, quasi come se un campo di forza alimentato dalla frase o dalla parola sbagliata impedisse al confronto di terminare, almeno finché l'ultimo "non detto" non sia stato esplicitato, l'ultima ritrosia superata, l'ultimo insulto proferito. Il dramma da camera cresce e cresce fino ad esplodere con feroce comicità, ci si diverte immensamente ammirando questi quattro attori superbi vomitarsi addosso parole (e non solo) d'accusa, di finta cortesia, di rimprovero, si assiste al massacro col sorriso ben stampato in faccia e la mente che di nascosto conta quante verità quei quattro meschini ci stanno servendo sul piatto, si ride, un po' ci si vergogna.
Il confronto non tocca solo l'episodio incriminato ma sfocia in un mare d'accuse sull'ipocrisia del borghese che smania per ripulirsi la coscienza con inutili opere finto-impegnate, sotto accusa finiscono la figura dell'uomo dedito unicamente al lavoro, quella del mediocre, il disinteresse per i figli, il finto interesse per i figli, la violenza repressa, l'istituzione matrimoniale castrante e falsa, la crudeltà, la mancanza d'empatia per il prossimo, scale di valori sballati e quasi tutto quello di negativo gli uomini e le donne della porta accanto (e anche noi lo siamo per qualcuno) riescono ogni giorno a spazzare con nonchalance sotto il classico tappeto. I panni sporchi si lavano in casa, solo che oggi in casa ci sono ospiti! Polanski questi ospiti, questi personaggi, li dirige magnificamente, li filma in maniera quasi commovente, li insegue, rende vivace un'unità di luogo e di tempo rischiosissima, li osserva nei panni di un inquilino (del terzo piano?) dall'appartamento di fronte, probabilmente li ama con tutti i loro difetti, forse li disprezza. Il quartetto di star non compie un gesto fuori posto, non sbaglia una parola, li si segue senza mai staccar loro gli occhi di dosso, nemmeno quando la Winslet ci vomita in faccia con una certa vigoria, nemmeno quando l'alcool entra in circolo e aumenta il novero dei danni, rendendo per alcuni dei protagonisti quella in questione la peggior giornata delle loro vite. In compenso il tutto riuscirà a rendere per lo spettatore la serata una delle migliori almeno dell'ultimo periodo. Capolavoro? In ogni caso lunga vita al massacro.
Carnage è un film di altissimo valore nel quale Roman Polanski riesce a mantenere in un equilibrio perfetto lo stampo teatrale originario dell'opera (il dramma di Yasmina Reza Il Dio del massacro) e una costruzione che rientra a pieno diritto nella categoria del grande Cinema. La prima scena è ripresa in camera fissa, proprio come se lo spettatore fosse seduto nella poltrona di un teatro, eppure la prima è anche l'unica scena in esterni, siamo in un parco dall'altra parte del fiume rispetto al famoso skyline di New York, un gruppo di bambini gioca in lontananza, le musiche di Alexandre Desplat accompagnano i giochi in tono allegro, il gruppo di bambini si muove, lo score musicale si incupisce, diventa tribale, inizia un alterco, un bastone colpisce un volto. Il gioco al massacro può cominciare.
Nell'appartamento dei coniugi Longstreet, Penelope (Jodie Foster) e Michael (John C. Reilly), genitori del bambino offeso che si ritrova con un labbro gonfio e due denti di meno, vengono invitati i Cowan, genitori dell'aggressore, coppia composta da Nancy (Kate Winslet) e dal marito Alan (Christoph Waltz). Lo scopo dell'incontro è quello di risolvere la questione in maniera civile; nelle intenzioni poco nascoste e parecchio prevedibili di Penelope c'è quella di dimostrare quanto la piccola (gretta?) classe alto-borghese si sia emancipata dai bassi istinti e di come sia in grado di gestire relazioni adulte e mature con dei perfetti sconosciuti in una situazione più o meno delicata (e della quale in fondo frega poco a nessuno, a parte forse proprio a Penelope, bambini inclusi). Le due coppie partono con le migliori intenzioni: scrivono una relazione, si accertano dello stato di salute dei rispettivi figli, portano avanti cordialmente (ma con vistose punte di fastidio) tutta una serie di inutili convenevoli. Arriva poi il momento in cui si dovrebbe dare un taglio al tutto, i Conway dovrebbero tornare a casa loro, ma quell'appartamento, quella sala, quel corridoio che porta all'ascensore, quel bagno, sembrano divenire una sorta di prigione impossibile da abbandonare, quasi come se un campo di forza alimentato dalla frase o dalla parola sbagliata impedisse al confronto di terminare, almeno finché l'ultimo "non detto" non sia stato esplicitato, l'ultima ritrosia superata, l'ultimo insulto proferito. Il dramma da camera cresce e cresce fino ad esplodere con feroce comicità, ci si diverte immensamente ammirando questi quattro attori superbi vomitarsi addosso parole (e non solo) d'accusa, di finta cortesia, di rimprovero, si assiste al massacro col sorriso ben stampato in faccia e la mente che di nascosto conta quante verità quei quattro meschini ci stanno servendo sul piatto, si ride, un po' ci si vergogna.
Il confronto non tocca solo l'episodio incriminato ma sfocia in un mare d'accuse sull'ipocrisia del borghese che smania per ripulirsi la coscienza con inutili opere finto-impegnate, sotto accusa finiscono la figura dell'uomo dedito unicamente al lavoro, quella del mediocre, il disinteresse per i figli, il finto interesse per i figli, la violenza repressa, l'istituzione matrimoniale castrante e falsa, la crudeltà, la mancanza d'empatia per il prossimo, scale di valori sballati e quasi tutto quello di negativo gli uomini e le donne della porta accanto (e anche noi lo siamo per qualcuno) riescono ogni giorno a spazzare con nonchalance sotto il classico tappeto. I panni sporchi si lavano in casa, solo che oggi in casa ci sono ospiti! Polanski questi ospiti, questi personaggi, li dirige magnificamente, li filma in maniera quasi commovente, li insegue, rende vivace un'unità di luogo e di tempo rischiosissima, li osserva nei panni di un inquilino (del terzo piano?) dall'appartamento di fronte, probabilmente li ama con tutti i loro difetti, forse li disprezza. Il quartetto di star non compie un gesto fuori posto, non sbaglia una parola, li si segue senza mai staccar loro gli occhi di dosso, nemmeno quando la Winslet ci vomita in faccia con una certa vigoria, nemmeno quando l'alcool entra in circolo e aumenta il novero dei danni, rendendo per alcuni dei protagonisti quella in questione la peggior giornata delle loro vite. In compenso il tutto riuscirà a rendere per lo spettatore la serata una delle migliori almeno dell'ultimo periodo. Capolavoro? In ogni caso lunga vita al massacro.
lunedì 21 gennaio 2019
SLOW WEST
(di John Maclean, 2015)
Si parla spesso di rinascita del genere western, quasi ogni volta che qualche regista di fama riesce a riportarlo sotto i riflettori, poi questa rinascita non decolla mai per davvero; allora si dice che il western è morto, agonizzante, però salta fuori sempre qualche nuova opera a riattizarne il fuoco. È complicata la vita del western in questi tempi oltremodo moderni, spesso gli esiti più riusciti che scavano nel genere sono contaminazioni (Westworld), rivisitazioni autoriali molto marcate (Django unchained o The hateful eight), western in qualche modo laterali al genere (Appaloosa ad esempio) o molto distanti dal canone classico come questo Slow West, un western come dice il titolo molto lento, riflessivo, che qui in Italia non è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nelle sale e che abbiamo potuto vedere solo grazie alla piattaforma Netflix.
Se è vero che Slow West, a parte la presenza di Michael Fassbender, avrebbe potuto avere poco appeal commerciale per richiamare il pubblico in sala, il mancato passaggio su grande schermo ha impedito agli amanti del genere di godere della splendida fotografia messa in scena da Robbie Ryan e soprattutto dei bellissimi panorami offerti dal film, parecchio distanti dal classico immaginario dello sporco west: molto verde, cieli infiniti, vegetazione ricca in forte contrasto con il mito del deserto e dei canyons. Proprio l'aspetto estetico rimane il più interessante nell'opera di Maclean che ripropone in modo atipico la violenza e il cinismo della vita del vecchio west, lo fa in maniera leggera, pensante, quasi simbolica, con ritmi blandi che si fanno sentire nonostante la durata davvero esigua del film non arrivi a contare nemmeno un'ora e mezza di minutaggio. Non è un film per tutti Slow West proprio a causa dei ritmi lenti, anche il protagonista è atipico per il genere; Jay Cavendish (Kodi Smith-McPhee) è quello che i pellerossa chiamerebbero un piedidolci, un ragazzino con l'indole da damerino poco adatta all'asprezza dell'ovest americano, un sognatore ingenuo non alla rincorsa di ricchezze o terre, nemmeno alla ricerca del sogno americano, Jay insegue semplicemente l'amore, la ragazza per cui ha perso la testa in quel di Scozia, la bella Rose Ross (Caren Pistorius). Per sua fortuna sulla strada incontra una sorta di fuorilegge dall'animo gentile, tal Silas (Michael Fassbender), che per un giusto prezzo si offre di scortare il giovane attraverso l'ovest fino alla piccola Rose, una donnina sicuramente più preparata di Jay a cavarsela in quel mondo selvaggio.
I due compagni di viaggio attraversano il Paese, i cavalli non galoppano mai, sono sempre al trotto lento, ci lasciano il tempo d'ammirare lo splendore dell'America (che in realtà è un po' Scozia, un po' Nuova Zelanda) di giorno, la poesia delle stelle la notte. Ma l'ovest, come l'est è un luogo duro, gli Stati Uniti si stanno facendo, costruendo, sulla violenza che Maclean ci mostra in maniera quasi grottesca, anche le esplosioni di questa violenza sono lente, distruggono l'innocenza, le vite, ma lasciano il tempo allo spettatore di rifletterci sopra e di prenderle anche con un tocco di leggiadria. Nel frattempo l'insolito duo fa strani incontri, si avvicina pian piano al climax della pellicola che si risolverà con l'inizio di una nuova vita, ma solo per qualcuno, perché quell'America non è un paese per tutti, proprio come il mondo di oggi non è un mondo per tutti. In quella violenza, in quella selezione innaturale, Maclean ci mette tutta la violenza e la selezione innaturale dell'oggi (leggi anche alla voce capitale).
Smith-McPhee e Fassbender sono una bella coppia agli antipodi e proprio per questo molto funzionante. Se per la sua rinascita il western deve passare anche da qui allora ben vengano film come Slow West, ma sono ancora convinto che di rinascita non si tratti e che il genere non sia ancora morto. Forse cova sotto la cenere aspettando il momento per un ritorno in scena fragoroso capace di riportare al vecchio western tutta l'epica di cui avrebbe bisogno; ci arriveremo, passo dopo passo, film dopo film.
