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martedì 18 febbraio 2025

GOING UNDERGROUND

(di Lisa Bosi, 2024)

Se nel pensare a periodi e ad anni di rottura o "rivoluzionari" è il Sessantotto a venire alla mente di primo acchito, il finale degli anni Settanta non è certo stato da meno. Si pensi al fermento nato intorno ai movimenti politici e culturali del 1977 e degli anni successivi, anni che hanno visto srotolarsi davanti agli occhi degli italiani (e del mondo) scontri di piazza, proteste studentesche, la diffusione su scala ampia delle droghe pesanti, dell'eroina in particolare, ma anche il diffondersi delle condivisioni, delle piccole comuni abitative, di gruppi spontanei di fermento creativo, inizialmente anche molto abborracciati ma nati da urgenze o malesseri sinceri, da voglie d'espressione libera e di rivalsa, magari anche economica, perché no, ma soprattutto da una spinta culturale e libertaria che ha portato ondate di cambiamento, alcune delle quali favorite da influenze provenienti dall'estero. È in questo contesto che a Bologna, uno dei punti caldi del periodo in esame, si formano diverse nuove esperienze musicali tra le quali una delle più significative e trasversali è stata quella legata al gruppo dei Gaznevada. Con Going Underground la regista Lisa Bosi ci accompagna non solo attraverso le vicende e i cambi di formazione e di attitudine dei Gaznevada ma anche lungo il dipanarsi di un periodo storico e culturale molto significativo per la Storia del nostro Paese in un amalgama ben riuscito tra musica e ambiente, influenze esterne ed esperienze dirette di un gruppo di ragazzi che della musica libera voleva fare la loro vita, cadendo, riprovando, eccedendo, lasciando qualcuno sul campo e infilando anche qualche successo, imprimendo così il loro nome, oggi forse un poco dimenticato, su una pagina importante della musica italiana alternativa.

Questa storia parla di persone realmente esistite ma ogni riferimento a loro è puramente casuale. "Eravamo ragazzi con la testa piena di letture sbagliate fatte troppo in fretta [...] prigionieri di un mondo appena creato ma pieno di promesse. Noi abbiamo creduto a tutte quelle promesse.  [...] Questa è una storia di eroina e amaro in gola; aspettavamo di fare successo... facendo di tutto per non farlo. Decidemmo di chiamarci Gaznevada". È così che si apre, sulle immagini di un paesaggio alieno, questo Going underground, breve documentario, testimonianza dell'avventura Gaznevada raccontata dalle voci (con accento marcato) degli stessi componenti della band, ora cresciuti, presenze bizzarre di un ambiente allucinato, "un'interferenza trasformata in onda musicale". In realtà i Gaznevada arrivano in un momento storico in cui in Italia di interferenze di certo non ne mancano, sotto il punto di vista musicale e culturale la loro esperienza contribuì però a iniettare nuova linfa nel panorama del Paese; in un'epoca analogica, folgorati dall'ascolto dei dischi dei Ramones, alcuni giovani tra i quali il chitarrista Robert Squibb (Ciro Pagano), il bassista Johnny Tramonta (Giampietro Huber), il batterista Bat Matic (Marco Dondini), il cantante Andrew Nevada (Giorgio Lavagna), il tastierista Nico Gamma (Gianluca Galliani) e il sassofonista Sandy Banana (Alessandro Raffini) si trovano coinvolti nella nascita della Traumfabrik, inizialmente un'esperienza condivisa culturale senza pretese d'arrivare al mercato. In una casa occupata di Bologna i nostri condividono gli spazi con Filippo Scozzari, fumettista e illustratore diventato poi molto celebre, da qui i Gaznevada (ancora non si chiamavano nemmeno così) muovono i primi passi partendo dal rock demenziale (Mamma dammi la benza) subito abbandonato in favore di un approccio punk alla musica. L'incontro con la Harpo's Bazar, poi Italian Records, diede il via a un percorso musicale che portò il gruppo a una maggiore visibilità e ad attraversare negli anni i periodi del punk, della new wave, della italo disco fino ad arrivare al pop degli anni 80, alle apparizioni televisive e al palco del Festivalbar. Nel mezzo i danni causati dall'eroina, i cambi di formazione e, almeno per qualcuno, una voglia di emergere in contrasto con tutto e tutti.

In sala dal 24 febbraio per Wanted cinema, Going Underground è diretto da Lisa Bosi, regista interessata ai movimenti musicali, già autrice di Disco Ruin, documentario dedicato al mondo delle discoteche e dei club nel periodo che va dai 60 ai 90 del secolo scorso. Per Going underground la Bosi sceglie di non avvalersi solo dell'approccio classico delle "teste parlanti", andando invece a creare un documentario dal taglio vivace e moderno tra voci fuori campo sghembe e protagoniste in prima persona della vicenda narrata, scampoli di repertorio tratti da episodi di cronaca del periodo come da performance live dei primi Gaznevada fino ad arrivare ai successivi passaggi televisivi; non mancano alcune interviste d'epoca e sequenze di introduzione e collegamento visivamente accattivanti e stralunate, realizzate dalla Bosi con i Gaznevada di oggi, ancora personaggi sopra le righe capaci di padroneggiare il video. Ciò che maggiormente funziona in questo documentario è la capacità di inserire al meglio l'avventura Gaznevada nel contesto sociale dell'epoca; è interessante infatti seguire il percorso di quei giovani ragazzi ma anche quello delle loro frequentazioni, la nascita della Traumfabrik, la presenza in casa non solo di Scozzari ma anche di un certo Andrea Pazienza, il nome più parlante del fumetto indipendente dell'epoca, un ragazzo destinato a fare un pezzo di storia del fumetto e a rimanere per sempre, oltre il momento della sua prematura scomparsa; divertente scoprire come dietro alcune delle storie di Pazienza ci siano proprio le vicende dei componenti dei Gaznevada e di come Zanardi, il suo personaggio di punta, sia stato (forse?) ispirato proprio da Robert Squibb (pare che in principio portasse anche il nome di Pagano che si incazzò e portò Pazienza ad optare per un nome alternativo, Zanardi appunto). Ne esce così il vissuto di quei ragazzi immersi in un'epoca non facile e turbolenta, punk nell'animo che sono stati in grado di reinventarsi col tempo; Going underground riporta alla memoria la loro storia e quella della loro generazione portando allo spettatore un punto di vista non istituzionale ma personale e costruito sulla sincerità delle ferite vissute sulla propria pelle. Si chiude con i Datura, costola e residuo di ciò che nacque in quell'ormai all'apparenza lontano 1977, ulteriore esperienza di chi a continuato a insistere e a insistere, ancora e ancora.

venerdì 3 gennaio 2025

LA VALANGA AZZURRA

(di Giovanni Veronesi, 2024)

Pur non essendo un grande appassionato di sport (e in generale nemmeno di documentari a tema sportivo) devo ammettere il mio debole per lo sci, disciplina che seguo invece con continuità e con una certa passione pur non avendo mai inforcato un paio di sci in tutta la mia vita. Questa è la principale ragione, diciamo pure l'unica, che mi ha spinto a guardare il documentario di Veronesi insieme all'affetto nutrito per Paolo De Chiesa, qui tra i protagonisti e ormai presenza fissa in casa nostra da parecchi anni in veste di commentatore per la RAI delle gare di Coppa del Mondo di sci (e mondiali, gare olimpiche, etc...). Manca per chi scrive l'effetto nostalgia provato da Veronesi stesso e dal giornalista Lorenzo Fabiano che qui lo accompagna nella ricostruzione di un'epoca, due uomini che per meri motivi anagrafici hanno potuto vivere le emozioni e i trionfi che la valanga azzurra ha regalato a tanti italiani e al Paese, trionfi che, sempre per le solite ragioni anagrafiche, io non ho vissuto in prima persona (e poi a casa nostra, quando io ero piccolo, lo sci non si sapeva nemmeno cosa fosse, i più grandi esperti mondiali in materia per me erano Heidi e suo nonno). La storia della nazionale italiana di sci degli anni 70 è in ogni caso una di quelle che meritano di essere ricordate (tenendo sempre a mente che lo sci è uno sport individuale e non di squadra), per apprezzarla non è quindi necessario averla vissuta in diretta, anche per chi è arrivato con un poco di ritardo questo La valanga azzurra si rivelerà una bella visione, un modo per conoscere anche gli altri protagonisti di quell'epoca oltre agli ancor oggi notissimi Gros, Thöni e De Chiesa.

