martedì 30 luglio 2019

DENTRO L'INFERNO

(Into the Inferno di Werner Herzog, 2016)

Il lago di magma esplodeva spesso, e noi eravamo talmente vicini che ci dovettero spiegare come comportarci. "Una cosa importante da tenere a mente quando siete sul cratere, è che il lago di lava può esplodere in qualunque momento. Se accade, è importante guardarlo attentamente e tenere d'occhio le bombe che volano in aria, cercare di capire se vengono verso di voi, ed evitarle. La cosa peggiore da fare è dare le spalle al cratere, scappare o accovacciarsi. Dovete concentrarvi sul lago di lava, guardare in alto e spostarvi.

A più di settant'anni suonati Werner Herzog ha ancora la voglia di andare a ficcarsi in situazioni non proprio tranquille, spinto da quella curiosità indomabile che ne ha fatto uno dei documentaristi più conosciuti al mondo. Nonostante siano diverse le incursioni del regista tedesco nel Cinema di finzione, è proprio al documentario che sono ascrivibili gli esiti più interessanti della sua carriera; questa volta Herzog ci porta alla scoperta dei più antichi vulcani attivi in giro per il globo, coadiuvato per la parte tecnica dal vulcanologo di fama mondiale Clive Oppenheimer, uno scienziato alla mano che insieme agli interventi di Herzog stesso spiega la materia con tocco leggero e molto chiaro. Quello che più colpisce in Dentro l'Inferno sono le splendide immagini di alcuni dei pochi vulcani la cui attività è visibile dal bordo del cratere e quindi filmabile in relativa sicurezza (molto relativa). Pensare cosa scorre sotto la crosta terrestre, la furia che è capace di scatenare la natura, cosa sulla quale non così spesso ci fermiamo a riflettere, qualche piccolo brivido lo fa venire. Il gorgogliare della lava incandescente, i sommovimenti del magma, i muri di fumo ustionante che le eruzioni possono generare, sono ripresi per mezzo di immagini di uno splendore visivo indescrivibile, è questo il primo merito di un documentario che offre comunque più di un motivo per essere apprezzato. La migliore intuizione di Herzog sta nel sapersi spostare di continuo, si parte dall'affascinante fenomeno naturale, dalla magnifica resa visiva che questo ha una volta riportato sullo schermo, per andare a finire all'uomo, alle credenze, alle superstizioni e ai rapporti di diverse tribù indigene con il vulcano. Nel Pacifico ad esempio, arcipelago di Vanuatu, il capo Mael Moses della tribù che vive alle pendici del vulcano racconta di come questo sia abitato dagli spiriti del fuoco, delineando quello che è lo strano rapporto della tribù con il loro pericoloso vicino di casa, con il quale qualcuno pare riesca anche a parlare (prendendosi dei buoni rischi e ostentando probabilmente una buona dose di millanteria). C'è spazio anche per la tragedia con le immagini impressionanti di Katia e Maurice Krafft, coppia di vulcanologi usi a prendersi rischi notevoli per studiare e documentare le colate laviche, tanto da perire insieme durante l'eruzione del Monte Unzen in Giappone; li vediamo in atteggiamenti impossibili da non considerare sconsiderati (passatemi il gioco di parole). Affascinanti inoltre le varie credenze e i riti legati ai vulcani in giro per il mondo, così come gli studi sulle conseguenze di devastanti eruzioni che si perdono nella memoria del tempo, si passa dall'Africa al nord dell'Islanda, da eventi remoti ad accadimenti più recenti che tutti noi ben ricordiamo. E ancora politica e propaganda che uniscono il Monte Paektu nella Corea del Nord, vulcano inattivo da secoli, alla nascita della nazione e alla figura del Presidente Kim Il-Sung, fondatore dello Stato Comunista coreano che si appropriò del mito del vulcano.


Partendo dalla massa incandescente che scorre sotto la terra, Herzog ci parla dell'uomo, delle sue origini, delle sue credenze, ma soprattutto della sua illimitata fame di conoscenza che lo spinge ad osare, a volte a morire, per colmare quel senso di vuoto che solo il sapere può limitare.

Secondo la nostra cultura il vulcano un giorno distruggerà tutto... e io ci credo, perché ho sentito dire da varie persone che ci sono altri vulcani nel mondo, e credo che questi vulcani un giorno erutteranno insieme a quello sul Lopevi, si uniranno e ci bruceranno tutti, è questo che penso. Credo che scioglieranno tutto, ecco cosa penso. Tutto si scioglierà: le pietre, il fuoco, gli alberi e tutto il resto. Come acqua. Penso che un giorno i vulcani distruggeranno il mondo.

venerdì 26 luglio 2019

NEMICO PUBBLICO N. 1

(Mesrine: L'instinct de mort di Jean-François Richet, 2008)
(Mesrine: L'ennemie public n° 1 di Jean-François Richet, 2008)

Nemico Pubblico N. 1 è il progetto ambizioso di Jean François Richet che porta al cinema con ben due film di cospicuo minutaggio, usciti in sala pressoché simultaneamente, la storia di Jacques Mesrine (Vincent Cassel), criminale d'oltralpe che nella Francia a cavallo tra i 60 e i 70 del secolo scorso si creò la fama di nemico pubblico numero uno. I due film, L'istinto di morte e L'ora della fuga, ci danno modo di apprezzare il miglior Vincent Cassel di sempre che sfoggia nei panni di questo criminale una statura attoriale da gigante, un misto di fascino, brutalità, simpatia, guasconeria e trasformismo da lasciare senza fiato. Si divide gli onori con la regia inebriante di Jean-François Richet del quale sarebbe interessante approfondire il discorso sulla filmografia andando magari a recuperare anche le sue opere precedenti a queste, per lo più uscite solo per il mercato francese (e comunque non qui da noi). L'andamento è circolare, il primo film si apre con quella che sarà anche l'ultima sequenza del secondo, la morte di Mesrine a Clignancourt, Parigi. In mezzo la vita di questo giovane criminale, dai primi passi nella violenza della guerra d'Algeria, alle rapine in banca su territorio francese, e ancora le evasioni, il Canada, la pseudopolitica, le idee rivoluzionarie, le donne, i rapimenti fino alle più ignobili esecuzioni. Il regista si destreggia molto bene nel dipingere un uomo che riesce ad affascinare lo spettatore, a coinvolgerlo come effettivamente Mesrine faceva con l'opinione pubblica francese, rendendolo a tratti simpatico e accattivante, senza mai dimenticare il suo lato bestiale e moralmente irricevibile, alcune sequenze risultano effettivamente disturbanti dal punto di vista della psicologia di un uomo capace di non fermarsi davanti a nulla.