Si parla spesso di rinascita del genere western, quasi ogni volta che qualche regista di fama riesce a riportarlo sotto i riflettori, poi questa rinascita non decolla mai per davvero; allora si dice che il western è morto, agonizzante, però salta fuori sempre qualche nuova opera a riattizarne il fuoco. È complicata la vita del western in questi tempi oltremodo moderni, spesso gli esiti più riusciti che scavano nel genere sono contaminazioni (Westworld), rivisitazioni autoriali molto marcate (Django unchained o The hateful eight), western in qualche modo laterali al genere (Appaloosa ad esempio) o molto distanti dal canone classico come questo Slow West, un western come dice il titolo molto lento, riflessivo, che qui in Italia non è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nelle sale e che abbiamo potuto vedere solo grazie alla piattaforma Netflix.
Se è vero che Slow West, a parte la presenza di Michael Fassbender, avrebbe potuto avere poco appeal commerciale per richiamare il pubblico in sala, il mancato passaggio su grande schermo ha impedito agli amanti del genere di godere della splendida fotografia messa in scena da Robbie Ryan e soprattutto dei bellissimi panorami offerti dal film, parecchio distanti dal classico immaginario dello sporco west: molto verde, cieli infiniti, vegetazione ricca in forte contrasto con il mito del deserto e dei canyons. Proprio l'aspetto estetico rimane il più interessante nell'opera di Maclean che ripropone in modo atipico la violenza e il cinismo della vita del vecchio west, lo fa in maniera leggera, pensante, quasi simbolica, con ritmi blandi che si fanno sentire nonostante la durata davvero esigua del film non arrivi a contare nemmeno un'ora e mezza di minutaggio. Non è un film per tutti Slow West proprio a causa dei ritmi lenti, anche il protagonista è atipico per il genere; Jay Cavendish (Kodi Smith-McPhee) è quello che i pellerossa chiamerebbero un piedidolci, un ragazzino con l'indole da damerino poco adatta all'asprezza dell'ovest americano, un sognatore ingenuo non alla rincorsa di ricchezze o terre, nemmeno alla ricerca del sogno americano, Jay insegue semplicemente l'amore, la ragazza per cui ha perso la testa in quel di Scozia, la bella Rose Ross (Caren Pistorius). Per sua fortuna sulla strada incontra una sorta di fuorilegge dall'animo gentile, tal Silas (Michael Fassbender), che per un giusto prezzo si offre di scortare il giovane attraverso l'ovest fino alla piccola Rose, una donnina sicuramente più preparata di Jay a cavarsela in quel mondo selvaggio.
I due compagni di viaggio attraversano il Paese, i cavalli non galoppano mai, sono sempre al trotto lento, ci lasciano il tempo d'ammirare lo splendore dell'America (che in realtà è un po' Scozia, un po' Nuova Zelanda) di giorno, la poesia delle stelle la notte. Ma l'ovest, come l'est è un luogo duro, gli Stati Uniti si stanno facendo, costruendo, sulla violenza che Maclean ci mostra in maniera quasi grottesca, anche le esplosioni di questa violenza sono lente, distruggono l'innocenza, le vite, ma lasciano il tempo allo spettatore di rifletterci sopra e di prenderle anche con un tocco di leggiadria. Nel frattempo l'insolito duo fa strani incontri, si avvicina pian piano al climax della pellicola che si risolverà con l'inizio di una nuova vita, ma solo per qualcuno, perché quell'America non è un paese per tutti, proprio come il mondo di oggi non è un mondo per tutti. In quella violenza, in quella selezione innaturale, Maclean ci mette tutta la violenza e la selezione innaturale dell'oggi (leggi anche alla voce capitale).
Smith-McPhee e Fassbender sono una bella coppia agli antipodi e proprio per questo molto funzionante. Se per la sua rinascita il western deve passare anche da qui allora ben vengano film come Slow West, ma sono ancora convinto che di rinascita non si tratti e che il genere non sia ancora morto. Forse cova sotto la cenere aspettando il momento per un ritorno in scena fragoroso capace di riportare al vecchio western tutta l'epica di cui avrebbe bisogno; ci arriveremo, passo dopo passo, film dopo film.
sabato 19 gennaio 2019
CODICE 999
(Triple 9 di John Hillcoat, 2016)
John Hillcoat con Codice 999 ci mostra come si mette in scena un film di genere, solido e senza fronzoli, con un'attitudine che potrebbe rientrare di diritto nei canoni del Cinema artigianale di serie B, avvalorandosi però di un cast di prim'ordine che riporta tutta l'operazione nei territori della serie A. Tutto è molto diretto nel film di Hillcoat, basico, anche tagliato con l'accetta se vogliamo, ma è anche tutto funzionale a una narrazione che non subisce cali di ritmo, un action poliziesco (qualcuno azzarda noir) che coinvolge nonostante lo scavo sui personaggi rimanga sempre in superficie senza mai andare in profondità, esibendo motivazioni stereotipate o addirittura non fornendone affatto (che rimane la soluzione migliore). In alcuni casi Hillcoat fornisce qualche vago indizio sul passato dei protagonisti, come nel caso del personaggio interpretato da Affleck, quasi per giustificare alcuni comportamenti, un indole, qualche predisposizione, per poi disinteressarsene e concentrare tutte le energie sull'azione e sullo sviluppo della trama. È questo un male? No, in questo caso no; il fulcro di Codice 999 è l'azione, magari l'ambiente, lo spietato cinismo, qualche personalità ingombrante e sopra le righe (Woody Harrelson); per un film di questo stampo le sedute dallo psicanalista non sono richieste, e va bene così.
Lo scenario è quello di Atlanta, città meno battuta di altre nel Cinema americano: Michael Atwood (Chiwetel Ejiofor) è a capo di un gruppo di rapinatori composto da ex militari e poliziotti che agisce per conto (e sotto ricatto) di uno zar della mafia russa che ha come luogotenente Irina Vlaslov, interpretata da una bastardissima Kate Winslet. Nel team anche i due fratelli Gabe (Aaron Paul) e Russel Welch (Norman Reedus) e i poliziotti Marcus Belmont (Anthony Mackie) e Franco Rodriguez (Clifton Collins Jr.). Irina tiene letteralmente il gruppo per le palle, il loro leader Michael è infatti il marito della splendida sorella di Irina, Helena (Gal Gadot), madre del figlio di Michael e donna molto più fedele alla famiglia che non al marito. I russi costringono il gruppo a compiere dei colpi molto pericolosi durante i quali i rischi aumentano sempre di più. Messi di fonte all'ennesima richiesta al rialzo, il gruppo si troverà a dover escogitare un piano molto pericoloso che necessita di un diversivo per potersi scrollare di dosso la polizia per una buona decina di minuti, cosa tutt'altro che semplice quando i tempi di intervento degli sbirri si aggirano intorno ai due/tre minuti al massimo. L'unica soluzione sembra quella di provocare un codice 999, quello che indica un agente di polizia colpito a morte e l'unico capace di concentrare su di sé tutte le forze di polizia, lasciando libero il terreno al gruppo di corrotti per agire (quasi) indisturbati. La vittima sacrificale potrebbe essere il nuovo compagno di Marcus Belmont, trasferito da un quartiere ricco e considerato poco più che un novellino. L'agente in questione, Chris Allen (Casey Affleck), si rivela però essere tutt'altro che uno sprovveduto, la sua esperienza e i legami dello stesso con il sergente Jeffrey Allen (Woody Harrelson), personaggio sopra le righe ma lontano dall'essere un ingenuo, scombineranno le carte in tavola.
La regia di Hillcoat asseconda il rimo, la camera stacca veloce nei passaggi dinamici, inquadra particolari, dà la cadenza a una trama che segue i binari del genere. A colpire è il cast impiegato in questo Codice 999: c'è una Kate Winslet tanto cattiva da risultare quasi irriconoscibile, si sfoggia il lusso di schierare una Gal Gadot accessoria, abbiamo il piacere di vedere in un lungometraggio uno dei personaggi più amati del serial The Walking Dead (Reedus), anche qui si conferma volto interessante e attore capace il più giovane dei fratelli Affleck, ci godiamo l'ennesima prova stralunata di un Harrelson sotto gli effetti di chissà quali sostanze (forse il migliore di tutti) e non si contano i volti indovinati tra protagonisti e caratteristi, soprattutto se andiamo a pescare tra i portoricani che abitano la suburbia di Atlanta. Codice 999 è un film realizzato con tanto mestiere, non si ritaglierà un posto nell'immaginario collettivo come hanno fatto altri film dello stesso genere (Heat - La sfida ad esempio) ma in qualche modo sorprende per le qualità messe in campo. La visione potrebbe rivelarsi una piacevole sorpresa per chi non disdegna il genere.
John Hillcoat con Codice 999 ci mostra come si mette in scena un film di genere, solido e senza fronzoli, con un'attitudine che potrebbe rientrare di diritto nei canoni del Cinema artigianale di serie B, avvalorandosi però di un cast di prim'ordine che riporta tutta l'operazione nei territori della serie A. Tutto è molto diretto nel film di Hillcoat, basico, anche tagliato con l'accetta se vogliamo, ma è anche tutto funzionale a una narrazione che non subisce cali di ritmo, un action poliziesco (qualcuno azzarda noir) che coinvolge nonostante lo scavo sui personaggi rimanga sempre in superficie senza mai andare in profondità, esibendo motivazioni stereotipate o addirittura non fornendone affatto (che rimane la soluzione migliore). In alcuni casi Hillcoat fornisce qualche vago indizio sul passato dei protagonisti, come nel caso del personaggio interpretato da Affleck, quasi per giustificare alcuni comportamenti, un indole, qualche predisposizione, per poi disinteressarsene e concentrare tutte le energie sull'azione e sullo sviluppo della trama. È questo un male? No, in questo caso no; il fulcro di Codice 999 è l'azione, magari l'ambiente, lo spietato cinismo, qualche personalità ingombrante e sopra le righe (Woody Harrelson); per un film di questo stampo le sedute dallo psicanalista non sono richieste, e va bene così.
