sabato 31 ottobre 2020

WILDLIFE

(di Paul Dano, 2018)

Dopo un ventennio passato davanti alla macchina da presa Paul Dano esordisce alla regia con un film intimo tratto dal romanzo Incendi di Richard Ford. Wildlife è un film decisamente maturo che mette al centro della narrazione l'adolescente Joe Brinson ad assistere al progressivo disfacimento del matrimonio dei suoi genitori e di conseguenza al deflagrare del nucleo familiare. L'approccio di Dano è contenuto, consapevole, le scene in cui i protagonisti esplodono sono pochissime, anche la regia, studiata e calibrata, asseconda il ritmo di questa narrazione, giocando molto con gli spazi e la distanza tra i personaggi, la loro posizione all'interno del quadro che di volta in volta assume significati diversi: guardate per esempio le inquadrature frontali della casa dei Brinson, dopo una discussione ogni personaggio trova il suo posto, ognuno una distanza dall'altro, l'occhio dello spettatore e quindi la camera una distanza da tutti. E sono le distanze a farla da padrone in Wildlife, quelle fisiche, ma anche quelle mentali, sentimentali e di punti di vista, di aspettative e di obiettivi, quelle degli stati d'animo. Torneranno anche nella triste sequenza finale, in una foto, distanze siderali racchiuse in uno spazio ristretto, distanze che per l'occasione Joe, colui che più soffre la situazione, tenterà di comprimere forse per un'ultima volta.

Siamo tra la fine dei 50 e l'inizio dei 60 nel Montana, la famiglia Brinson ci si è trasferita da poco in seguito alle traversie lavorative di papà Jerry (Jake Gyllenhaal), impiegato in un golf club. La moglie Jeanette (Carey Mulligan) è un'ex insegnante che ha deciso di dedicarsi alla casa e al figlio Joe, costretto ad ambientarsi nella nuova scuola e nella squadra di football, sport che il ragazzo pratica più per compiacere il padre che per un suo reale interesse. A un'occhiata superficiale tutto sembra andar bene, i Brinson sembrano una famiglia felice, Jerry è un uomo gentile, dai modi pacati, molto affezionato al figlio che ama in maniera sincera, rispettoso della moglie, eppure qualcosa cova dentro di lui, quasi un malessere, una punta di depressione. Quando Jerry perde il lavoro ottiene tutto il sostegno della famiglia, però i conti vanno pagati e alla fine saranno Jeanette e Joe a trovare qualche fonte di reddito mentre l'uomo si chiude in sé stesso rifiutando di accettare lavori che non soddisfino le sue aspettative. Quando Jerry decide di allontanarsi da casa per andare a spegnere gli incendi al confine con il Canada, forse per la preoccupazione per questo lavoro pericoloso, forse per altri motivi, qualcosa in Jeanette si spezza, la donna subirà un cambiamento profondo ponendo Joe in uno stato di confusione, lontano dal padre e con una madre che fatica a riconoscere e che lo sottoporrà a situazioni dolorose e imbarazzanti.

Wildlife si regge su un'ottima scansione dei personaggi, splendida l'interpretazione di Joe da parte del diciassettenne Ed Oxenbould con all'attivo già una manciata di lavori, suo lo sguardo sulle dinamiche che si vengono a creare tra i suoi genitori, quasi inspiegabilmente, l'incedere degli eventi dona una vena molto triste al film che Dano asseconda e guida in maniera molto limpida, si avvertono i germi di una frustrazione che una società come quella dei 50 americani tendeva a mantenere sotto la cenere, ma che inevitabilmente continuava a bruciare, quella di Jerry andrà verso il fuoco in un concatenarsi di incendi reali e metaforici, quella di Jeanette scombinerà la vita e l'indole della donna, forse repressa per troppo tempo, per Joe tutto dovrà divenire per forza di cose occasione di crescita. Ottimo esordio per Paul Dano, i meriti del regista sono stati riconosciuti anche qui da noi, Wildlife è stato infatti premiato come miglior film al Torino Film Festival.

mercoledì 28 ottobre 2020

THE BOURNE ULTIMATUM - IL RITORNO DELLO SCIACALLO

(The Bourne ultimatum di Paul Greengrass, 2007)

The Bourne ultimatum (tralasciamo il sottotitolo italiano che non ha assolutamente nessuna attinenza con il film) innesta la quarta fin dalla prima inquadratura e corre per tutta la sua durata a rotta di collo verso un'ideale chiusura del cerchio, Greengrass si scrolla di dosso qualsiasi presunto obbligo di riassumere e spiegare a uso dei neofiti chi sia Jason Bourne e confeziona un terzo capitolo strabiliante per ritmo, tecnica, coinvolgimento e chiarezza, che visto il genere non è cosa da poco, anzi, andando a mettere un punto (poi ripreso da due successivi capitoli) a quella che probabilmente è la migliore saga action degli anni duemila.

Siamo di fronte al film d'azione perfetto: un obiettivo da raggiungere, quello della ricostruzione totale del passato recente di Bourne (Matt Damon) cancellato dalla perdita di memoria, un protagonista che punta dritto in quella direzione superando i vari ostacoli che gli avversari, in questo caso la C.I.A. pongono sul suo cammino. Si riprende da Mosca, è lì che avevamo lasciato Bourne in Supremacy, il protagonista continua ad avere flash della sua vita passata poco chiari, ma il cerchio pian piano si stringe e la chiave per ricostruire tutti i fatti potrebbe essere il giornalista Simon Ross (Paddy Considine) che sta per pubblicare un reportage sulle operazioni C.I.A. Treadstone e Blackbriar, programmi in cui era coinvolto lo stesso Bourne. Ovviamente si tratta di operazioni sporche e classificate di cui l'opinione pubblica è meglio non venga a conoscenza; uno dei vertici di Blackbriar, Noah Vosen (David Strathairn), vede Bourne ancora come una minaccia e si adopera per metterlo a tacere, ostacolato per quanto possibile solo da Pamela Landy (Joan Allen) che già nell'episodio precedente si era convinta delle buone intenzioni di Bourne. I tentativi di ricostruire tutta la sua storia e mettere fine alla persecuzione che già è costata a Bourne una persona cara, porterà il nostro in giro per mezza Europa tra Parigi, Londra, Madrid e con una puntata a Tangeri, per poi tornare finalmente a casa, dove tutto è cominciato, e mettere una volta per tutte fine a questa fuga/inseguimento continuo.

Greengrass realizza un lavoro di regia strepitoso, ci si perde nel seguire i movimenti di Bourne tra la folla, negli inseguimenti in auto, nelle corse sui tetti, il regista appronta soluzioni miracolose con la camera, aiutato dal montaggio e da tutto il comparto tecnico che si porta a casa tre Oscar meritatissimi (e forse servirebbe un Oscar ad hoc per le regie action che, si sa, vengono snobbate dall'Academy), una perizia tecnica che accresce la sensazione di coinvolgimento dello spettatore che si trova catapultato nei movimenti incessanti di Bourne, completamente catturato fino all'esplodere liberatorio di Extreme Ways di Moby sul finale, perfetta chiusura di una trilogia che poteva terminare qui. Damon è sempre più a suo agio in bilico tra l'azione pura e quel tocco di umanità positiva che al personaggio non manca, circondato da corrotti ed esecutori non pensanti, ad alleviare la sua solitudine dal lato giusto della barricata solo un paio di figure femminili, ben tratteggiate da Joan Allen e Julia Stiles. Senza timore d'incorrere in eccessivi entusiasmi, nel genere action meglio di Bourne solo l'inarrivabile tenente John McLane.

lunedì 26 ottobre 2020

MOON

(di Duncan Jones, 2009)

Per il suo esordio nel lungometraggio Duncan Jones, figlio di David Bowie, costruisce un film che guarda a tantissima fantascienza classica, ne riprende gli stilemi e, con quelli che per il genere sono davvero quattro soldi, riesce a confezionare un film dignitosissimo e di sicuro interesse. Alle grandi capacità di messa in scena in economia che si possono riconoscere al regista, insieme a indubbia passione, capacità narrative e ottime doti di direzione d'attore (uno solo, praticamente qui c'è sempre e solo Sam Rockwell), si contrappone la necessità di smorzare almeno in parte alcuni entusiasmi sproporzionati che parte della critica spese per il film ai tempi della sua uscita. Moon è un bel film di fantascienza umanistica, interessato più al lato psicologico, ai pensieri e ai sentimenti del suo protagonista, alle reazioni dello stesso di fronte alle rivelazioni che si troverà a dover fronteggiare, che non alle situazioni scientifiche che qui sono presto spiegate e delineate con poche battute. Nulla di male in questo, anzi, spesso l'introspezione porta a riflessioni e spunti d'interesse decisamente maggiori rispetto ad altre declinazioni del fantastico, c'è anche da dire che a parte qualche interessante ribaltamento rispetto alle sue fonti d'ispirazione, Moon non è certo un'opera rivoluzionaria, nemmeno sul versante psicologico che più gli sta a cuore, attestandosi in definitiva sulla scia degli illustri predecessori dei quali il film di Jones è comunque un sentito e riuscito omaggio.

