domenica 15 giugno 2025

FIORI D’EQUINOZIO

(Higanbana di Yasujirō Ozu, 1958)

Fiori d’equinozio, film di Ozu del 1958, è una sorta di spartiacque nella produzione del regista giapponese, una filmografia che, dopo questa, conterà ancora solo cinque opere. Con questo film assistiamo al passaggio da parte del regista dal classico bianco e nero alla modernità del colore, tecnica in realtà giunta in Giappone già qualche anno prima. Questo cambiamento, vista la reiterata contrapposizione tra tradizione e modernità all’interno del cinema di Ozu, diviene subito tema, considerando anche che l’avvicendarsi tra b/n e colore altro non è che un passaggio dalla tradizione del cinema “dei padri” a un cinema per l’epoca contemporaneo e innovativo. Guardando Fiori d’equinozio è facile capire come la scelta di Ozu di passare al colore proprio con questo film sia stata ponderata e affatto casuale. Il tema centrale dell’opera in questione è la diatriba tra matrimonio combinato, quindi “della tradizione” e approvato dalla famiglia d’origine, e matrimonio d’amore, finalmente perorato a gran voce soprattutto dalle giovani donne, dalle nuove generazioni in cerca di una libertà sentimentale nuova e sincera, desiderio non solo lecito ma ormai dovuto in un Paese che aveva già riconosciuto diritti come quello all’aborto. Mancano qui quelle figure femminile che in altre opere del maestro, dopo tanti pensieri e tentennamenti, decidevano di ritornare alle vecchie consuetudini, al calore di un nucleo familiare noto (e assemblato da altri) ma magari stretto e in potenza poco felice; le giovani ragazze protagoniste sono qui decise e fermamente convinte nel voler sposare solo chi dicono loro (e ci mancherebbe pure), la vera novità è che anche l’andamento del film, e quindi la visione dello stesso regista, sembra finalmente dar loro ragione e condannare l’ipocrisia da vecchi barbogi della generazione precedente qui ben incarnata dall’ottimo Shin Saburi.



Fiori d’equinozio si apre sulla scena di un matrimonio al quale presenzia anche il signor Wataru Hirayama (Shin Saburi), un amico dei genitori della sposa che viene invitato a dire qualche parola d’augurio alla novella coppia di sposini. Hirayama si lancia così in una lode del matrimonio d’amore, quello scelto dai due giovani che non hanno aderito a un matrimonio combinato, lasciando trasparire anche una buona dose di rimpianto, in maniera anche poco elegante vista la presenza della moglie Kiyoko (Kinuyo Tanaka), per non aver potuto in gioventù seguire la stessa strada ed essersi dovuto adeguare alle scelte impostegli dalla propria famiglia. Sono diversi gli amici e gli ex commilitoni che chiedono aiuto e consiglio a Hirayama in merito ai rapporti tra padri e figlie in un’epoca di cambiamenti difficili da gestire da questi padri così legati alle vecchie usanze (e alla società patriarcale), uno su tutti il vecchio Shukichi Mikami (Chishu Ryu) la cui figlia è andata via di casa e ha trovato lavoro in un locale di dubbia fama per poter mantenere la sua indipendenza. Hirayama a più riprese da l’impressione di essere un uomo illuminato ma quando sarà sua figlia Setsuko (Ineko Arima) a rifiutare il marito pensato per lei dal padre a favore di un altro uomo inviso a Hirayama verrà fuori l’attaccamento dell’uomo a un mondo vecchio e ormai sorpassato. Per fortuna nel cinema di Ozu le divergenze si appianano molto spesso.


Il passaggio al colore, oltre ai significati di contenuto di cui abbiamo già detto, porta con sé una ventata d’aria fresca alla visione dell’opera di Ozu che finalmente ci permette di ammirare in completezza tutto il décor e la messa in scena che con tanta precisione e accuratezza il regista si premura di allestire per le sue narrazioni; piace anche l’idea di poter gustare nello splendore dei loro colori gli abiti tradizionali delle protagoniste così come la moda del tempo nei costumi delle impiegate, dei giovani uomini, dei frequentatori dei locali. Per quel che riguarda le mere scelte di regia Ozu continua per la sua strada portando avanti un discorso ormai noto ai fan del suo lavoro senza aggiungere ulteriori stravolgimenti a quello già portato dal passaggio al colore. Fiori d’equinozio è forse il film più moderno, femminista e vicino alle nuove generazioni che Ozu ha girato finora (il riferimento è al 1958); se nei film precedenti la nostalgia del passato (ancora presente anche qui soprattutto nella sequenza finale) era dal regista in qualche modo illustrata come la “via corretta” (pensiamo alle conseguenze della modernità in Viaggio a Tokyo), qui si assiste a un cambio di prospettiva per il quale il vecchio viene visto come desueto e costrittivo in favore di usanze più moderne e più giuste per i giovani dell’epoca che iniziano a rivendicare indipendenza e diritto alle proprie scelte (pensiamo a quanto possa essere brutale l’imposizione di un/a compagno/a e la negazione di un amore sincero e sentito). Scampoli di modernità anche nel linguaggio, allusioni moderate ai rapporti sessuali, scherzi sul concepimento, locali equivoci, tutti segnali di un cambiamento e di un passo ulteriore anche per il cinema del maestro verso quell’innovazione vista finora sempre con un certo grado di sospetto.

martedì 10 giugno 2025

GLI INCANTATORI

(The enchanters di James Ellroy, 2023)

Gli incantatori avrebbe dovuto essere il terzo capitolo di quella che era stata definita la seconda quadrilogia di Los Angeles (The second L.A. quartet), una sorta di nuova immersione nel cuore nero dell’America che arrivava ad ampliare quella splendida prima quadrilogia composta da alcuni dei più noti romanzi dello scrittore losangelino: Dalia nera (1987), Il grande nulla (1988), L.A. Confidential (1990) e White jazz (1992). Abbiamo usato il tempo al passato perché sembra che ora questo ultimo progetto di James Ellroy si sia trasformato in una pentalogia rinominata L.A. quintet, dobbiamo quindi aspettarci altri due (presumibilmente corposi) romanzi che andranno ad aggiungersi a Perfidia del 2014, a Questa tempesta del 2019 e a questo Gli incantatori del 2023 prima di poter ritenere conclusa questa nuova fase del lavoro di quello che viene considerato uno dei grandi maestri del crime moderno. C’è da dire che con Gli incantatori pare esserci una cesura abbastanza netta tra ciò che Ellroy ci ha narrato con i primi due romanzi della pentalogia, passiamo infatti da eventi legati alla Seconda Guerra Mondiale, all’attacco di Pearl Harbour e alla successiva segregazione dei cittadini americani di origine giapponese a un epoca più recente collocabile con esattezza ai primi anni Sessanta del secolo scorso, più precisamente ai mesi che precedono e seguono l’agosto del 1962, momento storico in cui viene trovata morta la diva del cinema per antonomasia: Marilyn Monroe. Cambiano quindi gli anni, cambiano molti dei protagonisti e cambia anche, almeno in parte e per alcuni aspetti, l’approccio di Ellroy alla sua materia, sempre fatta di miriadi di personaggi, di una mix di Storia vera e finzione, di marciume e corruzione a volontà, concentrata però su un solo focus che presenta sì collegamenti e diramazioni, spesso difficili da far collimare, ma che non alimenta la visione ad ampio raggio che avevano alcuni dei capolavori di Ellroy, uno su tutti l’ormai celebre American Tabloid, per chi scrive vero capo d’opera dello scrittore losangelino.