Lo scenario è quello di Atlanta, città meno battuta di altre nel Cinema americano: Michael Atwood (Chiwetel Ejiofor) è a capo di un gruppo di rapinatori composto da ex militari e poliziotti che agisce per conto (e sotto ricatto) di uno zar della mafia russa che ha come luogotenente Irina Vlaslov, interpretata da una bastardissima Kate Winslet. Nel team anche i due fratelli Gabe (Aaron Paul) e Russel Welch (Norman Reedus) e i poliziotti Marcus Belmont (Anthony Mackie) e Franco Rodriguez (Clifton Collins Jr.). Irina tiene letteralmente il gruppo per le palle, il loro leader Michael è infatti il marito della splendida sorella di Irina, Helena (Gal Gadot), madre del figlio di Michael e donna molto più fedele alla famiglia che non al marito. I russi costringono il gruppo a compiere dei colpi molto pericolosi durante i quali i rischi aumentano sempre di più. Messi di fonte all'ennesima richiesta al rialzo, il gruppo si troverà a dover escogitare un piano molto pericoloso che necessita di un diversivo per potersi scrollare di dosso la polizia per una buona decina di minuti, cosa tutt'altro che semplice quando i tempi di intervento degli sbirri si aggirano intorno ai due/tre minuti al massimo. L'unica soluzione sembra quella di provocare un codice 999, quello che indica un agente di polizia colpito a morte e l'unico capace di concentrare su di sé tutte le forze di polizia, lasciando libero il terreno al gruppo di corrotti per agire (quasi) indisturbati. La vittima sacrificale potrebbe essere il nuovo compagno di Marcus Belmont, trasferito da un quartiere ricco e considerato poco più che un novellino. L'agente in questione, Chris Allen (Casey Affleck), si rivela però essere tutt'altro che uno sprovveduto, la sua esperienza e i legami dello stesso con il sergente Jeffrey Allen (Woody Harrelson), personaggio sopra le righe ma lontano dall'essere un ingenuo, scombineranno le carte in tavola.
La regia di Hillcoat asseconda il rimo, la camera stacca veloce nei passaggi dinamici, inquadra particolari, dà la cadenza a una trama che segue i binari del genere. A colpire è il cast impiegato in questo Codice 999: c'è una Kate Winslet tanto cattiva da risultare quasi irriconoscibile, si sfoggia il lusso di schierare una Gal Gadot accessoria, abbiamo il piacere di vedere in un lungometraggio uno dei personaggi più amati del serial The Walking Dead (Reedus), anche qui si conferma volto interessante e attore capace il più giovane dei fratelli Affleck, ci godiamo l'ennesima prova stralunata di un Harrelson sotto gli effetti di chissà quali sostanze (forse il migliore di tutti) e non si contano i volti indovinati tra protagonisti e caratteristi, soprattutto se andiamo a pescare tra i portoricani che abitano la suburbia di Atlanta. Codice 999 è un film realizzato con tanto mestiere, non si ritaglierà un posto nell'immaginario collettivo come hanno fatto altri film dello stesso genere (Heat - La sfida ad esempio) ma in qualche modo sorprende per le qualità messe in campo. La visione potrebbe rivelarsi una piacevole sorpresa per chi non disdegna il genere.
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martedì 15 gennaio 2019
I PADRONI DELLA NOTTE
(We own the night di James Gray, 2007)
I padroni della notte ha tutte le caratteristiche del poliziesco, è un film moderno, dei giorni nostri, con protagonisti volti noti del Cinema attuale, ma è anche un film che ha nell'animo un sentore di anni 70 (pur essendo ambientato nel 1988) e che guarda a modelli grandi, sicuramente più grandi di lui, tra i quali non può non venire in mente il gusto per il crime di Martin Scorsese, ma non mancano ispirazioni provenienti dal Cinema settantiano realizzato da altri maestri del periodo. James Gray raccoglie l'eredità di questi maestri mettendo in scena una narrazione solida, lineare, con qualche perdita di fuoco nella fase finale del film ma con la capacità di portarsi a casa un ottimo risultato. Da apprezzare, almeno per chi scrive, la scelta di non cedere alla faciloneria visiva: una delle sequenze più drammatiche del film nella quale è presente un'inseguimento in auto, un punto cruciale della narrazione, è quanto di meno spettacolare si possa vedere in video nel Cinema moderno, scene cariche di tensione immerse in una pioggia battente in mezzo alla quale è persino difficile seguire gli accadimenti, ciò nonostante Gray costruisce la scena con un crescendo emotivo di gran caratura evitando le solite esplosioni alle quali ci siamo ormai assuefatti. Un film di uomini, di valori (anche traditi), di attori, un film che per qualcuno potrebbe puzzare di vecchio ma che oggi forse è ancor più necessario di quanto potesse esserlo decenni addietro. Il legame con il passato è evidente fin dall'apertura del film che ci presenta una serie di foto in bianco e nero del lavoro svolto dalla polizia a New York negli anni d'oro delle droghe pesanti, una sequenza d'immagini che sfuma sul reale inizio della vicenda: musica disco, una sensualissima Eva Mendes si concede al suo Joaquin Phoenix, meravigliosa coppia protagonista del film.
Brooklyn, New York, 1988. Sono gli anni delle grandi discoteche, locali lussuosi dove circolano fiumi di denaro, sesso e soprattutto droghe, in un periodo in cui queste ultime stanno diventando una vera piaga per la città. Bobby Green (Joaquin Phoenix) gestisce uno dei locali più in voga di Brooklyn, El Caribe, per conto del proprietario Buzhayev (Moni Moshonov), un vecchio russo con un nipote che sembra essere uno dei pezzi grossi della criminalità per ciò che concerne lo spaccio di droga. Purtroppo Vadim (Alex Veadov) ha scelto proprio il locale dello zio per portare avanti i suoi affari. Su questo Bobby chiude un occhio, il ragazzo è una testa calda, un ribelle in contrasto aperto con la famiglia, soprattutto con il padre Albert (Robert Duvall) e il fratello Joe (Mark Whalberg), entrambi pezzi grossi della polizia di New York. L'unica persona al quale Bobby sembra sinceramente legato è la fidanzata Amanda (Eva Mendes). Quando il padre e il fratello scoprono che Vadim è a capo di una grossa organizzazione criminale chiedono l'aiuto di Bobby per cercare elementi utili al fine di incastrare e togliere di mezzo il criminale russo. Bobby si troverà in una situazione spinosa e a dover prendere decisioni tutt'altro che facili, perché alla fine i legami inscindibili sono sempre quelli dettati dal sangue.
Fondamentali sono proprio i legami ne I padroni della notte, quelli familiari, quelli di corpo (la polizia), quelli di riconoscenza; se nella costruzione della vicenda siamo dalle parti di The departed, la fotografia e l'ambientazione guardano invece al passato, ottime le scelte cromatiche vintage, bellissimo lavoro sui costumi, sotto i riflettori lo scontro tra due generazioni d'attori vinto ancora una volta dal leone Robert Duvall, un uomo senza fine, sostenuto splendidamente da un Phoenix impeccabile nell'interpretazione, forse un po' troppo ondivago il suo personaggio, ma si sa, eventi fuori dal comune producono esiti imprevedibili. Un poco defilato l'impettito Mark Whalberg ma, diciamocela tutta, non è attore dello stesso calibro degli altri due. È un ottimo film questo di James Gray che è capace di suscitarci un po' di nostalgia per ciò che non è più, donandoci però la speranza che nelle mani giuste quel mood così particolare è sempre pronto a tornare in vita. E noi siamo qui ad accoglierlo a braccia aperte.
I padroni della notte ha tutte le caratteristiche del poliziesco, è un film moderno, dei giorni nostri, con protagonisti volti noti del Cinema attuale, ma è anche un film che ha nell'animo un sentore di anni 70 (pur essendo ambientato nel 1988) e che guarda a modelli grandi, sicuramente più grandi di lui, tra i quali non può non venire in mente il gusto per il crime di Martin Scorsese, ma non mancano ispirazioni provenienti dal Cinema settantiano realizzato da altri maestri del periodo. James Gray raccoglie l'eredità di questi maestri mettendo in scena una narrazione solida, lineare, con qualche perdita di fuoco nella fase finale del film ma con la capacità di portarsi a casa un ottimo risultato. Da apprezzare, almeno per chi scrive, la scelta di non cedere alla faciloneria visiva: una delle sequenze più drammatiche del film nella quale è presente un'inseguimento in auto, un punto cruciale della narrazione, è quanto di meno spettacolare si possa vedere in video nel Cinema moderno, scene cariche di tensione immerse in una pioggia battente in mezzo alla quale è persino difficile seguire gli accadimenti, ciò nonostante Gray costruisce la scena con un crescendo emotivo di gran caratura evitando le solite esplosioni alle quali ci siamo ormai assuefatti. Un film di uomini, di valori (anche traditi), di attori, un film che per qualcuno potrebbe puzzare di vecchio ma che oggi forse è ancor più necessario di quanto potesse esserlo decenni addietro. Il legame con il passato è evidente fin dall'apertura del film che ci presenta una serie di foto in bianco e nero del lavoro svolto dalla polizia a New York negli anni d'oro delle droghe pesanti, una sequenza d'immagini che sfuma sul reale inizio della vicenda: musica disco, una sensualissima Eva Mendes si concede al suo Joaquin Phoenix, meravigliosa coppia protagonista del film.
Brooklyn, New York, 1988. Sono gli anni delle grandi discoteche, locali lussuosi dove circolano fiumi di denaro, sesso e soprattutto droghe, in un periodo in cui queste ultime stanno diventando una vera piaga per la città. Bobby Green (Joaquin Phoenix) gestisce uno dei locali più in voga di Brooklyn, El Caribe, per conto del proprietario Buzhayev (Moni Moshonov), un vecchio russo con un nipote che sembra essere uno dei pezzi grossi della criminalità per ciò che concerne lo spaccio di droga. Purtroppo Vadim (Alex Veadov) ha scelto proprio il locale dello zio per portare avanti i suoi affari. Su questo Bobby chiude un occhio, il ragazzo è una testa calda, un ribelle in contrasto aperto con la famiglia, soprattutto con il padre Albert (Robert Duvall) e il fratello Joe (Mark Whalberg), entrambi pezzi grossi della polizia di New York. L'unica persona al quale Bobby sembra sinceramente legato è la fidanzata Amanda (Eva Mendes). Quando il padre e il fratello scoprono che Vadim è a capo di una grossa organizzazione criminale chiedono l'aiuto di Bobby per cercare elementi utili al fine di incastrare e togliere di mezzo il criminale russo. Bobby si troverà in una situazione spinosa e a dover prendere decisioni tutt'altro che facili, perché alla fine i legami inscindibili sono sempre quelli dettati dal sangue.