Ne L'istinto di morte l'approccio usato dal regista e dalla sceneggiatura per inquadrare il personaggio è quello biografico, tanti fatti amalgamati in una narrazione solida che fanno crescere Mesrine e poco a poco lo trasformano nel criminale che anni dopo troverà la sua fine tra le vie di Parigi. La regia guarda al Cinema dei 70, molto a quello d'azione americano si è detto, a mio avviso però mantiene sempre uno sguardo molto vicino a quello del Cinema francese del passato, a quello del polar, anche quando l'azione si sposta nelle moderne città del Canada o all'interno delle carceri, qui c'è una  giusta mistura di influenze franco-statunitensi che non respinge le due anime del film ma che anzi contribuisce ad accrescerne l'efficacia. Quando invece ci spostiamo in Francia, nelle vie di Parigi, nei bar fumosi, nelle stanze d'hotel insieme alle puttane, vicino ai volti di Gerard Depardieu e Gilles Lellouche, ottime spalle di un inarrivabile Cassel, sembra quasi di vedere quelli di Gabin o Delon e Ventura. Molto spazio hanno i rapporti con le donne, alcune molto importanti nella vita di Mesrine, dalla moglie Sofia (Elena Anaya) fino all'ultima donna della sua vita, la sensuale Sylvia (Ludivine Sagnier) passando per Jeanne (Cécile De France) con la quale vivrà il suo periodo alla Bonnie e Clyde. Un primo episodio in crescita costante che ci lascia inquadrare il protagonista narrandone una cospicua parte di "carriera", un personaggio al quale in qualche modo, cinematograficamente parlando, lo spettatore si affezionerà fin da quei primi split screen che ce lo propongono su piani molteplici.


L'ora della fuga ha un piglio ancor più dinamico, nelle prime sequenze Richet dimostra di saper gestire la camera con gusto impareggiabile, ne escono scene action godibilissime che predispongono lo spettatore nel migliore dei modi alla visione di questo secondo capitolo della biografia di Mesrine. Compare qui per la prima volta quello che potrebbe essere considerato l'avversario del gangster, il commissario Broussard (splendido lavoro di mimesi su Olivier Gourmet) che sarà a capo di quella specie di commando che si troverà di fronte Mesrine alla fine della sua strada, una fine che in Francia suscitò numerose polemiche nei confronti dei metodi giustizialisti della polizia d'oltralpe. Il secondo episodio sembra meglio immerso nella scena politica internazionale di quegli anni, con riferimenti alla cronaca nera di stampo terroristico, sullo sfondo il caso Moro e le Brigate Rosse nostrane e accenni ai tedeschi della banda Baader-Meinhof. Emerge il lato più narcisista e vanesio di Mesrine, intollerante alle critiche dei giornalisti e con la pretesa d'ammantarsi in maniera quasi ridicola di ideali alti che ancor più sottolineano la spietatezza e l'indole da puro e semplice criminale di Mesrine.

Un biopic in grande stile, Cinema di classe e un regista che almeno per il sottoscritto è stato una bella rivelazione. Vincent Cassel enorme, recupero obbligato.

sabato 20 luglio 2019

IO E TE

(di Bernardo Bertolucci, 2012)

Io e te è il film con il quale ci ha lasciato Bernardo Bertolucci, l'ultima sua opera che riconduce il Cinema di questo grande autore a una dimensione più piccola, intima, privata, tralasciando la magnificenza e l'afflato storico di altre sue notissime opere; una scelta dettata forse dalla malattia di un uomo costretto ormai su una sedia a rotelle, destinato a guardare il mondo da un'altra prospettiva, più bassa, dalla quale il maestro non ha mancato di tirar fuori un'altra opera da ricordare. Io e te racconta un incontro di due disagi che in qualche modo trovano, se non proprio una via d'uscita definitiva dalle reciproche condizioni (questo non ci è dato saperlo, possiamo solo ipotizzare affidandoci alle nostre sensibilità), almeno una speranza, una strada verso un cambiamento possibile e un'eventuale apertura in direzione di giorni ed eventi più lieti o addirittura felici. Magari un bel legame duraturo, ma anche questo solo il tempo, quello che si dipanerà ben oltre i titoli di coda, potrà dirlo.

Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori) è un quattordicenne che ha molte difficoltà a relazionarsi con i suoi coetanei, non è interessato ai legami interpersonali e ha un rapporto con la madre (Sonia Bergamasco) a tratti teso con approcci morbosi. Sfoga nella musica ascoltata in cuffia (ottima la scelta dei brani) e in alcune letture la sua tensione che anche le sedute dallo psicologo non sembrano alleviare. Quando arriva il momento della gita scolastica, la classica settimana bianca, alla quale la madre vuole assolutamente che il figlio partecipi, Lorenzo studia un piano per evitare la gita e passare una settimana in totale solitudine nascosto nella cantina di casa sua. Il laptop, un po' di musica, un formicaio a fargli compagnia, qualche libro, sette lattine di coca cola, sette confezioni di carne in scatola e così via... Sembra che nulla possa scombinare il piano di Lorenzo finché in cantina non irrompe Olivia (Tea Falco), sorellastra del ragazzo di una decina d'anni più grande, in cerca di un vecchio braccialetto d'oro. La ragazza è sommersa da problemi con le droghe e dotata di un discreto odio per la madre di Lorenzo, rea di aver "rubato" a lei e a sua madre il padre che i due ragazzi hanno in comune. Ne nascerà una convivenza forzata in uno spazio ristrettissimo durante la quale i due ragazzi impareranno un po' a conoscersi e in modi bizzarri ad apprezzarsi e aiutarsi l'un l'altro.