Giovanni Veronesi, nell'assemblare la storia della nostra valanga azzurra, si ritaglia un ruolo di co-protagonista all'interno del film in qualità di intervistatore onnipresente, attore di siparietti più o meno comici con i vari protagonisti, rievocazioni dei fatti dell'epoca insieme al sodale Fabiano e mettendoci addirittura alcuni filmini di gioventù che dimostrano la sua precoce passione per lo sci e di conseguenza per questo gruppo di uomini che fecero la storia di questo sport (di donne si parla poco, giusto un accenno) e raccontandoci anche il suo prematuro ritiro dalle piste causa infortunio e conseguenze calata della mamma a vietare questa pratica così pericolosa per i suoi pargoletti. Lo scenario che prende corpo dinnanzi agli spettatori ignari dei dettagli di quegli anni ormai lontani nel tempo, descritti con trasporto da Lorenzo Fabiano, tratteggiano un momento storico sportivo in cui la nazionale italiana di calcio non regalava grandi soddisfazioni, un elemento che contribuì in parte a far balzare alle stelle la popolarità delle imprese di questa squadra di grandi campioni (così come di quella del tennis di quel periodo) capaci di innalzare lo sci a livelli altissimi non solo di popolarità ma anche in termini di indotto economico trasformando uno sport per pochi eletti in una pratica decisamente più diffusa e alla portata di molti. E allora via con le imprese di Gustavo Thöni, vero cardine della squadra attorno al quale emersero e crebbero i vari Piero Gros, Paolo De Chiesa, Rolando Thöni, Franco Bieler, Fausto Radici e diversi altri ancora.

La narrazione corre sciolta e il registro leggero scelto da Veronesi rende piacevole la visione, ci si sofferma molto, ovviamente, sulle vittorie e su alcune delle imprese chiave del periodo, sulla rivalità tra Thöni e il grandissimo Ingemar Stenmark (che contribuì non poco alla fine del periodo d'oro della valanga), sulle dinamiche di squadra con focus particolari sul lavoro dell'allenatore Oreste Peccedi e su quello del commissario Mario Cotelli, personaggio non benvisto proprio da tutti, al contrario dello stimatissimo Peccedi. Ci si sofferma forse poco sugli aspetti negativi del periodo, sulle tragedie all'epoca non così inusuali (quelle immagini degli sciatori che si schiantano sulla casetta), sulla sicurezza da migliorare, sull'allontanamento degli sciatori "sindacalisti" e anche sulla vicenda per molti aspetti tragica (che per fortuna può raccontare lo stesso protagonista) accaduta a De Chiesa, vicenda che in molti ancora non conoscono, un momento forse arrivato un po' così nell'economia del documentario ma sicuramente sentito, doloroso e che ci fa amare ancora un po' di più il nostro Paolino. Alla fine ne esce un docufilm scorrevole, divertito, simpatico che inquadra per sommi capi periodo e campioni donando il giusto tributo a un gruppo di (ex) ragazzi che tanto hanno dato al loro sport e alla nostra nazione, in attesa che quei tempi, almeno al maschile, ritornino (le nostre donne in realtà già si difendono molto, molto bene).

domenica 29 settembre 2024

CAPITALISM: A LOVE STORY

(di Michael Moore, 2009)

Recupero indubbiamente tardivo ma non fuori tempo massimo questo di Capitalism. A love story del regista Michael Moore dato l'argomento purtroppo ancora tragicamente attuale. Moore arriva a questo documentario sui mali perpetrati dal capitalismo e dai suoi seguaci oltranzisti dopo aver mosso i suoi primi passi giusto venti anni prima in quel di Flint, la città dove il regista classe 1954 è nato e cresciuto, raccontandone le allora coeve vicissitudini legati all'ondata di licenziamenti messa in atto nel locale stabilimento dalla casa automobilistica General Motors nonostante l'azienda godesse all'epoca di ottima salute (è il capitalismo, baby!). I temi che stanno a cuore al regista del Michigan, soprusi aziendali a scapito dell'occupazione, delocalizzazione, prevaricazioni, tornano anche in Downsize this! e The Big One. Nel 2003 per Moore arriva anche il premio Oscar nella categoria "miglior documentario" per Bowling a Columbine; prendendo come motore scatenante la tragedia di Columbine, la quale mosse anche Gus Van Sant per il suo Elephant, Moore mette alla gogna il disagio tutto americano della fascinazione per le armi e la violenza che la loro diffusione porta nelle strade, peggio ancora nelle scuole, degli Stati Uniti d'America. Con Fahrenheit 9/11 Moore si scaglia contro la guerrafondaia amministrazione Bush e ottiene la Palma d'oro a Cannes, risultato storico per un documentario. Nel 2007, solo due anni prima di questo Capitalism. A love story il regista mette sotto accusa l'intero sistema sanitario americano con Sicko, ne tratteggia l'immoralità e la mancanza di etica che peraltro contraddistingue numerosi aspetti del Grande Paese. Capitalism. A love story è soltanto l'ultimo tassello che arriva a mettere in luce la stortura di un sistema che si vorrebbe esportare identico in tutto il mondo (il capitalismo, non la democrazia) per mantenere saldi controllo e benessere in mano a pochi eletti.

Dopo vent'anni Michael Moore ritorna a Flint, perché cos'era la vicenda del suo paese natale se non una delle tante storie di sciacallaggio aziendale tipiche e finanche perseguite dal sistema del capitale spinto così in voga negli U.S.A. almeno dai primissimi anni 80 in avanti? Moore esplora i fondamenti del capitalismo, le sue storture e le conseguenti aberrazioni prodotte ai danni dei cittadini statunitensi (e di riflesso del mondo, pensiamo solo a Lehman Brothers); per farlo parte dall'antica Roma e dai suoi privilegi per pochi eletti fino a chiudere su un commosso Franklin Delano Roosevelt, ormai malato, che propone una nuova carta dei diritti basata sul diritto alla casa per le famiglie, su un mercato libero da monopoli e giochi di forza, equo e dignitoso, su un sistema sanitario garantito, su un sistema garante delle pensioni e dell'istruzione che potesse mettere i cittadini al riparo dalla malattia, dagli eventuali infortuni e dalle perdite di lavoro. Roosevelt morì l'anno successivo, ovviamente della sua carta dei diritti non se ne fece più nulla. Quello che Moore ci mostra sono le ricadute di un sistema ormai traviato e corrotto, astratto per molti versi, sulla vita reale, sulle persone, sui loro affetti e sulle loro esistenze, mette in relazione le grandi tragedie personali con la propaganda politica e finanziaria che bombarda in America persone spesso non preparate a capire cosa stanno realmente facendo con i loro soldi, con le loro case (pensiamo a tutti i prodotti sub-prime, agli incentivi a ipotecare le case per ottenere liquidità, etc...). Sembra assurdo poi vedere come questi alfieri del capitalismo spinto, bravissimi nel farlo, abbiano nel corso dei decenni inculcato nella testa degli americani il terrore per parole come socialismo, comunista e cose del genere, probabilmente anche del colore rosso, mi chiedo se negli U.S.A. qualcuno di sua spontanea volontà si compri un'auto o un maglione di colore rosso senza cagarsi addosso o provare vergogna. E così case pignorate, disoccupazione, lavori di responsabilità pagati con sacchetti di noccioline e via discorrendo.

