lunedì 31 luglio 2023

L'OCCHIO DEL MALE

(Thinner di Stephen King, 1984)

Dello pseudonimo di Stephen King, Richard Bachman, abbiamo già parlato a dovere in occasione del pezzo su La lunga marcia (1979). Oltre al libro appena citato il "re del brivido" ha siglato altri quattro romanzi con la firma di Richard Bachman: Ossessione (1977), Uscita per l'inferno (1981), L'uomo in fuga (1982) e questo L'occhio del male (1984). Riflettendo sui suoi libri firmati sotto pseudonimo, una volta che le carte furono scoperte e la doppia identità svelata al pubblico, King affermò che un paio di quei romanzi non gli sembravano più tanto buoni, tra quelli un poco criticati da King uno era proprio L'occhio del male. Lungi da me l'idea di contestare le parole del Re, in merito a un'opera da lui stesso scritta per giunta, mi prendo però la responsabilità di affermare che invece, a mio modestissimo parere, questo L'occhio del male non è affatto un cattivo romanzo, anzi. Non è ben chiaro come King scelse il materiale da pubblicare a nome Bachman, per certi versi l'idea di indirizzarsi su uno pseudonimo poteva sembrare un modo per piazzare materiale un poco lontano dal suo solito mondo orrorifico, in realtà proprio L'occhio del male smentisce questa teoria in quanto è qui ben presente l'aspetto sovrannaturale tanto caro allo scrittore di Bangor, e di certo non è difficile scorgere tra le righe del romanzo lo stile riconoscibile di King, capace anche qui come altrove di affabulare il lettore e, capitolo dopo capitolo, avvincerlo senza possibilità di fuga alla vicenda narrata.

Billy Halleck è un affermato avvocato che esercita la professione nella ricca cittadina di Fairview. Billy è apprezzato dalla comunità locale, è sposato con la bella Heidi che ancora lo ama in maniera sincera nonostante i suoi problemi di sovrappeso, è felice papà della sua Linda e sembra che la sua vita sia instradata sui binari che portano alla felicità. Un giorno però, mentre è alla guida della sua bella auto, distratto da un giochino erotico messo in atto da sua moglie, Billy investe inavvertitamente un'anziana signora, una vecchia zingara spuntata all'improvviso per attraversare la strada in un punto dove non sarebbe consentito. La donna morirà da lì a poco, però la donna è una zingara, ha attraversato dove non avrebbe dovuto, Billy invece è un rispettato cittadino, uno a modo, così il capo della polizia di Fairview non mette forse il giusto impegno nel cercare di capire la dinamica dell'incidente, il giudice che dovrà esprimersi sulla vicenda sarà molto clemente e Billy tutto sommato se la caverà con poco, al limite dovrà vedersela con la sua coscienza. Però. Però c'è il fatto che quella zingara aveva un marito, un gitano come lei che decide di somministrare la sua di giustizia e lo fa con una sola parola: Dimagra. Così Billy inizia a dimagrire, inspiegabilmente, un po' alla volta nonostante faccia pasti per 6.000 calorie al giorno. Dimagra, e Billy dimagrisce, una sorta di contrappasso per la colpa dell'avvocato, quella di aver ucciso l'anziana e esserne uscito indenne, Billy sconta la sua colpa e quella della settaria opulenza della società americana, quella di una giustizia che è uguale per tutti solo sulla carta ma che non si cura degli emarginati e dei diversi. Non sarà solo Billy a pagare lo scotto del suo gesto involontario, ma quando le cose inizieranno a mettersi davvero male Billy reagirà, non ci sarà Dimagra che tenga, in fondo i contatti di un avvocato non sempre si limitano alla fetta per bene dei suoi clienti.

Al netto di una delle copertine più brutte sulla faccia della Terra (il riferimento è all'edizione Bompiani del 1986), L'occhio del male si è rivelata una lettura avvincente e sempre piacevole. La maestria di King nel descrivere luoghi e situazioni è qui sempre ben presente con un ficcante spaccato di una borghesia americana benestante privilegiata e spesso morbosamente attaccata ai suoi stessi privilegi. Non è nemmeno tanto sottotraccia una critica feroce al sistema sia economico che giudiziario americano che, se non proprio alla luce del sole, è ancora diviso in caste e classi sociali dove le professioni remunerative garantiscono accessi a un certo mondo insieme al colore della pelle e alla provenienza da ambienti ben precisi che non tollerano troppe divagazioni da ciò che il comune pensare accetta come lecito e decoroso. Il personaggio di Halleck, il protagonista, in realtà non è nemmeno cattivo, è semplicemente nato sullo spicchio giusto della "ruota della fortuna", è però ben deciso a non pagare oltremodo per i suoi errori e per (non) farlo non esiterà a ricorrere a mezzi poco puliti, seppur con qualche rimorso di coscienza. La costruzione è avvincente, le dinamiche dei rapporti tra i personaggi pennellate con maestria, non solo quelli tra antagonisti ma anche quelli tra Billy e la moglie, tra lo stesso e il suo medico che lo vede dimagrire giorno dopo giorno e soprattutto quello tra l'avvocato e il suo ex cliente criminale Richard Ginelli. Finale terribile, come a dire che una volta entrati nella spirale del male, della violenza, non se ne esce incolumi.

sabato 29 luglio 2023

RITORNO A SEOUL

(Retour à Séoul di Davy Chou, 2022)