Il protagonista principale e voce narrante de Gli incantatori è Freddy Otash, personaggio realmente esistito e ricorrente in diverse opere di Ellroy. Ex poliziotto e ora detective privato Otash viene contattato dal capo dei teamsters (il sindacato dei trasportatori) Jimmy Hoffa per mettere sotto sorveglianza l’abitazione di Marilyn Monroe; Hoffa sta cercando del materiale compromettente che possa provare le relazioni extraconiugali dei fratelli Kennedy, sia John che Bobby, con l’attrice, in modo da poter ottenere una leva politica da usare al momento giusto tramite ricatto. Nello stesso periodo Otash, insieme ad altri poliziotti chiamati in gergo il gruppo dei cappelli, viene coinvolto nelle indagini sul rapimento di un’attricetta minore, Gwen Perloff, indagine lungo la quale scappa il morto, omicidio causato proprio dal caro vecchio Freddy. Il detective si convince del fatto che il rapimento dell’attrice sia in qualche modo collegato alla morte (si dice suicidio da barbiturici), avvenuta negli stessi giorni, di Marilyn Monroe. Sotto pressione di uno dei pezzi grossi della polizia di Los Angeles, Bill Parker, manovrato dallo stesso Bobby Kennedy, Otash viene reintegrato nel corpo di polizia con il compito di screditare la figura di Marilyn Monroe disinnescando di fatto le potenziali mosse di Hoffa (e dei suoi soci della mala) ai danni della famiglia Kennedy con la quale Freddy ha più d’un legame, è stato in passato amante di Pat, la sorella di Bobby e John Fitzgerald.

Da appassionato da tempo immemore dell’opera di Ellroy mi duole non poco dover ammettere di aver avuto l’impressione, leggendo questo Gli incantatori, di essermi trovato di fronte al lavoro di un autore un poco autocompiaciuto (forse anche più di un poco). Ellroy imperversa tra le pagine del romanzo con il suo stile secco, frammentario, conciso, fatto di frasi brevi, vere stilettate al lettore non aduso alla sua scrittura, più abbordabile per il lettore già consapevole, comunque ostico, difficile. I personaggi che compongono la trama del libro, alcuni protagonisti, altri assolutamente comprimari, sono settanta, e anche per un amante di Ellroy posso garantirvi che è un numero spropositato di caratteri ai quali star dietro. Molti passaggi sono confusi, chi è chi? Chi fa cosa? Si fa in effetti una certa difficoltà a ricollegare i pezzi anche se ogni tanto qualche click nel cervello non manca di scattare. Ma, a parte l’immagine stropicciata a dir poco che Ellroy dipinge di una Marilyn Monroe in preda al vizio (cosa che tutto sommato può anche non interessarci), i delitti perpetrati ne Gli incantatori sono almeno due a parere di chi scrive. Il primo è una trama non solo confusa ma tutto sommato poco interessante e per nulla stratificata come può sembrare di primo acchito; tutto ruota intorno alle intercettazioni e ai pedinamenti di Marilyn, alla sua biografia del prima di adesso, ma in fondo non c’è nulla di davvero nuovo né di così appassionante che Ellroy sembri dirci a riguardo. Il secondo, ancor più grave, è l’assenza di personaggi di peso. Ok Freddy Otash, che già non è il protagonista migliore scritto da Ellroy, ma dove sono i Dudley Smith? I Kemper Boyd, le Kay Lake, i Ward J. Little, i Lee Blanchard, i Wayne Tedrow Jr, i Pete Bondurant? Dove sono? Purtroppo la tendenza a un compiacimento che sembra prendere il sopravvento sulla freschezza della narrazione sembrava intuirsi già ai tempi di Questa tempesta, libro comunque migliore di questo, Gli incantatori è una conferma di un trend che si spera Ellroy possa invertire con i prossimi romanzi, il rischio è quello di una pentalogia che nella sua interezza potrebbe rivelarsi indigesta per più di un lettore. Ellroy sa di essere una delle voci più interessanti all’interno del genere crime, indubbiamente lo scrittore non è uno rivestito di umiltà, diventa così difficile capire cosa aspettarsi da lui nel prossimo futuro, la speranza è che qualcuno riesca a fargli notare che un occhio alla misura ogni tanto lo si può anche buttare.

sabato 7 giugno 2025

DUMB MONEY

(di Craig Gillespie, 2023)

Craig Gillespie è uno di quei registi il cui nome dirà poco o nulla al grande pubblico, eppure il regista australiano ha siglato diversi film che hanno avuto un buon riscontro in termini di popolarità a partire dal riuscito e decisamente stralunato Lars e una ragazza tutta sua con un giovane Ryan Gosling che portava avanti un rapporto sentimentale con una bambola gonfiabile; in tempi più recenti ci sono stati il film sulla pattinatrice Tonya (interpretata da Margot Robbie) e la giovane Crudelia in versione Emma Stone. A seguire queste ultime due opere abbastanza conosciute arriva un film “minore” distribuito qui da noi direttamente su piattaforma (Prime Video); Dumb moneyNon chiamateli sprovveduti sfoggia un buon cast e una storia vera assurta agli onori della cronaca grazie alla presenza del marchio GameStop, catena di negozi di videogiochi nuovi e soprattutto usati, un brand conosciuto più o meno in ogni dove. La storia narrata è quella del boom inaspettato del valore delle azioni di GameStop che nel periodo dei primi mesi del 2021, con tutti gli strascichi della pandemia da Covid-19 ancora ben presenti, videro un rialzo pazzesco favorito dalla collaborazione di tanti piccoli investitori unitisi attorno alla peculiare leadership del piccolo analista Keith Gill, a.k.a. Roaring Kitty, un giovanissimo padre di famiglia capace di far appassionare al titolo migliaia di giovani che insieme hanno reso il loro atto di “comprare e tenere” una sorta di lotta contro il sistema dei grandi fondi di investimento i quali furono costretti a “barare” e ad alterare illecitamente il mercato per evitare ai loro appartenenti perdite più che disastrose dimostrando, come se ce ne fosse ancora bisogno, che il gioco è sporco e truccato sempre a favore di pochi schifosi privilegiati.

Siamo all’incirca a inizio 2021: videochiamate, incontri a distanza, posti di lavoro con obbligo di mascherina, volti coperti, distanziamento sociale e via discorrendo. In un contesto ancora pandemico alcuni manager di diversi hedge fund statunitensi (fondi comuni di investimento) come Kenneth Griffin (Nick Offerman), Gabe Plotkin (Seth Rogen) e Steve Cohen (Vincent D’Onofrio) scommettono, tra le altre cose, sulla perdita di valore delle azioni di diverse società tra le quali c’è anche la catena che si occupa di videogiochi GameStop. Un piccolo analista finanziario indipendente, Keith Gill (Paul Dano), che di mestiere fa altro e per la finanza coltiva più che altro una consapevole passione, è invece molto attratto dal titolo GameStop, tanto da comprarne un buon quantitativo di azioni (parliamo di cifre insignificanti per la finanza mondiale) e spingere tramite video YouTube e post su Reddit altri piccoli acquirenti a fare lo stesso e a tenere il titolo, comportamento virtuoso che presto diventa non solo un buon investimento per chi decide di seguire i consigli di Gill ma anche una sorta di lotta dei piccoli investitori contro i colossi del sistema che piano piano vedono salire alle stelle le quotazioni del titolo contro il quale avevano scommesso. Così, poco alla volta, l’infermiera coperta dai debiti Jennifer Campbell (America Ferrera), la studentessa in canna Harmony (Talia Ryder), il dipendente di GameStop Marcus (Anthony Ramos) vedono i loro miseri risparmi diventare sempre più corposi. E tengono, senza vendere le loro azioni di GameStop. Per questa comunità in crescita di piccoli investitori Gill diventa un punto di riferimento, un maestro da seguire, le grosse compagnie non troveranno altro sistema per arginare le loro perdite che quello di truccare il mercato, spingendo la piattaforma di negoziazioni Robinhood gestita da Vlad Tenev (Sebastian Stan) a inibire la possibilità di ulteriori acquisti del titolo. Il caso finirà in mano al Congresso degli Stati Uniti.