Bertolucci torna dopo molto tempo a girare un film "piccolo", interamente italiano, privo di star e di grandi avvenimenti, lo fa rinchiudendosi in una cantina, piazzando le camere alla sua altezza, ormai seduta, che potrebbe essere l'altezza dalla quale guarda le cose Lorenzo, seduto su quel vecchio materasso, beandosi del solo sé stesso e delle sue passioni. Poi arriva Olivia, della quale Lorenzo sarà suo malgrado costretto a sottostare ai piccoli ricatti e a scoprire pian piano i lati oscuri, a vivere insieme le situazioni border line e ad affrontare la rota devastante del tossico in astinenza. Tra momenti drammatici e scampoli più intimi di pura comunione solidale il film delinea con delicatezza due bellissimi personaggi, interpretati da due attori perfetti, l'esordiente Antinori (figlio d'arte) e la catanese, anche nel film, Tea Falco, volto davvero molto interessante.

Un film semplice che nasce dall'incontro di due visioni, magari non sempre problematiche come quelle dei due protagonisti: quella del regista e quella di Niccolò Ammaniti, scrittore dell'omonimo libro e qui anche sceneggiatore. Un'altra trasposizione riuscita, operazioni alle quale ormai è uso lo scrittore laziale e dalle quali spesso (non sempre) viene fuori dell'ottimo materiale, proprio come è successo in questa occasione. Un'ultima opera solo all'apparenza modesta, nella sostanza un congedo di grande valore.

lunedì 15 luglio 2019

DOC!

(di Mauro Boselli e Laura Zuccheri, 2019)

Ci sono voluti trent'anni ma anche tra le pagine del Texone, la testata più prestigiosa e importante di casa Bonelli, arriva finalmente una donna a illustrare le avventure dei due pards più famosi del west. Per l'occasione lo sceneggiatore Mauro Boselli conduce la disegnatrice Laura Zuccheri e i lettori direttamente nelle terre del mito, coprotagonisti di questa vicenda sono infatti niente meno che Doc Holliday e la sua donna Big Nose Kate, inoltre diversi sono i rimandi alla storica sfida all'OK Corral che vide protagonisti i fratelli Earp. Pur dentro a quello che è uno degli episodi più noti ed emblematici della storia dell'ovest americano, a confronto con personaggi entrati nella leggenda, Tex Willer e Kit Carson sembrano ancora una spanna sopra tutti, per abilità, intelligenza e caratura morale... certo, ogni tanto un poco di debolezza e umanità anche da loro sarebbe lecito aspettarsela, ma Willer e Carson li scrivono così, c'è poco da fare, raddrizzatorti come questi ce ne sono pochi in giro.

Ma che genere di Texone è quello di quest'anno? Purtroppo questa testata era nata con intenzioni molto ambiziose che quasi da subito si sono dimostrate difficili da mantenere. L'idea di portare ogni anno a disegnare le avventure del portabandiera della Sergio Bonelli Editore un artista di grande caratura internazionale non sempre è stata realizzata nel concreto, questo non vuol certo dire che i Texoni in cui mancava la firma prestigiosa siano stati dei brutti Texoni, anzi, quasi mai è stato così, viene però spesso a mancare l'eccezionalità di vedere all'opera sul Tex nomi come quello di Magnus, di Jordi Bernet, di Joe Kubert o di Enrique Breccia e degli altri maestri che si sono cimentati nell'impresa (perché disegnare un Texone è una vera e propria impresa); senza nulla togliere alla Zuccheri che ha realizzato davvero un buon Texone, anche questa volta manca quello stile unico e riconoscibile di un maestro della nona arte, caratteristica che diverse volte in passato ha impreziosito le numerose pagine del Tex Speciale.

Laura Zuccheri fin dalle prime tavole si adatta alla sceneggiatura di Boselli ed entra anche lei nel mito: veduta sulla ghost town, cavalieri al tramonto con l'ultimo sole alle spalle che proietta le loro lunghe ombre, l'interno di un saloon scalcagnato e una serie di inquadrature molto riuscite. Qualche legnosità di troppo nelle prime pagine che si perde con l'arrivo di Willer e Carson, qualche volto non proprio riuscitissimo (espressioni quasi da horror), un paio di belle tavole in toni di grigio e una narrazione che tavola dopo tavola prende la giusta confidenza con l'ambiente e con i personaggi donando il giusto apporto a una storia che si legge con molto piacere. Probabilmente nel Texone di quest'anno la sceneggiatura eclissa un poco il lato artistico, e questo, per una collana nata con gli intenti del Texone, è comunque un problema, fermo restando che il risultato finale resta più che gradevole. Purtroppo Doc! non rimarrà tra i Texoni da ricordare.

Due parole sulla trama: alcuni esponenti del gruppo di fuorilegge noto semplicemente come "i cowboys" vengono fatti fuori; uno in particolare viene torturato e ucciso su una sedia da dentista, sfigurato con le attrezzature che quel genere di medico usava all'epoca per portare a termine i suoi interventi sui pazienti. Vista la sua ex professione e il risaputo odio che prova nei confronti dei cowboys, coinvolti nelle uccisioni dei fratelli Earp, suoi cari amici, i sospetti si indirizzano sul famoso Doc Holliday, ex dentista e tiratore quasi infallibile. Sulla vicenda vengono chiamati a indagare Tex Willer e Kit Carson che hanno qualche dubbio sull'effettivo coinvolgimento di Doc Holliday negli omicidi. C'è una buona sceneggiatura di Boselli, magari prevedibile sotto alcuni aspetti, che ha il merito di pescare episodi che hanno fatto l'epopea del west e piazzarci dentro i due Texas Ranger con molta naturalezza. Non male, però dal Texone ci si aspetta sempre più di questo. Per il capo d'opera aspettiamo ancora un altro anno.