Il regista franco-cambogiano Davy Chou è un "giovanotto" classe 1983 che con Ritorno a Seoul giunge al suo secondo lungometraggio. Chou ha lavorato moltissimo per rilanciare il cinema del suo Paese d'origine, la Cambogia, promuovendo diverse iniziative per favorire un nuovo cinema giovane cambogiano, lavorando anche con diverse università del Paese e riaccendendo la memoria del passato con il documentario Golden slumbers che celebra il cinema cambogiano precedente all'avvento nella nazione dei Khmer rossi. Promotore anche di festival cinematografici sempre nell'ottica di spingere l'industria cinematografica del suo Paese, Chou è un esempio perfetto di ponte tra più culture, nato in Francia nel comune di Fontenay-aux-Roses, figlio di un produttore cambogiano; ci si sarebbe quindi aspettati un melting-pot cinematografico che guardasse a questi Paesi, invece la protagonista di Ritorno a Seoul, personaggio con pochi eguali nel cinema odierno, è una ragazza adottata da genitori francesi e cresciuta a Parigi ma nata in Corea del Sud da genitori biologici coreani che la diedero in adozione da piccolissima. L'appartenere a due culture diverse, a due famiglie diverse (anche se una sconosciuta e assente), a due paesi diversi, diventa un nodo focale di un racconto (bellissimo) su una giovane donna alla ricerca, prima di ogni altra cosa, di sé stessa, della sua identità, non tanto di quella anagrafica, biologica, "di sangue", quanto quella di persona alla ricerca di un posto nel mondo, alla ricerca del proprio essere, del proprio intimo che sembra essersi perso o semplicemente mai sviluppatosi a dovere.

Freddie (Ji-Min Park) è una giovane ragazza che per la prima volta nella sua vita visita il Paese in cui è nata, la Corea del Sud, recandosi nelle zone di origine della sua famiglia biologica che la diede in adozione da piccola a una famiglia francese. Qui Freddie stringe amicizia con Tena (Guka Han), la receptionist dell'albergo in cui Freddie alloggia. La ragazza si reca nell'agenzia che a suo tempo seguì tutta la procedura della sua adozione, tramite loro riuscirà a rintracciare suo padre (Oh Kwang-rok) e alcuni componenti della famiglia paterna tra i quali la nonna (Hur Ouk-Sook). L'incontro non è dei più facili, Freddie cova ancora un senso di rancore per l'abbandono, la famiglia e il padre di contro si mostrano mortificati per la loro scelta effettuata in un momento storico terribile per la Corea e in ottica di un futuro benessere per la bambina; sia il padre che la nonna cercano di far diventare Freddie parte della loro famiglia e non mancano di sottolineare il loro dolore per l'abbandono della ragazza, cosa che sembra più che altro irritare Freddie. La madre naturale invece, nonostante i diversi tentativi di contatto, non si fa viva. Quella che doveva essere una breve vacanza si trasformerà per Freddie in una sosta a tempo indeterminato durante la quale la giovane cercherà non solo di capire i suoi sentimenti nei confronti delle persone e del Paese che l'hanno abbandonata, ma anche e soprattutto di trovare la sua vera essenza, un elemento che sembra vivere di caos e disordine, di assenze e inevitabile spaesamento, pur venendo da Freddie affrontato e cercato con decisione. Il percorso non sarà facile ma lungo, incerto e accidentato.

Davy Chou con Ritorno a Seoul confeziona un film che sembra difficile accostare ad altre opere, e questo è già un grandissimo punto di forza, mette inoltre al centro della sua storia un bellissimo personaggio, secondo punto di forza, interpretato in maniera incredibile dall'esordiente di talento Ji-Min Park (e siamo a tre). Ma ciò che colpisce davvero in Ritorno a Seoul è l'andamento di un film capace di sorprendere e di costruire, sequenza dopo sequenza, una protagonista persa e spaesata, alla ricerca di un qualcosa che forse nemmeno lei stessa sa bene cosa sia; il modo diretto in cui Freddie affronta le situazioni e l'approccio a una cultura per lei nuova è sempre forte, a volte provocatorio, in alcuni momenti all'apparenza anche crudele, ritorna alla mente la frase rivolta al compagno, in uno dei tanti passaggi della vita di Freddie, "Potrei cancellarti dalla mia vita con uno schiocco di dita", un'uscita cattiva che sottolinea però più che un astio nei confronti dell'altro una mancanza di qualcosa di importante dentro sé stessa. Nel delineare la sua protagonista Davy Chou ci accompagna in diversi momenti della sua vita con alcuni salti in avanti di diversi anni, uno dei quali con un cambio di stile sembra restituirci una Freddie uscita da uno screening per un film di fantascienza con tanto di luci al neon e giubbotto avveniristico, in altre sequenze sembra di avere davanti una donna in carriera (carriera magari discutibile), una prostituta, una donna spezzata dal dolore, a volte solo un'anima persa e vuota. Ritorno a Seoul è uno di quei film un poco difficili da descrivere a parole, è un'esperienza di visione che va affrontata, profonda, realizzata con sapienza (costumi, luci, musiche), capace di lasciare un senso irrequieto di ricerca che non mancherà di persistere anche oltre la chiusura dei titoli di coda.

venerdì 21 luglio 2023

LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE

(Kaguya-hime no monogatari di Isao Takahata, 2013)

Quando pensiamo all'animazione dello Studio Ghibli il nome che alla maggior parte del pubblico balza subito alla mente è senza dubbio alcuno quello dell'inarrivabile maestro Hayao Miyazaki, autore del maggior numero di opere dello Studio, tra queste sicuramente ci sono alcune tra le più amate e riconoscibili di Ghibli, il suo Totoro ha raggiunto una popolarità tale da essere diventato un essere fantastico riconoscibile in tutto il mondo e il simbolo grafico che contraddistingue le opere dello Studio Ghibli ancora oggi. Non dobbiamo però dimenticare che i fondatori dello Studio furono quattro, due produttori e due animatori, insieme a Miyazaki c'è sempre stato l'imprescindibile Isao Takahata che ci ha purtroppo lasciati ormai da qualche anno (2018). Se i lungometraggi diretti da Miyazaki non hanno davvero bisogno di nessuna presentazione, anche i lavori di Takahata hanno regalato ai fan parecchie gioie e alcuni titoli memorabili: suoi lo struggente Una tomba per le lucciole, uno dei racconti più dolorosi e commoventi messi in piedi dalla produzione Ghibli, un vero capolavoro, il racconto intimo e delicato di Pioggia di ricordi, altro esito riuscitissimo, il particolare Pom Poko, forse meno accattivante ma di certo originale con le sue figure dei tanuki, strani animaletti che popolano le colline sopra Tokyo, e ancora la commedia familiare de I miei vicini Yamada fino ad arrivare infine a quest'ultima meraviglia, La storia della principessa splendente, lungometraggio dalla realizzazione travagliata e ultimo lavoro lasciatoci da Takahata. Ovviamente il lavoro di Takahata non si limita alle opere realizzate per lo Studio Ghibli, si può trovare il suo zampino in diverse serie che ci hanno allietati fin da bambini, cosine come Heidi, Marco (che per molti era Dagli Appennini alle Ande), Le avventure di Lupin III e il bellissimo Anna dai capelli rossi. Per questo La storia della principessa splendente Takahata adatta un fiaba giapponese del X secolo ispirandosi anche ad alcuni elementi della vecchia Heidi, riportandoli alla realtà e alla sensibilità giapponese (per i lettori nati su un altro mondo ricordiamo che Heidi era ambientato tra Svizzera e Germania).