Il limite maggiore di un film come Dumb money, godibile ma mai abbastanza coinvolgente, potrebbe essere considerato il tecnicismo di fondo che permea un settore, quello finanziario, che parla ad adepti, conoscitori e appassionati. Tra Hedge Fund, titoli azionari, Short squeeze, Reddit, Wallstreetbets, Robinhood e via discorrendo più di uno spettatore potrebbe trovarsi spiazzato, anche se nel corso del film le cose divengono tutto sommato abbastanza comprensibili. Il film pecca anche sul piano puramente emotivo, per le vicende dei vari protagonisti non si sente mai un forte moto di empatia, si prova un sentore di schifo per il sistema, quello sì, ma tutto sommato Dumb money non riesce quasi mai a toccare le corde giuste nelle nostre pance e nei nostri cuori. Tutto da buttare quindi? No, direi proprio di no. La vicenda narrata è interessante, il film assolve più al compito di informare su una storia curiosa (sulla quale è bene anche riflettere un poco) che non a quello di offrire del buon cinema, per godere del quale ci sentiamo di dire che sarebbe meglio rivolgersi altrove. La regia abbastanza anonima di Gillespie non offre guizzi né soluzioni memorabili, compensa però, almeno in parte, la scelta di un bel cast nel quale il protagonista Paul Dano offre una bella prova e alcuni attori di razza gigioneggiano da par loro (Vincent D’Onofrio). Diciamo pure che si consiglia la visione a chi ha un interesse per l’argomento o una predisposizione per la materia, in caso contrario questo Dumb money lo si può tranquillamente trascurare.

lunedì 2 giugno 2025

IL SAPORE DELLA CILIEGIA

(Ta'm-e gilās... di Abbas Kiarostami, 1997)

Il sapore della ciliegia, una delle opere più note del regista iraniano Abbas Kiarostami, esce nel 1997 e nello stesso anno conquista l’ambita Palma d’oro alla cinquantesima edizione del Festival di Cannes. Grazie anche alla visibilità data all’opera dal riconoscimento francese (insieme a diversi premi riscossi negli Stati Uniti d’America), Il sapore della ciliegia si crea la fama di piccolo capolavoro, di film rappresentativo di un autore che è già un maestro e che però, a parer mio, in passato aveva realizzato opere anche più toccanti e meglio riuscite di questa, una per tutte Dov’è la casa del mio amico?, un film capace di donare uno sguardo sulla purezza dell’infanzia tale da aprire anche il più insensibile dei cuori. Con questo non si vuole sminuire il valore di questa Palma d’oro che comunque affronta temi delicati per i quali vengono toccati i massimi valori dell’esistenza stessa: la vita, la morte e il valore che ogni uomo può dare all’una e all’altra. Da appassionato e “discepolo” del neorealismo italiano, Kiarostami mette in scena il dramma interiore di un uomo comune vinto dalle asperità della vita, circostanze che tutti noi, in qualità di spettatori, non verremo mai a conoscere nel dettaglio, il regista si concentra e sofferma sulla reazione del protagonista alle difficoltà del vivere e sul confronto dello stesso con le altre persone in quella che diventa una riflessione sul bene più prezioso che abbiamo.


Il signor Badī (Homāyun Eršādi) guida la sua auto per le strade di Teheran apparentemente alla ricerca di qualcuno. Sono diversi gli uomini che si avvicinano al suo finestrino aperto, convinti che l’uomo stia cercando un manovale o qualche operaio per portare a termine qualche tipo di lavoro. In realtà da principio il signor Badī non dichiara in maniera esplicita le sue intenzioni. L’uomo in realtà più che di un lavoro vero e proprio necessita di qualcuno che porti a termine per lui un compito semplice: Badī ha infatti deciso di togliersi la vita; l’uomo ha già scavato una buca in una zona fuori Teheran, un luogo aspro e collinare pieno di escavatori e lavori di non si sa bene che tipo. Ora Il signor Badī, probabilmente non ancora convinto di riuscire a portare a compimento l’opera, cerca qualcuno che il mattino seguente (il suicidio l’ha pensato in notturna) vada a controllare la situazione, se il volonteroso aiutante troverà Badī ancora vivo lo aiuterà semplicemente a uscire dalla buca, in caso contrario lo dovrà coprire con almeno venti palate di terra. Per il volontario ci sarà ad aspettarlo una buona sommetta in denaro. Badī proporrà l’accordo prima a un giovanissimo soldato curdo (Safar 'Ali Murādi) ora rifugiato in Iran, poi a un seminarista (Mir Hossein Nuri), un religioso ovviamente contrario all’atto del suicidio, infine a un anziano impiegato di un museo, il signor Bagheri (Abdelrahman Bāqiri), più propenso ad assecondare i voleri del suo concittadino ma anche deciso a fargli capire a quante cose meritevoli d’esser vissute il suo gesto potrebbe porre fine.


Quello di Abbas Kiarostami è un cinema che lascia solo intravedere le difficoltà dell’Iran del suo tempo, senza parlare apertamente di regime; il malessere esistenziale del signor Badī non trova qui esplicita chiarificazione, potrebbe nascere dalle difficoltà di vivere nell’Iran contemporaneo (quello del 1997) ma potrebbe essere imputabile più semplicemente a un privato infelice, Kiarostami questo non ce lo dice. Pur essendo un film lontano dal presentare un forte impianto politico, Il sapore della ciliegia ha trovato problemi di distribuzione in Iran a causa del tema del suicidio, argomento tabù nel Paese del regista. Kiarostami pone lo spettatore accanto al suo protagonista principale girando molte sequenze dentro l’auto, come a guardare la città e il mondo fuori di essa; se prendiamo questo come segno di stile, insieme alle dure zone montane che fanno da sfondo alla vicenda, troviamo un approccio riconoscibile anche nei lavori più recenti di Jafar Panahi (fresca Palma d’oro con Un semplice incidente), dichiarato discepolo di Kiarostami e regista che appunto ne riprende alcune caratteristiche in film come Taxi Teheran o Tre volti. In una serie successiva di incontri Kiarostami vuole riflettere con approccio laico sul dramma esistenziale di un uomo che decide che la sua vita non vale più la pena d’esser vissuta; nei tre dialoghi si sviluppa il dramma privato dell’uomo e si palesano tre visioni differenti sul suo potenziale gesto suicida. La struttura è semplice e anche in un certo qual modo ripetitiva, l’incontro che dovrebbe/potrebbe essere risolutivo con il vecchio impiegato del museo offre una visione del tema lineare e forse finanche banale, magari efficace e veritiera ma semplificata all’osso per un tema troppo importante da liquidare con una certa semplicità. In un film dove non c’è storia ma che vive di riflessione e di un tema (nulla di male in questo), ci si aspetterebbe una profondità maggiore, un tono più ficcante. Insieme al personaggio centrato del soldato, alla buona interpretazione di Homāyun Eršādi e al confronto finale con il signor Bagheri, rimane la buona mano di un regista capace e lo spunto di indubbio interesse, resta il dubbio di come forse Il sapore della ciliegia goda di una fama anche maggiore rispetto ai reali meriti di un film buono e interessante ma, a mio avviso, non così fondamentale come è stato spesso dipinto.

venerdì 30 maggio 2025

CREPUSCOLO DI TOKYO

(Tōkyō boshoku di Yasujirō Ozu, 1957)

Continuiamo l’esplorazione della filmografia del maestro Yasujirō Ozu con Crepuscolo di Tokyo, film del 1957 che esce a un solo anno di distanza dal precedente Inizio di primavera. Se più volte nei titoli delle opere di Ozu si è fatto riferimento alle stagioni, metafora dell’incedere inevitabile del tempo, del naturale cambiamento delle cose e delle varie “stagioni” della vita stessa, per questo film si sceglie la parola “crepuscolo” che lascia sopravvenire alla mente l’idea della vicinanza, o almeno del tendere, alla fine di un qualcosa: di una giornata, di un’epoca, di un’esistenza. Facendo una ricerca in rete del termine il primo significato a spuntar fuori è “luminosità limitata e incerta del cielo nei momenti susseguenti al tramonto del sole”. Indubbiamente Crepuscolo di Tokyo è, tra i film analizzati finora, quello che presenta la minor “luminosità”, sia parlando di mera fotografia, sia con riferimento alle situazioni trattate dal regista, più cupe e tragiche di quelle presentate nei film precedenti, seppur permanga anche in Crepuscolo di Tokyo quella messa in scena asciutta ed “educata” alla quale Yasujirō Ozu ci ha già abituati con gli altri film da lui girati in anni anteriori a quel 1957 nel quale Crepuscolo di Tokyo veniva presentato al pubblico. Il tramonto del sole in questo caso può essere visto come specchio del tramonto della famiglia tradizionale come istituzione assoluta e inamovibile, un disfacimento, in atto per vari motivi, che può causare dolore da qualsiasi lato si voglia guardare a un fenomeno sempre più indice dei tempi e forse, in qualche misura, anche inevitabile.