venerdì 12 luglio 2019

STRANGER THINGS - STAGIONE 3

Indovinare anche la terza stagione di Stranger Things non era un compito affatto semplice per i Duffer Brothers. Lo schema di base che smuove ancora una volta le fondamenta di Hawkins, Indiana, è in fin dei conti più o meno lo stesso; le novità arrivano non tanto dalla trama principale quanto da tutto il contesto e il contorno d'epoca, dalle opere omaggiate come al solito dai creatori della serie e dalla naturale crescita dei giovani protagonisti che inevitabilmente porta in eredità nuove dinamiche tutte da sviluppare. La più sentita, quella che regalerà le maggiori emozioni agli spettatori di una certa età, sarà il rapporto padre/figlia venutosi a creare tra lo sceriffo Jim Hopper (David Harbour) e Undici (Millie Bobby Brown), rapporto di per sé già complicato da tutti gli eventi contingenti, in più arriva il carico da undici (scusate il gioco di parole) dato dalla prima cotta amorosa della ragazza per Mike (Finn Wolfhard), motivo di preoccupazione e gelosia per il burbero tutore dell'ordine di Hawkins. Sia lo sviluppo delle vicende private dei protagonisti, così come i riferimenti più frivoli, si muovono in direzione sentimentale, abbracciando il lato più romantico presente in molti dei film teen già negli eightees: Dustin (Gaten Matarazzo) torna in città dopo un mese di vacanza paventando una relazione romantica con una certa Suzie, una ragazzina che pare essere addirittura più sexy di Phoebe Cates; Max (Sadie Sink) è ormai parte del gruppo, come se fosse stata con i ragazzi fin dall'inizio, e guida Undici dall'alto della sua esperienza (???) nella relazione con Mike, affermando una posizione femminile predominante, per la gioia del suo boyfriend Lucas (Caleb McLaughlin). Mentre Mike e Lucas si preoccupano delle rispettive cotte adolescenziali, Will si sente sempre più solo, i ragazzi crescono, gli interessi cambiano, nessuno vuole più giocare a D&D, ci sono le ragazze e lui è rimasto un po' più bambino, forse anche a causa degli eventi traumatici visti nelle stagioni precedenti. Per tanti e diversi motivi il gruppo sembra sfaldarsi poco a poco. Anche la serie segue più binari, uno dove i protagonisti sono Dustin, Steve Harrington (Joe Keery), la new entry Robin (Maya Hawke) e l'insopportabile (ma spassosissima) sorellina di Lucas, Erica (Priah Ferguson); un'altra segue il resto del gruppo dei ragazzi insieme a Jonathan Byers (Charlie Heaton) e Nancy Wheeler (Natalia Dyer) mentre l'ultima mette sotto i riflettori le peripezie degli adulti.


Cambia il lavoro fatto con la fotografia e l'uso dei colori, molto più accesi, giocosi, anche questo aspetto richiama il lato più spensierato degli 80, con abiti, acconciature e accessori molto improbabili (eppure per noi che li abbiamo vissuti...), anche la scelta di mettere al centro della vicenda, oltre all'immancabile laboratorio, un grande centro commerciale, oltre a omaggiare Romero segue quella direzione finora inedita che sposta lievemente tutti i riferimenti (con una capatina nei 90 dalle parti del Mallrats di Kevin Smith?). A livello di contenuti si slitta dal fantastico per ragazzi che ha definito le prime due serie (e comunque sempre presente) all'action di stampo ottantiano e soprattutto all'horror di quegli anni che in questa terza stagione assume un ruolo fondamentale tra le ispirazioni dei Duffer. Oltre agli zombi di Romero infatti si guarda ad Alien, a La cosa, a La casa di Raimi, al classico L'invasione degli ultracorpi e a diversi altri film di genere, sul versante dell'azione pura si sottolinea il clima da Guerra Fredda con il nemico russo, il contrasto tra capitalismo e comunismo, l'avversario inarrestabile in stile Terminator, il tutto sempre in bilico tra dinamismo e ironia. Sul versante puramente horror si preme un poco l'acceleratore su quegli che sono gli schemi del genere, inseguimenti nei corridoi d'ospedale, scioglimento di corpi, lacerazioni all'arma bianca e qualche scena un po' più cruda che su qualche ragazzino un po' più d'effetto potrebbe anche farlo (mia figlia ad esempio qualche passaggio con gli occhi chiusi l'ha fatto).


Si perde un po' di vista il Sottosopra, i mostri sono sul nostro lato dell'esistenza, la storia diverte e si guarda che è un piacere anche se non si distingue per originalità, però i personaggi evolvono, crescono e sono scritti molto bene, la stagione è compatta seppur il gruppo non è quasi mai tutto unito, l'esperienza è ancora di alto livello e regala almeno una sequenza magnificamente divertente, il momento migliore della stagione che unisce l'aspetto più nostalgico a quello cazzaro mettendo al centro quello che alla fine è il vero idolo di Stranger Things un po' per tutti (e voi sapete chi è). Nostalgia, sentimento, azione, divertimento, tensione, c'è davvero un po' di tutto e tutto è nel giusto equilibrio. Sembra quasi certo si vada avanti, io non aspetto altro che tornare tra le strade di quella piccola grande cittadina che è Hawkins, Indiana, con la speranza di poterci incontrare anche chi da quella cittadina è ormai andato via.

domenica 7 luglio 2019

ALL'OMBRA DEL SALICE - INTERVISTA A MARIO BARALE

(di Mario Barale, 2018)

Intervista realizzata per Loudd!

Nanni Baretti è il Commissario (ex in realtà) che non ti aspetti. Un uomo in pensione, parecchie primavere sulle spalle, diversi chili sulla pancia, un amore vero per la tavola, soprattutto se apparecchiata a dovere, un legame forte con il suo territorio - un Piemonte a cavallo tra realtà geografica e fantasia toponomastica - un pizzico di razzismo più d'abitudine che realmente radicato e che ce lo fa comunque inquadrare come un bravo cristo e qualche crepa suo malgrado alle spalle. Nanni Baretti è un uomo che ha fatto la sua parte e che oggi preferirebbe trovarsi tra le bancarelle del mercato di Porta Palazzo piuttosto che sulla scena di un delitto, soprattutto se questa scena scoperchia ricordi mai del tutto sopiti rinnovandone il vigore in maniera intimamente dolorosa.

A riportare in vita i vecchi dolori è una piena, quella del Brandino, che con la sua forza dirompente fa riemergere dalla terra i resti di quattro corpi spariti nel nulla tanti anni prima nella frazione Tetti Grigi. Sulla scomparsa di quelle che allora erano quattro giovani ragazze indagò proprio il Commissario Nanni Baretti che nel corso delle indagini non riuscì a ritrovarne i corpi. Ora il caso si riapre, i resti delle ragazze dichiarano a gran voce come della loro scomparsa sia stato accusato un innocente, un uomo che proprio Baretti contribuì ad arrestare, un peso che ora grava come un macigno sulla coscienza dell'ex poliziotto. Per dipanare la matassa il titolare dell'indagine, il Commissario Caruso, si dovrà avvalere proprio della collaborazione del suo predecessore.