Un anziano tagliatore di bambù assiste nella foresta a un evento miracoloso: dall'interno di un fusto di bambù nasce una bambina splendente, avvolta in un'aura di luce bianca, una piccola gemma; sarà proprio "gemma di bambù" il nome che le daranno i ragazzini della zona. Così questa tenera bimba crescerà grazie alle cure amorevoli del tagliatore di bambù e di sua moglie; la sua crescita è prodigiosa, un fenomeno ultraterreno, in poco tempo quella che è una neonata diventa una giovane ragazzina che legherà con i coetanei del villaggio montano in cui vive, soprattutto con il giovane Sutemaru. Principessa, così la chiama amorevolmente il suo papà, diventa sempre più la ragione di vita dei suoi genitori; un giorno, dentro un'altra canna di bambù, il papà di Principessa trova dell'oro e delle stoffe pregiate. L'anziano interpreta questo come un altro segno del cielo, una volontà superiore che sembra volere per Principessa un destino da nobile dama e non da semplice, ma felice, contadina. Così il papà decide di portare la famiglia a vivere in un grande palazzo della capitale, qui Principessa diventa una sorta di leggenda per la sua grazia e bellezza, ma in città la principessa splendente è sola, conduce una vita ritirata e triste, sacrificata nell'intento di non dare una delusione al suo papà che, seppur un poco accecato dal prestigio ottenuto, continua a voler bene in modo sincero alla sua figlia miracolosa. Saranno molti i nobili uomini a voler sposare "gemma di bambù", ma lei non vuole un legame che poggi su basi così inconsistenti...

La storia della principessa splendente esce nel 2013, sono passati quattordici anni dalla precedente regia di Isao Takahata, I miei vicini Yamada che con questo film ha un legame di continuità almeno per quel che riguarda la sperimentazione grafica. Se i toni generali dei due lungometraggi sono parecchio differenti (I miei vicini Yamada virava su sentieri più divertiti) La storia della principessa splendente sviluppa quel segno scarno, su fondo in prevalenza bianco, che si discosta molto dagli esiti più noti e riusciti dello Studio Ghibli ma che riesce a dimostrare tutta la padronanza del tratto che diventa poesia pura, senza intenzione di usare frasi fatte o roboanti, questo è ciò che hanno realizzato Takahata e i suoi collaboratori con questo testamento virtuoso di magistrale delicatezza e amore per la tradizione. Quello che lo spettatore si trova di fronte agli occhi richiama infatti moltissimo la tradizione del disegno giapponese, come ha potuto constatare chi ha potuto vedere la recente e bellissima mostra Utamaro, Hokusai, Hiroshige presso la Promotrice delle Belle Arti di Torino, ennesima dimostrazione che la via del digitale non è l'unica percorribile, anzi. Sul piano dei contenuti siamo di fronte a una fiaba, spesso triste, dove i temi e gli spunti si contano innumerevoli: c'è lo sradicamento, l'abbandono della propria terra con tutte le conseguenze di malinconico dolore che ne conseguono, compresa la perdita degli affetti cari, c'è l'ambizione dei genitori e la loro volontà, perseguita magari anche con buone intenzioni, di pilotare la vita dei propri figli impedendone di fatto la felicità, c'è la riflessione sulla vacuità della ricchezza materiale e un sacco di altre cose. Nei ritmi il film di Takahata si discosta un poco dalla struttura dell'animazione moderna alla quale siamo più abituati, si superano abbondantemente le due ore di durata per un film che richiede di essere abbracciato con amore, di dedicargli un'attenzione e una sensibilità estranee alla media, si verrà ripagati. Un'ottima visione in attesa che esca l'ultimo di Miyazaki; Takahata già ci manca, preghiamo per il futuro dello Studio.

mercoledì 19 luglio 2023

MIXED BY ERRY

(di Sydney Sibilia, 2023)

L'accoppiata costituita dalla Groenlandia di Matteo Rovere e dalla regia di Sydney Sibilia (cofondatore di Groenlandia) può ormai considerarsi la factory di riferimento per la nuova e divertente (cosa non affatto scontata) commedia italiana. Sibilia e Rovere vantano un'approccio alla commedia molto radicato nel nostro Paese ma che gode di una forte capacità di parlare a tutti grazie a film nei quali l'arte del divertire è sempre il fine ultimo, anche quando dentro i racconti si possono rintracciare storie ispirate a fatti reali, momenti storici del nostro passato ancora recente, temi attuali e via discorrendo, tutte cose queste che donano un maggiore spessore a film che comunque hanno come scopo principale quello di farci ridere, obiettivo che finora sono riusciti a perseguire piuttosto bene. Dopo la trilogia di Smetto quando voglio e a tre anni di distanza da L'incredibile storia dell'Isola delle rose Sibilia e soci sbarcano a Napoli per raccontarci un'altra storia vera, come già accaduto nel film precedente, prendendo in esame un fenomeno che in qualche modo ha toccato tutti noi spettatori non proprio più giovanissimi, quello delle musicassette piratate, un fenomeno che partito da Napoli assunse proporzioni inusitate tanto da muovere un giro di miliardi (siamo negli anni Ottanta, c'erano ancora le lire) e rendere ricchi Enrico Frattasio e i suoi due fratelli, ideatori dell'etichetta pirata Mixed by Erry.