Fondamentali sono proprio i legami ne I padroni della notte, quelli familiari, quelli di corpo (la polizia), quelli di riconoscenza; se nella costruzione della vicenda siamo dalle parti di The departed, la fotografia e l'ambientazione guardano invece al passato, ottime le scelte cromatiche vintage, bellissimo lavoro sui costumi, sotto i riflettori lo scontro tra due generazioni d'attori vinto ancora una volta dal leone Robert Duvall, un uomo senza fine, sostenuto splendidamente da un Phoenix impeccabile nell'interpretazione, forse un po' troppo ondivago il suo personaggio, ma si sa, eventi fuori dal comune producono esiti imprevedibili. Un poco defilato l'impettito Mark Whalberg ma, diciamocela tutta, non è attore dello stesso calibro degli altri due. È un ottimo film questo di James Gray che è capace di suscitarci un po' di nostalgia per ciò che non è più, donandoci però la speranza che nelle mani giuste quel mood così particolare è sempre pronto a tornare in vita. E noi siamo qui ad accoglierlo a braccia aperte.
sabato 12 gennaio 2019
SUICIDE SQUAD
(di David Ayer, 2016)
Molto rumore per nulla. Alla fine i motivi per guardare Suicide Squad si potrebbero condensare in due sole parole. Se volessimo analizzare il film in un'ottica prettamente maschile queste due parole sarebbero Margot e Robbie. Adottando uno sguardo più affine a quello dell'altra metà del (nostro) cielo le due parole potrebbero diventare Will e Smith. Questa è ovviamente una piccola ma fondata provocazione, potremmo espandere il vocabolario del film anche alle parole Viola e Davis (interpretazione molto convincente) oppure a Jared e Leto. Ma il succo non cambia. La fonte principale di delusione è che Suicide Squad non mantiene quello che promette, questa squadra di antieroi che avrebbe dovuto essere composta dai peggiori bastardi in circolazione si rivela invece poco più di un club di taglio e cucito composto da educande a modo e per benino, certo magari un po' più rozze e sporche della media ma nemmeno lontanamente cattive, pericolose e spietate come il battage pubblicitario e le campagne di marketing avevano voluto farci intendere. Alla fine l'unico vero "figlio di puttana" presente nel film è proprio l'Amanda Waller interpretata dalla Davis, un'agente governativo cinico e spietato che riesce a tenere per le palle quella che dovrebbe essere la squadra meno gestibile sulla faccia della Terra. Un vero peccato perché potenzialmente le caratteristiche per tirare fuori qualcosa di diverso dal blockbuster con supereroi tanto caro all'industria hollywoodyana c'erano tutte, purtroppo come spesso accade in casa DC il risultato finale perde colpi e delude le aspettative, anche se comunque qualcosa di buono in Suicide Squad abbiamo potuto vederlo (no, state calmi, non è la storia quel che c'è di buono, ottimisti sì ma con moderazione).
Partiamo dagli aspetti positivi: le idee di base sono buone, questo perché vanno ricercate nei fumetti della DC Comics e non certo grazie al rispettivo comparto cinematografico che finora, Batman a parte, ha fatto perlopiù dei grossi buchi nell'acqua. Di positivo c'è che i personaggi della Suicide Squad sono ancora lì da qualche parte, messi nelle mani di sceneggiatori e registi capaci potrebbero dare buoni frutti in qualsiasi momento. Una speranza è meglio che niente. Alcune interpretazioni sono da apprezzare, così come anche la costruzione di un paio di personaggi. Il punto più alto del film risulta essere lei, Harley Quinn: divertente, irriverente, pericolosa e fuori di testa quanto basta per essere la degna compagna di un folle come il Joker, accidentalmente interpretata dalla bellezza mozzafiato che risponde al nome di Margot Robbie, un essere meraviglioso anche sotto tutto il trucco sbavato della dottoressa matta. Harley è l'unica vera scheggia anarchica e impazzita in un film molto più addomesticato di quel che avrebbe dovuto essere (e purtroppo anche lei rimane comunque nei limiti dell'hollywoodianamente ragionevole). Buona la prova di Will Smith nei panni di Deadshot, un killer infallibile, un mercenario prezzolato che però si scioglie di fronte alla sua bimba e che dimostra di essere un tenerone poco credibile; buon personaggio ma con diversi difetti in fase di scrittura. Leto non sembra affatto un Joker malvagio, anzi, l'attore esprime al meglio il lato folle del personaggio, compare troppo poco per poter giudicare con certezza la sua prova che comunque sembra più che positiva. Sopra a tutti l'Amanda Waller della Davis, l'unico personaggio azzeccato al 100%. Gli altri characters fanno da riempitivo, esteticamente molto ben presentati Killer Croc (Adewale Akinnuoye-Agbaje) che gode di un gran lavoro sul trucco, Katana (Karen Fukuhara) ed El Diablo (Jay Hernandez), poco più che inutili gli altri. Niente male la colonna sonora, un po' slegata ma con qualche tocco di genio.
Tra gli aspetti negativi emerge in maniera vistosa un tasso di cattiveria davvero troppo basso in relazione ai personaggi coinvolti, una trama poco interessante e non sempre costruita al meglio e il difetto più grosso di quasi tutti i film DC visti finora (sempre non tenendo conto delle opere di Nolan): l'assenza di un avversario degno di questo nome. L'Incantatrice (Cara Delevigne) e il suo fratello distruttore sono semplicemente noiosissimi. Non mancano ingenuità di scrittura abusate e prevedibili: la Waller tiene tutti sotto scacco grazie alla classica bomba iniettata nel collo di questi super criminali mandati a compiere una missione suicida (un po' come fossero quella sporca dozzina), espediente noto fin dai tempi di 1997: Fuga da New York se non prima, ovviamente viene introdotto un personaggio in fretta e furia (Slipknot interpretato da Adam Beach) che anche lo spettatore meno sveglio individua come vittima sacrificale della bomba, utile per rendere narrativamente credibile la minaccia. Non si fa in tempo a finire di formulare il pensiero che questo scazza e la Waller lo fa saltare per aria con sommo gaudio di quello spettatore poco sveglio che ora crede di essere intelligente per aver intuito l'elementare dinamica. E ancora: chi avrebbe mai intuito che un bonaccione come El Diablo adeguatamente provocato avrebbe scatenato tutto quel casino? Insomma, passi l'essere prevedibili però senza esagerare, please!
Tirando le somme Suicide Squad si rivela l'ennesima occasione sprecata in casa DC, nei film della Distinta Concorrenza sembra sempre ci sia quel passetto in più che lascia ben sperare per il futuro e che puntualmente si rivela non essere nulla di più che appunto un semplice passetto. La Suicide Squad dovrebbe tornare in sala nei prossimi anni, auguriamoci perlomeno che finisca in mani più coraggiose e sapienti di quelle di David Ayer.
Molto rumore per nulla. Alla fine i motivi per guardare Suicide Squad si potrebbero condensare in due sole parole. Se volessimo analizzare il film in un'ottica prettamente maschile queste due parole sarebbero Margot e Robbie. Adottando uno sguardo più affine a quello dell'altra metà del (nostro) cielo le due parole potrebbero diventare Will e Smith. Questa è ovviamente una piccola ma fondata provocazione, potremmo espandere il vocabolario del film anche alle parole Viola e Davis (interpretazione molto convincente) oppure a Jared e Leto. Ma il succo non cambia. La fonte principale di delusione è che Suicide Squad non mantiene quello che promette, questa squadra di antieroi che avrebbe dovuto essere composta dai peggiori bastardi in circolazione si rivela invece poco più di un club di taglio e cucito composto da educande a modo e per benino, certo magari un po' più rozze e sporche della media ma nemmeno lontanamente cattive, pericolose e spietate come il battage pubblicitario e le campagne di marketing avevano voluto farci intendere. Alla fine l'unico vero "figlio di puttana" presente nel film è proprio l'Amanda Waller interpretata dalla Davis, un'agente governativo cinico e spietato che riesce a tenere per le palle quella che dovrebbe essere la squadra meno gestibile sulla faccia della Terra. Un vero peccato perché potenzialmente le caratteristiche per tirare fuori qualcosa di diverso dal blockbuster con supereroi tanto caro all'industria hollywoodyana c'erano tutte, purtroppo come spesso accade in casa DC il risultato finale perde colpi e delude le aspettative, anche se comunque qualcosa di buono in Suicide Squad abbiamo potuto vederlo (no, state calmi, non è la storia quel che c'è di buono, ottimisti sì ma con moderazione).
Partiamo dagli aspetti positivi: le idee di base sono buone, questo perché vanno ricercate nei fumetti della DC Comics e non certo grazie al rispettivo comparto cinematografico che finora, Batman a parte, ha fatto perlopiù dei grossi buchi nell'acqua. Di positivo c'è che i personaggi della Suicide Squad sono ancora lì da qualche parte, messi nelle mani di sceneggiatori e registi capaci potrebbero dare buoni frutti in qualsiasi momento. Una speranza è meglio che niente. Alcune interpretazioni sono da apprezzare, così come anche la costruzione di un paio di personaggi. Il punto più alto del film risulta essere lei, Harley Quinn: divertente, irriverente, pericolosa e fuori di testa quanto basta per essere la degna compagna di un folle come il Joker, accidentalmente interpretata dalla bellezza mozzafiato che risponde al nome di Margot Robbie, un essere meraviglioso anche sotto tutto il trucco sbavato della dottoressa matta. Harley è l'unica vera scheggia anarchica e impazzita in un film molto più addomesticato di quel che avrebbe dovuto essere (e purtroppo anche lei rimane comunque nei limiti dell'hollywoodianamente ragionevole). Buona la prova di Will Smith nei panni di Deadshot, un killer infallibile, un mercenario prezzolato che però si scioglie di fronte alla sua bimba e che dimostra di essere un tenerone poco credibile; buon personaggio ma con diversi difetti in fase di scrittura. Leto non sembra affatto un Joker malvagio, anzi, l'attore esprime al meglio il lato folle del personaggio, compare troppo poco per poter giudicare con certezza la sua prova che comunque sembra più che positiva. Sopra a tutti l'Amanda Waller della Davis, l'unico personaggio azzeccato al 100%. Gli altri characters fanno da riempitivo, esteticamente molto ben presentati Killer Croc (Adewale Akinnuoye-Agbaje) che gode di un gran lavoro sul trucco, Katana (Karen Fukuhara) ed El Diablo (Jay Hernandez), poco più che inutili gli altri. Niente male la colonna sonora, un po' slegata ma con qualche tocco di genio.
Tra gli aspetti negativi emerge in maniera vistosa un tasso di cattiveria davvero troppo basso in relazione ai personaggi coinvolti, una trama poco interessante e non sempre costruita al meglio e il difetto più grosso di quasi tutti i film DC visti finora (sempre non tenendo conto delle opere di Nolan): l'assenza di un avversario degno di questo nome. L'Incantatrice (Cara Delevigne) e il suo fratello distruttore sono semplicemente noiosissimi. Non mancano ingenuità di scrittura abusate e prevedibili: la Waller tiene tutti sotto scacco grazie alla classica bomba iniettata nel collo di questi super criminali mandati a compiere una missione suicida (un po' come fossero quella sporca dozzina), espediente noto fin dai tempi di 1997: Fuga da New York se non prima, ovviamente viene introdotto un personaggio in fretta e furia (Slipknot interpretato da Adam Beach) che anche lo spettatore meno sveglio individua come vittima sacrificale della bomba, utile per rendere narrativamente credibile la minaccia. Non si fa in tempo a finire di formulare il pensiero che questo scazza e la Waller lo fa saltare per aria con sommo gaudio di quello spettatore poco sveglio che ora crede di essere intelligente per aver intuito l'elementare dinamica. E ancora: chi avrebbe mai intuito che un bonaccione come El Diablo adeguatamente provocato avrebbe scatenato tutto quel casino? Insomma, passi l'essere prevedibili però senza esagerare, please!