È, ancora una volta, la disillusione del sogno, e se non è quello americano può essere quello di un uomo o quello di tutta un'umanità, quella composta da noi spettatori. L'uomo conquista definitivamente la Luna, il nostro satellite diventa risorsa da sfruttare, bieco mezzo per il solito fine energetico, consumistico, economico, in barba a tutti i romantici che ancora guardano sognanti il tondo luminoso con il naso all'insù. Sam Bell (Sam Rockwell) sta per finire la sua ferma di tre anni sulla stazione lunare nei pressi della quale l'azienda Lunar Industries estrae elio 3. Sam è solo sulla stazione, ogni giorno la solita routine: il recupero dei contenitori di elio quando gli estrattori automatici hanno finito il lavoro, l'invio della risorsa sulla Terra e poi tutto da capo. A fargli compagnia solo il computer Gerty che non ha nemmeno sembianze antropomorfe, anzi, ha un design decisamente vecchio stile (come tutta la scenografia del film, molto indovinata); dopo quasi tre anni passati in solitudine Sam inizia a perdere qualche colpo. In seguito a un incidente occorsogli, la Lunar avvierà un processo per lei consolidato e consueto e Sam, ripresosi dall'incidente, si troverà a fare i conti con... Sam!

Duncan Jones, cresciuto con tutta probabilità con i brani spaziali del padre in heavy rotation nelle orecchie, mostra per il genere un affetto sincero e ottima conoscenza, instaura un proficuo e mutualistico connubio con Sam Rockwell che può giovare di questo ruolo da protagonista unico e assoluto restituendo a Jones un'interpretazione superba, lontana dagli eccessi di stile che spesso lo contraddistinguono. L'uomo è qui vittima del lavoro, dell'industria, e diventa (o meglio ancora, si conferma) pura merce - pare si dica risorsa - a uso e consumo di chi davvero trae benefici dal sistema del capitale; disumanizzato Sam si trova a chiedersi chi davvero egli sia e dovrà (dovranno) compiere un lavoro incredibile su sé stesso per trovare senso e ruolo in un'esistenza nella quale si scopre puro mezzo per un fine, accantonabile, sostituibile, sacrificabile. Duncan Jones sposta riflessioni purtroppo note e attuali dalla Terra alla Luna, compie un piccolo miracolo per messa in scena e riuscita d'insieme, budget risicato, minima spesa e massima resa, Moon sa di ritorno ai luoghi della fantascienza di qualche anno fa, con tutto quel bianco, con quel computer come unica compagnia e che ci riserverà qualche piccola sorpresa sul finale. Moon difficilmente non piacerà a chi ama la fantascienza, tutti gli elementi sono al posto giusto, nel mio caso paga un po' le alte aspettative mosse da una critica entusiastica, ad ogni modo Moon vale il viaggio sulla Luna, un viaggio da cui torneremo con la rinnovata consapevolezza della nostra incapacità al miglioramento.

sabato 24 ottobre 2020

IL TEMPO CHE CI RIMANE

(The time that remains di Elia Suleiman, 2009)

Con Il tempo che ci rimane il regista Elia Suleiman, qui anche sceneggiatore e autore del soggetto, ci offre un racconto autobiografico mostrandoci, in maniera laterale e non completamente filologica, una parziale storia della sua famiglia tramite episodi provenienti da periodi diversi che hanno come sfondo il conflitto senza risoluzione tra palestinesi e israeliani; lo fa con un dignitosissimo silenzio (Suleiman anche protagonista non pronuncia mezza parola in tutto il film), anche perché cosa rimane ancora da dire su insensatezza e violenza? Oltre alla scelta comunicativa degna di un re del muto, Suleiman gioca con il registro dell'assurdo, alcune situazioni che il regista propone sono del tutto dementi, la violenza del conflitto, il sopruso e l'umiliazione, la frustrazione per la mancanza di libertà, soprattutto da parte del padre Fuad (Saleh Bakri), non esplodono mai in scene cruente o forti, tramite il silenzio, gli sguardi, le parole della parte avversa, gli accenni, i non detti, Suleiman delinea un popolo, quello palestinese, a cui si cerca di sottrarre identità e dignità, tutti motivi per i quali Il tempo che ci rimane, che di fronte alla Storia non sembra mai molto, è un film importante più che avvincente.

Per gran parte del film a essere sotto i riflettori è il padre di Elia, Fuad, che fin dall'occupazione israeliana di Nazareth del 1948 decide di resistere, contravvenendo anche ai patti siglati - forzatamente - dal suo stesso padre, all'epoca sindaco della città. Fuad costruisce e traffica armi, occupazione quest'ultima che nel film non viene mai mostrata, anzi, ci viene presentata, come spesso accade ne Il tempo che ci rimane, con una sequenza allusiva più volte reiterata che assume i toni del ridicolo. Il confronto tra l'uomo e l'esercito di occupazione diverrà aperto e Fuad ne pagherà le conseguenze. Salto in avanti nel tempo, Elia è un bimbo che va a scuola, costantemente redarguito dal maestro perché continua a definire gli Stati Uniti "colonialisti" o "imperialisti", cosa inaccettabile per l'alleato israeliano, la contrapposizione tra i due popoli permane, la vita prosegue tra oppressione e situazioni comiche. Un decennio più tardi, mentre il padre continua la sua vita in opposizione e si avvicina al suo ultimo momento, Elia denunciato viene costretto a lasciare il Paese. Ai giorni nostri Suleiman torna a casa, dopo l'esilio, a trovare la madre anziana, i vecchi amici. La città è cambiata, la gente è cambiata, la libertà ancora si aspetta, non rimane che rincorrerla con un tuffo nell'onirico in una delle immagini più significative del film.

È tutta una questione di sguardo per Suleiman, per una situazione che sembra non trovare mai una fine (basti vedere le recenti bozze di accordo che coinvolgono Israele e i territori della regione Palestinese), un continuo riproporsi d'ingiustizie che Suleiman ci mostra con un tocco lieve e grottescamente surreale. Scenette inverosimili che si ripetono giorno dopo giorno, desideri di lievità frustrati, anche per gli stessi "occupanti", personaggi improbabili, militari spersi dentro un'idiozia collettiva alla quale non si riesce a mettere un freno. Nell'assurdità però, non bisogna dimenticarlo, c'è anche la grande tragedia, che con piccoli episodi Suleiman ci mostra. Lo sguardo, appunto, è ovviamente di parte come è normale che sia vista la storia familiare dell'autore e della sua città, ma riesce a mantenersi equidistante tra l'assurdo e il tragico con una propensione a non calcare la mano sugli aspetti infami della vicenda che sono più o meno noti a tutti. L'approccio di Suleiman per questo film, per la sua interpretazione in particolare, da molti è stato paragonato al Cinema di Tati o addirittura di Buster Keaton, anche la sua regia asseconda la misura che l'autore ha scelto di dare al progetto, con una direzione molto limpida e pacata che non manca però di lasciar intuire allo spettatore il dolore e l'angoscia celate dietro a vite dall'apparenza per lo più normalizzata.

giovedì 22 ottobre 2020

JOJO RABBIT

(di Taika Waititi, 2019)

È giusto, ammissibile, affrontare la tragedia dell'olocausto, i drammi della Seconda Guerra Mondiale, la persecuzione del popolo ebraico con il sorriso sulle labbra o prorompendo addirittura in una crassa risata? Il tema venne dibattuto a sufficienza già all'epoca del nostrano La vita è bella che poi riscosse il successo che tutti sappiamo. Jojo rabbit si inserisce nel solco lasciato dalla scia del film di Benigni affrontando la materia in maniera ancor più spensierata (anche se non è propriamente questo il termine più corretto da utilizzare) e risultando a conti fatti un film meno ficcante del precedente ma indubbiamente più divertente. E in fin dei conti anche meno pretenzioso, Jojo rabbit vuole essere prima che una disamina sugli orrori del nazismo una storia più personale, su ciò che le persone "possono fare" per cambiare le cose, su un'amicizia, sull'accettazione attraverso la conoscenza e, non per ultimo, una bella commedia (drammatica).