Siamo tra la fine dei Settanta e l'inizio degli Ottanta, in un piccolo appartamento del quartiere Forcella di Napoli abita la famiglia Frattasio. Papà Pasquale (Adriano Pantaleo) vive di piccoli espedienti, truffa ignari acquirenti vendendo su una bancarella bottiglie di Jack Daniel's riempite con del semplice tè preparato in casa con l'aiuto dei figli che di tanto in tanto non disdegnano di dare una mano al padre con la bancarella. Mamma Marisa (Cristiana Dell'Anna) si occupa della casa e dei tre ragazzi: Enrico fa le pulizie in un negozio che vende elettrodomestici e dischi, il suo sogno è quello di fare il dj ma i suoi tentativi nel panorama danzante di Napoli non riscontrano molto successo, anche a causa dell'esagerata timidezza del ragazzo; Enrico (Luigi D'Oriano) così si contenta di preparare qualche compilation su musicassetta per amici e conoscenti. Peppe (Giuseppe Arena) è il genio della famiglia, si è preso addirittura la licenza elementare (niente meno direbbero a Napoli), un po' di spirito imprenditoriale servirà poi per avviare un'attività in grande per l'etichetta pirata che prenderà il nome di Mixed by Erry. Angelo (Emanuele Palumbo), a dispetto del nome, è quello che in famiglia ha qualche tendenza a delinquere (chissà da chi avrà preso), per difendere il fratello maggiore si prende un'accusa per tentato omicidio e finisce in carcere dove si forgia il carattere e fa anche qualche utile conoscenza. Quando si presenterà la necessità impellente di fare soldi, Enrico e Peppe studieranno un modo per far diventare la passione di Enrico, che nel quartiere riscuote un certo successo con le sue cassettine, un vero e proprio lavoro (a nero ovviamente), chiederanno un prestito a un boss della malavita locale per investire in tecnologia e ingrandire il loro giro; la Mixed by Erry diventerà in poco tempo per fatturato la prima (illegale) etichetta discografica in Italia.

Sibilia incontra per la prima volta la vena napoletana della comicità e il connubio trova da subito i tempi giusti della commedia di valore. Si ride parecchio e ci si appassiona sia ai personaggi sia alla storia che porta alla luce, anche per chi già non la conosce, la vicenda dell'etichetta Mixed by Erry, fenomeno di costume ed economico dalle proporzioni fuori scala. In un film dove la musica è il centro della narrazione è quasi scontato come la colonna sonora sia parte importante per la riuscita di un film che cavalca un'onda gigante di amarcord; brani come E mò e mò di Peppino Di Capri, come usa dire oggi, sbloccano ricordi di anni ormai lontani, il mix di brani internazionali aiuta lo spettatore a calarsi nell'epoca degli eventi, tra una Fade to gray dei Visage e una Relax dei Frankie goes to Hollywood. Indovinato il cast con volti nuovi per i tre protagonisti principali che, ognuno a suo modo, attinge alla scuola della comicità campana dove è impossibile non notare echi fortissimi della figura di Massimo Troisi: se Luigi D'Oriano guarda anche troppo, scivolando di quando in quando, all'indole del Troisi più timido, va molto meglio con Palumbo che ne interpreta il lato più genuinamente spiritoso, offrendo alcuni passaggi davvero ottimi come il racconto dell'incontro in carcere con il Maestro De Filippo. Sibilia ritrae una Napoli viva, dove sono evidenti i problemi, ma che diventa una splendida quinta di una messa in scena davvero divertente, piega la storia alle sue esigenze, ne amplifica alcuni tratti, si inventa delle cose di sana pianta, ma tiene dritta la barra in direzione di una comicità mai dozzinale e sempre efficace. Ogni tanto fa piacere avere dei punti di riferimento, per la nostra commedia Sibilia più essere di certo uno di questi.

sabato 15 luglio 2023

CORRI UOMO CORRI

(di Sergio Sollima, 1968)

C'è nel western un filone dove di cowboys veri e propri, indiani e pistoleri se ne vedono davvero pochi, dove a farla da padrone sono spesso poveri peones, contadini alla ricerca di una vita più dignitosa, alle prese con il problema della fame e alla ricerca di una nuova libertà, tutte cose più che terrene spesso accompagnate di pari passo da alti ideali e dal sogno/miraggio della Rivoluzione. È il così detto western terzomondista, spesso ambientato in Messico ai tempi della Rivoluzione Messicana, evento storico al quale anche idealisti nordamericani, gringos per i peones, non disdegnarono di partecipare, anche se non proprio sempre mossi da alti ideali di libertà e indipendenza per i loro vicini messicani. È un western ambientato in epoca tarda questo, la dittatura del generale Porfiro Diaz, quella che i protagonisti di Corri uomo corri vivono e a modo loro si trovano a combattere, si protrasse infatti fino al secondo decennio del 1900, siamo quindi già nel "secolo breve" secondo la definizione di Eric Hobsbawm, la Rivoluzione Messicana si svolse infatti tra il 1910 e il 1920 circa. È in questo contesto che Sergio Sollima ambienta almeno due tasselli della sua trilogia western, Corri uomo corri arriva dopo La resa dei conti (1966) e Faccia a faccia (1967) e del film del 1966 è un diretto sequel, ne riprende infatti il personaggio interpretato da Tomas Milian: Manuel "Cuchillo" Sanchez; ciò nonostante Corri uomo corri rimane un film comprensibile e godibile pur non avendo visto il precedente La resa dei conti.