Quello di Moore è un documentario di parte, quando guardi un lavoro di Moore sai cosa stai andando a vedere, con tutti i dovuti distinguo è un po' come guardare un film di Ken Loach, sai più o meno la direzione che prenderà il vento anche senza essere un meteorologo. Moore non condanna in toto il capitalismo, mostra alcuni esempi virtuosi dove gruppi di imprenditori/lavoratori portano avanti aziende remunerative e in attivo che credono nella redistribuzione della ricchezza a vantaggio di tutti, come sempre non è lo strumento in sé a essere sbagliato, è come lo si usa. E come lo si usa oggi nel mondo è il modo sbagliato (e spesso lo si fa con dolo in maniera criminale). Il regista come sempre mantiene un tono leggiadro e ironico che alleggerisce la visione anche quando gli argomenti trattati dovrebbero farci incazzare tutti (e spesso lo fanno, alcuni passaggi sono dolorosi, altri sono tragicomici per l'idiozia e la mancanza di vergogna che il sistema del capitale può arrivare ad assumere). Così assistiamo a esperti di finanza che non riescono a spiegare il funzionamento dei prodotti derivati (in fondo come fanno a condannarti se nessuno capisce un cazzo di quello che hai fatto?), al tentativo di Moore di andare a recuperare nelle banche i soldi dei contribuenti con tanto di sacchetti per la raccolta, lo vediamo sigillare con il celebre nastro giallo con la scritta "Crime scene do not cross" l'edificio della Citibank, ovviamente le banche e la finanza sono insieme a Wall Street l'obiettivo principale di Moore in questo Capitalism. A love story. Non c'è molto da dire, quello che ci racconta il regista è sotto gli occhi di tutti da un sacco di tempo, Moore chiude con un appello a impegnarsi nel fare tutti qualcosa al riguardo e con una dichiarazione d'intenti: "Mi rifiuto di vivere in un Paese del genere. E non me ne vado".

martedì 10 settembre 2024

PARIS IS BURNING

(di Jennie Livingston, 1990)

Nel 1990 esce questo Paris is burning, documentario di una giovane Jennie Livingston, una testimonianza molto potente nel portare alla luce, spiegando e dando la meritata dignità (non che vivendo nell'underground non ne avesse), al movimento culturale denominato ball culture o drag ball. Siamo a New York, tra gli anni Settanta e Ottanta; la scena ballroom nasce nella comunità gay newyorkese a prevalenza afroamericana e ispanica, in un contesto di emarginazione e discriminazione ancora forte e molto sentito che in più, in quegli anni, faceva i conti con il dilagare della piaga dell'AIDS che come è noto reclamò molte vite in particolare proprio tra la comunità omosessuale. Gli appartenenti a queste realtà erano spesso ragazzi scappati di casa, soli, costretti a vivere una realtà di disagio economico e con molti rischi derivanti dalla situazione contingente esterna e da un momento storico generale che nella New York di quegli anni non era affatto facile. In questo contesto, appunto non semplice né roseo, le ballroom rappresentavano un vero e proprio rifugio e avevano la funzione non solo di luogo di aggregazione ma anche quella di viatico nel creare un'appartenenza che tanti ragazzi gay, giovani, giovanissimi e meno giovani, a volte non trovavano nelle famiglie d'origine o nel tessuto sociale nel quale erano nati, al quale (non) appartenevano e dal quale venivano spesso finanche respinti.

Il fulcro del documentario della Livingston verte sulle gare di ballo che si tenevano in queste ballroom: erano esibizioni che poco avevano a che spartire con ciò che avveniva nelle discoteche o in altri locali al di fuori della comunità gay. I drag ball erano più vicini a delle sfilate di moda ibridate con la danza; uno degli stili che poi si affermò anche presso il grande pubblico grazie a Malcolm McLaren e a Madonna che se ne appropriarono (Madonna anche tradendolo) con i video rispettivamente di Deep in Vogue e Vogue, fu proprio il Vogueing, uno stile nato e cresciuto nelle ballroom dove ballerini non professionisti imitavano, esasperandoli e coreografandoli, i movimenti e le pose (strike a pose) delle top model in passerella o delle fotomodelle, spesso veri e propri modelli di vita e icone da imitare per questi ragazzi ingabbiati in un'esistenza difficile. Le ballroom non ospitavano solo esibizioni di Vogueing, le singole competizioni erano divise in tante categorie dove di volta in volta si poteva premiare l'eleganza e il portamento dei partecipanti, il confezionamento degli abiti, la perizia del gesto, la naturalezza con la quale questi ragazzi si immedesimavano nel genere femminile e via discorrendo. I vincitori di questi balli ottenevano nella comunità riconoscimento e popolarità; i primi vincitori di queste competizioni rimasti poi nella storia del movimento fondarono a loro nome (parliamo di nomi d'arte) delle "house" alle quali i giovani potevano affiliarsi e all'interno delle quali spesso ragazzi in difficoltà trovavano una vera e propria famiglia, quell'appartenenza e quell'amore che faticavano a trovare al di fuori dei loro "confini gay". La Beija, Xtravaganza, Dupree (Paris Dupree ispira il titolo del documentario), House of Ninja, sono alcuni dei nomi più famosi di queste house delle quali molti affiliati mutuavano anche il "cognome".

Paris is burning è un documento coinvolgente in quanto costruito in prima persona dai protagonisti di quell'epoca e di quel movimento; la Livingston si defila e lascia spazio alle testimonianze, a stralci d'esibizione, al contesto, alla narrazione diretta e a una serie di immagini di grande fascino che riescono a suscitare allo stesso tempo curiosità per un fenomeno culturale forse ancor poco indagato ma soprattutto empatia e tenerezza per i suoi protagonisti, alcuni dei quali andranno incontro alla tragedia mentre altri riusciranno a uscire da un confinamento imposto per arrivare finalmente alle stelle e al successo davanti ai media. Ciò che di più toccante ci presenta il documentario è il desiderio di alcuni di questi ragazzi di avvicinarsi a modelli che nel loro intimo sanno essere inarrivabili (per qualcuno poi in realtà qualcosa si muoverà davvero), un desiderio di lusso, di "bella vita" che forse nasce come compensazione di esistenze spesso molto povere e difficili, esistenze dove essere per una volta la "regina del ballo" poteva regalare una gioia immensa. C'è indubbiamente competizione, rivalità tra le varie house ma si intuisce anche una profonda solidarietà tra esclusi che nasce da un bisogno comune di amore, sicurezza, affetto, appartenenza, tutte cose che in qualche modo questo fenomeno culturale aiutava a soddisfare e fortificare. La Livingston sembra riuscire a ottenere da questi ragazzi una confidenza e un'apertura totale, almeno all'apparenza molto diretta e sincera; la sensazione di immergersi con una certa verità all'interno di una cultura che per molti spettatori si rivelerà magari sconosciuta o poco più è il grande punto di forza di un documento agile (77 minuti) ma molto vivo e toccante.

sabato 23 dicembre 2023

PINUCCIO LOVERO - SOGNO DI UNA MORTE DI MEZZA ESTATE

(di Pippo Mezzapesa, 2008)

Pinuccio Lovero, ovvero l'uomo che sconfisse la morte. 

Pippo Mezzapesa è un regista molto legato al suo territorio, nato a Bitonto nel 1980 parte come quasi tutti dalla realizzazione di alcuni cortometraggi per arrivare poi a minutaggi più ampi con in mente sempre ben presente la sua terra, la Puglia, alternando opere che affrontano argomenti molto seri a esiti più leggeri e divertenti, spensierati in maniera originale e stralunata come questo mediometraggio dal sottotitolo shakespeariano e indovinatissimo: Sogno di una morte di mezza estate. Con Pinuccio Lovero il nostro Mezzapesa batte la strada del documentario (con tocchi di finzione?), strada già percorsa con Produrre consumare morire col quale il regista racconta le morti conseguenti al lavoro presso il Petrolchimico di Brindisi; con Pinuccio l'argomento è sicuramente più faceto, nonostante anche qui si possa aprire a riflessioni su temi seri, e trova in Pinuccio Lovero un protagonista talmente genuino e simpatico da riempire i minuti (pochi, non si arriva all'ora) del documentario con grandissima tenerezza raccogliendo empatia dallo spettatore in maniera del tutto naturale tanto che il protagonista tornerà in un nuovo episodio delle sue avventure qualche anno più tardi, nel 2014, con Pinuccio Lovero - Yes I can nel quale Pinuccio si candiderà alle elezioni comunali con un programma che, perdonate il gioco di parole, è tutto un programma!