Il piccolo Johannes, detto Jojo "coniglio", è un ragazzino di dieci anni che non aspetta altro che entrare nella Hitlerjugend, la gioventù hitleriana, addestrarsi a riconoscere e combattere gli ebrei - che vede un po' come dei mostri, con sguardo tutto infantile - e prepararsi a divenire un soldato al servizio del Reich. Jojo vive con sua mamma Rosie (Scarlett Johansson) che a sua insaputa odia il regime, il padre è un militare tedesco al fronte, in realtà un disertore anche lui contrario al nazismo. Ma il piccolo è così pieno di indottrinamento nazi da avere come amico immaginario nientepopodimeno che una versione grottesca e idiota del Fuhrer in persona (Taika Waititi) con il quale discetta sulla guerra e sugli ebrei ma anche di frivolezze assortite e con la quale probabilmente sublima l'assenza del padre. Tutte le convinzioni di Jojo sono destinate a cadere quando il ragazzino scoprirà che la sua amatissima mamma nasconde in casa una giovane ebrea, sarà per il bimbo l'occasione per scoprire che gli ebrei non puzzano, non sono mostri, non hanno coda e corna e non mangiano cose strane, anzi, Elsa (Thomasin McKenzie) è una ragazzina simpatica, bella, amante della poesia e una discreta disegnatrice, dopo la classica diffidenza iniziale il rapporto tra i due ragazzi si evolverà in una bella amicizia per la quale Jojo sarà disposto a rischiare qualcosa e ad abbandonare le sue certezze.

Nonostante non manchino nel film momenti tragici come è logico che sia in questo contesto, Waititi punta principalmente a mettere in ridicolo l'immagine del nazismo con una commedia che non pretende di scavare in profondità nel lato doloroso dell'olocausto ma che punta invece a un pubblico di ogni età, costruendo un film perfetto per gli adolescenti chiamati a riflettere su un tema importante, magari da approfondire con l'aiuto dei genitori o della scuola, in una cornice molto, molto divertente e con una morale
di fondo comune a molte opere ma ugualmente apprezzabile. Detto questo, lasciandoci alle spalle quindi profondità e spessore, il film risulta ben calibrato, si ride spesso e si apprezzano su tutte le prove di Sam Rockwell nei panni del Capitano Klenzendorf, colui che dovrebbe formare i giovani nazisti (ecco perché hanno perso la guerra), e che trova un'ottima spalla nell'imbelle Finkel (Alfie Allen, il Theon Greyjoy de Il trono di spade) e quella dello stesso regista che ritaglia per sé la parte di Hitler, un perfetto idiota, irresistibile per espressioni e movenze e che risulta il vero valore aggiunto del film. La dinamica di accettazione tra i due ragazzi è nota e prevedibile ma non per questo stucchevole e offre almeno una bella sequenza sul finale. Ottima la confezione, regia e costumi studiati a dovere, anche la scelta dei due giovani protagonisti è indovinata, Jojo è Roman Griffin Davis, in realtà dodicenne, molto bravo anche lui, la Johansson è una garanzia e anche i coprotagonisti sono tutte sagome ben inserite nel contesto intriso di ridicolo.

Jojo rabbit non ci dice nulla di nuovo sul nazismo e sulla guerra, nulla di nuovo sull'amicizia, sul sacrificio, sull'accettazione, ma quel che ci ricorda è qualcosa che non sarà mai ricordato abbastanza, lo fa in modo divertente, e allora come non premiare con sincero affetto un film come questo? 

martedì 20 ottobre 2020

GATTO NERO, GATTO BIANCO

(Crna mačka, beli mačor di Emir Kustirica, 1998)

Emir Kusturica nasce fin dai suoi esordi come "regista prodigio": Leone d'oro a Venezia per il suo primo lungo Ti ricordi di Dolly Bell?, il successivo Papà è in viaggio d'affari vince la Palma d'oro a Cannes, il suo terzo film (al netto di cortometraggi e film tv), Il tempo dei gitani, viene nuovamente premiato a Cannes per la miglior regia, poi arriva l'Orso d'argento a Berlino per Il valzer del pesce freccia e successivamente una seconda Palma d'oro per Underground. È poi la volta di questo Gatto nero, gatto bianco che vince il Leone d'argento per la regia a Venezia. I festival fanno a gara per premiare le opere di Emir Kusturica, regista bosniaco che proprio le popolazioni della ex Jugoslavia mette al centro dei suoi racconti. Per Gatto nero, gatto bianco, rispetto ad altre sue pellicole Kusturica sceglie un registro decisamente più spensierato che varia dai toni del grottesco a quelli della commedia più esilarante e macchiettistica, impossibile non bearsi di personaggi sopra le righe, situazioni assurde, ambienti frastornanti e coinvolgenti, tutto inserito in un caos goliardico divertentissimo e dalla struttura sempre ben calibrata. Gatto nero, gatto bianco è una grandissima commedia, lontana dai canoni più battuti e che centra il bersaglio senza apparente difficoltà.

Siamo in un luogo non precisato lungo le rive del Danubio, ai confini tra Serbia e Bulgaria, qui vive una comunità di gitani dei quali impariamo da subito a conoscere Matko (Bajram Severdzan), uno sfaccendato sempre a caccia di soldi da investire nelle sue trovate inverosimili e illegali, e suo figlio Zare (Florijan Ajdini), un diciassettenne con la testa decisamente più a posto di quella del padre. Per racimolare soldi per la sua nuova impresa Matko va a elemosinare un prestito dal signore delle discariche, Grga Pitić (Sabri Sulejmani), grande amico del padre dello stesso Matko, il vecchio Zarije (Zabit Memedov) che nutre un amore profondissimo per il nipote Zare. Dopo aver contato delle balle non da poco, Matko ottiene il prestito, i soldi serviranno per attuare una specie di assalto al treno per ordire il quale servirà l'aiuto del piccolo gangster Dadan Karambolo (Srđan Todorović), uno di cui non ci si può proprio fidare. Dall'unione di queste menti, nessuna delle quali ha la propensione al vivere onesto, si creeranno una serie di situazioni per cui verranno messi in gioco l'amore di Zare per la bella Ida (Branka Katić), i sogni della piccola (nel senso di minuta e bassa) Afrodita (Salija Ibraimova), sorella di Dadan, e il destino del giovane e lungo Grga Veliki (Jasar Destani).

Gatto nero, gatto bianco è una festa. Kusturica mette in scena un'umanità colorata, sgangherata, improbabile, vivacissima e mal assortita in un film dove abbondano i delinquenti ma in fondo non c'è ombra di violenza: l'espediente, la truffa, la corruzione, l'impresa criminosa sono una sottolineatura di uno stile di vita, ma principalmente sono veicolo per un racconto che ci fa amare questi personaggi stralunati, a partire da Dadan Karambolo, quello che dovrebbe essere il più fetente di tutti ma che interpretato dallo strepitoso Srđan Todorović diventa una macchietta irresistibile che non si può non finire per adorare, tra l'altro una prova superba dell'attore serbo che sembra avere i canoni della commedia iniettati nel sangue. Immersione nel mondo gitano, volti, costumi, abitudini e colori che non siamo così abituati a vedere sul grande schermo, uno sfogo del regista che probabilmente aveva bisogno di scrollarsi di dosso temi più cupi che una terra come la sua, funestata da violenze d'ogni genere, inevitabilmente coltiva. Così dopo Il tempo dei gitani e Underground Kusturica si regala e ci regala un'esplosione di allegra vitalità, una commedia a tratti esilarante che ci mette di fronte al lato più genuinamente fracassone della cultura gitana tra storie d'amore, matrimoni combinati, piccoli maneggioni e legami familiari fortissimi, antidoto perfetto per i momenti di malumore.

domenica 18 ottobre 2020

ESSERE BLOGGER NEL 2020: UNA PROPOSTA DI INTERVISTA COLLETTIVA

Da parecchio tempo ormai, per diversi motivi, questo blog si è indirizzato verso il binomio cinema/letteratura con poco spazio per altro; mi è sembrata quindi interessante questa proposta di intervista collettiva lanciata dal sempre prezioso Nick  di Nocturnia (quando capita l'occasione con i suoi commenti è sempre in grado di arricchire i miei post), un bel modo per fare un po' il punto della situazione, movimentare un po' il blog e fare una chiacchierata tra amici. Senza indugio passo quindi a rispondere alle domande proposte da Nick, invitando altri blogger ad aderire all'iniziativa dalla quale potrebbero venir fuori confronti interessanti.