All'ombra del salice è un thriller che soddisferà il palato degli amanti del genere, primo di una serie di romanzi con protagonista Nanni Baretti, mette sotto i riflettori una "strana coppia", topos narrativo che ha decretato il successo di tanta letteratura e tanto cinema, qui declinato con un pizzico d'originalità dato proprio dalla figura di Baretti, un piemontèis d'una certa età con tutta una serie di caratteristiche non proprio da action man che insieme al più giovane Caruso darà vita a diversi scambi di vedute e battute decisamente divertenti. Interessante la scelta di Barale di narrare una vicenda che vede due piani d'azione, quello presente e quello legato alle vicende del 1974, senza ricorrere al vero e proprio uso del flashback ma illuminando pian piano i fatti del passato tramite i racconti dei testimoni dell'epoca, Baretti in primis, senza abusare di salti temporali ma ricorrendo alla memoria storica degli stessi protagonisti del romanzo (scelta non banale). Lo stile di scrittura è molto lineare, scorrevole, cosa che rende agile e piacevole la lettura del romanzo, nonostante la territorialità della vicenda non sono presenti ostacoli linguistici di sorta (e pensiamo al dialetto), lettura quindi adatta davvero a tutti. Niente male anche la confezione del libro a opera della casa editrice Yume che a parte qualche sporadico refuso porta a termine un buon lavoro impreziosito dalle illustrazioni dello stesso Barale che oltre che con la penna (o con la tastiera se preferite) non se la cava male nemmeno con la matita.

Ad ogni modo abbiamo la possibilità di approfondire il discorso proprio con l'autore che si è reso disponibile a scambiare quattro chiacchiere con noi di Loudd.

Mario Barale all'opera
L: Ciao Mario, benvenuto tra le pagine virtuali di Loudd. Iniziamo con un po' di presentazione, ci piacerebbe sapere come sei arrivato alla scrittura e alla successiva pubblicazione con Yume.
MB: Alla scrittura sono arrivato più o meno per caso, a me è sempre piaciuto scrivere e non ho mai avuto il coraggio di farlo, gli altri erano sempre più bravi e c'era sempre qualcosa che mi disturbava; poi sono diventato papà e mi è venuta voglia di scrivere delle fiabe per mia figlia, ho cominciato a scrivere per lei e ho scritto una, due, tre, quattro, cinque, sei fiabe... che erano tutte carine, divertenti, tutte politicamente corrette, erano tutte delle belle paraboline con il loro bel finale, però erano noiosissime perché non succedeva mai niente e non moriva mai nessuno. Quindi le fiabe mi hanno stufato in fretta, da lì sono passato a un romanzo per ragazzi che non ho mai concluso nel quale avevo infilato anche le fiabe per aumentarne le pagine; lasciato perdere quello sono passato a un horror che non verrà mai pubblicato anche per motivi di spazio perché penso supererebbe abbondantemente le 500 pagine, tra l'altro anche carino, un horror un po' diverso dal solito, parlava di zombi ma aveva una sua precisa struttura e un suo perché e lasciava aperte delle domande anche abbastanza importanti, quindi non è detto che magari un giorno non lo riprenda, l'unico neo è che ho voluto fare l'americano, ambientarlo in California e io in California non ci sono mai stato, quindi potrei aver scritto delle stupidaggini devastanti che magari un americano potrebbe farmi notare ma che io non ho colto, perché non so come vivono loro, e quindi l'ho lasciato lì. A Yume sono arrivato dopo tre anni di Salone del Libro, girando per le bancarelle, cercando gli editori che pubblicavano storie simili alla mia, quindi ambientate a Torino o in Piemonte, dove ci fosse del thriller e che fossero disposti a pubblicare una serie, io avevo cominciato con un racconto singolo che poi però è diventato il primo di una serie. Ho contattato loro quasi per scherzo, come tanti altri, e così siamo partiti e ora siamo fuori con tre libri e si spera di continuare.

L: Quando ha iniziato a formarsi l'idea di mettere giù il tuo primo libro, ti è stato chiaro da subito che sarebbe stato un giallo/thriller? È il tuo genere d'elezione o hai valutato la possibilità di andare anche in altre direzioni? Per quel che riguarda il genere quali sono i tuoi scrittori di riferimento, classici o moderni che siano?
MB: Quando ho iniziato a scrivere All'ombra del salice sapevo esattamente quello che volevo scrivere, è stata una prova con me stesso. Infatti dopo aver scritto l'horror e tutto il resto, avevo voglia di misurarmi con qualcosa che fosse vicino a me a livello geografico, come ambiente, volevo parlare di Torino e di tutto quello che mi circonda, e poi era una specie di sfida con me stesso perché volevo vedere se fossi stato in grado di scrivere un romanzo pubblicabile sia dal punto di vista del numero delle pagine sia a livello di tematiche, insomma se riuscivo a tirar fuori una storia che fosse avvincente ma che fosse anche veloce; a me piace un tipo di scrittura veloce, molto rapida, non amo i giri di parole troppo lunghi, mi piace Cormac McCarthy perché quello che scrive Stephen King in venti pagine lui lo scrive in cinque righe e per questo si legge decisamente meglio. Quindi io sapevo cosa volevo scrivere, sapevo dove volevo arrivare e conoscevo esattamente le ultime parole che avrei usato per chiudere il libro e infatti l'ho finito proprio con quelle. Non incomincio mai a scrivere solo perché ho un bello spunto, un bell'incipit, incominciamo e poi vediamo... no! Io so esattamente quello che succede, poi al limite può capitare strada facendo di voler ingarbugliare un pochino la trama, magari introducendo qualche personaggio non proprio pertinente alla storia diciamo, così da aggiungere qualche elemento di disturbo in modo da portare il lettore fuori strada, quello lo faccio, ogni tanto. Cerco sempre di rispondere a tutte le domande ma ogni tanto amo inserire questi personaggi, che come tutti i personaggi di secondo piano a volte non sono più solamente dei riempitivi, perché quando mi piacciono particolarmente li ripropongo, magari non sempre nello stesso ruolo. In una serie è rassicurante per chi legge ritrovare personaggi conosciuti, perché la triade dei protagonisti in qualche modo si espande, diventando una specie di famiglia allargata.