Pinuccio Lovero è un uomo che ha ormai toccato la quarantina e che da sempre, fin da bambino, sogna di poter lavorare al cimitero di Bitonto e lì assolvere ai compiti di becchino. Nonostante le difficoltà lavorative che persistono al sud d'Italia Pinuccio qualche esperienza lavorativa l'ha già accumulata nel suo passato recente, ad esempio ha lavorato come marmista, sempre proiettato verso i morti però: lapidi, pietre tombali, cose del genere, in fondo la passione è passione. Quando salta fuori una possibilità di lavorare al cimitero a Pinuccio viene offerto un contratto a termine, il posto di becchino non è però per il cimitero di Bitonto, probabilmente già con piena occupazione, bensì per quello della piccola frazione di Mariotto che conta decisamente meno anime (giusto per rimanere in tema). Con entusiasmo Pinuccio inizia il suo lavoro: pulisce le tombe, lucida i loculi, effettua piccole riparazioni, opera da giardiniere trasformando il cimitero in un piccolo paradiso e intanto aspetta il morto, un morto che sembra non voler arrivare mai. Sì, perché il tempo passa e da quando Pinuccio ha preso servizio sembra che a Mariotto non voglia morire più nessuno, cosa che trasforma Pinuccio in un vero idolo degli anziani ma anche nella sciagura di fiorai e impresari funebri. Intanto Pinuccio aspetta la completa realizzazione dei suoi desideri giovanili...

È da ammirare l'idea di Mezzapesa di voler realizzare un documentario sul niente, su nessuna base solida, su nessuna storia davvero concreta, semplicemente sfruttando un personaggio ingenuo e genuino che incredibilmente alla fine funziona e riesce ad accattivarsi le simpatie dello spettatore (almeno le mie) grazie alla sua spontaneità. Ancor di più c'è da ammirare Mezzapesa per averla portata a compimento quell'idea realizzando un documentario che porta nel suo dna una fortissima appartenenza pugliese, alcuni dei passaggi vengono sottotitolati in quanto non limpidamente comprensibili dai non autoctoni, e ve lo dice uno che vanta un 50% di sangue pugliese. Non ci sono spunti memorabili di regia, non ci sono (o meglio non ci sarebbero) grossi motivi per apprezzare un prodotto come questo, eppure nella sua lievità Sogno di una morte di mezza estate riesce a divertire con poco e niente, Pinuccio ispira simpatia, commuove quando parla delle mamme, affronta la vita col sorriso ingenuo del fatalista e aspetta il morto, ma lo aspetta senza cattiveria, con la gioia del quotidiano in contrasto a una terra che potrebbe essere difficile e con poche prospettive (ma su questo Mezzapesa non si sofferma). Non c'è altro, ma data la durata esigua e la simpatia del protagonista alla fine può anche bastare, in fondo non stiamo mica parlando del cimitero di Bitonto.

venerdì 24 novembre 2023

CITY HALL

(di Frederick Wiseman, 2020)

In queste settimane in cui stiamo esplorando il "cinema del sociale" parlando di diversi lavori del regista inglese Ken Loach, non stona la presenza di questo City Hall di Frederick Wiseman, bostoniano di nascita e da sempre dedito all'arte del documentario tanto da esserne considerato oggi il suo maggior esponente. Nato negli anni 30, Wiseman ha alle spalle una carriera infinita e ricca di considerazione e riconoscimenti, City Hall per esempio è stato votato come miglior film del 2020 dai rinomati Cahiers du Cinéma, la più prestigiosa rivista di critica cinematografica francese sulla quale scrissero nomi come Truffaut, Tavernier, Rivette, Rohmer, Chabrol, Assayas, Carax e altri ancora. Eppure a prima vista il cinema di Loach e quello di Wiseman sembrano essere agli antipodi: il primo schieratissimo, politico in tutto ciò che gira e racconta, tanto da meritarsi il nomignolo di "Ken il rosso", il secondo (all'apparenza) neutrale e laterale alle materie che illustra e scandaglia, un narratore super partes che mai tenta di far pesare il suo giudizio o di manipolare e indirizzare i suoi spettatori. City Hall invece odora di film politico; nella struttura segue il modello che Wiseman ha in passato già adottato per ottimi documentari, film appassionanti come Ex-Libris o In Jackson Heights, narrando però la vita e le iniziative dell'organizzazione comunale di Boston, guidata dal sindaco democratico Marty Walsh (ora Ministro del Lavoro), Wiseman tratteggia una gestione politica in netta contrapposizione all'America trumpiana di quel periodo, pur non esponendosi e non emettendo mai apertamente giudizi e pareri (Wiseman non compare mai nel documentario, non intervista mai nessuno) il regista qui firma indubbiamente un film dal chiaro orientamento politico.

City Hall ricorda per molti versi ciò che il regista ha già fatto in passato in Ex-Libris mettendo al centro della sua narrazione un'istituzione e il suo funzionamento, il suo impatto sul territorio e la sua volontà di influire in maniera positiva sulla vita della gente che ruota intorno ai servizi messi in campo dall'istituzione stessa. In Ex-Libris era il sistema bibliotecario di New York, in City Hall più semplicemente viene illustrato il grande lavoro svolto dal Comune di una città importante (ma non così enorme se rimaniamo all'interno dell'area comunale) come Boston. Una differenza tra i due documentari (e anche tra City Hall e altri) però c'è ed è evidente: se in altre occasioni era difficile individuare un protagonista, una voce che svettava sulle altre, qui invece questa voce indubbiamente c'è e porta il timbro di quella del Sindaco Marty Walsh che viene fuori da queste quattro ore e mezza di girato come un uomo e un politico sinceramente partecipe e impegnato nel risolvere il maggior numero di problemi possibili che coinvolgono la popolazione di Boston, uno che si spende e va per strada, dalle associazioni, alle riunioni (non solo quelle istituzionali) e in tutte quelle manifestazioni dove è possibile far sentire la propria voce in maniera diretta, dove parlare con la gente e promuovere un'idea d'impegno civile e vita condivisa al fine di andare in una direzione magari non in tutto perfetta ma capace di migliorare nella pratica le condizioni di vita di molti. Figlio di immigrati irlandesi, ex alcolista, ex malato di cancro Walsh, insieme al suo staff, uno dei più multiculturali del Paese, porterà Boston ad avere uno dei tassi di disoccupazione più bassi di sempre e a costruire una città modello per l'intero Paese nonostante la politica avversa perseguita a Washington.

Non c'è solo il Sindaco in City Hall, Wiseman ci porta all'interno delle stanze decisionali, dove commissioni e organizzazioni discutono su come far funzionare al meglio servizi e iniziative volte a proteggere i cittadini dal fenomeno degli sfratti da parte dei grandi e piccoli proprietari, a rendere la ricchezza economica dell'area di Boston alla portata delle minoranze e dei vari ceppi di popolazione, a fornire servizi e spazi per comunità come quella dei veterani di guerra o come quella dei senza tetto. Si discute così sull'opportunità di ampliare i posti in alcune scuole dall'ottimo funzionamento, di come attività quali la rivendita di cannabis possano portare vantaggi o disagi agli abitanti dei quartieri più poveri, e ancora integrazione, parità dei salari, possibilità di lavoro per i piccoli imprenditori e così via. Le parti "parlate" sono inframmezzate da scorci su Boston, sulla sua architettura, sui suoi luoghi e i suoi mestieri: vigili del fuoco all'opera, operai stradali, raccolta dei rifiuti, polizia metropolitana, controllori del traffico. Torna ancora una volta la passione di Wiseman per il funzionamento delle istituzioni all'interno delle quali il regista ci accompagna come un Virgilio muto e invisibile ma questa volta ben consapevole di portarci in una direzione ben precisa.