Cosa conoscevi della rete prima di diventare blogger?

Se intendiamo la rete per quel che concerne "pagine" e "contenuti" sicuramente i classici siti web e i forum, quelli di informazione, siti che parlavano di fumetto, mia passione da tempo, tra i quali Fumetti di Carta con il quale ebbi la fortuna anche di collaborare poi più avanti proprio grazie alla creazione del mio blog (un abbraccio a Orlando se legge), uscendo dai contenuti scritti c'erano le prime comunità di materiali condivisi tipo Napster...


Cosa ti ha fatto decidere di aprire un tuo blog? Racconta i tuoi inizi.

Iniziò tutto per gioco. La Firma Cangiante nasce nel 2010 (tra l'altro quest'anno ha compiuto dieci anni e nemmeno ho festeggiato ormai in trip da lockdown e uso a non fare più niente...), poco prima aveva aperto il blog di un amico che ora non c'è più (il blog intendo, Il Merda invece è vivo e vegeto, un abbraccio anche a lui) e sul suo blog ci si divertiva parecchio a scambiarci commenti e impressioni e proprio lì nasce il nome del mio blog, in un post in particolare iniziai a commentare diverse volte cambiando per ogni commento la mia firma, una delle ultime sigle fu proprio La Firma Cangiante che mi piacque e mi portai dietro per il mio blog (col tempo qualche amico iniziò anche a chiamarmi Firma invece di Dario, cosa che devo dire mi piace anche abbastanza :). Visto che la cosa mi sembrava divertente decisi di iniziare anche io...


La tua concezione e le tue idee sul blogging.

Le mie idee sul blogging sono cambiate nel tempo, in qualche modo maturate, magari ora più disincantate, così come sono cambiate le mie idee su come il pubblico (parlo dei grossi numeri con tutte le dovute eccezioni del caso) fruisce del web e su cosa cerchi. Di base il blog per me ha diverse funzioni, una è sicuramente quella del divertimento, gestire il blog, parlare delle cose che mi piacciono, scambiare pareri con chi lo legge è semplicemente una cosa che mi piace fare anche perché se così non fosse, vista la mia radicata incostanza, non lo farei con assidua continuità ormai da dieci anni. Il secondo aspetto per me fondamentale è che lo scrivere di qualcosa mi aiuta anche a riflettere, informarmi e apprezzare al meglio il film, il libro o l'argomento di cui parlo sul blog, mi aiuta a fissare un po' sensazioni e idee, e questa è un'altra cosa che mi piace. In più è un bel sistema per consigliare una cosa a qualche amico/amica, mandi il link e il gioco è fatto.


Qual'e il tuo rapporto con internet oggi?

Credo abbastanza equilibrato anche se negli ultimi anni devo ammettere che mi ci trovo a passare più tempo di quanto forse facevo in passato, questa abitudine è un po' frenata dalla mia idiosincrasia per le letture lunghe a video, quindi dopo un po' mi stacco e passo a fare altro, questo è lo stesso motivo per cui i miei post tendono a non essere mai troppo lunghi.


Qual è invece il tuo rapporto con i social? Amore? odio? Un sano uso oppure una distanza incolmabile?

Qui, forse un po' come diceva anche Moz, li vedo più come un'estensione al blog e ai pezzi che pubblico su Loudd, la webzine con la quale collaboro. Ho una pagina FB dove metto al 90% i link dei miei pezzi che escono su Loudd, ogni tanto qualche brano musicale, il mio personale ci finisce pochissimo. Poi ho un account Instagram mai usato, vorrei capire come sfruttarlo per promuovere un pochino il blog ma in fondo credo di non averne davvero tutta questa voglia, poi sono un cazzo di vecchio, non so nemmeno come si usano gli altri social...


Cosa ti ha portato e cosa invece ti ha eventualmente tolto l'attività sul blog?

Sicuramente mi ha portato delle belle collaborazioni e conoscenze online che perdurano da anni, su tutte la collaborazione con Fumetti di Carta, le esperienze con la rivista Magazzini Inesistenti e ora la collaborazione con Loudd. Ricordo poi con estremo piacere anche alcune iniziative condivise tra blogger come il Controfestival organizzato da L'Orablù dietro la quale c'era lo zampino dell'amico Nick di Come un killer sotto il sole con il quale si collabora ancora per Loudd, alcuni post a più mani, qualche intervista con artisti emergenti, insomma, cose belle ce ne sono e ce ne sono state parecchie. Tolto, sicuramente mi ha tolto del tempo ma non lo rimpiango.


Come è cambiata la rete rispetto ai tuoi inizi?

Sicuramente, rimanendo nell'ambito blog, molto pubblico si è spostato sui social e su una forma di interazione più veloce, un blog richiede più tempo e più impegno, un commento ne richiede più di un like, nel mio piccolo posso dire di aver perso in termini di interazione parecchio nel corso degli anni, questo toglie sicuramente un po' di ricchezza ai contenuti che a volte con gli interventi dei lettori acquistavano informazioni, curiosità e punti di vista. Sicuramente io sono riuscito ad adattarmi meno di altri al cambiamento ma capisco anche che il tempo è tiranno per tutti e vivo la cosa con assoluta serenità, se una volta a queste cose ci si pensava ora tiro abbastanza dritto per la mia strada cercando di divertirmi quanto più possibile...


Il momento migliore e quello peggiore? L'evento che ti ha dato più soddisfazione e quello che ti ha dato più fastidio o creato più problemi?

Le soddisfazioni più grandi sono arrivate grazie alle collaborazioni di cui sopra, poi qualche complimento da qualche autore per un pezzo sulle loro opere, l'ospitata sul Pensieri Cannibali di Marco che è stata molto divertente da realizzare, ultimamente Loudd è stata citata addirittura da Internazionale, tutte piccole cose che fanno sicuramente piacere. Niente grossi problemi, qualche commento fuori misura o maleducato, tutta roba gestibile ignorando gli autori dei gesti e con un po' d'ironia. Forse il peggiore è stato per un commento su un blog di fumetti di un amico dove una piccola casa editrice mi minacciò di andare per vie legali per aver parlato male di un loro prodotto, in termini tra l'altro più che civili, ma anche quell'episodio si smorzò da sé.


Dì la tua rispetto al fenomeno degli haters? personalmente ti hanno mai infastidito? E se si come si neutralizzano?

No, personalmente mai. Devo dire che è un fenomeno molto più odioso e pericoloso quando si manifesta sui social e quando coinvolti ci sono ragazzi che magari non hanno ancora le giuste armi per difendersi, avendo una figlia adolescente questo è l'aspetto che più preoccupa di questo fenomeno, purtroppo gli stupidi e i vigliacchi abbondano sempre, per noi blogger penso sia un problema più ridotto, almeno per quelli vecchi come me :)


Un blog o un sito che consiglieresti?

Beh, ovviamente Loudd - Songs & Stories, ormai un riferimento per gli appassionati di musica, ma anche con cinema e letteratura ce la caviamo :)


Sempre in tema di consigli che cosa diresti a qualcuno che volesse oggi aprire un nuovo sito?

Premesso il modesto apporto che il mio blog può dare alla rete e di conseguenza sottolineando che il mio parere conta come il due a briscola, direi che il consiglio può essere solo quello di divertirsi, se ci si diverte bene, via e andare, se si pensa di farlo per ricavarci qualcosa allora auguri, io non sono la persona giusta per dare consigli, meglio un esperto di marketing :)


Gli errori tipici che si compiono in rete.

Da gestore di un blog direi che arriva per tutti il momento in cui ci si fanno troppe seghe mentali e si inizia ad avere qualche aspettativa, anche solo in termini di riscontro, ecco, diciamo che queste cose qui poi alla fine non portano a niente...


Vita privata ed attività online: dì la tua.

Avendo famiglia non sempre è semplice far collimare tutto, io ho ridotto il mio impegno sul blog eliminando tantissime cose, in principio La Firma Cangiante era un contenitore molto più vario, diciamo che sarebbe più facile gestire il tutto per un single o per qualcuno che magari riuscisse a farla diventare una professione almeno part-time, il rischio se no è sempre quello di chiudere all'una e mezza di notte come faccio io... :)


Su internet possono nascere vere amicizie?