Takako (Setsuko Hara) è una donna ancora giovane, madre della piccola Michiko, una bimba di due anni; il suo matrimonio è in crisi a causa dei disaccordi tra Takako e suo marito Numata (Shin Kinzo), un uomo troppo incline al vizio del bere. Così la donna torna a stare a casa del padre Shūkichi (Chishū Ryū), un impiegato non ancora in pensione; qui vive anche la sorella minore di Takako, Akiko (Ineko Arima), una ragazza dall’animo malinconico e sofferente alla costante ricerca del suo ragazzo Kenji (Masami Taura), un giovane immaturo e preso dalle case da gioco. Le due sorelle sono cresciute fin da piccole con il padre, un uomo abbandonato dalla moglie fuggita anni prima con un altro. Akiko ha molto patito la mancanza di una madre, di fatto la ragazza non ne serba nemmeno ricordo, nonostante l’affetto riversato sulla figlia dal padre la mancanza di una figura materna ha lasciato strascichi sul benessere familiare che in età adulta Akiko ancora subisce. Un giorno, mentre è in cerca di Kenji, Akiko incontra la proprietaria di una sala di mah jong, la signora Kikuko (Isuzu Yamada), la donna dice di conoscere la ragazza fin da quando era piccola, afferma di essere una vecchia vicina di casa, in realtà ad Akiko viene il sospetto che la donna possa essere sua madre. Questa sorta di rivelazione, più l’evento imminente per cui Akiko sta cercando l’irresponsabile Kenji, gettano la ragazza in uno stato di profondo sconforto che avrà conseguenze tragiche per tutta la famiglia.


Crepuscolo di Tokyo è per il regista giapponese una sorta di cambio di rotta, se non proprio nelle tematiche (i problemi familiari e di coppia erano stati già esplorati), almeno nelle atmosfere, qui più pesanti e tragiche di quelle alle quali i film precedenti di Ozu ci avevano abituati. Figure apparentemente predestinate al dolore come quella di Akiko non si erano ancora viste nelle opere dell’ultima parte della filmografia del regista; seppur non venga del tutto esautorata del suo ruolo la speranza, in Crepuscolo di Tokyo si affacciano anche il gesto violento e temi spinosi e delicati (siamo pur sempre nel ‘57, non che oggi non lo siano) come l’aborto, pratica all’epoca in Giappone già consentita in piena legalità. Continua anche qui il discorso sulla disgregazione della famiglia vista con toni ambivalenti: da un lato i danni perpetui che l’abbandono di bambini piccoli può provocare sugli stessi, nonostante l’affetto presente di chi è rimasto, da un lato le infelicità dettate da legami sbagliati o usurati, in questo il cinema di Ozu si conferma essere un classico senza tempo e sempre attuale. Ottimo il lavoro di scrittura sul personaggio di Akiko, una ragazza attanagliata da dubbi, vuoti e preoccupazioni che alla fine la vinceranno, nonostante la vicinanza della sorella e del padre amorevoli, un amore reso inutile dal gesto antico di una madre che qui subisce, soprattutto a opera di Takako, una dura condanna per la sua condotta. Visivamente tornano gli stilemi ormai noti del cinema di Ozu: inquadrature fisse, telecamera ad altezza tatami, interni rigorosi e ordinati, regolari, in contrapposizione agli stacchi in esterno con elementi di architettura moderna, tralicci, luci al neon a indicare una vita più disordinata rispetto a quella che dovrebbe (e qui il condizionale è d’obbligo) aver vita tra le mura domestiche. Crepuscolo di Tokyo si conferma come un altro frammento da ricordare all’interno della filmografia di un grandissimo autore.

domenica 25 maggio 2025

MY SISTER’S GOOD FORTUNE

(Das Gluck meiner Schwester di Angela Schanelec, 1995)

Ci sono volute due visioni consecutive (in due giorni diversi, non una dietro l’altra) per poter apprezzare al meglio My sister’s good fortune, titolo internazionale di uno dei primi film della regista tedesca Angela Schanelec. L’opera seconda della Schanelec è uno di quei film che è meglio non approcciare se si è particolarmente stanchi o se si pensa che un alito di sonno possa venire a batterci sulla spalla da un momento all’altro; è uno di quei film che è meglio guardare seduti su una sedia, magari scomoda, piuttosto che ben sistemati sul divano, sotto una copertina al calduccio. My sister’s good fortune è un film composto da soli dialoghi e da pochissime azioni, i confronti tra i vari protagonisti, sono tre quelli principali, a volte sono dilatati e rinchiusi dentro un’inquadratura fissa che toglie vivacità all’incedere della narrazione ma allo stesso tempo cerca di focalizzare l’attenzione dello spettatore su ciò che dicono e soprattutto provano i personaggi. A un primo impatto si potrebbe facilmente affermare che My sister’s good fortune sia un film per molti ma non per tutti, in realtà è un film per pochi, nemmeno per molti; questo però solo a fronte di un giudizio superficiale. Se invece si dedica la giusta attenzione al film della Schanelec (che potete trovare gratuitamente su Arte.tv, almeno a oggi 24 maggio) diventa evidente come l’opera sia fruibile da tutti quegli spettatori volenterosi e desiderosi di mettersi alla prova con film un poco diversi dal solito, caratterizzati da ritmi lenti e privi di scene madri, e a loro favore dispiega minuto dopo minuto la rappresentazione di una situazione difficile e interessante che i tre attori protagonisti riescono a portare sullo schermo con attenta devozione.


Berlino. Christian (Wolfgang Michael) porta avanti da tempo una relazione con Ariane (Anna Bolk) ma di recente l’uomo si è legato ad Isabel (Angela Schanelec), una scelta che Ariane, ancora molto innamorata di Christian, non riesce proprio ad accettare. Il grosso problema di questa questione sentimentale è che Isabel è anche la sorellastra di Ariane, un legame che si intuisce essere molto profondo e ora messo a rischio dall’amore per lo stesso uomo. Le due donne hanno la stessa madre ma padri diversi; la genitrice non è stata questa grande figura materna per le due ragazze che sono molto diverse tra loro, cosa che tormenta Christian che nelle due trova stimoli completamente differenti. Se Ariane è molto fisica, attaccata a Christian e disposta a condividere con lui tutto, Isabel, un poco più fredda, è una donna attraente e più interessante dal punto di vista intellettuale, a volte più “poetica”, cosa che stimola Christian e il suo lato artistico (l’uomo di professione fa il fotografo). Sullo sfondo viene accennata anche la storia in crisi di una coppia di amici comuni ai tre protagonisti.


Angela Schanelec è inserita tra i nomi dei fondatori della Berliner Schule, la Scuola di Berlino, insieme a registi come Christian Petzold, forse il più noto tra gli esponenti di questo movimento che mette in primo piano le relazioni tra i personaggi, lo scavo nell’intimo dei protagonisti. Quello di My sister’s good fortune è un cinema parlato, per alcuni versi assimilabile al mumblecore americano di registi come i Duplass o Bujalski, per ritmo e sviluppo non di immediata assimilazione. La Schanelec, qui anche attrice (è lei a interpretare Isabel), rimane addosso ai suoi personaggi, ce ne fa scrutare ogni espressione, ogni dubbio, le tracce di dolore, i momenti di fastidio e disappunto, sfumature ben portate sullo schermo dai tre attori principali. Si segue un tratto delle vite di questi personaggi confusi, che non sanno bene come far evolvere la situazione, questo vale soprattutto per Christian (uomini eternamente indecisi); non ci sono grandi sconvolgimenti nel film della Schanelec ma un progressivo costruirsi di sentimenti e relazioni difficili da gestire. Ogni tanto compare qualche piccolo elemento di disturbo tra i dialoghi (a un certo punto si insinua il dubbio che Christian abbia lanciato una moneta per scegliere tra le due sorelle; in realtà dal comportamento dell’uomo l’ipotesi non mi sembra credibile), qualche segnale di stile di regia, nel complesso My sister’s good fortune rimane un film che potrebbe risultare ostico allo spettatore occasionale, per apprezzarlo è necessario avere una passione sviluppata per il cinema e un po’ di esperienza al di fuori dei prodotti meramente mainstream. Affrontato con la giusta predisposizione il film della Schanelec si rivelerà quantomeno interessante nella costruzione fuori dagli schemi di questa piccola storia d’amore (anche se di slanci in questo senso ce ne sono davvero pochi, non si vive di romanticismo da queste parti).