domenica 13 agosto 2023

THE WOLFPACK

(di Crystal Moselle, 2015)

Sulla piattaforma Mubi il documentario di Crystal Moselle The wolfpack è inserito nella sezione "film sul cinema"; in effetti per la famiglia protagonista del film, gli Angulo, il cinema, insieme alla musica, riveste un'importanza fondamentale nella vita quotidiana dei giovani del nucleo familiare. I ragazzi Angulo sono sette, sei figli maschi e una femmina, l'ultima, la piccola Visnu. Papà Oscar è un uomo di origini peruviane che non crede nel sistema americano (siamo nell'East side di New York), mamma Susanne è originaria del Michigan, è cresciuta in un paese rurale, per i suoi figli sognava un'infanzia all'aperto, tra i campi, alla luce del sole, in mezzo agli altri bambini, e invece... . Oscar è affascinato dal movimento Hare Krisha, così ha chiamato i suoi figli con nomi come Mukunda, Narayana, Govinda, Krsna, Jagadisa, Bhagavan e appunto Visnu, tutti nomi provenienti dall'antico sanscrito. Ora immaginatevi sei ragazzi (Visnu è impegnata in altro), adolescenti, che portano i nomi di Govinda, Krsna, Narayana e via discorrendo, chiusi in un piccolo appartamento in un brutto palazzone dell'East Side di New York, quartiere non proprio tranquillo, vestiti di tutto punto, con giacche e cravatte nere, camicie bianche, a impersonare Mr. Pink, Mr. Orange, Mr. White e via di questo passo, armati di pistole di carta fatte in casa con ammirevole maestria, a riprodurre le scene più memorabili de Le iene di Quentin Tarantino negli spazi ristretti di casa loro, con tanto di triello, scena dell'orecchio e dialoghi sopra le righe. È così che si apre The wolfpack, il documentario di Crystal Moselle, all'apparenza questa potrebbe sembrare una scena comica o divertente, in parte lo è, la storia degli Angulo potrebbe sembrare una storia di smodata passione per il cinema (e lo è), ma dietro tutto questo si nasconde quella che avrebbe potuto essere una piccola grande tragedia umana che si spera, con gli anni, sia destinata a trovare un lieto fine per tutti e sette questi giovani ragazzi.

Oscar e Susanne si conoscono, sono giovani, si innamorano, vanno a vivere a New York; il progetto era che quella fosse solo una tappa intermedia per trovare un modo di fare qualche soldo e poi spostarsi altrove. Oscar non ama il sistema capitalista americano, decide di combatterlo non lavorando, Susanne ha invece una licenza per fare la maestra, lei però non insegna in nessuna scuola, quando nasceranno i suoi figli, saranno sette, verrà stipendiata per fare da maestra a loro, in fondo è abilitata, in qualche modo in America si può fare. Oscar però vede New York come un calderone contenente mille pericoli, non si fida della gente, così cresce i suoi figli come dei reclusi, dei prigionieri educati con la paura verso il mondo esterno. Quando davanti alla telecamera della Moselle i più grandi tra gli Angulo (Mukunda, Narayana, Govinda) raccontano la loro storia, ci dicono di come nei loro anni fortunati siano riusciti a mettere piede fuori casa fino a nove volte, in altri anni c'è stata per loro una sola uscita, in altri ancora nessuna. Per dare un senso a una vita in una casa che in molti sensi sembra essere diventata una prigione, i giovani Angulo si appassionano al cinema, il padre Oscar in qualche modo riesce a portare a casa numerosi dvd, i ragazzi si appassionano ai generi più disparati e attraverso quei film imparano a conoscere il mondo; la loro cultura cinematografica è spropositata e le loro visioni vanno da Le iene e Pulp fiction di Tarantino al Lawrence D'Arabia di David Lean, dal Velluto blu di David Lynch a Casablanca (Michael Curtiz) fino ad arrivare al Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan. Ma gli Angulo non si limitano a guardare i film, ne scrivono le sceneggiature, studiano i personaggi e le battute, assemblano costumi e rimettono in scena, in casa ovviamente, tutti i loro film cult.

L'approccio che la regista Crystal Moselle mantiene nei confronti della storia della famiglia Angulo è molto rispettoso, sembra quasi che questo documentario siano proprio i ragazzi a costruirlo, in fondo di cinema ne sanno abbastanza. È una storia questa, a tratti molto triste, in cui il cinema riveste un'importanza grandissima, è quasi come se i film per questi ragazzi siano stati una medicina dell'anima, il mezzo che ha permesso loro di conoscere il mondo, di rimanere un gruppo unito, sei fratelli che, nonostante la loro situazione potenzialmente esplosiva, si vogliono bene e trovano l'uno nell'altro e in passioni comuni un motivo per alimentare un certo grado di serenità anche nella loro reclusione. I loro progetti comuni li hanno aiutati a tenere dritta la barra nonostante un padre padrone, forse in buona fede (avrà voce anche lui nel documentario), che ha negato loro un'infanzia normale. Sarà con l'avanzare dell'età dei ragazzi che arriveranno i primi atti di ribellione, atti che li porteranno a un'apertura graduale al mondo esterno che il padre non potrà impedire, a conoscere la Moselle e altra gente e a recuperare pian piano tutto il tempo perso, nella speranza che non restino segni indelebili di quell'infanzia senza libertà a tormentarli nella loro vita adulta. In The wolfpack ci sono alcuni passaggi realmente commoventi, in un momento di confronto frontale con la camera ad esempio, quando Mukunda racconta le sue esperienze e tenta di trattenere le lacrime, affermando con un sorriso tirato che non piangerà, ci si trova a fare con lui la stessa cosa, a chiedersi come si possa fare certe scelte per la vita dei propri figli, come si possa negare un'infanzia a quello che ha tutta l'aria di essere un gruppo di ottimi ragazzi (con un look molto cinematografico). Non c'è un giudizio univoco nello sguardo della Moselle, c'è invece la costruzione di una storia tenera e intrigante, raccontata in maniera onesta e coinvolgente, con un equilibrio di cui i documentari avrebbero sempre bisogno.

martedì 14 marzo 2023

DJANGO & DJANGO - SERGIO CORBUCCI UNCHAINED

(di Luca Rea, 2021)

Sergio Corbucci è stato uno di quei registi che hanno lavorato tanto e che nel corso delle loro carriere hanno attraversato i generi, curandosi più di portare avanti un discorso su un modo di fare cinema artigianale e onesto che non di seguire un vero e proprio percorso autoriale inteso nel senso più stretto, come oggi noi lo intendiamo. Magari Corbucci in alcuni periodi autore lo è anche stato, nel novero ristretto di un genere o nell'approccio alla sua arte, non di meno il regista romano non si è fatto scrupolo di abbandonare i generi che lo hanno portato alla grande notorietà, lo spaghetti western su tutti, per inseguire le necessità di un pubblico che è sempre stato il suo primo referente. Nel 2021 arriva questo omaggio sentito e sincero a opera di Luca Rea (e Steve Della Casa) che per raccontarci il Corbucci regista, con un focus sul suo periodo western, chiama in causa quello che è senza dubbio uno dei suoi fan più affezionati, il Quentin Tarantino di Django Unchained e C'era una volta a... Hollywood che già nei suoi film ha più volte esplicitato il suo amore per il regista nostro connazionale. A dar manforte a Tarantino ci sono il regista Ruggero Deodato che con Corbucci lavorò in gioventù, e il suo attore feticcio, Franco Nero, interprete del ruolo più iconico della sua carriera e probabilmente di tutto lo spaghetti western che non fu di Sergio Leone che fu un discorso a parte. Il ruolo è ovviamente quello di Django. A tenere viva l'attenzione dello spettatore, oltre a un argomento di grande interesse non solo per chi ama il nostro western, c'è proprio la capacità affabulatoria di Tarantino che ha un talento esagerato nel raccontare i suoi punti di vista e nel trasmettere quell'amore e quella passione genuina che nutre per il cinema, per il lavoro di Corbucci e per il western, che se pure può trovare qua e là qualche forzatura non può mancare di avvincere il pubblico che un po' pende dalle sue labbra.