Telematiche sicuramente, alcune delle quali come è capitato a me si traducono in incontri reali, ad ogni modo nessuno dei miei amici più stretti arriva dalla rete, però a diverse persone è capitato quindi credo sia tranquillamente possibile.


Internet, legislazione e libertà di parola, se ti va, dì sempre la tua.

Argomento lungo e spinoso per essere argomentato qui, diciamo che a me piacerebbe che tutto venisse normato da educazione e buon senso, è purtroppo palese come questo non sia possibile, diciamo che temo alcuni interventi a gamba tesa e spero che la rete rimanga in uno stato di libertà diffusa.


Che anno è stato il 2020 per te singolarmente (preso come blogger) e per internet in generale.

Beh, con il lockdown che c'è stato, questo è stato un anno fondamentale che ci ha messo davanti a tutti i nostri limiti, penso alla didattica a distanza di mia figlia e come quella che sembra una risorsa democratica come la rete non si sia affatto dimostrata tale, per tante situazioni di mancanza di connettività, di capacità economica, di mancanza di supporti, la rete dovrebbe essere libera e accessibile a tutti, soprattutto per ragazzi che hanno alle spalle famiglie con difficoltà economiche o sociali, in questo siamo ancora indietro. Per me come blogger non è cambiato troppo dall'anno precedente.


Previsioni e programmi per il futuro.

Programmi tanti, idee anche. Una sola certezza, quella che non ne realizzerò nemmeno uno!

venerdì 16 ottobre 2020

IL PRIMO GIORNO D'INVERNO

(di Mirko Locatelli, 2008)

Il primo giorno d'inverno è uno di quei film che non sono riusciti a ritagliarsi il loro spazio e che di conseguenza sono finiti nel dimenticatoio diventando poco più che invisibili. Pur essendo stato presentato a molti eventi cinematografici tra il 2008 e il 2009, a partire dalla Mostra del Cinema di Venezia, l'esordio nel lungo di finzione di Mirko Locatelli non trova una casa di distribuzione interessata a scommettere sul film, l'arrivo nelle sale è quindi affidato all'interessamento dello stesso regista che prenderà accordi direttamente con gli esercenti, soluzione ammirevole e coraggiosa che però ha portato al film poca visibilità e scarsi frutti. Con questo non si vuole insinuare che la distribuzione italiana sia stata miope e ci abbia privato di un capolavoro, Il primo giorno d'inverno è un film discreto, sia come approccio alla narrazione sia come valore in sé, nulla di più, è un film girato però con cuore e che presenta temi e situazioni sicuramente già viste ma nondimeno importanti, tenendo conto che ci vengono propinate a iosa le peggiori commediacce nostrane ed estere, un piccolo spazio per il film di Locatelli lo si poteva pure trovare, poi valutate le dinamiche commerciali e le potenzialità d'incasso si può anche capire che la filiera distributiva abbia preferito optare per altro.

Siamo nelle campagne lombarde, Valerio (Mattia De Gasperis) arriva da una famiglia povera, padre assente e una madre (Teresa Patrignani) che fa quello che può per mantenere lui e la sorella più piccola Michela (Michela Cova). Valerio si muove in questo paesaggio semideserto a bordo del suo scassatissimo motorino, anche nel freddo, unico mezzo per organizzare le sue giornate: la scuola, l'allenamento in piscina, andare a prendere Michela, le piccole commissioni per la madre. Valerio è in un'età di crescita, difficile, problemi di comunicazione con gli altri, a volte incomprensioni anche a casa, isolato, non lega con nessuno, poca attenzione a scuola perso nei suoi Martin Mystère, una socialità difficile da costruire. Al turbamento generale molto influiscono un'identità sessuale in costruzione, tutta da definire, il rapporto con dei compagni bulli, piaga che troppi ragazzi di quell'età devono affrontare, l'essere ignorato dagli adulti come il maestro di nuoto (Giuseppe Cederna). Quando per Valerio si presenterà l'occasione di avere in mano un'arma (metaforica ma altrettanto pericolosa) per prendersi qualche rivincita sui suoi compagni, il ragazzo non tarderà ad usarla nel modo più sbagliato possibile con conseguenze nefaste e facili da prevedere (almeno per lo spettatore).

Film apprezzabile per i contenuti, Locatelli mette in luce la facilità con la quale a una certa età si può cadere in errore e compiere azioni senza ponderarne le conseguenze, aiutati (per modo di dire) da una società adulta che non pone attenzione alle fasi della crescita, incapace a livello educativo di trasmettere i valori della tolleranza e dell'accettazione ma in maniera più generale dell'amore e del rispetto per le persone che ci stanno attorno. Purtroppo, anche quando non ce ne sarebbe nessun motivo, tutto diventa una piccola guerra privata. Il film lavora anche sulla forma per rendere al meglio questi sentimenti e la gravità di alcuni comportamenti, irrorando tutto di una luce plumbea e dai toni spenti e opachi per dare vita a luoghi e personaggi. Il primo giorno d'inverno non ha nulla di fuori posto, si guarda volentieri, probabilmente ciò che offre non basta per staccarsi da una medietà che spesso affligge produzioni così piccole, magari molto sentite ma a conti fatti poco originali. Un film onesto che comunque vale una visione.

mercoledì 14 ottobre 2020

LIMITE

(Limite di Mario Peixoto, 1931)

Limite di Mario Peixoto è stato per molti anni un oggetto mitico e invisibile per tutto il mondo cinefilo, un La fin absolue du monde meno maledetta ma egualmente inarrivabile. Additato dai pochi che hanno avuto modo di vederlo al tempo della sua prima apparizione (siamo nel 1931) come un vero capolavoro del Cinema, Limite è l'opera prima (e unica) di una sorta di genio della macchina da presa ormai dimenticato, un talento precoce che a soli ventidue anni sigla l'opera che ancora oggi viene considerata la pellicola fondamentale e più importante della storia del Cinema brasiliano nonché passaggio obbligato per una visione più sperimentale e libera della Settima Arte all'epoca del muto. Non è chiaro per quali traversie Limite sopravvisse al suo primo periodo in un'unica copia, ritirata dalla stesso Peixoto che ne impedì per anni la visione a chicchessia, la pellicola andò incontro all'usura e al deterioramento che solo una serie di restauri successivi riuscirono a impedire, uno su tutti quello della World Cinema Foundation di Martin Scorsese. Il film come si presenta oggi, alla luce del rischio corso, appare in ottime condizioni, c'è un unico passaggio lungo il quale la pellicola risulta visibilmente molto rovinata e una didascalia compare a sostituire per pochi secondi alcuni frame irrimediabilmente perduti, quasi un miracolo in relazione alla durata complessiva abbastanza estesa del film. Dopo la realizzazione di quest'opera Peixoto non riuscirà a portare a termine altri lavori, ostacolato forse dalle scelte dell'industria cinematografica dell'epoca e probabilmente dalla sua stessa visione del Cinema, che se pur acclamata da critici e colleghi non incontrò il favore del pubblico poco avvezzo a costruzioni e tecniche così sperimentali. Limite è un film muto dalla durata di due ore lungo le quali le didascalie esplicative si contano sulle dita di una mano (e di dita ne avanzano diverse), la costruzione di una vicenda, in realtà di almeno tre vicende, è lasciata al pubblico che però non può contare su una narrazione lineare né tanto meno esplicativa per raccapezzarsi, Peixoto si affida a immagini evocative, simboliche, nell'uso del montaggio spesso non mostra ma lascia intendere, in un'epoca nella quale il pubblico non era avvezzo a interpretazioni artistiche e voli pindarici, abituato a un Cinema più artigianale e basico, si trova qui di fronte a una serie di immagini, indubbiamente molto belle, dalle quali partire per ricostruire la storia dei tre protagonisti, cosa non semplice da fare nemmeno per lo spettatore odierno, l'azione del ricostruire diventa letterale in quanto il regista si affida moltissimo al flashback e a un montaggio alternato nei tempi del racconto che in qualche modo precorre opere successive reputate rivoluzionarie.