martedì 20 maggio 2025

LES PARAPLUIS DE CHERBOURG

(di Jacques Demy, 1964)

Nel 1964 il regista francese Jacques Demy arriva al suo quarto lungometraggio con Les parapluis de Cherbourg, film che diede popolarità duratura al suo autore e che ottenne anche la Palma d’oro al Festival di Cannes del ‘64. Ancora oggi la visione de Les parapluies de Cherbourg rimane un’esperienza quantomeno originale; il film poggia infatti su un impianto da musical (è completamente cantato dall’inizio alla fine) ma non presenta le classiche coreografie tipiche del genere né numeri misti di ballo e canto, tutti i protagonisti si limitano semplicemente a recitare le loro battute cantandole, scelta artistica che dona un tocco inusuale alla pellicola e a tutto l’impianto recitativo immerso in quella che a conti fatti è una storia d’amore come ce ne sono tante, graziata dalla presenza di una giovanissima e deliziosa Catherine Deneuve e dal nostro Nino Castelnuovo (per chi non lo conoscesse è quel bell’uomo che ha saltato per anni la staccionata negli spot pubblicitari dell’olio Cuore ma che ha recitato anche in capi d’opera della storia del cinema come Rocco e i suoi fratelli, tanto per dirne una). Quello che lo spettatore deve aspettarsi dal film è una storia romantica, sofferta, candida e pulita giocata sula ripartizione di più momenti e di tre fasi: la partenza, l’assenza e il ritorno. Le scelte cromatiche e quelle di scenografia sembrano sospendere la storia di Les parapluis de Cherbourg in una sorta di limbo che sta a metà strada tra realtà e racconto finzionale, tra verità e fiaba, impressione dettata dal contrasto tra le riprese in esterno a Cherbourg (oggi Cherbourg-Octeville in Normandia) e quelle in interno caratterizzate da arredi, colori, tappezzerie a tinte pastello che forse mai si troverebbero (o si sarebbero trovate) tra le mura di una casa o di un negozio reale.



Les parapluis de Cherbourg è un negozio che vende ombrelli per lo più dai toni molto vivaci (ma non manca il nero per i signori seriosi) gestito da Madame Emery (Anne Vernon); la donna è aiutata da sua figlia Geneviève (Catherine Deneuve), una ragazza molto bella e senza troppi grilli per la testa. La giovane è innamorata di Guy Foucher (Nino Castelnuovo), un bel ragazzo gentile che lavora come meccanico in un’officina della zona. I due si incontrano più volte, sono innamorati ma la madre di Geneviève non approva questa frequentazione; la donna preferirebbe di certo per la figlia un compagno più facoltoso e benestante piuttosto che quel giovane di limitate speranze che ancora vive con la vecchia zia Elise (Mireille Perrey). Un bel giorno (non troppo bello in realtà) l’idillio tra i due giovani viene spezzato da una lettera che richiama Guy alle armi, due anni di servizio militare in Algeria, colonia francese. Durante il periodo d’assenza del ragazzo nella vita di madre e figlia entra Roland Cassard (Marc Michel), un ricco commerciante di preziosi attratto da Geneviève e disposto ad aiutare Madame Emery con le spese del negozio che sembrano farsi sempre più pressanti.


Les parapluis de Cherbourg può fregiarsi di un’originalità non comune per come presenta questo miscuglio di melò e musical, scelta di per sé già poco battuta, rafforzata da una messa in scena coloratissima che Demy impreziosisce con alcune trovate di regia indovinate e sfiziose come quella messa in atto nella sequenza iniziale. Vista sul porto di Cherbourg; la camera in posizione elevata rispetto al terreno ruota verso il basso e riprende l’acciottolato della strada. Inizia a piovere, le persone che passeggiano, ciclisti, ragazze, marinai, aprono i loro ombrelli: rossi, azzurri, bordeaux, blu; prima uno alla volta, poi insieme in fila… e ancora, bianco, giallo, grigio, granata, persone zuppe di pioggia, impermeabili e ancora marinai, rosso, blu, bianco, una famiglia di neri in fila. La camera torna nella posizione iniziale, incomincia la prima parte: le départ. Alla regia di Demy si unisce la partitura musicale vivace e jazzata di Michel Legrand, da lì un cantato pressoché continuo. Il film, sequenza d’apertura a parte, si apre e si chiude con una vista sull’officina in cui lavora Guy, una circolarità che torna anche nel rapporto con Geneviève seppur con valenze ed esiti differenti. Quella tra Geneviève e Guy è una storia d’amore triste, ammantata di nostalgia e di rimpianto, che mette sotto i riflettori il dolore delle storie spezzate, non compiute e non vissute pienamente fino in fondo. A un primo impatto Les parapluis de Cherbourg può sembrare artificioso ma con il passare dei minuti il film permette allo spettatore di mettersi comodo, di godere della visione e di arrivare a soffrire un poco, sotto la neve questa volta, per una amore che avrebbe potuto essere e che invece non è stato, almeno non del tutto. C’è un po’ di vita, c’è un po’ di finzione, c'è...

sabato 17 maggio 2025

CRUISING

(di William Friedkin, 1980)

Scrivere un pezzo sul Cruising del regista di Chicago William Friedkin è stata una sorta di sfida, questo perché la copia del film in mio possesso è il riversamento di una vecchia registrazione su VHS (se ci sono lettori abbastanza giovani da non conoscere il significato della sigla alzino pure la mano) risalente a un passaggio televisivo che il film fece anni orsono su mamma RAI. Ne consegue, viste le tematiche e alcune sequenze all'epoca ritenute scabrose, che il film è passato tra le forche caudine di un'intervento censorio che ne ha minato, presumibilmente in maniera significativa, l'integrità e in qualche modo la fruibilità complessiva. La gestazione di Cruising è stata parecchio travagliata, in rete ne potete trovare resoconti più dettagliati di quello che segue, qui diamo solo qualche accenno per inquadrare più o meno in quale contesto è nata e cresciuta quest'opera prima svilita e avversata e poi, con il passare degli anni, divenuta un piccolo fenomeno cult non troppo visibile al grande pubblico. Iniziamo col dire che il film è tratto dal romanzo di Gerald Walker, giornalista del New York Times e che da principio William Friedkin questo Cruising non avrebbe nemmeno voluto girarlo. L'interesse del regista si ravvivò in seguito ad alcune situazioni venutesi a creare nella New York di quegli anni; la prima fu data da una serie di omicidi che interessarono alcuni appartenenti alla comunità gay newyorkese, uomini che frequentavano locali per omosessuali a sfondo sadomasochista, ambientazione principale di questo Cruising (che tradotto significa qualcosa tipo andare a caccia ma si può intendere anche come saltare da un posto, da un locale all'altro). La seconda fu il rapporto che Friedkin aveva con un ex poliziotto di nome Jurgensen con il quale il regista aveva già collaborato (come consulente) per la realizzazione de Il braccio violento della legge: pare che l'agente in pensione avesse agito da infiltrato nel mondo delle comunità omosessuali e ne fosse uscito abbastanza turbato, proprio quello che vediamo poi accadere ad Al Pacino, protagonista del film in origine pensato con Richard Gere come interprete principale. Terza causa/combinazione, l'arresto come sospettato per gli omicidi di cui sopra di un tal Bateson, un uomo che aveva fatto da comparsa nel più celebre film di Friedkin: L'esorcista. Leggenda (o più probabilmente verità) vuole che in seguito al concatenarsi di questi eventi Friedkin accettò di dirigere Cruising.