Django & Django si apre con un racconto nel racconto, è quello dell'incontro tra Rick Dalton, personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio in C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino, con il regista Sergio Corbucci, un incontro che si svolge nel "dietro le quinte" del film di Tarantino e che ovviamente, essendo Dalton un personaggio fittizio, non è mai avvenuto, ma questo poco importa. Sia come sia Dalton, noto attore di western americani, convinto dal suo manager vola in Italia per rilanciare la sua carriera nello spaghetti; giunto nel bel paese Dalton incontra per una cena il grande Sergio. Convinto per errore di aver davanti Leone e non Corbucci l'attore americano, che di spaghetti western non capisce nulla, infila un paio di figure di merda non da poco, rischiando di mandare a monte l'intera operazione. Ma Corbucci è un uomo comprensivo e alla fine Dalton riuscirà a lavorare con quello che si rivelerà essere un grande maestro del genere. Questa sequenza (animata) apre il documentario di Rea e dimostra più che la grandezza di Corbucci l'amore che per lui ha Quentin Tarantino, segue una riproposizione di filmati d'epoca che ci inseriscono nel contesto, nel periodo storico, con numerosi poster dei western di quegli anni esposti davanti ai cinema, la Roma del periodo, le Fiat 600 per strada, Renzo Arbore alla radio. Quentin inizia il suo show fatto di dedizione e ammirazione per il lavoro di Corbucci nel suo "periodo western", ne ipotizza anche un percorso d'autore (tutto da verificare in realtà) che vede i western di Corbucci in chiave di critica al fascismo e alle figure autoritarie, invise in effetti al regista come da lui stesso confermato in qualche intervista d'epoca. 

Ovviamente quella che qui ascoltiamo è la versione di Quentin, un'innamorato che traccia il suo percorso critico col cuore, focalizzando l'attenzione su alcuni film, tralasciandone altri, seguendo un fil rouge basato su fatti (e film) concreti dandone un'interpretazione che lo spettatore può decidere se sposare o meno, e tutto ciò è anche un po' il bello di quell'amore che trasuda da ognuna delle parole spese da Tarantino sull'argomento. Secondo il regista di Pulp Fiction c'è un Corbucci pre Leone (e quindi pre Trilogia del dollaro) e uno successivo, il primo più vicino al western e al cinema americano, il secondo indubbiamente italiano e lanciato verso il titolo di "secondo miglior regista dello spaghetti", perché Leone era pur sempre Leone, inarrivabile. La situazione di fermento del periodo ce la illustra Ruggero Deodato con alcuni aneddoti: all'epoca si giravano talmente tanti western che se un cavallo si allontanava troppo si trovava protagonista sul set di un altro film, dice Deodato. Tema centrale è la violenza nei western di Corbucci, uno crudele come afferma Deodato che dice di aver imparato la crudeltà proprio da Corbucci, con quella ci fece poi cose come Cannibal Holocaust. Tarantino analizza anche il timbro diverso della violenza in Corbucci e in Leone, regista più epico che cattivo, descrive il lavoro fatto su protagonisti, spalle e antagonisti con teorie molto interessanti, tra personaggi sexy e caratteristiche da fumetto, mentre Franco Nero sottolinea la valenza politica dei film fatti con Corbucci; dal canto suo Rea alterna le interviste frontali a materiali di repertorio con lo stesso Corbucci, sequenze prese dai film ad analisi su singoli elementi del cinema del regista romano. Quello che ne esce è un documentario sincero, appassionato, magari non esaustivo ma sempre avvincente e divertente da seguire e rivolto non per forza ai soli cultori. Per i fan di Corbucci, ma anche per quelli di Tarantino, un appuntamento da non perdere.

lunedì 10 ottobre 2022

IN JACKSON HEIGHTS

(di Frederick Wiseman, 2015)

Jackson Heights è un quartiere di New York situato nella zona nord ovest del Queens, uno  dei cinque boroughs che formano il territorio della Grande Mela (gli altri sono il Bronx, Manhattan, Staten Island e Brooklyn). Jackson Heights conta una popolazione di poco superiore a centoottomila abitanti che insieme formano uno dei più significativi esempi di integrazione multiculturale al mondo. All'interno del territorio del quartiere sono stati conteggiati centosessantasette idiomi vivi, parlati da una popolazione residente che per più del cinquanta per cento è nata al di fuori degli Stati Uniti e che vede una maggioranza di cittadini di lingua ispanica, provenienti per lo più dal Sud America con una forte rappresentanza delle comunità colombiana e messicana, ma nel quartiere ci sono bianchi, afroamericani (in minoranza), asiatici, europei e più o meno tutto quel che può venire in mente, in un melting pot costruito in grandissima parte su tolleranza e solidarietà (non mancano i problemi, come è ovvio in una metropoli come New York) e che non pone limiti all'appartenenza di genere o di religione. In Jackson Heights si contano numerose le espressioni di culto (ebraica, musulmana, cristiana, battista, metodista, luterana, evangelica, induista, episcopale, ortodossa, etc...) così come è qui residente una delle più importanti comunità LGBT d'America la quale, dopo l'omicidio di uno dei suoi appartenenti negli anni 90, il giovane Julio Rivera, ha compiuto enormi passi avanti nell'ottenere il riconoscimento dei propri diritti dando vita anche a una delle più celebri Parade a tema promosse dal consigliere comunale Daniel Dromm.

È tra le strade del quartiere che Frederick Wiseman costruisce l'ennesimo documentario della sua impressionante carriera. La cifra di stile del regista di Boston è ben riconoscibile nonostante la rinomata discrezione dello stesso nella costruzione delle sue opere. Come accade in altri, ottimi peraltro, documentari del regista, Wiseman ci immerge totalmente nella realtà che riprende, lo spettatore in questo caso ha l'impressione di vivere per qualche ora a Jackson Heights, Wiseman non interviene mai in maniera diretta sulla narrazione, non ci sono commenti, punti di vista, prese di posizione, non ci sono interviste dirette, Wiseman gira tanto, lascia spazio ai residenti, alle organizzazioni del quartiere, alle comunità, alle strade, alle attività, ai negozi, alle scuole, al consiglio comunale, agli immigrati, ai palazzi, ai treni della metropolitana; tutto e tutti raccontano vivendo, muovendosi nella quotidianità, Wiseman costruisce in fase di montaggio riuscendo a creare un documentario immersivo che è una testimonianza il più naturale possibile di ciò che Jackson Heights rappresenta per i suoi abitanti ma anche per l'intera città in termini di cultura, integrazione, tolleranza, idee, lavoro.

Si parte proprio dalla comunità LGBT che è ospitata nei locali della casa di culto ebraica, qui si discute l'opportunità per la comunità di trovare un posto di aggregazione proprio, valutando anche la possibilità di andare fuori dai confini di Jackson Heights, si valutano le opzioni non solo in termini di vantaggio per gli appartenenti alla alla comunità LGBT ma si pone grande attenzione e rispetto anche a ciò che potrebbe essere meglio per la comunità ebraica che li ospita. Questo è il principio di convivenza che muove il lavoro di molte organizzazioni in Jackson Heights, come quella che tenta in tutti i modi di unire tra loro e sostenere i piccoli negozianti che ancora sono un segno distintivo nel quartiere, contro lo strapotere delle catene (si parla molto di Gap) e dei grandi proprietari immobiliari, si cerca di valutare i fenomeni di gentrificazione e di svalutazione degli immobili con il fine ultimo di non perdere la vera ricchezza della zona: i suoi abitanti. Come già fatto in altri documentari, in Ex-Libris ad esempio, Wiseman porta lo spettatore a partecipare agli incontri della politica, dei consigli direttivi che decideranno cosa è meglio per gli abitanti del quartiere, come quelli scolastici, anche questi all'opera per evitare che le famiglie debbano rivolgersi a servizi esterni al quartiere. Non mancano i fenomeni di costume, la musica di strada, la comunità colombiana che segue la propria nazionale di calcio in occasione dei grandi eventi, le cene organizzate a ringraziamento dei cittadini che si spendono per il quartiere e per il bene collettivo. È un grande affresco questo In Jackson Heights dal quale vengono fuori l'attaccamento dei cittadini alle loro strade, la dedizione per esse, l'entusiasmo ma anche tutti i problemi legati a un'economia e a un incremento dei prezzi che non possono non preoccupare famiglie e commercianti. 