L: Come è nata l'idea di mettere al centro dei tuoi romanzi un personaggio un po' inconsueto come Nanni Baretti: attempato, fuori forma, un po' borbottone che dà l'idea del classico pensionato più che del commissario.
MB: È nata per un motivo molto semplice, perché a me non piacciono i vincenti per forza. Io ho sempre odiato Superman, ho sempre odiato Topolino, ho sempre odiato quelli che vincono, come Tex Willer, a me piaceva Ken Parker perché si pigliava un sacco di mazzate, mi piaceva Paperino, quindi volevo uno che fosse così, che fosse umano vero, capace di piangere, capace di incazzarsi, capace di fare tutte le cose che facciamo noi, infatti ogni tanto nei suoi racconti ci metto anche le cose normali, lui che va al gabinetto, lui che fa le cose che fanno tutti; la mia editrice non è sempre contenta di tutto quello che ci infilo, però io volevo proprio dargli un tocco umano, un tocco vero. Non mi piaceva l'idea che fosse di ferro, invincibile, che sapesse volare, che avesse i super poteri o la vista a raggi x, anzi, lui non ci vede, ci sente così così, però è uno che se lo fai incazzare ha ancora una bella castagna, e ogni tanto gli faccio tirare anche qualche bel cazzotto.

L: All'ombra del salice è un romanzo molto legato al territorio del Piemonte, nel racconto compaiono luoghi reali così come posti immaginari. Questi ultimi sono ricalcati su paesi esistenti o sono completamente frutto di fantasia?
MB: 50 e 50. Spesso e volentieri, anche quando racconto di Torino, cerco di descrivere una parte reale, per prendere per mano chi legge e accompagnarlo fisicamente in un posto, e poi a un certo punto la strada cambia. Per esempio ho scritto spesso della collina torinese e guardando Google Maps ho descritto delle cose molto precise, delle curve, un ponte, etc.; poi a un certo punto quando nel romanzo dovevano entrare in scena delitti o altri accadimenti allora ho inventato: la strada diventava più lunga, faceva un giro diverso, perché volevo evitare che qualche persona prima o poi venisse a dirmi "hai ambientato a casa mia un omicidio", e quindi c'è del vero così come ci sono cose inventate, sia nel paese che nelle strade come in tutte le cose che descrivo. l'idea che mi diverte molto è quella di raccontare un delitto, una situazione particolarmente pesante e brutta, in un posto reale (ma pubblico)  per far si che magari prima o poi qualcuno, passando di lì di sera, sentendo un rumore strano, si ricordi del libro e si giri, spaventato, quella è un'idea che mi piace un sacco, l'idea di spaventare qualcuno a distanza nel tempo, più in là.

L: Sappiamo che oltre ai primi tre romanzi già usciti per Yume ci sono nel cassetto già pronte altre avventure per Baretti, puoi anticiparci qualcosa senza entrare troppo nei dettagli? Gli episodi successivi saranno ambientati tutti in Piemonte? Rivedremo qualche personaggio comparso in All'ombra del salice? C'è qualche progetto più particolare in cantiere?
MB: Ti posso dire solo che allo stato attuale ci sono altri sei racconti finiti, di lunghezze diverse che sarà da valutare come far uscire e che sono da leggere quasi tutti in sequenza. Ci sono alcuni romanzi, come il secondo e il terzo (Attraverso il segreto e Il borgo dei pazzi) che sono molto legati tra loro; poi il successivo, per evitare la noia in chi legge, quando uscirà tratterà un tema completamente diverso. Poi ci saranno ritorni più o meno ciclici legati ai due libri citati prima, attorno a questi due libri c'è una specie di ragnatela che li avvolge, i due libri si possono leggere anche separatamente però se si vuole cogliere appieno il racconto ad ampio respiro bisogna leggerli in sequenza, per evitare incomprensioni e anche qualche piccolo spoiler, insomma, mettiamola così, i morti muoiono una volta sola. Forse.

L: Vista la confidenza con la matita, nei prossimi romanzi non c'è la possibilità di vedere qualche illustrazione in più? Visto che siamo in tema c'è qualche illustratore/disegnatore che ami particolarmente?
MB: Mi piacerebbe riempirli di illustrazioni i libri, peccato che questa cosa non venga tanto recepita. Di illustratori bravi ce ne sono a bizzeffe, se dovessi dirti il nome di due illustratori che mi piacciono tantissimo, anche se sono illustratori del passato, ti direi Arthur Rackham, il primo e più grande, il principe di tutte le fiabe di inizio secolo e di cui sto comprando con molta fatica qualcuna delle prime stampe, roba del 1910/1920, cose che costano... il giusto, ma che sono anche dei libri meravigliosi; e poi c'è un fumettista che ha illustrato tantissime cose belle che è Dino Battaglia, autore italiano che pubblicava su Alter Alter, su Linus e che ha illustrato delle cose bellissime di Edgar Allan Poe, ha illustrato Gargantua e Pantagruel e moltissimi altri autori... poi c'è gente come Sergio Toppi, tutta gente stratosferica al quale io potrei al massimo fare la punta alla matita, ecco. Mi piace anche curare molto bene le copertine da tutti i punti di vista e in questo faccio impazzire gli stampatori perché ho adottato una tecnica a base di matita e di colori ad acrilico a campiture piene piuttosto problematica da riprodurre, perché stampare la matita vuol dire caricare molto i colori per far uscire fuori il grigio, e quando carichi troppo il colore sovraccarichi molto l'acrilico e le campiture e diventa un casino da bilanciare. Però anche lì io volevo creare uno stile che fosse un pochino mio, come ad esempio le vecchie copertine di Urania, qualche cosa che fosse riconoscibile, in modo che quando vedi il libro insieme agli altri un po' ti ricordi il personaggio, un po' gli accostamenti di colore, un po' la grafica e lo riconosci in fretta, perché la copertina è fondamentale, è la prima cosa che vedi e deve essere perfetta, perché insieme alla quarta di copertina deve farti venire voglia di leggere il libro; se tu sbagli una di queste due componenti secondo me tu il libro non lo vendi, fronte e retro sono la sua carta d'identità. La quarta di copertina la scrivo da solo, perché la voglio scrivere con lo stesso stile e con la stessa mano che ha scritto il libro, non dev'essere una cosa fatta da un altro perché la differenza di temperatura si sente.