New York, tardi anni Settanta. Nelle acque del fiume Hudson vengono ritrovate parti di corpi martoriati; i ritrovamenti vengono collegati a una serie di omicidi a danno di frequentatori di bar per omosessuali a sfondo sadomaso avvenuti nel quartiere del Greenwich Village e che fanno pensare all'opera di un omicida seriale. Il capitano Edelson (Paul Sorvino) della polizia di New York decide così di infiltrare un suo agente nell'ambiente gay e propone il lavoro al giovane Steve Burns (Al Pacino), eterosessuale e fidanzato con la sua compagna Nancy (Karen Allen). Così Burns inizia a frequentare locali per omosessuali e a mischiarsi alla comunità gay del Greenwich iniziando a prendere contatto con quel mondo; prende in affitto un appartamento in zona e cerca di creare una sorta di amicizia con Ted (Don Scardino), un vicino di casa anche lui gay, un tipo molto tranquillo con il pallino della scrittura. Con il passare dei giorni la frequentazione dell'ambiente rende Steve sempre più teso e confuso, il rapporto con Nancy, più sporadico a causa del lavoro sotto copertura, sembra filare meno liscio di prima, la violenza della polizia stessa nei confronti degli omosessuali infastidisce l'agente sempre di più. Quella che era nata come una missione alla ricerca di un assassino sembra sempre più trasformarsi in una personale discesa all'inferno dalla quale Burns uscirà molto cambiato.

Travagliata la realizzazione di Cruising; il film fu osteggiato sia durante la fase di riprese che dopo la sua uscita nei cinema da quella parte della comunità gay definita mainstream che non accettava la visione sadomaso, nascosta, quasi illecita e sporca che a loro parere il film di Friedkin trasmetteva dell'omosessualità. L'idea poi di mettere in scena l'omicidio di soli uomini gay preoccupava e non piaceva, tutti dubbi leciti se ci si ferma a pensare alle battaglie che già all'epoca (e si era solo agli inizi) le comunità omosessuali dovevano affrontare per raggiungere un seppur minimo livello di accettazione e riconoscimento, non stupisce quindi che non vedessero di buon occhio un film che a loro dire metteva il movimento in cattiva luce. In realtà guardando Cruising (almeno nella versione scorciata delle sequenze più forti), non si ha mai l'impressione che il film si scagli contro l'ambiente omosessuale in genere, anche il protagonista, seppur scombussolato sul finale, questo sì un poco (volutamente) ambiguo, mostra solidarietà e avvicinamento al mondo dei gay newyorkesi, semmai sono la città e la corruzione della polizia violenta e sfruttatrice a non uscire bene dal lavoro di Friedkin che, aiutato dalla fotografia cupissima e lercia di Contner, pennella una New York opprimente e infernale. Ciò che indaga Friedkin, sotto al primo livello di lettura di un confuso (nelle reali colpe) thriller metropolitano, è lo spaesamento interiore di un uomo che esce da un'esperienza provante con il diverso da sé con una sorta di perdita d'identità che ricorda quella subita dai reduci del Vietnam, altro argomento più volte esplorato dal cinema dei Settanta/Ottanta. Il film è scandito da una colonna sonora di peso che vede tra gli altri contributi dei The Germs, di Willy DeVille, dei The Cripples e di John Hiatt. Si è poi molto parlato delle scene forti girate all'interno di questi "leather bar" ma purtroppo la "versione educande" in mio possesso non mi ha permesso di valutare nell'interezza il reale valore di un film che non presenta particolari motivi d'interesse sotto l'aspetto thrilling ma compensa alla grande per ambientazioni e sviluppo del protagonista. Il consiglio, che potrei dare anche a me stesso, è di tentare un recupero della sua versione integrale per meglio apprezzare un'opera che ancor oggi potrebbe avere più di qualcosa da dire.

sabato 10 maggio 2025

INIZIO DI PRIMAVERA

(Sōshun di Yasujirō Ozu, 1956)

Il corpo d'opera del regista giapponese Yasujirō Ozu si compone di circa una cinquantina di film che il maestro ha realizzato tra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Sessanta del secolo scorso; parte della sua filmografia, soprattutto per quel concerne le opere degli anni Venti e Trenta, è purtroppo andata perduta. Inizio di primavera è la prima opera successiva al film più celebre di Ozu che anche noi non ci esimiamo dal citare tutte le volte che parliamo dei film del regista: il riferimento è ovviamente a Viaggio a Tokyo dal quale passano ben tre anni prima di un ritorno del maestro proprio con questo film datato 1956. In un Giappone in profondo mutamento, come abbiamo imparato dai film precedenti, anche i gusti del pubblico iniziano a cambiare; proprio sul finire degli anni Cinquanta nasce una sorta di New Wave del cinema giapponese ispirata dal movimento francese della Nouvelle Vague i cui appartenenti (molti dei quali non riconoscevano quel movimento che andò sotto il nome di Nūberu bāgu) si concentrarono su temi e stilemi decisamente più moderni allontanandosi da quello che veniva definito, come facevano anche i francesi, il "cinema dei padri". Anche oggi in Giappone, come ci confermano Matteo Bordone e Flavio Parisi nel bel podcast Viaggio a Tokyo, in realtà il cinema di Ozu oggi non fa proprio parte della cultura popolare nipponica, è probabile che gli appassionati di cinema europei conoscano Ozu meglio di molti giapponesi stessi, non proprio un fenomeno di "dimenticanza" ma una sorta di appartenenza a un passato rispolverato nei musei, uno "sbiadimento" di cui i primi segni si iniziarono a vedere proprio nello stesso periodo in cui usciva questo Inizio di primavera. Eppure, anche in Inizio di primavera, pur rimanendo nell'impianto classico ormai noto e caro a Ozu, non manca qualche ulteriore slittamento verso una panoramica su famiglia e società che affronta temi che in effetti al moderno tendono, sempre ammantati della serena grazia con cui Ozu affronta ogni argomento.

Siamo a Tokyo. Shoji Sugiyama (Ryô Ikebe) è sposato con Masako (Chikage Awashima); i due sono soli in quanto hanno perso a causa di una malattia il loro unico figlio quando era ancora piccolo. Shoji lavora come impiegato in una delle tante aziende in via di sviluppo nella capitale giapponese, conduce quella che iniziava a essere la vita standard degli impiegati giapponesi dell'epoca: lavoro, poche soddisfazioni, paghe non sempre abbondanti e una vita aziendale che spesso proseguiva anche oltre l'orario d'ufficio caratterizzata da uscite con i colleghi o gite domenicali con gli stessi. La vita tra Shoji e Masako, che non lavora e si occupa delle incombenze casalinghe, scorre monotona e tranquilla. In una delle varie gite con i colleghi di Shoji alla quale Masako non partecipa, l'uomo si avvicina alla collega Kaneko (Keiko Kishi), detta Pesce rosso per i suoi occhi grandi, una ragazza molto aperta e solare con la quale Shoji, tipo belloccio ma meno interessante, sembra trovarsi molto bene. Con il passare del tempo, date anche le iniziative della ragazza molto intraprendente, il rapporto tra Shoji e Kaneko diverrà un qualcosa di più di una semplice amicizia, cosa della quale ben presto anche Masako avrà evidenza e che minerà il rapporto, già un po' usurato, tra i due coniugi. Il destino e le scelte aziendali si interporranno tra i tre dando modo a tutti di valutare la situazione e prendere le dovute decisioni.