Tre ore di girato, montato in maniera sapiente, che ci proiettano nelle strade del quartiere, ci fanno vivere per un breve lasso di tempo le sue strade, i suoi crucci, le sue infinite possibilità e una ricchezza enorme in termini di tolleranza, amore e solidarietà, tutte cose preziose e non troppo comuni che dalle parti di Roosevelt Avenue, della 37th Avenue e di tutte le strade limitrofe sembrano trovare per fortuna terreno fertile per crescere ed essere coltivate.

martedì 13 settembre 2022

IL SALE DELLA TERRA

(The salt of the Earth di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, 2014)

Wim Wenders incontrò per la prima volta l'arte del fotografo Sebastião Salgado una ventina d'anni prima della realizzazione di questo documentario, un film girato nel 2014 con l'aiuto del figlio dello stesso Salgado, il giovane regista Juliano Ribeiro. A folgorare il regista tedesco, durante una mostra in cui vi erano esposti alcuni scatti di Salgado, furono due immagini: la prima era uno scatto di una miniera d'oro in Brasile, immortalata nella fatica dei suoi cercatori, la seconda una toccante fotografia di un'anziana Tuareg priva della vista. Quando arrivò per Wenders l'occasione di incontrare di persona Salgado il progetto di realizzare un film sull'opera e sulla vita del fotografo prese vita grazie al contributo e alla disponibilità di Salgado stesso e di suo figlio Juliano. Ne esce un'opera molto convincente che trova una simbiosi perfetta tra cinema e fotografia, tra immagine ferma, cristallizzata, e immagine in movimento; per la realizzazione de Il sale della terra (sono le persone qui il vero sale della terra) Wenders ha l'umiltà e l'intelligenza di fare un passo indietro e di lasciar parlare molto le fotografie di Salgado, con estremo rispetto e ammirazione innamorata di un lavoro immenso; questo non vuol dire che lungo il racconto non si veda la mano del regista, c'è ad esempio una sequenza con un bianco e nero magnifico, lucente, che si apre come una delle foto di Salgado ma in realtà è la camera di Wenders a inquadrare il paesaggio dove tutto è fermo, il movimento arriva pian piano, un po' di vento, gli arbusti che si muovono, l'immagine si trasforma in un attimo da fotografia (qui curata da Salgado figlio e Hugo Barbier) in film e spesso da film in poesia, sempre grazie al lavoro profondo di un fotografo che ha girato il mondo, prendendosi anche dei bei rischi, per portare avanti la sua opera sociale colma di amore per l'umanità.

Il racconto procede per tappe seguendo la vita di Salgado, quella professionale che è inestricabilmente legata al suo privato, i viaggi lungo i quali troveranno corpo le sue opere, e i temi all'interno dei quali nasceranno mostre e libri, esperienze e riflessioni. Sempre sostenuto dalla moglie Lélia e dopo aver abbandonato il natio Brasile e percorsi dai quali non traeva più interesse, Salgado inizia il suo viaggio professionale mettendo a rischio la solidità familiare: un bimbo in arrivo, conti da pagare. Tutto viene ripagato dal contatto con un'umanità ferita, catturata nella sofferenza e nella difficoltà, ma capace di aprire il cuore e dare prospettiva ai valori, esperienze spesso dolorose, affrontare e dare luce e risalto alla fame, all'ingiustizia di bambini senza la speranza di un futuro, in Africa dove la terra è spaccata dalla siccità, indurita, dove alla fame, allo sfruttamento si aggiungono tragedie indicibili come quelle perpetrate in Rwanda, mette Salgado in posizione di dover fare i conti con la propria umanità, con la propria razza, tanto capace di bellezza quanto delle bassezze più atroci, di una violenza che non si riesce a spiegare. I segmenti sono vari e interessanti, lo stupro alla natura con l'incendio su vasta scala dei pozzi petroliferi in Kuwait, lo sfruttamento del lavoro e la schiavitù del sistema del capitale (uomini che si spaccano la schiena nelle miniere d'oro, non perché resi schiavi da altri ma autocondannatisi con l'idea improbabile di arricchirsi, schiavi del miraggio di un sistema che rende schiavi in maniera subliminale, riflessione affascinante e spaventosa), infine, piegato dalle sofferenze del mondo, il ritorno alla bellezza della natura e del paesaggio. Il film viene portato avanti dal racconto di Wenders che si alterna alle interviste e alle confessioni dello stesso protagonista per virare poi sui ricordi di bambino di un giovane Juliano, si alternano anche bianco e nero (da applausi) e colore, vecchi lavori e opere più recenti per finire con un ritorno in Brasile, alle origini, dove con una mossa tanto azzardata quanto felice Lélia e Sebastião riescono a riportare alla vita una terra ormai arida, quella del papà di Sebastião in quel di Aimorés dando nuova speranza, esempio e spinta per un futuro che forse ancora si può realizzare.

Un bellissimo viaggio attraverso il tempo, lo spazio e una vita vissuta da avventuriero prima ancora che da fotografo, da amante delle genti, da curioso e da artista di talento; Wenders contribuisce con bellissime immagini su paesaggi mozzafiato che non sfigurano nel confronto con il maestro della macchina fotografica; un connubio perfettamente riuscito, Wenders non è nuovo a operazioni di questo tipo, qui conferma la sua vena felice per quel che riguarda la messa in scena del lavoro di artisti da lui apprezzati.

martedì 6 settembre 2022

24 CITY

(Er shi si cheng ji di Jia Zanghke, 2008)

Si dice che i grandi autori abbiano una sola storia da raccontare ma che siano in grado di declinarla con numerosi riflessi e presentarla sotto aspetti sempre diversi. Questa massima è fuor di dubbio applicabile al cinema di Jia Zanghke il quale nel corso degli anni, presi in considerazione diversi capitoli della sua filmografia, si è fatto a più riprese cantore della modernizzazione della Cina, del cambiamento di un Paese che nella corsa al capitale e al progresso sta repentinamente distruggendo il suo passato, non solo in relazione ai cambiamenti sociali radicali in atto ormai da tempo, ma anche tramite la vera e propria distruzione e modifica del paesaggio, con la cancellazione di tradizioni millenarie legate a luoghi specifici o, come in questo caso, più semplicemente con il cambio di destinazione di siti industriali che sono stati per generazioni sostentamento di intere famiglie e che ora diverranno altro a beneficio dei nuovi ricchi e benestanti. Nello specifico con 24 City, siamo nel 2008, Jia Zanghke ci racconta la chiusura della fabbrica 420 nella città di Chengdu, un sito che per circa 60 anni ha prodotto componenti per l'aviazione ed è stato in prima linea per l'approvvigionamento di parti militari ai tempi della guerra in Corea. Attorno alla fabbrica nacque un villaggio quasi autosufficiente nel quale tante famiglie hanno vissuto la loro vita per diverse generazioni, ora tutto sta finendo, i lavoratori vengono allontanati e il sito verrà raso al suolo per far nascere un nuovo grande complesso di edifici residenziali di lusso che si chiamerà proprio 24 City.