L: In All'ombra del salice c'è un finale un poco particolare, senza svelare nulla ai nostri lettori vorrei chiederti quanto è difficile chiudere la stesura di un libro, trovare il giusto finale per una storia che si è sviluppata anche per molte pagine? E ancora, è proprio vero che a un certo punto i personaggi iniziano a "scriversi da soli" o è una grandissima bufala, per quella che è la tua esperienza tu come la vedi?
MB: Ma guarda, sul finale All'ombra del salice in realtà cambia registro, e una cosa analoga succede anche nel secondo libro, Attraverso il segreto, a me piace a un certo punto quando scrivo, se possibile, introdurre un punto di rottura, non mi piacciono le cose troppo lineari, a un certo punto tutto cambia, da una parola in poi, da una riga in poi, da un momento in poi tutto si trasforma, tutto il racconto che ti ha preso per mano e ti ha accompagnato attraverso le pagine a un tratto muta e tu ti trovi in un mondo completamente diverso, magari anche ostile, completamente fuori registro, e a me è piaciuto molto sfruttare questo cambiamento, che poi è il cambio di registro che introduce la serie. Questo libro infatti non è nato per essere il lancio di una serie ma è nato come esperimento, diventa una serie da questo punto in avanti, perché ho capito che Nanni Baretti doveva continuare ma su quel registro lì. Quello che nasce come un thriller a un certo punto sconfina, e nel secondo libro succederà la stessa cosa, ci sarà un punto di rottura molto preciso dove il lettore dirà: "che cosa sto leggendo?", e qui è la stessa cosa, il finale volutamente diverso è questo, il voler scombinare le carte in tavola, è proprio il colpo di coda, la sorpresa finale, quello che non ti aspetti. Non a tutti è piaciuta molto questa cosa, perché chi vedeva All'ombra del salice come un thriller tradizionale a un certo punto si è trovato fuori dai binari, però secondo me il colpo forte è proprio questo, e soprattutto cercare poi di ricondurre tutto a una sorta di normalità, perché Nanni Baretti è una persona normale capace di fare cose straordinarie, ma le fa in un modo tranquillo e sereno, vive delle avventure completamente al di fuori della normalità però le vive con naturalezza, per lui tanto è così, non è un uomo di scienza che cerca per forza una spiegazione, una spiegazione non c'è e va bene, la viviamo così, è un pochino più spirituale per alcune cose, un pochino più al di fuori. I personaggi vivono di vita propria? Mah, in realtà Baretti è stato un esperimento che poi è diventato uno di famiglia, vive di vita propria da un certo punto di vista perché in realtà lui è molto me, è molto il piemontese vecchio stampo, vive ancora in un mondo legato alla Torino di qualche anno fa che piaceva anche a me perché quello che c'è adesso in giro non piace a lui come non piace a me, quindi c'è molto di lui in me, io sono lui per alcune cose, anche fisicamente ci sono molti punti in comune, pancia compresa (questo scrivilo pure, non c'è problema), vive di vita sua perché ormai è un personaggio, e io mi diverto molto a inventare il suo passato, a rivelarlo un poco alla volta, lui è un piemontese anche in questa cosa, si rivela un poco alla volta, un pochino di più in ogni libro.

L: Come sai Loudd è una webzine principalmente a tema musicale. Quando scrivi ascolti musica di sottofondo o scrivi in totale silenzio? Facciamo un giochino, riusciresti a consigliare qualcosa ai lettori di Loudd da ascoltare come sottofondo durante la lettura del tuo romanzo? Qualche pezzo, un album, quello che preferisci...
MB: A me piace molto scrivere ascoltando musica, generalmente lo faccio con le cuffie mettendo in mp3 tutto quello che capita, dal progressive al metal fino al jazz, tutto purché sia musica buona. Mi piace molto legare alcune cose a delle canzoni, ad esempio quando ho scritto il romanzo per ragazzi che poi non ho mai concluso, addirittura volevo includere una guida all'ascolto, cioè quando leggi questo capitolo, sarebbe perfetto che tu ascoltassi questo brano, perché musicalmente ti accompagna. Per Nanni Baretti potrebbe essere la stessa cosa, logico che essendo un piemontese di quell'epoca tu ti aspetteresti da lui il liscio e le mazurche, ma potrebbe stupirti invece... Una guida musicale mi piacerebbe, si. Per ora potrei consigliare per la sequenza iniziale, quella della piena, il segmento The arrival di Fall of the house of Usher di Alan Parsons Project. Poi ci sono cose di Steven Wilson che ben si sposano agli stati d’animo di alcune parti del libro, come Belle de Jour, che bene accompagna la lettura della lettera a pagina 48, oppure il Raiader Prelude, perfetto per pagina 81/83, mentre per il finale a pag. 198 vedrei bene una vecchia perla del solo di Ace Frehley del 1978 (i miei amori di ragazzo, i Kiss), ossia Fractured Mirror, che con le campane e l’attacco mesto della batteria porta i battiti del cuore alla frequenza giusta per l’epilogo.

L: Per i lettori che fossero interessati ai tuoi libri dove possono trovarne una copia?
MB: Oltre che su Amazon, Ibs, Feltrinelli etc, dipende da dove sono ubicati perché la distribuzione riguarda più che altro la parte centro settentrionale d’Italia, lì si può trovare in tutte le librerie ordinandolo, altrimenti richiedendolo alla casa editrice o al sottoscritto, se qualcuno avesse voglia di ricevere una copia personalizzata con disegno e dedica, è una cosa che faccio volentieri per tutti. Potete contattarmi tramite la pagina fb https://www.facebook.com/MarioBaraleScrittore/

L: Chiudiamo con la classica domanda marzulliana. C'è qualcosa che avresti voluto ti chiedessi e non ti ho chiesto e a cui avresti avuto piacere di rispondere? Vuoi raccontarci qualcosa tu?
MB: Beh si, qualcosa riguardo le presentazioni del libro. C’è qualcosa di particolare quando fai una presentazione, qualcosa che la gente si porta a casa, al di là della copia del libro, proprio a livello di ricordo, di esperienza personale. Io ti posso rispondere che mi piace nelle presentazioni anzitutto non essere troppo serio, perché come nei miei libri ci  sono delle sequenze divertenti, delle uscite di Baretti anche un pochino stupide, alcune volte bilanciate da altre parti più serie o addirittura da qualche spunto di riflessione, anche nelle mie presentazioni mi piace adottare la stessa linea, quindi ci sono frasi ad effetto divertenti, in modo da togliere un pochino quell'alone di presentazione seriosa e anche un po’ noiosa dove c’è uno che parla, bla bla bla, tutto il tempo. Io ad esempio quando mi è possibile, in questo momento non potrei farlo per il troppo caldo, indosso un vecchio gilet fatto dalla mia madrina negli anni 50, un gilet di lana su cui mi sono costruito un coltello finto, un coltello piantato in questo gilet con del sangue finto che però visto da lontano fa un certo effetto, un coltello bello grosso... così io interpreto la parte dello scrittore morto che arriva chiedendo scusa a tutti "ma questa sera non mi sento tanto bene, ho una fitta allo stomaco e non so che cosa sia". Voglio che la gente quando torna a casa si porti via un ricordo allegro e non  soltanto quello dell’ennesima presentazione di un libro, è bello lasciare qualche cosa di sé a livello umano.