Come si accennava poc'anzi, nel momento in cui usciva Inizio di primavera si iniziava in Giappone ad avvertire il bisogno di un cinema diverso, al passo con i tempi; in realtà i temi trattati da Ozu e la mancanza di una ricerca formale volta alla spettacolarizzazione e all'eccesso delle varie situazioni sono caratteristiche che rendono il cinema del maestro "senza tempo" e buono per tutte le stagioni; occupandosi in prevalenza della realtà di piccole famiglie spesso borghesi e del loro vivere nella società del tempo Ozu racconta storie con le quali, con tutti i dovuti distinguo legati all'epoca di appartenenza, è facile trovare delle affinità ancora oggi. In questo senso con Inizio di primavera si compie ancora un passo avanti non essendo qui presente il contrasto tra giovani e generazione precedente (non si parla di matrimonio combinato ad esempio), una generazione dalla quale lo spettatore moderno si trova ovviamente molto distante. L'argomento principe, anzi gli argomenti principe, sono la crisi della coppia e l'alienazione del lavoro a salario, due temi oggi ancora attualissimi e addirittura più esasperati di allora (per quanto l'esasperazione non appartenga nella maniera più assoluta al vocabolario di Ozu che anche qui resta sempre pacato e sereno nella gestione delle vicende dei suoi protagonisti). Si inizia a intravedere un discorso sull'insoddisfazione legata alla vita quotidiana, alla routine, all'abitudine forzata che il mondo del lavoro moderno impone alle singole persone e ai nuclei familiari, si intuisce una sorta di solitudine anche all'interno della vita di coppia finora forse meno esplorata. Il cinema di Ozu si espande e rielabora quelli che sono i suoi fondamenti, vive di variazioni, a volte anche minime, di piccoli scarti, più che la nostalgia presente in opere passate qui si avverte una punta di amarezza; in occasione della morte per malattia di un ex collega dei protagonisti si riflette sul fatto di come forse, per alcuni versi, al caro estinto sia stata risparmiata una vita monotona fatta di sconforto e tristezza. Ozu forse non approfondisce a dovere i motivi reali della relazione extraconiugale tra Shoji e Kaneko che non capiamo se dettata da mero capriccio, soprattutto da parte di Shoji, o se mossa da un reale sentimento per la nuova venuta, probabilmente i tempi non sono ancora maturi per affondare il colpo in questo senso. Comunque, anche per questo che è il film più lungo realizzato da Ozu (139 minuti la versione presente su Raiplay), la visione corre in maniera più che piacevole.

giovedì 8 maggio 2025

L'OMBRA DEL GIORNO

(di Giuseppe Piccioni, 2022)

Il 18 maggio del 1907, nella piazza centrale di Ascoli Piceno (Piazza del Popolo) apre il Caffè Meletti, locale storico della città di proprietà della famiglia omonima già produttrice di liquori; nelle sale del Meletti pare siano transitate personalità quali Ernest Hemingway, Sandro Pertini, Simone de Beauvoir, Guttuso, Mascagni, Sartre e via discorrendo. È proprio all'interno di questo celebre locale che il piceno Giuseppe Piccioni, classe '53, decide di ambientare la quasi totalità di quello che a oggi è il suo ultimo film, L'ombra del giorno, una vicenda in bilico tra il melò e il ritratto storico dell'epoca fascista (siamo nel 1938, anno della promulgazione delle Leggi razziali). A portare in scena quello che è un poco il ritratto dell'Italia che vedeva andare ad affermarsi il regime fascista, c'è una coppia d'attori in parte e che rende giustizia, insieme ad altri volti molto indovinati, alla sceneggiatura dello stesso Piccioni (con Rosella ed Emdin); Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli attraversano i giorni difficili narrati ne L'ombra del giorno, l'uno con piglio più dimesso, quasi rassegnato, l'altra portando una vitalità solare pur in mezzo a un evidente dolore del passato recente (recentissimo in realtà) e a una situazione che ora dopo ora sembra farsi sempre più triste e tesa e destinata a spezzare le illusioni di ogni possibile futura felicità (o anche solo serenità).

Luciano (Riccardo Scamarcio) è un reduce della Grande Guerra tornato dal fronte con un'evidente zoppia e che ora gestisce un ristorante nella piazza principale di Ascoli. Un giorno di fronte al suo locale si ferma una giovane donna; è Anna (Benedetta Porcaroli), una giovane che sembra avere un'impellente necessità di un lavoro e di un posto dove stare. Dopo un breve colloquio Luciano, uomo all'apparenza rigido ma in fondo di buon cuore, accetta di dare una possibilità ad Anna facendola iniziare a lavorare in cucina per dare una mano al cuoco Giovanni (Vincenzo Nemolato) e a Maria (Flavia Alluzzi). Luciano sembra un uomo, seppur ancor in età affatto avanzata, un po' spento e rassegnato, di simpatie fasciste ma più per quieto vivere che non per vera convinzione, un fascista "alla leggera" non ancora consapevole di ciò che il fascismo sta per diventare per il Paese. Anna invece mostra fin da subito una profonda avversione per il fascismo, anche di fronte a un pericoloso ex commilitone di Luciano, tal Osvaldo Lucchini (Lino Musella), destinato a divenire una figura di riferimento per i fascisti della zona e purtroppo anche per il giovanissimo cameriere Corrado (Costantino Seghi). Con il passare del tempo Luciano e Anna impareranno a conoscersi meglio e tra loro nascerà un amore destinato però a trovare sulla sua strada diversi ostacoli, non ultimo quell'Ester che si scoprirà essere il vero nome di Anna e che si porta dietro tutto quel che un nome ebraico in quegli anni può voler dire.

L'ombra del giorno è un bel film; Piccioni per esigenze di trama sembra ripartire il film in due sezioni dove la prima, quella che vede il nascere e il crescere del rapporto tra Luciano e Anna, risulta essere più coinvolgente e viva, la seconda, caratterizzata da una nuova rivelazione (dopo quella del vero nome di Anna) che qui non sveleremo, focalizzata sugli eventi più strettamente legati all'affermarsi del fascismo, cosa che smorza un poco i toni melò del racconto che a onor del vero sembrano essere anche quelli meglio riusciti. Questo grazie a due protagonisti che trovano la loro giusta misura con Scamarcio che interpreta un uomo che inizialmente sembra guardar scorrere la vita (degli altri) dalla vetrina del suo locale, avendo per vari motivi rinunciato un poco alla sua, in questo Luciano assomiglia al più celebre Titta Di Girolamo, il personaggio di Sorrentino che ne Le conseguenze dell'amore guarda scorrere la vita (degli altri) dalle vetrate dell'hotel in cui risiede. Luciano si è creato un microcosmo all'interno del locale fatto di clienti abituali e frequentatori occasionali che incarnano i vizi terribili di un'Italia in decadimento morale e che lascia campo libero a soprusi e prepotenze ma anche le strenue opposizioni, incarnate dal professore (Antonio Salines) ma anche dalla stessa Anna. Quello interpretato dalla Porcaroli è un personaggio che pur nelle sue difficoltà è la classica "botta di vita" di cui uno come Luciano aveva bisogno, la Porcaroli infonde in Anna il giusto mix di energia e consapevolezza politica e morale che la rendono speciale nel contesto dell'epoca. Da tenere d'occhio il testo del pezzo in colonna sonora del sempre interessante Andrea Laszlo De Simone.

martedì 6 maggio 2025

CINEMA SPECULATION

(di Quentin Tarantino, 2022)

È già da qualche tempo che si parla di introdurre nelle scuole l'insegnamento del cinema e dell'audiovisivo come materia utile per capire il nostro presente, per cogliere le possibilità di esprimerlo, rielaborarlo, raccontarlo e fermarlo nella memoria e, perché no, anche studiarlo (discorso questo utile anche per la storia, non solo del cinema ma tout court). Ecco, di fronte a una tale e augurata evenienza io tra i miei professori vorrei ci fosse Quentin Tarantino. Questo non perché il regista e qui scrittore sia uno degli storici del cinema più quotati e competenti (non lo è), forse non è nemmeno uno dei conoscitori più completi della materia (anche se qui credo fortemente sia messo davvero molto, molto bene); vorrei Quentin Tarantino tra i miei professori per la passione sincera che nutre per la materia e per quella capacità così accattivante e naturale che possiede di trasmettere quella stessa passione. Arriviamo così a Cinema speculation, seconda opera letteraria del Nostro dopo la trasposizione su carta di C'era una volta a... Hollywood, al momento sua ultima fatica cinematografica. Cinema speculation non è un testo che pretende di offrire ampie panoramiche su quello che è stato il cinema dai suoi albori fino a oggi, non è un viatico per conoscere i grandi movimenti della settima arte, i suoi capisaldi, i maggiori autori, non è una panoramica autorevole su quel che il cinema è stato come può essere, che so, uno Storia del cinema di Fernaldo Di GiammatteoCinema speculation è la storia del rapporto d'amore nato tra un giovane ragazzo del Tennessee e il cinema visto attraverso l'analisi puntuale (ma anche parziale) di una serie di film che hanno colpito l'immaginario del giovane Quentin in un arco temporale che va dalla fine degli anni 60 all'inizio degli 80; va da sé che il libro diventi così un mix tra un saggio su un certo cinema e il racconto personale, una storia di formazione dove sono cruciali non solo il rapporto con la sala e con i film ma anche quello con la madre e con l'assenza del padre (a volte sostituito da altre figure di riferimento bizzarre e di passaggio).