Il peone e ladro messicano Manuel Sanchez (Tomas Milian), detto Cuchillo per la sua grande abilità nell'uso del coltello, torna al suo paese d'origine e alla sua Dolores (Chelo Alonso) dopo una delle sue scorribande inconcludenti. Qui assiste a un duello tra un bandito e l'ex sceriffo nordamericano Cassidy (Donald 'Brien), suo vecchio compagno di Rivoluzione, scommettendo una cifra sulla vittoria del suo vecchio conoscente. Ora però Cassidy non è più mosso da alti ideali ma è alla ricerca di un favoloso tesoro in oro che si dice i rivoluzionari abbiano nascosto per rovesciare la dittatura di Porfiro Diaz. A duello finito Cuchillo viene trovato dai gendarmi messicani con indosso la somma della vincita; non creduto sulla provenienza della stessa viene sbattuto in prigione a dividere la cella con il poeta rivoluzionario Ramirez (José Torres). Sarà proprio quest'ultimo a giudicare con benevolenza Cuchillo e a rivelargli il luogo dove è nascosto l'oro raccomandandosi che questo venga utilizzato per i poveri peones. Dovendosi guardare dall'esercito di Diaz, dallo stesso Cassidy, dagli agguati tesigli da Dolores che in testa ha solo il matrimonio e anche dalla belligeranza della puritana Penny Bannington (Linda Veras), morigerata esponente dell'Esercito della Salvezza, Cuchillo inizia il suo viaggio attraverso Messico prima e Stati Uniti poi verso il famigerato tesoro.

Siamo nel '68 e come altri western del periodo anche in Corri uomo corri si respirano echi sessantottini: critica sociale e profumo di rivoluzione, pur senza che in questo Sollima calchi troppo la mano. Il film presenta infatti una evidente vena comica, portata avanti in misura maggiore proprio dall'ottimo Tomas Milian e dal suo Cuchillo, imbattibile col coltello ma combattente per necessità, un mite non sprovveduto ma con il cuore al posto giusto. Non siamo ancora dalle parti del western comico tout court, cose come il celebre Lo chiamavano Trinità di Barboni sono ancora un poco lontane (non nel tempo ma nell'approccio), ma la vena umoristica qui si intravede già tutta. Sollima, pur non girando un film memorabile, compie un ottimo lavoro e lascia al genere alcune sequenze ben riuscite come quella del duello tra coltello e pistola o quella della tortura sul mulino. Non è ancora presente quella dose massiccia di violenza che sarà propria di diversi spaghetti western successivi, anche perché appunto stemperata da una nota comica e dalla vena politica, con un amalgama tra i vari elementi nel complesso funzionale. Corri uomo corri è un western dove il protagonista più che altro scappa, i rappresentanti dell'Esercito della Salvezza possono essere delle bellissime sventole bionde e l'approccio del protagonista più atto a una simpatica canaglia che non a un truce raddrizzatorti. Non male nemmeno la colonna sonora di Bruno Nicolai con il suo tema ricorrente. Non sarà Leone (non lo è), non sarà Corbucci (non lo è), però anche Sollima...

giovedì 13 luglio 2023

IL MARMO

(El mármol di César Aira, 2011)

Nell'edizione edita da Edizioni Sur de Il marmo di César Aira è presente un'introduzione dello scrittore italiano Giuseppe Genna che a sua volta cita parole di Tommaso Pincio esplicative ed emblematiche di ciò che sembra essere l'approccio alla scrittura dell'autore argentino, classe 1949 e una lista lunghissima di brevi romanzi (sono circa un'ottantina) alle spalle. Sembra infatti che Aira segua un suo metodo, con costanza e dedizione e, crediamo, anche con un certo piacere; "in cosa consista questo metodo è presto detto. Ogni giorno [Aira] si reca in un caffè, si siede e scrive una pagina. Riempito di parole quell'unico foglio, si alza e se ne va. Il foglio andrà a costituire il tassello quotidiano di un libro che, in media, gli richiede tre o quattro mesi di lavoro, giacché i suoi libri contano, in media, di un centinaio di pagine". È un metodo questo che in effetti sembra adattarsi in maniera perfetta a quello che è il contenuto de Il marmo, un romanzo con un incedere stralunato che sembra poggiarsi sull'improvvisazione del momento, un metodo appunto che, probabilmente, Aira mette in pratica davvero ogni giorno, al bar, seduto davanti a un bicchiere o una tazza di chissà che cosa. Poche digressioni, diretti verso una meta (e una trama) che può avere dell'inconcepibile, dell'irreale, e che anche noi lettori abbiamo l'impressione di scoprire passo passo, senza poterne immaginare gli sviluppi, un po' come (forse) è uscita dalla penna di Aira. Me lo immagino Aira che paga il conto e alzandosi magari si domanda cosa possa venir fuori dalla penna il giorno dopo. O magari non se ne preoccupa minimamente.

Il nostro protagonista, in un attimo di scarsa lucidità, si trova seduto su un blocco di marmo a rimirarsi le gambe, le cosce, le palle, senza aver cognizione di come si sia trovato a poggiare il deretano, braghe calate, al suddetto blocco di marmo. È nel tentar di rimembrare i fatti che l'hanno portato a trovarsi in quella bizzarra situazione che principia il vero svolgimento del romanzo. Il protagonista, età avanzata, disoccupato ma già vicino alla pensione, infilato in un matrimonio senza più amore, si trova a fare compere in un supermercato gestito da cinesi. Nell'atto di dover pagare si figura la ricorrente situazione del commerciante sprovvisto di resto, così, come si faceva una volta anche da noi con le caramelle o con i gettoni per le cabine telefoniche, il cinese offre in cambio al Nostro dei piccoli oggetti, una serie numerosa di cianfrusaglie che dovrebbero andare a coprire quella differenza, comunque modica, tra il pagato e il dovuto: delle pile, un'anello, una macchinetta fotografica in miniatura, un occhio di plastica e altro ancora, per finire poi con delle palline di marmo che probabilmente i supermercati cinesi usano come una sorta di valuta alternativa. Uscito dal negozio con le tasche piene di questi inutili oggetti, il protagonista incontra un ragazzo giovane, anche lui cinese, che sembra sapere qualcosa di parecchio interessante che il Nostro non sa: inizia così un'avventura surreale lungo la quale ognuno di quegli stupidi oggetti si rivelerà essere a suo modo fondamentale per dipanare le situazioni più assurde. Ma fondamentale per cosa poi?