La trama, pur essendo ostica da ricomporre per i motivi sopra citati, in realtà conta di pochi elementi. Su una barca alla deriva ci sono un uomo e due donne (Olga Breno, Tatiana Rey e Raul Schnoor), tutti e tre sembrano sconsolati, sconfitti, apatici; sulla barca non c'è cibo, nessuno si adopera per cercare un approdo, il destino di queste tre persone sembra ormai segnato, il loro animo rassegnato. In flashback scopriamo, interpretiamo, qualcosa su questi personaggi: una delle donne è evasa dal carcere, la seconda ha nel passato una vita misera, un rapporto ormai eroso con un'uomo, l'uomo sulla barca invece ha subito una perdita, nella tragedia sconta le sue colpe. La visione di Peixoto è pessimistica, l'esistenza di queste persone non conosce felicità, vi è chiara la difficoltà di trovare un senso in un'esistenza infelice e aspra che porta i protagonisti verso un buio senza uscita né schiarite, ciò che colpisce è la mancanza di reattività dei protagonisti, l'assenza di volontà di superare o ribaltare i momenti duri che con tutta evidenza sono stati troppi e troppo hanno gravato sulle vite di questo uomo e queste donne. Tralasciando la trama che vive di sensazioni più che di fatti, e fatta salva qualche eccezione, ciò che interessa e rende il film prezioso è il lavoro sulle riprese costruito da Peixoto. C'è una scena, e quindi una soluzione creativa, che in particolare colpisce lo spettatore (fermo restando la contestualizzazione di ciò che stiamo guardando al 1931) ed è il momento in cui una delle donne, sull'orlo di un precipizio, viene presa dalle vertigini: per rendere questo stato confusionale Peixoto inventa un movimento di macchina e di immagini che pare avanguardia anche all'interno di un film di per sé già avanguardista, e ancora... il reiterarsi nel seguire i protagonisti con effetti simili a quelli oggi prodotti dalle camere a mano che all'epoca erano ancora di là da venire, l'uso insistito di riprese strette sui particolari, a volte simbolici, come tutto l'armamentario della sarta, le inquadrature su acqua, sabbia, fronde fruscianti che sussurrano significati che sta allo spettatore cogliere.

A contribuire alla riuscita dell'opera una selezione di brani musicali che sembrano scandire le immagini in maniera perfetta, quasi come se le partiture fossero state composte proprio per queste immagini, si avvicendano musiche di Satie, Debussy, Prokofiev, Stravinski, Franck e Borodin. Limite va ovviamente inquadrato in un contesto storiografico, opera importante per accrescere una conoscenza storica del Cinema, passaggio obbligato per gli appassionati di Cinema muto, per cinefili ma anche solo per spettatori attenti, non si tratta di una visione leggera e spensierata, questo va da sé, non di meno la costruzione dell'opera, soprattutto se la si guarda con un minimo di spirito critico, non manca di suscitare ammirazione e interesse, la bellezza delle immagini compensa ritmi ai quali magari molti spettatori non sono abituati. Un invito a ogni spettatore curioso d'intraprendere nuovi sentieri.

lunedì 12 ottobre 2020

LA RIVINCITA DELLE SFIGATE

(Booksmart di Olivia Wilde, 2019)

Guardi Olivia Wilde e pensi che non ci sia nulla di più lontano di lei dall'immagine della ragazza tutta studio e poco integrata nel gruppo di compagni cool della classe, eppure mettendo in scena proprio due "secchioncelle" all'ultimo anno di high school, la Wilde costruisce due bellissimi personaggi e sigla un esordio folgorante, un film con il quale ci si diverte davvero molto e che non trascura momenti più profondi e commoventi. La rivincita delle sfigate, titolo italiano che sembra un boicottaggio a opera di un traduttore memore de La rivincita dei nerds, presenta una regia vivace, ritmo da vendere e non si pone troppi limiti di situazioni e linguaggio rendendo al meglio, in maniera naturale e poco edulcorata, un momento di passaggio importante per delle adolescenti che si preparano ad affrontare il distacco da compagni e amici per iniziare l'avventura del college.

Amy (Kaitlyn Dever) e Molly (Beanie Feldstein) sono due compagne di classe inseparabili, in cima alle loro priorità lo studio e un futuro radioso nei migliori college d'America. Per raggiungere questo risultato Amy e Molly sacrificano un po' tutto, anche gli anni della loro giovinezza, eppure le due ragazze sono delle belle persone, se solo avessero voluto avrebbero potuto integrarsi al meglio con i loro coetanei e divertirsi decisamente di più, ma pazienza, i sacrifici porteranno frutto e i nodi verranno al pettine nel momento di affrontare il salto verso il college. Ma al momento della verità le due amiche, Molly soprattutto che già si vede proiettata come giudice della Corte Suprema o qualcosa di simile, subiscono un bel contraccolpo: tutti i loro amici, anche i più casinisti, quelli che non mancavano una festa e non lesinavano su nessuna stramba impresa a scuola, sono stati ammessi in college più che prestigiosi. Allora a che pro tutti quei sacrifici? Le due ragazze, con in testa Molly, da sempre la più determinata, decidono di recuperare tutto il divertimento arretrato partecipando alla festa organizzata da Nick, uno dei ragazzi più cool della scuola, nella classica villa con piscina di proprietà della zia, peccato che Amy e Molly siano così fuori dal giro da non conoscere nemmeno l'indirizzo della festa.

Il film della Wilde tocca diversi argomenti affrontandoli tutti con grande equilibrio e naturalezza, il personaggio di Amy racconta una ragazza timida, insicura, legatissima all'amica e che ne subisce un po' anche la forza, da un paio d'anni si è dichiarata lesbica ma continua a fare una fatica immensa a parlare con Ryan, la ragazza che le piace; le inclinazioni sessuali, il focus sul genere ormai onnipresente, sono argomenti trattati come dati di fatto, assodati, e finalmente ci verrebbe da dire, si torna quindi su dinamiche universali e problemi dell'età di passaggio come i sentimenti d'inadeguatezza, di timidezza e anche di pretesa superiorità per qualche verso. Ci sono delle sequenze molto belle di dissenso e scontro tra due amiche che hanno una per l'altra un amore sincero e invincibile, ma in quanto persone uniche sono anche molto diverse tra loro, il percorso di crescita, concentrato in una notte o poco più, porta verso un'accettazione generalizzata che non è rivincita verso nessuno ma è semplice accettazione dell'altro, di tutti gli altri, un messaggio molto bello inserito una commedia dove si ride veramente molto. Anche dal punto di vista delle trovate in fase di sceneggiatura e da quello del ritmo e della vitalità di regia non ci si può proprio lamentare: battute, gag (bellissimo il karaoke con la Morrisette), soluzioni visivamente accattivanti e una storia che troppo spesso abbiamo visto al maschile e qui declinata su due ragazze che, come è naturale che sia, anche loro hanno interesse per il sesso, si scambiano volgarità e sono in grado di inscenare in maniera magnifica, come fanno qui le due attrici protagoniste, ottime dinamiche da buddy movie. Chapeau per la Wilde, ottimo esordio che sembra debba essere a breve bissato, speriamo con eguale successo.

sabato 10 ottobre 2020

BENVENUTI A MARWEN

(Welcome to Marwen di Robert Zemeckis, 2018)

Nel corso della sua carriera più e più volte Zemeckis ha giocato con il contrasto tra il live action e forme altre di rappresentazione, a partire già dal clamoroso successo del riuscitissimo Chi ha incastrato Roger Rabbit nel lontano 1988. Alcuni esperimenti possono dirsi riusciti come quello in performance capture per Polar Express, altri si attestano su livelli nel complesso meno convincenti, La leggenda di Beowulf ad esempio, si ammira comunque la volontà del regista di continuare a sperimentare con le forme; per Benvenuti a Marwen Zemeckis si affida a un misto di live action e stop motion, il cambio di registro tra una tecnica e l'altra porterà lo spettatore a contatto rispettivamente con la vita reale del protagonista e con le sue proiezioni fantastiche che cesellano una vita alternativa, illusoria e in qualche modo catartica. La vicenda è ispirata alla storia vera di Mark Hogancamp già raccontata in forma di documentario nel 2010 da Jeff Malmberg.