Tirando le somme Suicide Squad si rivela l'ennesima occasione sprecata in casa DC, nei film della Distinta Concorrenza sembra sempre ci sia quel passetto in più che lascia ben sperare per il futuro e che puntualmente si rivela non essere nulla di più che appunto un semplice passetto. La Suicide Squad dovrebbe tornare in sala nei prossimi anni, auguriamoci perlomeno che finisca in mani più coraggiose e sapienti di quelle di David Ayer.
venerdì 11 gennaio 2019
IL CORVO - THE CROW
(The crow di Alex Proyas, 1994)
È una storia particolare quella che ruota intorno al film The crow, un'opera nata dal dolore, approdata nel dolore e finita per diventare un vero e proprio cult movie, sia per l'estetica innegabilmente vincente, sia per le vicende che hanno portato alla morte di Brandon Lee, ferito sul set da un colpo d'arma da fuoco. La storia è quella ideata da James O'Barr nei primi anni Ottanta sulle pagine dell'omonimo fumetto; l'ispirazione e la leva motivazionale che spinsero l'autore a creare il personaggio di Eric Draven, il protagonista de Il Corvo, arrivano dal dolore sofferto a causa della morte della giovane fidanzata avvenuta qualche anno prima a causa di un incidente stradale. Questo senso di perdita, unito ai dettagli di un fatto di cronaca avvenuto in quegli anni a Detroit dove una coppia di giovani fidanzati venne uccisa per un misero bottino di pochi dollari, diede vita a una storia ormai divenuta un piccolo culto per milioni di amanti sia della Settima che della Nona arte.
In una città malfamata e non ben precisata, nella Notte del Diavolo vengono appiccati incendi e perpetrati i crimini più efferati. Durante uno di questi il giovane Eric Draven (Brandon Lee) viene ucciso dalla banda di T-Bird (David Patrick Kelly), solo dopo aver assistito alla brutale aggressione con stupro della fidanzata Shelly (Sophia Shinas), al seguito della quale anche lei perderà la vita. Accade però che a volte il Corvo che porta le anime dei morti nell'aldilà conceda a qualcuna di queste, quelle più inquiete e desiderose di soddisfazione, di ritornare per raddrizzare alcuni dei torti subiti. È così che Eric si ritrova di nuovo nel mondo dei vivi con la capacità di poter sopravvivere a qualsiasi ferita e con la volontà di vendicare gli abusi subiti. Eric diventa una sorta di angelo vendicatore, dolce nei lineamenti, il volto imbiancato come fosse uno spettro dark, implacabile nelle azioni che non concedono pietà ai violenti. La sua giustizia si abbatterà non soltanto sulla banda di T-Bird ma si estenderà all'organizzazione capeggiata da Top Dollar (Michael Wincott), il vero ideatore dietro la Devil's night. Unici alleati del nostro eroe la piccola Sarah (Rochelle Davis), una bambina figlia di una prostituta che Eric e Shelly avevano idealmente adottato, e il poliziotto Darryl (Ernie Hudson), ex ufficiale degradato e mandato a pattugliare le squallide strade dove si annida la peggior feccia della città. Poco per volta Eric tenterà di riportare un poco di luce in una città marcia dove nonostante tutto"non può piovere per sempre".
Mettendo per un attimo da parte l'alone da film maledetto che Il Corvo porta con sé a causa della morte di Brandon Lee che per molto tempo ha sollevato le ipotesi più disparate (un po' come attorno alla morte del padre Bruce si sono raccontate per anni storie non veritiere), quello che nel film funziona è l'impatto visivo molto cupo e d'effetto, anche perché sul versante narrativo Il Corvo rientra nei canoni del classico revenge movie. Fin dalle prime sequenze la camera di Alex Proyas offre movimenti fluidi sulle panoramiche della città e ottimo brio sui dettagli, assecondata da una fotografia virata al rosso e ai toni bui che incorniciano una città degradata e pericolosa che diventa anch'essa protagonista, con i suoi vicoli putridi, i suoi tetti oscuri e le architetture iconiche. Tra le strade di questa città si muove un protagonista dal look impeccabile, una crasi perfetta tra indole dark e romanticismo che non poteva non rimanere impresso. Su queste caratteristiche, su alcune frasi indovinate, su diverse sequenze perfette per un fermo immagine da poster e su una colonna sonora di qualità si è decretato il successo di un film che sono ancora in molti a ricordare con grande affetto e piacere, al di là degli effettivi meriti intrinseci della pellicola.
Bisogna trovare le note giuste per costruire un cult, metterle bene insieme e farle suonare in maniera armoniosa, con Il Corvo, al di là di tutto, bisogna ammettere che Proyas è riuscito in questo intento davvero molto bene.
PS: in seguito al decesso di Brandon Lee è stato possibile terminare il film ricorrendo all'uso di stunt-men e controfigure, facendo ricorso in parte alla grafica computerizzata e recuperando parti del girato precedente.
È una storia particolare quella che ruota intorno al film The crow, un'opera nata dal dolore, approdata nel dolore e finita per diventare un vero e proprio cult movie, sia per l'estetica innegabilmente vincente, sia per le vicende che hanno portato alla morte di Brandon Lee, ferito sul set da un colpo d'arma da fuoco. La storia è quella ideata da James O'Barr nei primi anni Ottanta sulle pagine dell'omonimo fumetto; l'ispirazione e la leva motivazionale che spinsero l'autore a creare il personaggio di Eric Draven, il protagonista de Il Corvo, arrivano dal dolore sofferto a causa della morte della giovane fidanzata avvenuta qualche anno prima a causa di un incidente stradale. Questo senso di perdita, unito ai dettagli di un fatto di cronaca avvenuto in quegli anni a Detroit dove una coppia di giovani fidanzati venne uccisa per un misero bottino di pochi dollari, diede vita a una storia ormai divenuta un piccolo culto per milioni di amanti sia della Settima che della Nona arte.
In una città malfamata e non ben precisata, nella Notte del Diavolo vengono appiccati incendi e perpetrati i crimini più efferati. Durante uno di questi il giovane Eric Draven (Brandon Lee) viene ucciso dalla banda di T-Bird (David Patrick Kelly), solo dopo aver assistito alla brutale aggressione con stupro della fidanzata Shelly (Sophia Shinas), al seguito della quale anche lei perderà la vita. Accade però che a volte il Corvo che porta le anime dei morti nell'aldilà conceda a qualcuna di queste, quelle più inquiete e desiderose di soddisfazione, di ritornare per raddrizzare alcuni dei torti subiti. È così che Eric si ritrova di nuovo nel mondo dei vivi con la capacità di poter sopravvivere a qualsiasi ferita e con la volontà di vendicare gli abusi subiti. Eric diventa una sorta di angelo vendicatore, dolce nei lineamenti, il volto imbiancato come fosse uno spettro dark, implacabile nelle azioni che non concedono pietà ai violenti. La sua giustizia si abbatterà non soltanto sulla banda di T-Bird ma si estenderà all'organizzazione capeggiata da Top Dollar (Michael Wincott), il vero ideatore dietro la Devil's night. Unici alleati del nostro eroe la piccola Sarah (Rochelle Davis), una bambina figlia di una prostituta che Eric e Shelly avevano idealmente adottato, e il poliziotto Darryl (Ernie Hudson), ex ufficiale degradato e mandato a pattugliare le squallide strade dove si annida la peggior feccia della città. Poco per volta Eric tenterà di riportare un poco di luce in una città marcia dove nonostante tutto"non può piovere per sempre".
Mettendo per un attimo da parte l'alone da film maledetto che Il Corvo porta con sé a causa della morte di Brandon Lee che per molto tempo ha sollevato le ipotesi più disparate (un po' come attorno alla morte del padre Bruce si sono raccontate per anni storie non veritiere), quello che nel film funziona è l'impatto visivo molto cupo e d'effetto, anche perché sul versante narrativo Il Corvo rientra nei canoni del classico revenge movie. Fin dalle prime sequenze la camera di Alex Proyas offre movimenti fluidi sulle panoramiche della città e ottimo brio sui dettagli, assecondata da una fotografia virata al rosso e ai toni bui che incorniciano una città degradata e pericolosa che diventa anch'essa protagonista, con i suoi vicoli putridi, i suoi tetti oscuri e le architetture iconiche. Tra le strade di questa città si muove un protagonista dal look impeccabile, una crasi perfetta tra indole dark e romanticismo che non poteva non rimanere impresso. Su queste caratteristiche, su alcune frasi indovinate, su diverse sequenze perfette per un fermo immagine da poster e su una colonna sonora di qualità si è decretato il successo di un film che sono ancora in molti a ricordare con grande affetto e piacere, al di là degli effettivi meriti intrinseci della pellicola.
Bisogna trovare le note giuste per costruire un cult, metterle bene insieme e farle suonare in maniera armoniosa, con Il Corvo, al di là di tutto, bisogna ammettere che Proyas è riuscito in questo intento davvero molto bene.
PS: in seguito al decesso di Brandon Lee è stato possibile terminare il film ricorrendo all'uso di stunt-men e controfigure, facendo ricorso in parte alla grafica computerizzata e recuperando parti del girato precedente.
lunedì 7 gennaio 2019
RALPH SPACCA INTERNET
(Ralph breaks the internet di Phil Johnston e Rich Moore, 2018)
Anche quest'anno la Walt Disney Animation Studios ha prodotto un film vincente, ben calibrato, divertente e che ha tutte le carte in regola per piacere al pubblico più vasto possibile, catturando l'attenzione anche dei bambini più piccoli ai quali molti dei risvolti della trama rimarranno per forza di cose oscuri. Si spera infatti che i pargoli in età scolare che frequentano i primi anni delle scuole elementari non abbiano ancora tutta quella dimestichezza con Internet, Amazon, Facebook, Pinterest, Instagram, E-Bay, Google, Snapchat e compagnia danzante, tutti marchi ben presenti nel panorama di questo Ralph spacca internet che probabilmente hanno contribuito non poco, economicamente parlando, alla realizzazione di un film che in qualche modo è uno spottone continuo alle più grandi multinazionali che accumulano soldi grazie alla rete. La varietà dei personaggi, i colori sgargianti, l'aspetto rassicurante di Vanellope e del goffo Ralph garantiscono invece un sicuro appeal anche per gli spettatori più piccolini. Rispetto al capitolo precedente con questo film si perde il focus sulla nostalgia per i vecchi videogiochi molto presente in Ralph Spaccatutto e si proiettano i due protagonisti in quella che è la realtà attuale della rete, con tutte le sue infinite possibilità e qualche accenno ai suoi lati più idioti, oscuri e gretti, il tutto senza calcare troppo la mano che in fondo siamo sempre dentro a un film Disney per famiglie. Ma come siamo passati dai vecchi coin-up della sala giochi del Signor Litwak a internet?