Racconto anarchico, non tanto per la struttura che è piuttosto lineare (ricordate il bar? quella pagina al giorno?) quanto per il contenuto totalmente strampalato, divertente e dal filo logico flebile e surreale. Ci si trova avvinti in questa storia incredibile (nel senso che non gli si può proprio credere) dove il protagonista, come un novello McGyver da hard discount risolve situazioni e si cava dagli impicci (o dagli impacci) utilizzando in maniera alogica tutta quella chincaglieria assortita che il primo dei tanti cinesi incontrati gli aveva forzatamente affibbiato. E così pagina dopo pagina, caffè dopo caffè, giorno dopo giorno (almeno per Aira, per il lettore il libro si legge in pochissimo tempo), la storia sembra svilupparsi in maniera (in)naturale seguendo il suo ritmo, assunti all'apparenza senza senso che porteranno a riflessioni del protagonista sull'universo, sugli universi, sulla vita e tutto il resto. E in questo caso la vita è un gioco, un gioco come forse per César Aira è l'arte dello scrivere.

martedì 11 luglio 2023

SPIDER-MAN: ACROSS THE SPIDER-VERSE

(di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson, 2023)

Nel 2018 usciva Spider-Man: Un nuovo universo, diretto da un altro team di registi sempre per la Sony Pictures Animation (i tre erano Persichetti, Ramsey e Rothman). L'uscita di questo film d'animazione fu una bellissima sorpresa, una boccata d'aria fresca per un'opera che sembrava sul serio portare l'animazione un passo avanti, un salto nel futuro a mezzo di qualcosa che aveva il profumo di nuovo, originale, mai visto e dannatamente ben riuscito. Questo Spider-man: Across the Spider-Verse, sequel di Un nuovo universo, non ha tra le frecce al suo arco quell'effetto sorpresa suscitato dal primo capitolo, ciò nonostante il film di Dos Santos, Powers (già direttore di Soul della Pixar) e Thompson si avvicina moltissimo all'essere un capolavoro, di certo per quel che riguarda il cinema d'animazione ma al netto di questo, Across the Spider-Verse si ritaglia anche un posto tra i film migliori del genere supereroico (di certo il migliore di quest'anno finora). Inoltre, assodato il lavoro strepitoso compiuto sul versante dell'animazione (altro Oscar in arrivo?) Across the Spider-verse è anche un film riuscitissimo nel suo narrare l'adolescenza, il rapporto difficile che si ha a quell'età con gli adulti, con i genitori, persone che cercano in ogni modo di far la cosa giusta per i propri figli, per mantenerli al sicuro e proteggerli e che facendolo sbagliano inevitabilmente qualcosa, spesso per troppo amore o per difficoltà nel capire i giovani e i tempi, i cambiamenti, le loro reali aspirazioni. Insomma, se l'aspetto tecnico è semplicemente stupefacente, quello narrativo tiene il passo, per non parlare poi del ritmo indiavolato che fa passare queste due ore e venti in un baleno (sì, i film brevi sembra non si possano più fare nel circuito mainstream).

Nell'universo del Nostro Miles Morales, a.k.a. Spider-Man, non ci sono più gli amici che il ragazzo aveva conosciuto durante la passata avventura, gli Spider-Men delle altre dimensioni sono tornati a casa loro, così Miles si barcamena tra un forte senso di mancanza per l'amica Gwen, i problemi scolastici, la vita da Spider-Man e le aspettative dei suoi genitori che Miles non vorrebbe deludere ma che spesso non coincidono con i desideri del ragazzo. Nel frattempo, in un altro universo, Gwen affronta problemi simili: il difficile rapporto col padre, poliziotto che dà la caccia a Spider Woman inconsapevole che questa altri non è che sua figlia, la mancanza di Miles e le sfide con avversari provenienti da altre dimensioni. Al termine di uno di questi scontri Gwen viene reclutata dal riluttante Miguel O'Hara (lo Spider-Man del 2099) e da Jessica Drew (un'altra Spider-Woman) per entrare a far parte della Spider Society, un gruppo di Spider-Men provenienti da vari universi che tentano di tenere insieme il tessuto del multiverso cercando di evitare contaminazioni tra le varie realtà e assicurando che alcuni eventi, dei nodi focali, non vengano mai alterati nelle varie realtà per evitare spiacevoli e complicati effetti a cascata. Ma a sconvolgere il multiverso sarà proprio uno dei nemici di Miles, un criminale all'apparenza di mezza tacca ma ben determinato a vendicarsi di Spider-Man per quanto successo durante il loro precedente incontro: La Macchia. Per ripristinare il multiverso e fermare i piani di vendetta della Macchia, Spider-Man e la Spider Society dovranno collaborare, ma i sacrifici per rimettere tutto a posto sembrano essere di quelli impossibili da accettare.