Il film si apre su un conflitto aereo durante la Seconda Guerra Mondiale, il Capitano Hogie precipita nei pressi del villaggio belga di Marwen, si imbatterà ben presto in un manipolo di nazisti più che pronti a farlo fuori, solo il provvidenziale intervento di alcune donne tanto belle quanto letali salverà Hogie da una morte certa e terribile. Questa prima sequenza, girata in stop motion e "fatta recitare" a un bel gruppo di bambole ottimamente realizzate, introduce lo spettatore nel mondo fittizio di Marwen, in realtà una bella riproduzione di un villaggio belga realizzata nel suo giardino di casa dal fotografo Mark Hogencamp di cui Hogie è una sorta di alter ego. Mark (Steve Carell) è un uomo che convive con diversi danni psicologici, lascito di un violentissimo pestaggio d'odio avvenuto all'uscita di un bar dopo che Mark, ubriaco, aveva confessato alle persone sbagliate di avere una certa passione per le scarpe da donna. L'uomo perde in seguito al trauma la memoria e tutta una serie di capacità acquisite tra le quali quella artistica del disegno, Mark da ottimo illustratore passa a essere un uomo quasi incapace di tenere una matita in mano. La sua nuova situazione lo porta ad avere problemi di socialità, crisi repentine, fobie legate all'aggressione e una dipendenza forte da antidolorifici; fortunatamente Mark è circondato da molte persone del suo paese che gli vogliono sinceramente bene, le donne soprattutto, che diventano protagoniste delle storie di Marwen, tutte ambientate durante la guerra contro i nazisti e dove Mark/Hoghie è l'eroe di turno adorato da tutte queste donne belle e forti. Ma nel mondo reale c'è un processo agli aggressori da affrontare, una cosa che terrorizza Mark in maniera quasi insostenibile, saranno l'aiuto di tutte queste amiche e una sorta di forza interiore ancora in lui presente a condurre Mark verso un percorso progressivo per migliorare la sua condizione.

Benvenuti a Marwen ha raccolto critiche per lo più negative ed è stato un flop al botteghino, in realtà il film ha diversi meriti e il giudizio generale sull'opera mi sembra quantomeno ingeneroso. Forse Steve Carell non è il miglior attore sulla piazza, sicuramente non il più accattivante, qui riesce però a cogliere un personaggio indifeso, irrimediabilmente ferito e spaventato, tanto da non riuscire più a condurre un'esistenza "normale". La messa in scena delle conseguenze del trauma subito dal protagonista, che rende il film molto triste e toccante, si amalgama molto bene alle sequenze in stop-motion che descrivono questa realtà ricreata che è anche una sorta di terapia per Mark, uno scopo, e forse anche una rassicurazione psicologica e fisica (Mark va sempre in giro per Kingston, la sua città, con al seguito il suo carretto di bambole), un po' come accade ai bambini che riescono a dormire solo con la loro bambola preferita. Tecnicamente il film è molto ben realizzato, le bambole nelle loro avventure non disdegnano scoppi di violenza e truce cattiveria nei confronti di quei nazi che hanno le sembianze degli aggressori di Mark, il dolore è vivo e si tocca con mano, in qualche modo Zemeckis dosa il dramma con l'avventura senza mai perdere di vista il cuore del suo protagonista e del film. A Zemeckis è stata rimproverata l'invenzione della storia romantica con la bella Nicol (Leslie Mann), che poi vera storia romantica non è, ma anche questa non distoglie mai il fuoco da quello che è il nodo centrale del film, la condizione di un uomo ferito a causa di una società ancora troppo ignorante e violenta per aprirsi alla piena accettazione del prossimo.

In diversi momenti si ride, spesso si soffre per Mark, si apprezzano tutti i paralleli tra il mondo reale e le bambole, tra le donne in carne e ossa e le loro riproduzioni a passo uno, ci si trova a sperare che Mark possa riacquistare un suo equilibrio e che la presenza della terribile Deja Thoris (Diane Kruger) a Marwen possa diventare uno spiacevole ricordo. In fondo mi sembra che nella stessa filmografia di Zemeckis ci siano opere meno interessanti di questa.

giovedì 8 ottobre 2020

JERSEY BOYS

 (di Clint Eastwood, 2016)

La passione di Clint Eastwood per la musica americana è cosa risaputa, questa è presente in molti suoi film a partire dall'esordio dietro la macchina da presa con Brivido nella notte dove il protagonista, lo stesso Eastwood, era un disc jockey di una piccola emittente radiofonica; seguono Honkytonk man, bellissima parabola country, e ancora il jazz con la storia di Charlie Parker in Bird, il blues con il documentario Piano Blues... in qualche modo Eastwood va a toccare tutti i generi fondativi che ancora oggi sono alla base di quanto produce l'industria musicale americana (e non solo). Con Jersey Boys il regista conferma il suo amore per le sette note con una sortita nel mondo dei gruppi vocali e del doo-wop, genere indubbiamente meno iconico di quelli sopra citati ma che insieme al rock and roll caratterizza in maniera forte il decennio dei 50, un genere la cui esplorazione non ci saremmo aspettati da Eastwood, forse anche per questo guardando il film il tocco del regista, la sua personalità, sembra non emergere mai fino in fondo. La base di partenza è un'altra opera, ma questo per Eastwood non è una novità, nella fattispecie la fonte d'ispirazione è lo spettacolo teatrale omonimo portato in scena a Broadway dal quale Eastwood attinge anche per gli attori principali. La storia è quella dei The Four Seasons, quattro ragazzi provenienti dal New Jersey che si troveranno catapultati nel giro che conta per l'industria discografica...

Frankie Castelluccio (John Lloyd Young), in seguito con il nome d'arte Frankie Valli, e Tommy De Vito (Vincent Piazza) sono grandi amici, crescono nel Jersey tra piccoli crimini e l'amicizia del boss Angelo "Gyp" De Carlo (Christopher Walken), insieme cominciano ad occuparsi di musica, proprio Frankie, introdotto da Tommy che nel giro ha qualche aggancio, sembra avere un futuro roseo grazie alle sue doti canore di cui Gyp diventa un grande fan, doti affinate col tempo anche con l'aiuto e il sostegno del bassista Nick Massi (Michael Lomenda). I tre giovani intraprendono un percorso musicale che inizierà ad ingranare solo quando al gruppo si unirà il tastierista e compositore Bob Gaudio (Erich Bergen), decisamente più posato e raffinato degli altri tre compagni. Nonostante qualche attrito iniziale tra Tommy, il più testa calda dei quattro, e gli altri per la gestione del gruppo, finalmente la band decolla e con il nome di The Four Seasons è pronta per conquistare discografici, radio e soprattutto pubblico. Purtroppo l'indole di Tommy porterà la band a dover affrontare non pochi problemi che per Frankie si uniranno a quelli familiari e ai contrasti con la moglie Mary (Renée Marino), esacerbati dalle continue assenze del marito e dalle preoccupazioni per la figlia Francine (Freya Tingley).

Biopic musicale abbastanza canonico nella costruzione, in fondo ci si diverte con Jersey Boys, l'impianto del racconto risulta vivace con l'alternarsi di narrazione, esibizioni musicali e rottura della quarta parete, come accadeva nello spettacolo teatrale i quattro protagonisti spesso guardano in camera e raccontano direttamente al pubblico avvenimenti e pensieri (molto divertente l'aneddoto di Massi sul perché di alcune sue decisioni riguardanti la sua presenza nel gruppo), movimentando l'andamento del film. La cornice è perfetta, ultrapatinata, costumi inappuntabili, anche troppo, esibizioni musicali riuscite, eppure... eppure manca qualcosa, sembra quasi che Eastwood non sia proprio Eastwood, manca un po' di cuore nel racconto, manca qualcosa a grattare sotto la superficie, tutto scorre, la regia, pur pregevole, si vede poco (per carità, questo non sempre è un male), uno dei guizzi più piacevoli arriva quando Clint omaggia sé stesso e il sorriso scappa fuori da solo, tanto mestiere, ma qualcosa scivola inevitabilmente via tra le dita. La scelta del cast, opinione personale, non fa impazzire, tra i protagonisti quello che più ho apprezzato, a parte il sempre grande Christopher Walken, indiscutibile, è Michael Lomenda che nell'economia del gruppo sembra contare come il due a briscola, nessuno degli altri tre attori, vero cuore del film, risulta realmente convincente.