Sono passati sei anni da quando Ralph conobbe Vannellope, i due ora sono amici inseparabili, di giorno lavorano nei rispettivi videogame, la sera si ritrovano nella sala comune insieme agli altri personaggi dei vari videogiochi o da Tapper per farsi una spuma. Un bel dì nella sala giochi arriva quello che sembra essere un nuovo videogioco, nuovi stimoli per l'avventurosa Vanellope che non vede l'ora di andare a sbirciare il nuovo mondo. In realtà la novità non consiste in un videogame bensì in un collegamento wifi alla rete, un mondo che viene precluso agli abitanti della sala giochi Litwak. L'accesso a internet diventerà però l'unico modo per salvare dalla rottamazione Sugar Rush, il gioco dove vive Vanellope, che ha subito la rottura del volante di comando, un accessorio vetusto e introvabile per il Sig. Litwak se non su E-Bay ma a un prezzo irragionevole. Sarà il dinamico duo a farsi carico dell'impresa, sgattaiolare su internet, accumulare soldi per comprare il volante e riportare tutto alla normalità. Purtroppo per Ralph, pacifico e abitudinario, su internet Vanellope scopre nuovi ed eccitanti mondi, maniere diverse per sfogare il suo talento da pilota e una nuova amica: la tostissima Shank. Forse la ragazzina non ha tutta questa voglia di riportare tutto alla normalità.
Il fulcro del film è la storia d'amicizia tra i due protagonisti che si evolve, subisce qualche scossone, accetta il cambiamento e si consolida, pur dovendo rinunciare a qualcosa, come spesso accade (anche a malincuore a volte) nella vita reale. Gli altri sottotesti sono solo piccoli accenni che vanno dalla difficoltà di trovarsi senza un'occupazione (lavoro) con conseguente perdita di identità, alle derive meno edificanti delle esperienze in rete come l'invasività del marketing, l'idiozia dei fenomeni ai quali si prestano immeritate attenzioni, l'inarrestabilità dei gattini (sigh!), il dark web, gli haters e cose di questo genere, senza mai sottolinearne a dovere le conseguenze negative (e questo è un piccolo limite del film). Se a livello tecnico non si segnalano particolari innovazioni, sul lato del divertimento non ci si può proprio lamentare: Ralph spacca internet ha un ottimo ritmo per tutta la sua durata, offre battute e personaggi gustosi e soprattutto ci mostra una versione inedita di tutte le classiche principesse Disney in libera uscita dai loro ruoli istituzionali e che vanno a costruire la parte più saporita e divertente del film. Nulla di nuovo sotto il sole, forse nemmeno all'altezza del primo episodio, a ogni modo Ralph spacca internet rimane un film più che godibile, ottimo per chiudere le feste natalizie in attesa della prossima uscita targata Disney/Pixar: Toy Story 4.
Anche quest'anno la Walt Disney Animation Studios ha prodotto un film vincente, ben calibrato, divertente e che ha tutte le carte in regola per piacere al pubblico più vasto possibile, catturando l'attenzione anche dei bambini più piccoli ai quali molti dei risvolti della trama rimarranno per forza di cose oscuri. Si spera infatti che i pargoli in età scolare che frequentano i primi anni delle scuole elementari non abbiano ancora tutta quella dimestichezza con Internet, Amazon, Facebook, Pinterest, Instagram, E-Bay, Google, Snapchat e compagnia danzante, tutti marchi ben presenti nel panorama di questo Ralph spacca internet che probabilmente hanno contribuito non poco, economicamente parlando, alla realizzazione di un film che in qualche modo è uno spottone continuo alle più grandi multinazionali che accumulano soldi grazie alla rete. La varietà dei personaggi, i colori sgargianti, l'aspetto rassicurante di Vanellope e del goffo Ralph garantiscono invece un sicuro appeal anche per gli spettatori più piccolini. Rispetto al capitolo precedente con questo film si perde il focus sulla nostalgia per i vecchi videogiochi molto presente in Ralph Spaccatutto e si proiettano i due protagonisti in quella che è la realtà attuale della rete, con tutte le sue infinite possibilità e qualche accenno ai suoi lati più idioti, oscuri e gretti, il tutto senza calcare troppo la mano che in fondo siamo sempre dentro a un film Disney per famiglie. Ma come siamo passati dai vecchi coin-up della sala giochi del Signor Litwak a internet?
Sono passati sei anni da quando Ralph conobbe Vannellope, i due ora sono amici inseparabili, di giorno lavorano nei rispettivi videogame, la sera si ritrovano nella sala comune insieme agli altri personaggi dei vari videogiochi o da Tapper per farsi una spuma. Un bel dì nella sala giochi arriva quello che sembra essere un nuovo videogioco, nuovi stimoli per l'avventurosa Vanellope che non vede l'ora di andare a sbirciare il nuovo mondo. In realtà la novità non consiste in un videogame bensì in un collegamento wifi alla rete, un mondo che viene precluso agli abitanti della sala giochi Litwak. L'accesso a internet diventerà però l'unico modo per salvare dalla rottamazione Sugar Rush, il gioco dove vive Vanellope, che ha subito la rottura del volante di comando, un accessorio vetusto e introvabile per il Sig. Litwak se non su E-Bay ma a un prezzo irragionevole. Sarà il dinamico duo a farsi carico dell'impresa, sgattaiolare su internet, accumulare soldi per comprare il volante e riportare tutto alla normalità. Purtroppo per Ralph, pacifico e abitudinario, su internet Vanellope scopre nuovi ed eccitanti mondi, maniere diverse per sfogare il suo talento da pilota e una nuova amica: la tostissima Shank. Forse la ragazzina non ha tutta questa voglia di riportare tutto alla normalità.
Il fulcro del film è la storia d'amicizia tra i due protagonisti che si evolve, subisce qualche scossone, accetta il cambiamento e si consolida, pur dovendo rinunciare a qualcosa, come spesso accade (anche a malincuore a volte) nella vita reale. Gli altri sottotesti sono solo piccoli accenni che vanno dalla difficoltà di trovarsi senza un'occupazione (lavoro) con conseguente perdita di identità, alle derive meno edificanti delle esperienze in rete come l'invasività del marketing, l'idiozia dei fenomeni ai quali si prestano immeritate attenzioni, l'inarrestabilità dei gattini (sigh!), il dark web, gli haters e cose di questo genere, senza mai sottolinearne a dovere le conseguenze negative (e questo è un piccolo limite del film). Se a livello tecnico non si segnalano particolari innovazioni, sul lato del divertimento non ci si può proprio lamentare: Ralph spacca internet ha un ottimo ritmo per tutta la sua durata, offre battute e personaggi gustosi e soprattutto ci mostra una versione inedita di tutte le classiche principesse Disney in libera uscita dai loro ruoli istituzionali e che vanno a costruire la parte più saporita e divertente del film. Nulla di nuovo sotto il sole, forse nemmeno all'altezza del primo episodio, a ogni modo Ralph spacca internet rimane un film più che godibile, ottimo per chiudere le feste natalizie in attesa della prossima uscita targata Disney/Pixar: Toy Story 4.
sabato 5 gennaio 2019
BLACK MIRROR - BANDERSNATCH
Anche quando guarda al passato Black Mirror rimane un passo avanti a tutto il resto. Nelle ultime stagioni del serial ideato da Charlie Brooker si era assistito a un principio di ripetizione di quelle che erano le tematiche e le dinamiche di fondo che fin dall'inizio hanno contrassegnato lo stile Black Mirror. L'invasività e l'uso poco oculato delle nuove tecnologie e delle loro potenzialità da parte della razza umana, esplorate in moltissime delle loro declinazioni, pur rimanendo interessanti, stimolanti e spesso preoccupanti, iniziavano a restituire una sensazione di déjà vu dovuta all'ambito molto mirato e circoscritto all'interno del quale la serie si è sempre mossa. Di conseguenza Black Mirror ha iniziato a mutare provocando la nascita delle prime critiche e di un pizzico di delusione da parte del suo pubblico (pur mantenendosi su livelli qualitativi sempre molto alti). Con Bandersnatch, l'episodio speciale (in tutti i sensi) del dicembre 2018, la serie si riconferma uno dei prodotti più brillanti e illumina(n)ti del panorama seriale e nello specifico della piattaforma streaming di Netflix. Arrivati al punto in cui inizia a diventare difficile proporre idee nuove, originali e non ripetitive senza snaturare il senso che da sempre caratterizza la serie, il team che sta dietro Black Mirror partorisce un nuovo colpo di genio: se non è più così semplice innovare nei contenuti, allora perché non innovare in maniera decisa nella forma? E non parliamo di un'innovazione da poco (anche se questa affonda le radici parecchi anni nel passato), con Bandersnatch si offre allo spettatore la possibilità di essere protagonista, su più livelli, dell'episodio in questione diventando parte attiva della storia, permettendogli di scegliere in prima persona la direzione che la trama dovrà seguire in determinati nodi focali che diventano punti di svolta della vicenda che si svilupperà in maniera differente a seconda della scelta effettuata dallo spettatore, andando a riprendere un poco il meccanismo molto in voga nei libri-gioco degli anni 80 e 90.