Il film, che alla sceneggiatura vede Lord e Miller già artefici dei brand di Piovono polpette e The Lego Movie (Lego presenti anche in Across the Spider-verse), indovina perfettamente un connubio di più linguaggi: il primo è il melting-pot tecnico-visivo che unisce una serie di stili d'animazione differenti capaci di restituire la ricchezza che dovrebbe logicamente essere propria di un multiverso. È possibile che, posto che finissimo davvero tutti risucchiati in un altro universo, questo si presenti identico al nostro? E se la risposta fosse no, come appariremmo noi in quell'altro universo? Forse come un'anomalia, un segno grafico differente e distinto che potrebbe comunque convivere con quelli dell'altro universo e che potrebbero diventare una miriade e coesistere tutti insieme in caso di multiverso. Ecco, un pochino Spider-Man: Across the Spider-verse ci restituisce questa idea, moderna e ingarbugliata, che sul grande schermo però funziona maledettamente bene e ha la capacità di lasciare lo spettatore con la bocca aperta per l'intera durata del film. Oltre alla meraviglia visiva c'è un altro linguaggio che funziona bene (o almeno così mi sembra), il film parla ai giovani, i protagonisti usano mezzi e abitudini dei ragazzi e veicolano con le loro storie un sentire che potrebbe essere di molti adolescenti, i rapporti tra i personaggi sono ben sviluppati, quegli con gli adulti, più conflittuali, anche, magari un pizzico "cinematografici" ma nei concetti di base credibili. Funzionano anche molto bene il linguaggio musicale che accompagna le avventure di Miles Morales e soci e quello puramente da Marvel-fan, con una buona dose di riferimenti alla Casa delle Idee (bellissima la comparsa dello statico Spider-Man dei cartoni animati anni 70) e alla tradizione del mondo dell'Uomo Ragno. C'è davvero poco che si possa rimproverare a questo film, piccolo (ma neanche tanto) capolavoro immaginifico, uno di quelli che un domani forse indicheremo come precursore per nuove strade che sicuramente vedranno in futuro il loro giusto sviluppo.

venerdì 7 luglio 2023

VI PRESENTO TONI ERDMANN

(Toni Erdmann di Maren Ade, 2016)

Coproduzione tra più paesi per questo Vi presento Toni Erdmann: Germania, patria della regista Maren Ade e della protagonista Sandra Hüller, Austria, paese d'origine del nostro Toni Erdmann, il bravissimo Peter Simonischek in realtà, Romania, luogo d'ambientazione della storia narrata, e ancora capitali da Svizzera, Francia, Principato di Monaco. Probabilmente il buon successo di critica del precedente film della regista Maren Ade, Allen Anderen (Orso d'argento al Festival di Berlino), ha fatto sì che affluissero i giusti finanziamenti per un film abbastanza rischioso se si valutano l'approccio stralunato e amarissimo alla commedia da parte della Ade e il grottesco protagonista, elementi che convivono in maniera calibratissima in un film che sfiora le due ore e quarantacinque minuti di durata, un minutaggio non usuale per una commedia europea. Anche per questo film la critica è stata per lo più generosa, Vi presento Toni Erdmann si guadagna una candidatura all'Oscar come Miglior film straniero e il premio Fipresci al Festival di Cannes. In effetti le attenzioni all'opera e le critiche positive sembrano davvero più che giustificate per un film che pur senza sconvolgere osa parecchio e riesce a risultare diverso, coraggioso e allo stesso tempo divertente, anche quando sembrerebbe non poterlo proprio essere.

Winfried Conradi (Peter Simonischek) è un tedesco ormai in pensione, ex insegnante che col tempo si è un po' allontanato dalla figlia Ines (Sandra Hüller). In occasione di una festa, padre e figlia si incontrano a casa dell'ex moglie di Winfried, il loro rapporto sembra impacciato, un po' teso, freddo. Ines è una donna in carriera molto impegnata, una sorta di "tagliatrice di teste" per una multinazionale occidentale, trasferita per un periodo in Romania per seguire alcuni affari per conto della casa madre. Al contrario della figlia, Winfried è un uomo a cui piace scherzare, godere delle cose semplici della vita e buttare tutto sul ridere, anche a costo di sembrare a volte un po' molesto e fonte di imbarazzo per chi gli sta vicino. Winfried osserva un poco la vita della figlia, gli sembra un'esistenza triste, poco umana, la raggiunge così in Romania per cercare un nuovo contatto, un modo per riattivare questa figlia che per qualche motivo ha quasi perso, ma lì, tra contatti di lavoro, incarichi pressanti e incontri fondamentali per il futuro lavorativo di Ines, Winfried sembra per l'ennesima volta essere solo fonte di imbarazzo. Allora questo padre, invece di arrendersi e tornarsene a casa con le pive nel sacco, si inventa un'altra figura paterna, ma non lo fa andando incontro ai possibili desiderata della figlia, bensì esasperando quella figura di giullare tipica sua, nella speranza forse di incrinare il formalismo di Ines e inciderne la superficie, per far filtrare qualcosa nella/dalla struttura autoimposta della donna, magari mandarla in pezzi per poterla sostituire con altro. Ecco che nasce così Toni Erdmann, un uomo grottesco che si spaccia per motivatore della stessa azienda per cui lavora Ines, millanta conoscenze altolocate, attacca bottone con tutti e non si fa scrupolo di intrufolarsi nella vita di altre persone. Riuscirà questa macchietta con parruccone e denti finti a destabilizzare il freddo e moderno stile di vita di Ines?

Maren Ade mette in scena una commedia che ha nelle sue fondamenta importanti gettate di tristezza e solitudine, solitudini al plurale, solitudini che fanno difficoltà a incontrarsi anche nel rapporto tra un padre e una figlia, un rapporto che dovrebbe essere privilegiato e che si rivela invece difficilissimo. E in questa situazione triste si ride, a volte proprio di gusto anche se mai di una risata fracassona, si ride per le situazioni di estremo imbarazzo, cringe direbbero (forse, se ben li interpreto) i più giovani di me, anche laddove all'apparenza sembrerebbe esserci così poco da ridere. Eppur si ride, perché i ritmi sono giusti, allungati, indugianti ma dai tempi sempre perfetti, si ride per un personaggio indovinato, quello di Toni, per il quale ci si chiede se limiti di imbarazzo siano possibili. Si tifa per un riavvicinamento tra questi consanguinei così diversi tra loro, per un abbraccio caloroso, per un'apertura, per tutto quel che vorremmo vedere per sentirci meglio. Lo sviluppo studiato dalla Ade non sarà però così chiaro, smaccatamente consolatorio, sarà però vero, plausibile, a tratti spiazzante, a volte interlocutorio, sicuramente critico verso un certo modo di pensare la società moderna. Quello che ne esce è una commedia diversa, che vale la pena d'essere vista, anche per farsi un'idea di cosa c'è in giro, della possibilità di approcci differenti al genere, della forza di una commedia diversa, come quelle che fanno Kaurismaki, De Kervern e Delépine, Van Dormael (quando ci si mette) e chissà quanti altri ancora.