Un buon film con un buon equilibrio, godibile, divertente, tutto quello che volete... ciò nonostante, sottolineando che personalmente amo Clint, amo Clint e amo Clint, mi sono trovato più volte a desiderare Martin Scorsese...

lunedì 5 ottobre 2020

SESSO, BUGIE E VIDEOTAPE

 (Sex, lies, and videotape di Steven Soderbergh, 1989)

Steven Soderbergh sigla il suo esordio a ventisei anni e con una piccola produzione si porta subito a casa la Palma d'oro del Festival di Cannes. Siamo nel 1989, quella di Soderbergh è una piccola e intima commedia drammatica, siamo ancora lontani dalle sperimentazioni che il regista metterà in atto più avanti sulle immagini, nei formati o sul montaggio, lo sguardo di Soderbergh qui non ricorre a espedienti se non per qualche appoggio visivo identificabile nei videotape del titolo. Regia centrata sui personaggi, solo quattro a far girare tutta la vicenda e un paio di spalle di scarsa rilevanza, il film poggia sulla sceneggiatura e sui dialoghi, nonché sulle situazioni potenzialmente scabrose, ma questa è più un'idea fuorviante che ci si può fare interpretando il titolo, in realtà il film non contiene scene forti nonostante sia centrale l'argomento sesso all'interno della narrazione. 

Siamo a Baton Rouge, Louisiana. Ann Bishop Mullany (Andi MacDowell) sta seguendo un percorso psicoterapico, ha delle fissazioni poco sensate per problematiche universali sulle quali non ha modo di intervenire, pensieri che le impediscono di dormire bene la notte. In realtà la giovane donna vive un matrimonio infelice, suo marito John (Peter Gallagher) è un avvocato sulla cresta dell'onda e tra i due non c'è più contatto fisico, niente sesso, Ann ormai se ne disinteressa completamente; John invece sfoga all'insaputa della moglie tutti i suoi appetiti sessuali con la disinibita Cynthia (Laura San Giacomo), sorella di Ann. A destabilizzare involontariamente la già rischiosa situazione arriva Graham Dalton (James Spader), vecchio amico di John e da poco ritornato in città, il giovane, poco più di un dolce vagabondo, cattura l'attenzione di Ann. Man mano che tra i due cresce la confidenza Graham confessa a Ann di essere impotente, quest'ultima a casa del ragazzo troverà una serie di videocassette siglate con nomi di donna, sono tutte interviste che Graham ha registrato con donne diverse conversando sulla loro sessualità, queste interviste sono l'unico modo che ha Graham di eccitarsi, incapace di farlo in presenza di una vera donna. Ann rimane sconvolta da questa rivelazione, ma le cose si complicheranno ulteriormente.

Film che si è creato negli anni un'aura di culto che trascende anche il reale merito dell'opera, comunque valida, e che trionfa a Cannes in un'annata dove in concorso erano presenti altri film parimenti meritevoli, uno su tutti l'ottimo Fa' la cosa giusta di Spike Lee. Soderbergh, che in questo caso ha forse più meriti come sceneggiatore, costruisce un film sui dialoghi e sui personaggi di Ann e Graham, soprattutto su quest'ultimo che James Spader riesce a rendere in maniera naturale come un ragazzo tormentato sì, ma in modo compassato e tranquillo. Non c'è morbosità nelle storie legate al sesso da parte dei quattro protagonisti, Ann è frigida e quindi neanche a parlarne, Graham in fondo si eccita con qualche intervista, John ama il sesso, l'unica sua colpa è di farlo con la cognata invece che con la moglie, Cynthia è solo una donna disinibita che ha qualche attrito con la sorella e in maniera anche inconscia si vendica portandosi a letto suo marito. Ciò che rende il tutto interessante è proprio il personaggio di Graham che irrompe in una routine ipocrita ma stabile come catalizzatore del cambiamento, questo protagonista, unito a una visione del sesso inappagante o impropria (anche John e Cynthia fissano i loro incontri come fossero sedute dal parrucchiere), è l'elemento di vero interesse che non smetterà di donare verve al film fino all'ultima sequenza.

Ottimo esordio che è riuscito a cucirsi addosso più della fama che realmente meritava, vincitore di un premio anche al Sundance Film Festival, gli spettatori che masticano parecchio Cinema conoscono le caratteristiche dei film che vengono definiti "da Sundance", diciamo che Sesso, bugie e videotape rientra a pieno titolo nella categoria, per chi ancora non l'avesse visto resta comunque una lacuna da colmare, il film resiste al passare del tempo e la visione risulta piacevole ancora oggi.

sabato 3 ottobre 2020

CHANT D'HIVER

(di Otar Ioseliani, 2010)

Mi dispiace un poco trovarmi a parlare di questo Chant d'hiver senza conoscere molto del precedente percorso del regista georgiano, il film induce a impressioni contrastanti e forse si potrebbe inquadrarlo meglio nel contesto del lungo viaggio iniziato da Ioseliani nel lontano 1958 e di cui Chant d'hiver è solamente l'ultimo capitolo. Questo non è un film per chi ama le storie dalla costruzione classica e forse non è nemmeno il film per chi ama le storie con una costruzione. Quella di Ioseliani è un'opera completamente anarchica, senza regole e senza registri, impossibile da incasellare e da ridurre a poche battute su un foglio bianco. Questa premessa, per chi è di vedute aperte, potrebbe essere letta come qualcosa di fantastico, un'occasione per esplorare forme poco battute dagli stessi cineasti, e per qualcuno in effetti la visione di Chant d'hiver sarà di sicuro un'esperienza appagante. Il materiale girato da Ioseliani è però da maneggiare con cura, il film è un'incursione nel grottesco senza regole e con pochi fili conduttori che alla luce delle due ore di durata può facilmente rivelarsi duro da reggere per più d'uno spettatore. Si apre con due brevi prologhi, uno ambientato durante la rivoluzione francese, uno probabilmente (ma non c'è certezza) in un conflitto nei Balcani, si passa poi alla Parigi dei giorni nostri. Quale sia il collegamento tra questi segmenti non è dato sapersi, è lo spettatore a dover ricollegare i punti e trovare un senso, un fil rouge che attraversa il film. A fare da collante ci sono gli attori che tornano in diversi momenti con diversi ruoli, uno su tutti Rufus che nel primo segmento interpreta un condannato alla ghigliottina che si avvicina alla morte fumando in tutta tranquillità la sua pipa, nei Balcani è un prete tatuatissimo che battezza i suoi soldati scagliandoli in acqua di fiume con una certa foga, nella Parigi moderna è un appassionato di libri antichi che scambia volumi per lui interessanti con pezzi d'artiglieria illegali. Ah, non dimentichiamo, è anche l'uomo che finisce sotto uno schiacciasassi uscendone stirato in due dimensioni come un personaggio dei cartoni animati di Wile E. Coyote. In esame anche alcune brutture del mondo, la barbarie della guerra, i dimenticati dalla società, la povertà, tutto visto da un punto di vista surreale, nel segmento bellico la recitazione è impostata, volutamente artificiosa, il tutto a dare un tono finzionale e ridicolo alle scene, assistiamo ad esempio ai saccheggi in un villaggio preso d'assalto, ma i soldati portano via le cose più improbabili: gabinetti, cavalli a dondolo, tendaggi, pendole. L'autorità è un poco messa alla berlina, soprattutto con i flics intenti nelle retate ai danni dei senzatetto, ma anche nella figura del prefetto (Mathias Jung), mentre tutto attorno a loro bande di innocui e gaudenti ladruncoli imperversano, un borseggiatore innamorato manifesta la sua inadeguatezza nel mostrare i suoi sentimenti alla violinista figlia del prefetto (Fiona Monbet), accetterà i consigli di due anziani eccentrici (Rufus e Amiran Amiranasvili). Tutta una serie di altri personaggi si contendono la scena uno con l'altro creando un miscuglio di gag che spesso fanno sorridere risultando riuscite e fresche, alla stessa maniera è facile in altri momenti perdere la bussola, si fatica a tenere desta l'attenzione nei passaggi meno accattivanti. Da segnalare la presenza nei panni del barone decaduto del nostro enrico ghezzi che in vesti d'attore fa anche la sua bella figura.

Frase banale ma che in questo caso si porta dietro una carica di veridicità: Chant d'hiver non è un film per tutti, io stesso se dovessi esprimere un giudizio dovrei limitarmi a dire di aver apprezzato il film solo in parte, o ancor meglio "a tratti", proprio per la sua natura frammentaria e non del tutto coesa. A suo merito il film di Ioseliani è sicuramente, al contrario della frase adoperata poc'anzi, tutt'altro che banale e percorre strade poco battute che per diversi spettatori potrebbero rivelarsi interessanti da esplorare. Ora sta a voi la scelta, addentrasi o meno in questo "canto d'inverno" che potrebbe rivelare piacevoli sorprese ma anche qualche insidia da superare.

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