Per una volta Black Mirror ci porta indietro nel tempo e non verso il futuro: siamo nel 1984 in Inghilterra, Stefan Butler (Fionn Whitehead) è un ragazzo giovane che vive con suo padre, è un appassionato di videogiochi e si diletta nella programmazione degli stessi, il suo progetto è quello di trasformare il libro-game dello scrittore Jerome F. Davies dal titolo Bandersnatch in un videogioco a scelte multiple nel quale il giocatore, messo davanti a un bivio, dovrà decidere in pochi secondi quale strada far intraprendere al protagonista, senza bisogno di avvalersi di comandi testuali ma usando semplicemente il joystick per attuare la scelta che farà evolvere la storia su percorsi differenti, esattamente come sta facendo lo spettatore con l'episodio di Black Mirror che sta guardando. Il cortocircuito tra spettatore e protagonista non è da sottovalutare e aggiunge pepe a una puntata già di per sé molto interessante e ben studiata. Stefan ottiene un colloquio con la Tuckersoft, azienda sviluppatrice di videogiochi per la quale lavora anche il programmatore Colin Ritman (Will Poulter), una sorta di idolo per Stefan, il giovane protagonista illustrerà i suoi progetti al direttore della software house Mohan Takur (Asim Chaudry) che apprezzerà molto il progetto. Qui lo spettatore, che nel frattempo avrà già scelto cosa far mangiare a colazione a Stefan, quale musicassetta inserire nel walkman durante il tragitto in bus, si troverà ad affrontare la prima scelta seria: continuare a sviluppare Bandersnatch in team avvalendosi dei mezzi della Tuckersoft o lavorare in solitario, a casa, senza influenze esterne affidandosi ai propri mezzi? Dieci secondi per scegliere e poi si riparte. Nel corso della puntata saranno diverse le scelte da prendere, alcune anche drammatiche a causa dello scarso equilibrio del protagonista, che combatte ancora con il trauma subito per la perdita della madre avvenuta nel passato. Stefan è in cura dalla dottoressa Haynes (Alice Lowe), una terapeuta che sembra non riuscire a trovare troppi appigli per aiutare il ragazzo. In base alle direzioni prese dallo spettatore Bandersnatch offre esperienze differenti che possono portare a diversi finali, in ognuno di questi, come spesso accade con Black Mirror, sembra bandito il lieto fine. L'aspetto più geniale e indovinato dell'episodio è la presa di consapevolezza da parte di Stefan, in preda a una sorta di paranoia da stress, di essere controllato nelle sue azioni da qualcun'altro, e quel qualcun'altro siamo noi! Una soluzione fantastica che fa il paio con l'ingresso nell'episodio anche della piattaforma televisiva Netflix, che sicuramente si autocelebra in maniera poco discreta ma assolutamente intelligente. Da sottolineare come anche in Bandersnatch, tra l'altro disseminato di indizi sui possibili sviluppi della puntata, si omaggino in maniera più o meno celata alcuni altri episodi della serie confermando ancora una volta quella sorta di collegamento ideale che li porrebbe tutti all'interno di un universo condiviso. Oltre all'aspetto ludico ben amalgamato al dipanarsi della/e trama/e, anche se non sempre proprio libero ma pilotato dall'alto (in parte anche noi come Stefan?), l'episodio gioca con l'effetto nostalgia per gli Eighties tanto in voga negli ultimi anni, le musiche e soprattutto tutta l'iconografia a 8 bit tanto cara ai vecchi giocatori di Spectrum e Commodore non possono lasciare indifferenti quelle generazioni che hanno vissuto in prima persona quell'epoca.
Come si accennava in apertura, in Bandersnatch l'innovazione sta nel tipo di fruizione, nell'esperienza interattiva che Netflix pare voglia sviluppare in altri progetti (anche se la formula potrebbe venire presto a noia, un po' come è successo al 3D in sala); nei contenuti abbiamo una bella storia che è stata adattata con grandissima visione d'insieme alla partecipazione che si chiedeva allo spettatore. A mio avviso il risultato è stato ottimo, al netto di qualche problema tecnico che il tutto sembra aver creato a qualche utente a livello di fluidità al momento delle scelte e di fruizioni su smart tv non di ultimissima generazione. Cosa dire ancora? Eravamo in attesa che Black Mirror e Brooker ci stupissero ancora una volta... ci sono riusciti! E ora, cosa dobbiamo aspettarci?
Per una volta Black Mirror ci porta indietro nel tempo e non verso il futuro: siamo nel 1984 in Inghilterra, Stefan Butler (Fionn Whitehead) è un ragazzo giovane che vive con suo padre, è un appassionato di videogiochi e si diletta nella programmazione degli stessi, il suo progetto è quello di trasformare il libro-game dello scrittore Jerome F. Davies dal titolo Bandersnatch in un videogioco a scelte multiple nel quale il giocatore, messo davanti a un bivio, dovrà decidere in pochi secondi quale strada far intraprendere al protagonista, senza bisogno di avvalersi di comandi testuali ma usando semplicemente il joystick per attuare la scelta che farà evolvere la storia su percorsi differenti, esattamente come sta facendo lo spettatore con l'episodio di Black Mirror che sta guardando. Il cortocircuito tra spettatore e protagonista non è da sottovalutare e aggiunge pepe a una puntata già di per sé molto interessante e ben studiata. Stefan ottiene un colloquio con la Tuckersoft, azienda sviluppatrice di videogiochi per la quale lavora anche il programmatore Colin Ritman (Will Poulter), una sorta di idolo per Stefan, il giovane protagonista illustrerà i suoi progetti al direttore della software house Mohan Takur (Asim Chaudry) che apprezzerà molto il progetto. Qui lo spettatore, che nel frattempo avrà già scelto cosa far mangiare a colazione a Stefan, quale musicassetta inserire nel walkman durante il tragitto in bus, si troverà ad affrontare la prima scelta seria: continuare a sviluppare Bandersnatch in team avvalendosi dei mezzi della Tuckersoft o lavorare in solitario, a casa, senza influenze esterne affidandosi ai propri mezzi? Dieci secondi per scegliere e poi si riparte. Nel corso della puntata saranno diverse le scelte da prendere, alcune anche drammatiche a causa dello scarso equilibrio del protagonista, che combatte ancora con il trauma subito per la perdita della madre avvenuta nel passato. Stefan è in cura dalla dottoressa Haynes (Alice Lowe), una terapeuta che sembra non riuscire a trovare troppi appigli per aiutare il ragazzo. In base alle direzioni prese dallo spettatore Bandersnatch offre esperienze differenti che possono portare a diversi finali, in ognuno di questi, come spesso accade con Black Mirror, sembra bandito il lieto fine. L'aspetto più geniale e indovinato dell'episodio è la presa di consapevolezza da parte di Stefan, in preda a una sorta di paranoia da stress, di essere controllato nelle sue azioni da qualcun'altro, e quel qualcun'altro siamo noi! Una soluzione fantastica che fa il paio con l'ingresso nell'episodio anche della piattaforma televisiva Netflix, che sicuramente si autocelebra in maniera poco discreta ma assolutamente intelligente. Da sottolineare come anche in Bandersnatch, tra l'altro disseminato di indizi sui possibili sviluppi della puntata, si omaggino in maniera più o meno celata alcuni altri episodi della serie confermando ancora una volta quella sorta di collegamento ideale che li porrebbe tutti all'interno di un universo condiviso. Oltre all'aspetto ludico ben amalgamato al dipanarsi della/e trama/e, anche se non sempre proprio libero ma pilotato dall'alto (in parte anche noi come Stefan?), l'episodio gioca con l'effetto nostalgia per gli Eighties tanto in voga negli ultimi anni, le musiche e soprattutto tutta l'iconografia a 8 bit tanto cara ai vecchi giocatori di Spectrum e Commodore non possono lasciare indifferenti quelle generazioni che hanno vissuto in prima persona quell'epoca.
Come si accennava in apertura, in Bandersnatch l'innovazione sta nel tipo di fruizione, nell'esperienza interattiva che Netflix pare voglia sviluppare in altri progetti (anche se la formula potrebbe venire presto a noia, un po' come è successo al 3D in sala); nei contenuti abbiamo una bella storia che è stata adattata con grandissima visione d'insieme alla partecipazione che si chiedeva allo spettatore. A mio avviso il risultato è stato ottimo, al netto di qualche problema tecnico che il tutto sembra aver creato a qualche utente a livello di fluidità al momento delle scelte e di fruizioni su smart tv non di ultimissima generazione. Cosa dire ancora? Eravamo in attesa che Black Mirror e Brooker ci stupissero ancora una volta... ci sono riusciti! E ora, cosa dobbiamo aspettarci?
mercoledì 2 gennaio 2019
FIRMA AWARDS 2018
Elogio alla lentezza (quasi al ritardo, perfino). Chi mi conosce lo sa, questi Awards non hanno nessun senso! Nei primi giorni dell'anno si fa un bilancio su quello che di bello ci ha fornito sotto tanti punti di vista l'anno appena trascorso, il 2018 in questo caso. Ma perché fermarci lì? Perché non celebrare quello che di meraviglioso ci ha dato il 1998 ad esempio? O semplicemente il 2017, o ancora il 1962? Vogliamo discriminare il 1984 oppure prendercela con il 2002 o ancora fare un torto al 1975 (che è pure il mio anno di nascita)? No di certo! qui non si vuol far torto a nessuno, nessuna discriminazione di nessuno tipo, gli anni son tutti belli, certo forse qualcuno più di altri ma tutti offrono qualcosa da ammirare e così...
Questo giusto per dirvi che come al solito non sono proprio sul pezzo, i Firma Awards segnalano ciò che a me è capitato di vedere o leggere di bello durante il 2018, l'anno d'uscita per me non conta, le visioni, le letture, quando arrivano arrivano, un po' come il Natale. L'importante è la qualità che come al solito non manca. Quest'anno abolirò il post dedicato al fumetto che finirà qui dentro insieme a tutto il resto. Gli anni passati almeno con questa categoria riuscivo a tenermi al passo, ora anche con le letture a fumetti sono sempre in forte ritardo, sfasato anche di un anno su alcune serie uscite nelle edicole e quindi non avrebbe più senso per me dedicare più spazio alle nuvole parlanti che non al resto, tutto verrà trattato nella stessa maniera.
Oltre al fumetto avremo quindi le solite categorie: libri, serie tv, Cinema, film d'animazione e classici. Come l'anno scorso dividerò in tre la categoria dedicata ai film: la sottocategoria film d'animazione non necessita spiegazioni, classici comprende qualsiasi film uscito nel secolo scorso (fino al 1999 quindi), Cinema si occuperà dei film dal 2000 in avanti. Senza ulteriori indugi andrei ad incominciare.
Partiamo proprio dai FILM D'ANIMAZIONE: quest'anno, complice la crescita fuori controllo di mia figlia che ha spostato i suoi interessi su film, libri e telefilm per ragazzi trascurando un pochino di più i film d'animazione (anche perché alcuni cataloghi li abbiamo quasi esauriti, quello dello Studio Ghibli ad esempio), la scelta è stata effettuata tra meno di una decina di titoli. Per la prima volta il podio è tutto Pixar.
Terzo classificato:
Cars 3 di Brian Fee
Visto con un discreto ritardo il film di Brian Fee non si rivela nulla di eccezionale pur avendo almeno un paio di grossi meriti: dopo un secondo episodio pasticciato il terzo capitolo torna a guardare ai bambini, risulta godibile e piazza una sorpresa sul finale non da poco. Visti i pochi titoli visionati Cars 3 riesce comunque a strappare il gradino più basso del podio.
Secondo classificato:
Gli Incredibili 2 di Brad Bird
Il più bel film di supereroi del 2018. Torna la famiglia Parr dopo un attesa per il pubblico fin troppo lunga, all'aspetto eroico si mescolano temi familiari e di vita quotidiana in perfetto stile Pixar. Una gioia per gli occhi, ottimo per l'aspetto tecnico. Brad Bird una garanzia.
Primo classificato:
Coco di Lee Unkrich e Adrian Molina
Una fantasmagoria di colori, una fiaba per tutti capace di commuovere fino alle lacrime, uno dei migliori esiti Pixar degli ultimi anni. W el dia de los muertos.