lunedì 3 luglio 2023

LICANTROPUS

(Werewolf by night di Michael Giacchino, 2022)

Di operazioni come questa se ne dovrebbero fare di più, non tanto per il valore intrinseco dell'opera (tutto sommato godibile), quanto per la sua fruibilità; nonostante questo Licantropus sia inserito nel ben più vasto universo cinematografico della Marvel il breve film (52 minuti) è un prodotto a sé stante comprensibile da chiunque e appetibile anche per chi di supereroi non vuole saperne. In più la durata agevole permette la visione anche in chiusura di giornate faticose e può essere considerato un ottimo "sostituto" al classico episodio di una serie tv, perfetto per chi non ha intenzione di impegnarsi sulla lunga distanza. Piccola premessa: pur amante della Marvel classica, sono a digiuno o quasi del suo versante mostruoso, non ci addentreremo quindi in un confronto tra fumetto e film. Negli anni 70 la Casa delle Idee lanciò diverse testate horror e personaggi assimilabili ai mostri classici: oltre a Licantropus e Man-Thing che abbiamo incontrato proprio in questo mediometraggio diretto dal compositore Michael Giacchino, la Marvel pubblicò anche le avventure del vampiro Morbius (al quale è stato dedicato un film di recente), quelle del celebre Ghost Rider, più vicino ai mostri che non ai supereroi, c'era poi il demoniaco Daimon Hellstrom nella serie Son of Satan, e ancora Man-Wolf, The living mummy, lo zombi Simon Garth, la serie di Frankenstein e uno dei più rinomati successi del periodo: The tomb of Dracula. L'idea di andare a pescare da questo parterre di personaggi un po' diversi dal solito è stuzzicante e questo assaggio, pur non mettendo in campo nulla di realmente memorabile, alla fine dei conti risulta più che soddisfacente.

Il capostipite della famiglia Bloodstone, Ulysses, è deceduto. La famiglia Bloodstone è da tempo immemore una fucina di "cacciatori di mostri"; in previsione del suo eventuale trapasso Ulysses ha lasciato istruzioni a sua moglie Verussa (Harriet Sanson Harris) per fare in modo di assegnare la Bloodstone, una pietra mistica dai grandi poteri di proprietà della famiglia, al cacciatore che si dimostrerà più valoroso nel corso di una battuta di caccia al mostro, un mostro sulla cui schiena verrà incastonata proprio la Bloodstone che i vari pretendenti dovranno recuperare. Alla battuta di caccia si presentano oltre a famosi cacciamostri come l'esperto Jovan (Kirk Tatcher) munito di ascia, la glaciale Azarel (Eugenie Bondurant), Liorn (Leonardo Lam) e Barasso (Daniel J. Watts), anche la rinnegata Elsa Bloodstone (Laura Donnelly), figliastra di Verussa e il cacciatore sui generis Jack Russell (Gael Garcia Bernal) dalla fama di grande professionista del settore, il pretendente con il maggior numero di uccisioni sulle spalle. Quando la caccia si aprirà, nel gotico e tenebroso labirinto di villa Bloodstone, scopriremo che Elsa ha forti mire sulla pietra ma tutto sommato non le interessa poi troppo eliminare i mostri, mentre a Jack invece, che cela un enorme segreto, i mostri stanno proprio simpatici, tanto che la preda del giorno è il suo amico Ted (noto anche come Man-Thing) che Jack ovviamente tenterà di liberare e far fuggire.

Licantropus è il primo speciale del Marvel Cinematic Universe e fin da subito Michael Giacchino tenta di farlo risultare un po' diverso dagli altri prodotti dell'universo condiviso dagli eroi Marvel. La classica sigla iniziale che ormai conosciamo bene vira al bianco e nero, segni di artigli "squarciano" l'immagine, i titoli di testa richiamano quelli dei film di mostri della Universal degli anni 30 del secolo scorso, filone omaggiato da questo Licantropus in maniera evidente anche se non troppo da vicino. Un intro disegnata sposta l'attenzione dagli eroi Marvel al mondo dei mostri, la finta pellicola mostra segni di falsa usura, bruciature impossibili nell'era del digitale richiamano quel cinema che fu, voce fuoricampo e si arriva al volto truccato di Gael Garcia Bernal, non proprio l'attore che ti aspetti a interpretare un minore di casa Marvel. Le musiche di Giacchino (ovviamente) sono indovinate nel ricreare l'atmosfera di questa vecchia Hollywood lontana nel tempo, la fotografia, le scenografie, gli effetti speciali artigianali, calcano la mano per ricreare un'atmosfera nostalgica e allo stesso tempo divertente. Quello di Giacchino non va infatti preso come un tentativo serioso di rifare il cinema della Universal quanto piuttosto come la volontà di omaggiarlo in maniera scanzonata e divertita, aspetto che forse meno è piaciuto ad alcuni detrattori che vedono una volontà pressoché continua in casa Disney di buttare tutto sul comico, osservazione che in effetti non è priva di fondamento; personalmente temo molto ad esempio il ritorno di Devil nel MCU avendo in mente i fasti della serie Netflix che quasi sicuramente con Disney ci scorderemo. Ad ogni modo, pur senza esagerare, Licantropus ha un tasso di violenza e sangue (in bianco e nero, che stempera) sicuramente maggiore di quello presente negli altri film del MCU. La recitazione di maniera del maggiordomo stride con la stralunata presenza di Bernal in un connubio che incarna i due aspetti di questo speciale che alla fine risulta molto piacevole e ben realizzato e apre le porte a un sottobosco Marvel tutto da sfruttare. In 52 minuti non è possibile approfondire tutti i personaggi, qui forse non è nemmeno necessario, rimane la curiosità di tornare sia a questo mondo che a una formula che potrebbe servire da apripista per nuovi personaggi da far poi salire a un livello più alto.

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