L: Grazie Mario (sembra di essere in Non ci resta che piangere) per la tua disponibilità e chissà che non ci si risenta per qualche altro progetto.

Una presentazione di Mario Barale

mercoledì 3 luglio 2019

TOY STORY 4

(di Josh Cooley, 2019)

Ha il sapore della chiusura del cerchio questo film che potrebbe essere l'ultimo del franchise di Toy Story (ma l'abbiamo pensato anche alla fine del capitolo precedente), un episodio nel quale più o meno tutti sembrano crescere e trovare il loro posto nel mondo: giocattoli, bambini, ideatori del brand e forse anche alcuni di noi spettatori. Ancora una volta la squadra di Toy Story punta a colpire attraverso i sentimenti, un senso diffuso di malinconia e una sferzata di positività nell'abbracciare un futuro che può essere incerto, nuovo, ma che solo così potrà portare alla quotidianità nuova energia e nuove esperienze.

Al centro del racconto, nonostante la presenza del nuovo arrivo Forky, c'è sempre lo sceriffo Woody, il giocattolo che più di tutti ha rappresentato nel corso degli anni l'altruismo e l'amore incondizionato per i bambini, soprattutto per il "suo" bambino, quell'Andy che ormai è cresciuto e per sopraggiunti limiti d'età ha regalato tutti i suoi giocattoli, Woody compreso, alla piccola Bonnie. Oltre al distacco dall'amato Andy, Woody dovrà superare la separazione da Bo Peep, damina giocattolo per la quale lo sceriffo prova un sentimento d'amore e che verrà regalata prendendo la via per altri lidi.


In Pixar, focalizzando i contenuti di questo quarto episodio su Woody, Forky, Bonnie e Bo Peep, sono bravi a inserire nel film una serie di situazioni capaci di toccare le corde emotive un po' di chiunque e nelle quali ognuno di noi può in qualche modo trovare riscontro. C'è una sequenza durante la quale Woody, lungo una strada buia, racconta a Forky quali emozioni abbia suscitato in lui il distacco da Andy, una scena sulla quale ammetto di aver versato qualche lacrima, perché chi come me è genitore non ha potuto evitare di mettersi nei panni di quello sceriffo dall'animo candido, che altro non sta facendo se non vedere suo figlio crescere e avere sempre meno bisogno di lui fino a doverlo lasciare andare via, così come è naturale che sia. Ma questo susseguirsi naturale delle cose non può evitare di farlo sentire spiazzato, sempre più inutile e privo di quel riferimento che per così tanti anni ha dato significato alla sua vita. L'amore non finirà mai ma la crisi è dietro l'angolo. Allora Woody si concentra su Bonnie, la aiuta a superare i suoi timori (l'inserimento all'asilo), le sue paure, ma Woody non è il giocattolo preferito di Bonnie, viene spesso messo da parte, la bambina si crea un suo feticcio proprio il primo giorno d'asilo usando dei semplici rifiuti: una forchetta di plastica, un filo rigido modellabile, parti disegnate, pezzetti di legno... ed ecco Forky, il nuovo giocattolo al quale Bonnie si legherà profondamente. Su Forky, personaggio forse non sviluppato fino in fondo e oscurato da Woody, viene fatto un lavoro ben diverso; Forky infatti si sente spazzatura, è fatto da spazzatura e non fa altro che tentare di gettarsi via, non importa quanto amore la sua bambina riversi su di lui. Ci si può leggere tutto un percorso sull'accettazione e sull'autostima utile non solo per i ragazzi ma anche per tutti quegli adulti che per un motivo o per l'altro sono bollati come falliti dalla società moderna, una condizione dalla quale si può uscire grazie all'amore magari di un amico sincero (ancora una volta Woody). L'altra chiave di lettura interessante è quella sul trovare il coraggio di andare avanti, accettare il cambiamento e lasciar andare via ciò che non possiamo più avere, senza smettere mai di coltivare un sentimento per ciò che non è più come prima, ma comunque guardando avanti, verso cose che magari, perché no, potrebbero rendere la vita migliore e più piena, discorso non sempre semplice da mettere in pratica e che nel film è rappresentato dalla nuova vita di Bo Peep, ormai giocattolo perduto, slegato dai vincoli del passato ma anche più libero. In quest'ultimo personaggio emerge il lato femminista che è presente ormai in molte opere degli ultimi anni, una figura femminile quindi forte, libera, non condizionata ed indipendente che ha abbracciato uno stile di vita al quale anche Woody potrebbe tendere se non fosse frenato da una serie di limiti auto imposti.


Nello svolgimento Toy Story 4 non presenta grosse novità, ricalca lo stile avventuroso dei capitoli precedenti affidando alle marionette del negozio d'antiquariato quella spruzzata finto horror atta a dare un po' di pepe in più alla narrazione, introduce qualche nuovo personaggio effettivamente riuscito (e più che a Forky penso a Duke Caboom e alla coppia formata da Ducky e Bunny) e offre una parte tecnica come al solito ineccepibile con vette sui paesaggi realmente impressionanti.

In fin dei conti un altro bell'episodio, probabilmente il franchise non ha più moltissimo da dire, soprattutto per quel che riguarda sviluppi e situazioni, però dal lato sentimentale e metaforico e sul piano delle gag se la cava ancora egregiamente. L'impressione che questa sia la fine c'è, se poi col tempo dovesse venir fuori un nuovo capitolo non sarò di certo io a rifiutare di andarlo a vedere. Doveroso il ricordo finale a Fabrizio Frizzi, storica voce italiana di Woody, al quale con affetto dedichiamo questo post.

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