Il libro si apre con un'introduzione (I grandi film del piccolo Q) con la quale Tarantino ci illustra un poco la genesi del suo amore, e di quello di un sé stesso bambino, dai 7 anni in avanti, per i film e per le sale cinematografiche che nella sua infanzia furono per lui l'occasione imperdibile per "fare cose da grandi". Forte di una madre molto permissiva e niente affatto spaventata dall'influenza che film anche violenti avrebbero potuto avere sul figlio ancora piccolo, il giovane Quentin ebbe la possibilità di vedere film e appassionarsi a un tipo di cinema che alla maggior parte dei suoi coetanei era negato, cosa che peraltro gli fece guadagnare anche un certo rispetto tra i suoi pari. Tra i suoi primi ricordi c'è ad esempio un doppio spettacolo che presentava La guerra del cittadino Joe di John J. Avildsen e Senza un filo di classe di Carl Reiner, film oggi non proprio tra i più ricordati, cosa che appunto ci da un'idea delle pellicole di cui ci parlerà Tarantino in Cinema speculation, e sicuramente non proprio tra i più consigliati per un ragazzino, soprattutto il primo. Dopo aver gettato le basi per rendere il lettore edotto della situazione si passa a parlare di alcuni film per Quentin divenuti di riferimento; nei capitoli a essi dedicati non mancano riferimenti e approfondimenti su altre pellicole, attori, registi, sceneggiatori... e allora via con Bullit, Ispettore Callaghan: Il caso Scorpio è tuo!, Un tranquillo weekend di paura, Getaway!, Organizzazione crimini, un pezzo affettuoso sul critico cinematografico Kevin Thomas (che poco ha amato i film di Quentin), Le due sorelle, Daisy Miller, Taxi driver, Rolling thunder, Taverna Paradiso, Fuga da Alcatraz, Hardcore, Il tunnel dell'orrore e altri pezzi ancora.

Quello che ne esce è un libro estremamente divertente, coinvolgente, appassionante seppur laterale e non conforme a quella che può essere l'idea generalizzata di un cinema di serie A. Il cinema è visto prima di tutto come esperienza collettiva, come il vissuto di un ragazzino in una sala (in una dove magari è l'unico bianco presente a vedere un film della blaxploitation), come parte importante di un percorso di formazione che ha portato, insieme ad altro presumiamo, al Quentin Tarantino regista che oggi tutti noi conosciamo. Cinema speculation non è quindi un testo "assoluto" quanto piuttosto una visione personale e parziale dettata da un gusto soggettivo su di un piccolo pezzo della storia del cinema, ed essendo la storia personale di un narratore d'eccezione è quasi inevitabile che nel lettore nasca la voglia di andare a recuperarsi anche cose come l'Alligator di Lewis Teague o qualsiasi altro improbabile titolo la videoteca ideale di Tarantino contenga e alla quale qui solamente accenni. Torniamo quindi ad abbracciare quella passione che con estro, spirito e anche acume Tarantino è capace di trasmettere, non omettendo di riflettere e spendere parole, lodi e critiche su gente come Bogdanovich, Scorsese, Schrader, McQueen, Yates, Siegel, De Palma o Sam Peckinpah in una panoramica sull'epoca della sua formazione cinematografica, quella principalmente dei 70 del secolo scorso, tra le varie exploitation, New Hollywood, Movie Brats e via discorrendo. Un miscuglio quindi di cinema e ricordi dal quale è impossibile non uscire avvinti, parafrasando un più celebre slogan... "Professore subito!".

domenica 4 maggio 2025

SECRETARY

(di Steven Shainberg, 2002)

Secretary è un film che si porta sulle spalle ormai più di vent'anni; se un film del genere fosse stato distribuito oggi probabilmente le chiavi di lettura con le quali lavorare per interpretare l'opera di Steven Shaiberg sarebbero state diverse da quelle usate nel 2002 per commentarne l'opera, e non sono nemmeno così sicuro che il regista oggi avrebbe preso la decisione di dirigere questo film, alla luce dei vari movimenti MeToo e affini e alla questione sulla rappresentazione della figura femminile non solo al cinema ma in ogni forma d'espressione. A ben vedere in Secretary non ci sarebbero nemmeno gli estremi per far troppa polemica, al suo cuore c'è una storia d'amore cercato che potrebbe aver fatto la fortuna di una rom com classicissima se solo i due protagonisti non fossero affetti da qualche disturbo comportamentale e legati da una relazione sentimental-sessuale con dinamiche da padrone e sottomessa (accettate e volute/desiderate da entrambi i protagonisti). Ciò nonostante, oggi, questo Secretary si sarebbe potuto fare? Quesito tutto sommato molto interessante. Nel 2002 il film si fece, si ammantò da subito di una certa ambiguità che lo trasformò rapidamente in un piccolo culto (si giocò bene sulle aspettative pruriginose, ben più vagheggiate di quanto poi il film metta davvero in scena); al Sundance Film Festival dove Secretary venne presentato il presidente di giuria John Waters, avvezzo alle tematiche del film, istituì un premio ad hoc in modo da meglio promuoverlo, quello all'originalità.

Lee Holloway (Maggie Gyllenhaall) è una giovane donna cresciuta in una famiglia disfunzionale in situazioni che l'hanno portata a casi di autolesionismo e al ricovero in una clinica psichiatrica. Quando Lee viene dimessa, non completamente guarita, il ritorno a casa si rivela un piccolo trauma; la donna decide di reagire rivolgendosi al mondo del lavoro, provando a cercare un impiego e sfruttando le sue ottime doti da dattilografa. Tramite un annuncio sul giornale Lee si candida per un posto di segretaria nell'ufficio dell'avvocato E. Edward Grey (James Spader), un posto che otterrà e accetterà nonostante l'impiego potrebbe rivelarsi alla lunga noioso. Dopo aver affrontato con il suo nuovo titolare l'argomento dell'autolesionismo e averlo apparentemente superato grazie a un misto di devozione e attrazione che Lee prova per Edward, tra i due si instaura pian piano un rapporto di sottomissione della donna nei confronti del suo titolare, un uomo sessualmente inibito e attratto dalle dinamiche di dominazione che inizieranno a manifestarsi con un continuo riprendere il lavoro della sua segretaria per trasformarsi poi in qualcosa di più fisico a partire dalla famosa scena della sculacciata con la Gyllenhaall appoggiata alla scrivania del capo. In realtà, dietro questa dinamica accettata, cercata e desiderata in primis da Lee, si nasconde un'attrazione tra i due più profonda e sincera.

Il regista Steven Shainberg, che oltre a questo Secretary non vanta grandi voci in curriculum per cui essere ricordato, gestisce bene il mix che si viene a creare tra una struttura da commedia romantica e temi che una volta potevano essere considerati addirittura scabrosi; inserisce la storia d'amore tra Lee ed Edward in un contesto del tutto particolare dove si parla di disagio estremo (l'autolesionismo è una cosa che fa paura e che ancora oggi preoccupa migliaia di genitori in tutto il mondo) e di preferenze sessuali non così comuni o magari anche più comuni di quel che si possa pensare ma delle quali raramente si parla in maniera aperta; ne esce così un panorama che contempla la dominazione, le dinamiche di sottomissione, il sadomasochismo, tutte pratiche raccontate da Shainberg con una certa levità, senza mai eccedere e senza mai cadere troppo in pratiche che contemplino una vera violenza. Accompagnato dalle musiche di un Badalamenti che da sé già crea atmosfera, Shainberg gira con gusto un film dove esce bene il contrasto tra le scenografie dell'ufficio, di quel corridoio centrale, di quei colori non a caso vagamente lynchiani, e tutto ciò che c'è all'esterno di esso e che presenta tinte più marcate, quasi infantili, a tratti più irreali di quelle adoperate per rappresentare il posto di lavoro (e di sculacciate) in cui si muovono i due protagonisti. Ottima prova della Gyllenhaal che si concede senza pudori e costruisce in un ruolo non semplice una bella protagonista supportata da un decisamente funzionale James Spader, una bella coppia per una commedia romantica che, come aveva intuito John Waters, ancora oggi non possiamo che definire quantomeno originale.

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