Questo giusto per dirvi che come al solito non sono proprio sul pezzo, i Firma Awards segnalano ciò che a me è capitato di vedere o leggere di bello durante il 2018, l'anno d'uscita per me non conta, le visioni, le letture, quando arrivano arrivano, un po' come il Natale. L'importante è la qualità che come al solito non manca. Quest'anno abolirò il post dedicato al fumetto che finirà qui dentro insieme a tutto il resto. Gli anni passati almeno con questa categoria riuscivo a tenermi al passo, ora anche con le letture a fumetti sono sempre in forte ritardo, sfasato anche di un anno su alcune serie uscite nelle edicole e quindi non avrebbe più senso per me dedicare più spazio alle nuvole parlanti che non al resto, tutto verrà trattato nella stessa maniera.
Oltre al fumetto avremo quindi le solite categorie: libri, serie tv, Cinema, film d'animazione e classici. Come l'anno scorso dividerò in tre la categoria dedicata ai film: la sottocategoria film d'animazione non necessita spiegazioni, classici comprende qualsiasi film uscito nel secolo scorso (fino al 1999 quindi), Cinema si occuperà dei film dal 2000 in avanti. Senza ulteriori indugi andrei ad incominciare.
Partiamo proprio dai FILM D'ANIMAZIONE: quest'anno, complice la crescita fuori controllo di mia figlia che ha spostato i suoi interessi su film, libri e telefilm per ragazzi trascurando un pochino di più i film d'animazione (anche perché alcuni cataloghi li abbiamo quasi esauriti, quello dello Studio Ghibli ad esempio), la scelta è stata effettuata tra meno di una decina di titoli. Per la prima volta il podio è tutto Pixar.
Terzo classificato:
Cars 3 di Brian Fee
Visto con un discreto ritardo il film di Brian Fee non si rivela nulla di eccezionale pur avendo almeno un paio di grossi meriti: dopo un secondo episodio pasticciato il terzo capitolo torna a guardare ai bambini, risulta godibile e piazza una sorpresa sul finale non da poco. Visti i pochi titoli visionati Cars 3 riesce comunque a strappare il gradino più basso del podio.
Secondo classificato:
Gli Incredibili 2 di Brad Bird
Il più bel film di supereroi del 2018. Torna la famiglia Parr dopo un attesa per il pubblico fin troppo lunga, all'aspetto eroico si mescolano temi familiari e di vita quotidiana in perfetto stile Pixar. Una gioia per gli occhi, ottimo per l'aspetto tecnico. Brad Bird una garanzia.
Primo classificato:
Coco di Lee Unkrich e Adrian Molina
Una fantasmagoria di colori, una fiaba per tutti capace di commuovere fino alle lacrime, uno dei migliori esiti Pixar degli ultimi anni. W el dia de los muertos.
Archiviati i "cartoni animati" passiamo alle SERIE TV delle quali nel complesso sono riuscito a visionare più di una quindicina di stagioni suddivise su poco meno di una decina di titoli. Sono state diverse le delusioni, purtroppo da attribuire ad alcune tra le mie serie preferite tra le quali Doctor Who e The Walking Dead. Non sono mancate comunque le cose interessanti nemmeno sul piccolo schermo.
Terzo classificato:
Il trono di spade (stagioni da 3 a 7) di George Martin, David Benioff e D. B. Weiss
Nonostante non sia la mia serie e nonostante continui a pensare che sia una delle serie più sopravvalutate di questi anni, avendone viste sette stagioni in pochissimo tempo è naturale che debba sottolinearne anche gli aspetti positivi. Tra i vari momenti di stanca, GoT offre delle sottotrame appassionanti, conta su alcuni personaggi ben sviluppati e ottimi momenti, anche se spesso cade in una scrittura approssimativa e sbrigativa. Nel complesso una buona soap opera.
Secondo classificato:
Black Mirror (stagione 4) di Charlie Brooker
Da anni la serie da seguire, Black Mirror sta cambiando, era inevitabile, con l'aumento del numero delle puntate la qualità non poteva rimanere ai livelli altissimi degli esordi ma siamo comunque ben al di sopra della media della serialità televisiva. Qualche intoppo, un po' di autoreferenzialità, ottimi spunti e uno sguardo sempre rivolto al futuro. Da poco anche interattiva. Un must.
Primo classificato:
Il miracolo di Niccolò Ammaniti
Con questa scelta ho voluto premiare le produzioni nostrane di valore e dare una spinta alla novità, nel nostro panorama serie come questa sono preziose. Ottimi spunti, indovinati i protagonisti principali e tematiche di grande fascino. Una bellissima sorpresa.
Passiamo ora alle letture partendo proprio dalla categoria FUMETTI, giusto qualche consiglio di lettura senza pretesa di segnalare capolavori o masterpieces. Un unico calderone: ristampe, cose nuove, serie regolari o volumi dai quali tirare fuori tre soli suggerimenti, un podio difficilissimo da compilare. Proviamoci. Tralascio alcune cose validissime già segnalate l'anno scorso come l'iniziativa Super Eroi Classic o le ristampe dei Grandi Maestri a opera dell'Editoriale Cosmo che continua a proporre ottimo materiale in economica. Concentriamoci su cose non segnalate l'anno scorso.
Terzo classificato:
Cybersix di Carlos Trillo e Carlos Meglia
La ristampa a opera della Cosmo del fumetto sudamericano Cybersix regale parecchie soddisfazioni a chi non ha avuto modo di leggere in precedenza le avventure di questo essere artificiale rinchiuso nel corpo di una splendida donna, cacciato dal suo stesso creatore e da versioni meno autonome di lei venute fuori da esperimenti simili a quello che l'hanno portata in vita.
Secondo classificato:
Sprayliz di Luca Enoch
Altra ristampa, ancora Cosmo. Partito con diffidenza nella lettura delle avventure della bella graffitara Elizabeth, mi ci sono ritrovato invischiato con molto piacere tra avventure sentimental/sessuali, sgarbi al potere costituito, apertura mentale e azione canonica. Niente male la piccola Liz.
Primo classificato:
Deadwood Dick di Joe R. Lansdale, Michele Masiero e Corrado Mastantuono
La Bonelli tenta una nuova strada verso il rinnovamento rilanciando il marchio Audace di cui Deadwood Dick è la prima uscita, seguita a ruota da Cani sciolti e Mister No Revolution. L'intento è lodevole i risultati ottenuti dall'adattamento delle storie di Lansdale al momento anche. Una bella ventata d'aria fresca che ci catapulta in un western un po' più moderno di quello di Aquila della notte.
Torniamo al Cinema con la categoria CLASSICI nella quale inseriamo qualsiasi cosa uscita prima del 2000, durante il secolo breve. Tre classici nelle posizioni del podio unicamente seguendo il mio gusto personale, qualcuno potrebbe non essere d'accordo con le mie scelte che già sono state difficili, fuori dal podio rimangono infatti altri grandi film che una menzione l'avrebbero pure meritata. Andiamo a vedere.
Terzo classificato:
Il gattopardo di Luchino Visconti
Spaccato di un'Italia che non c'è più portata sullo schermo con sfarzo e attenzione da Visconti nel 1963. La caduta della nobiltà per una sempre più diffusa borghesia, l'unità d'Italia, la Sicilia del Conte Fabrizio di Salina, un personaggio destinato a rimanere per sempre.
Secondo classificato:
Piano... piano, dolce Carlotta di Robert Aldrich
L'anno scorso Aldrich era rimasto fuori dal podio per un pelo con il suo Che fine ha fatto Baby Jane? sempre con Bette Davis, anche qui protagonista. Era doveroso inserire questo film che ricalca un po' lo schema del suo predecessore, grande thrilling e interpreti in gran spolvero. Un tipo di Cinema tutto da riscoprire. Anno 1964.
Primo classificato:
Uno di quei film da vedere, più moderno degli altri due in tutti i sensi, siamo nel 1981, temi crudi ma dei quali è sempre necessario parlare, all'epoca forse ancor più di oggi in quanto la piaga dell'eroina mieteva vittime in quantità industriali. Generazionale e purtroppo anche trasversale.
Passiamo ora a qualche consiglio sui LIBRI, una buona lettura fa sempre piacere e bene al cuore e alla mente. Anche quest'anno mi sono attestato su una media di circa un libro letto al mese, media falsata dal mastodontico Perfidia di Ellroy che mi ha impegnato per almeno quattro mesi.
Terzo classificato:
Pesca alla trota in America di Richard Brautigan
Finito di leggere da poco, Pesca alla trota si rivela un libro di difficile catalogazione ma che vive di un'ironia surreale e indecifrabile, tutti brevi racconti che vanno dal poco comprensibile all'esilarante con un piglio divertente ma con una nota amarognola di fondo. Un autore da rivalutare Brautigan e sicuramente da approfondire.
Secondo classificato:
Goodbye, Columbus di Philip Roth
Esordio del grandissimo Philip Roth che già contiene le caratteristiche di una scrittura d'eccezione. Vari racconti dove è centrale l'origine ebraica dello scrittore capace di mescolare idee geniali, temi intimi con ironia e grande divertimento. Imperdibile.
Primo classificato:
Perfidia di James Ellroy
Non è stato facile ma ne è valsa la pena. Quando esce uno dei libri monstre di Ellroy, nell'anno in cui riesco a leggerlo ovviamente, quasi sempre un posto sul podio è già prenotato, l'autore torna ai suoi personaggi con quella che è la prima parte di una nuova quadrilogia ambientata a Los Angeles. Non tutti possono amare Ellroy, ma per chi lo ama questo libro sarà una vera goduria.
Chiudiamo con la categoria CINEMA, con i film usciti dopo il 2000, nel nostro secolo. Una scelta difficile effettuata tra più di una settantina di alternative, cose molto valide sono rimaste fuori dai classici tre posti, vediamo invece cosa ci è rientrato.
Terzo classificato:
Manchester by the sea di Kenneth Lonergan
Film intimo e doloroso recitato in sottrazione da un grande Casey Affleck. La vita va avanti oltre il dolore ma a volte lascia dei segni che sono indelebili, difficili da cancellare. Bellissimo, uno dei migliori film visti quest'anno (altrimenti non sarebbe qui ovviamente).
Secondo classificato:
La grande bellezza di Paolo Sorrentino
Capolavoro del Cinema italiano, spesso anche discusso, a volte non capito. Jep Gambardella rimane uno dei personaggi migliori e meglio scritti del Cinema recente, non solo nostrano. Un Toni Servillo immenso, da conservare con gelosia.
Primo classificato:
I love Radio Rock di Richard Curtis
Signori, la musica! Se la musica ha avuto un qualche significato per voi, se ancora ce l'ha ed è importante I love Radio Rock non si può non amare. Io l'ho amato in maniera incondizionata. Primo posto di cuore e di pancia.
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