Per raccontare la chiusura della fabbrica 420 Jia Zanghke sceglie un registro ibrido che molto ha a che vedere con il genere del documentario: ci sono diverse interviste a ripercorrere il passato della fabbrica, le esistenze di alcune famiglie che traevano sostentamento dal lavoro prestato al suo interno, le storie di alcuni ex dipendenti; ciò che c'è di originale nel lavoro del regista è l'amalgama di interviste reali, registrate con i veri dipendenti dell'ex fabbrica, e di testimonianze di finzione, credibili e adeguate alla realtà raccontata, ma affidate ad attrici di chiara fama come Joan Chen, Lu Liping e Zhao Tao, volto ben noto ai fan del regista con il quale la Tao ha già collaborato numerose volte, vista anche in Italia come protagonista del film Io sono Li di Andrea Segre (ne parlammo tempo fa). Zanghke trova un approccio nuovo al documentario tramite questo mix di testimonianze reali e contributi ideati in fase di sceneggiatura che sembrano più reali di quelli autentici (e magari in qualche modo lo sono davvero); se ci si commuove di fronte all'ex dipendente che incontra un vecchio dirigente che non vede da anni, ormai anziano e stanco, e lo tratta come se fosse suo padre, carezzandolo, provando un'affetto sincero e contagioso per il vecchio collega, allo stesso modo si fatica a trattenere la lacrima durante la prova di Joan Chen, una donna ancora bellissima che ha passato una vita in quella fabbrica, dove oltre al suo ruolo di dipendente ha affermato con forza anche quello di donna indipendente. C'è il confronto tra generazioni, la giovane Zhao Tao è figlia di dipendenti ma per lei vuole ormai una vita diversa, sogna in grande, vede future ricchezze ma ha come priorità una bella casa per i suoi genitori.

Ciò che colpisce, e che si differenzia in misura maggiore dalla narrazione alla quale noi siamo abituati sulle dismissioni nel mondo del lavoro, è la mancanza assoluta di recriminazione, gli intervistati da Jia Zanghke, i suoi personaggi, mostrano al limite nostalgia, orgoglio per ciò che è stato e per ciò di cui hanno fatto parte, non c'è la critica al governo, non c'è la critica alla fabbrica, c'è una sorta di attaccamento a una vita passata in comune, in un luogo non certo splendido ma che ha permesso a molti di loro di condurre un'esistenza per i loro standard dignitosa seppur molto difficile (famiglie di sei persone in 20 metri di casa ad esempio), c'è la commozione, c'è la difficoltà ad adattarsi al nuovo, ci sono però anche le nuove prospettive, c'è, come in tutte le opere del regista cinese, la cancellazione del passato a favore del nuovo ordine. Seppure di diverso impatto rispetto a grandi film come Still Life, Al di là delle montagne o a I figli del fiume giallo, sarebbe quantomeno miope bollare questo 24 City come opera minore di un regista che ha tanto da dire e che riesce a farlo trovando una sua via anche con un film più "piccolo", più fermo ma egualmente immerso nel territorio e nella Storia. 

domenica 21 agosto 2022

SELFIE

(di Agostino Ferrente, 2019)

Nel settembre del 2014 il giovane Davide Bifolco, diciassette anni, viene ucciso da un colpo di pistola sparatogli alle spalle da un carabiniere all'inseguimento di un pericoloso (suppongo) latitante, un latitante nemmeno presente sul luogo dell'omicidio, una sorta di scambio di persona. Il carabiniere, dovendo dar conto dell'accaduto, si difese asserendo di essere inciampato e di avere esploso per sbaglio il colpo in seguito alla caduta (diciamo, nel migliore dei casi, un carabiniere questo che magari non dovrebbe operare per strada, volendo essere magnanimi). Succedeva a Napoli nel rione Traiano, dove purtroppo le condizioni di vita delle persone residenti non sono di quelle che permettono grandi sogni né troppe speranze di miglioramento. Da questo episodio nasce la voglia di Agostino Ferrente di raccontare non la storia di Davide ma quella di ragazzi come lui, suoi coetanei, cercando di capire come possa essere in realtà la vita di ragazzi adolescenti, lontani dal mondo della criminalità, ma destinati a crescere in quartieri molto difficili, capaci per il loro contesto di offrire sprazzi di luce ma anche di tagliare le gambe a speranze e possibilità di crescita, possibilità già difficili da prendere anche solamente in considerazione a causa di un contesto contingente che si dimostra essere oltremodo ostico. Ferrente sceglie così, immaginiamo dopo numerosi incontri, i suoi due protagonisti, Alessandro Antonelli e Pietro Orlando, sedici anni entrambi, li fornisce di un cellulare capace di effettuare delle buone riprese, e chiede loro di raccontare il loro quotidiano, il quartiere, le loro esperienze (la storia dell'amico Davide sarà tra queste), le loro speranze, gli chiede in poche parole di diventare registi di sé stessi e della loro storia.

Alessandro e Pietro raccolgono così la sfida, anche con un certo orgoglio si può ipotizzare, e iniziano a riprendere e a raccontare la loro vita nel rione. Alessandro lavora, fa il barista in un bar della zona e si occupa anche delle consegne, rigorosamente effettuate in motorino, senza casco e magari pure mentre si fa riprendere con il cellulare. Pietro non lavora, gli piacerebbe fare il parrucchiere e ogni tanto chiede all'amico Alessandro di fargli da cavia. Tra i due ragazzi c'è un bellissimo rapporto, un'amicizia quasi fraterna, Alessandro che lavora sembra prendersi un poco cura del suo amico che non ha impiego e che ha anche qualche difficoltà con le ragazze a causa del suo aspetto, da qualche anno Pietro è infatti sovrappeso (i due ci spiegheranno il perché) e questa cosa gli procura anche un po' di insicurezza. Oltre ai due protagonisti/registi lo sguardo si sposta su altri ragazzi del rione che Alessandro e Pietro a volte coinvolgono nelle riprese, altre volte intervistano per carpire anche i loro pensieri sul rione e sulle loro aspettative di vita all'interno di quella comunità. Ci sono ragazzi più coinvolti con attività criminali, giovani ancora innocenti ma all'apparenza già rassegnate a una vita difficile, bambini che vogliono imitare i grandi e, proprio in relazione all'episodio di Davide Bifolco, già abituati e cinici nei confronti della morte violenta.

Selfie è la dimostrazione pratica di come si possa fare un ottimo film in totale assenza di mezzi usando la vita, la verità e molta professionalità. Ovvio che tra tutto il girato che i ragazzi, seguiti da Ferrente, hanno realizzato, in fase di montaggio si è cercato di cucire tutto il meglio e tirarne fuori un film/documentario capace di coinvolgere, commuovere e indignare il suo pubblico, compito tra l'altro perfettamente assolto grazie proprio alla post produzione e all'empatia naturale che si prova per questi due ragazzi napoletani. Ovvio che la verità vista in video è una verità pilotata dagli stessi Pietro e Alessandro, consapevoli di star girando un film che sarà visto poi da un pubblico e proprio per questo, immaginiamo, propensi a mostrare il lato migliore di loro stessi, senza però evitare di raccontare fatti problematici delle loro vite ma soprattutto quelli del rione Traiano. Il racconto della morte di Davide è un racconto forte, che vede coinvolti i parenti del ragazzo e la sensazione di una giustizia che non può arrivare, "questo è un processo che una formica fa contro a un'elefante, nui simm 'a furmica e 'o Stato è l'elefante", questo diranno i parenti di Davide, disillusi (a ragione) sulla giustizia che lo Stato può concedere loro. Significative sono anche le prospettive delle giovani quindicenni del rione, già pronte in un futuro a vedere i loro eventuali mariti in galera, proprio come già accaduto con i loro padri. Al lato duro, spietato, che la vita mette in conto a questi giovani, si contrappongono una bellissima amicizia, una gioia di vivere che porta Alessandro e Pietro comunque a lottare per una vita pulita, lontano dal crimine (cosa che per loro purtroppo è una cosa da conquistare, non la norma) e a concedersi qualche piccola gioia: un bagno a Posillipo, un piatto abbondante di pasta, l'esperienza di questo film. Selfie è un documentario, se così vogliamo chiamarlo, molto bello, commovente a più riprese e che ci racconta il lato più onesto di una gioventù vitale e allo stesso tempo disillusa che purtroppo abbiamo prematuramente condannato e abbandonato.

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