Sempre il solito...
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lunedì 31 luglio 2017
mercoledì 19 luglio 2017
BRADI PIT 144
È tornato per restare... ma dove cazzo è...???
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lunedì 17 luglio 2017
PETS - VITA DA ANIMALI
(The secret life of pets di Chris Renaud e Yarrow Cheney, 2016)
Il battage pubblicitario legato al lancio di Pets - Vita da animali nelle sale cinematografiche e i relativi trailer di promozione al film, avevano lasciato intendere di trovarsi di fronte a un prodotto un poco diverso da quello che alla fine questo Pets si è rivelato essere. In aggiunta, le critiche di conoscenti e amici che erano riusciti a vedere il film al cinema avevano smorzato ogni mio entusiasmo. Quello che mi aspettavo era un film basato sulle gag, molte delle quali bruciate in anticipo proprio dai trailer; Pets invece si è rivelato un film d'animazione che propone i suoi temi e una sua storia, magari derivativa (chi ha detto Toy Story?), poco originale, sicuramente per nulla innovativa, ma che a conti fatti assolve al suo compito di intrattenere per un'oretta e mezza grandi e piccini senza annoiarli particolarmente (e questo è già qualcosa). Alla fine a noi non è nemmeno dispiaciuto.
L'idea di base è quella di mostrare al pubblico cosa fanno i più disparati animali domestici quando vengono lasciati soli a casa dai loro padroni impegnati in interminabili giornate lavorative, un po' quello che appunto accadeva ai giocattoli di Toy Story quando i bimbi andavano a scuola o all'asilo. Oltre a mettere in scena le situazioni più assurde ed esilaranti (quelle che tutti hanno visto nei trailer) tutti questi animali creano una piccola comunità che nel corso del film si rivelerà tanto affezionata ai rispettivi padroni quanto unita in un'amicizia interspecie che potrebbe insegnare qualcosa a qualcuno.
Max (cane) vive a New York con la sua padrona Katie (donna umana) che un bel dì porta a casa un nuovo inquilino, l'enorme e peloso Duke (cane). I due si guardano di traverso, in cagnesco verrebbe da dire ma sarebbe troppo facile, questa situazione, evento dopo evento farà sì che i due si smarriscano e non riescano più a tornare a casa. In una ridda di incontri con gli animali più strambi nei luoghi più impensabili, inizia un'avventura per tornare a casa per i due cani che non potranno fare a meno di fraternizzare tra loro, e una ricerca degli stessi da parte di un ben assortito gruppo di amici: Gidget (cagna) innamorata di Max, Chloe (gatta), Mel (cane), Buddy (cane), Tiberius (falco), Nonnotto (cane), Pisellino (uccello) e Leonardo (cane). C'è anche un criceto che non ricordo come si chiama.
La prima parte del film è dedicata alle scene divertenti e alla presentazione dei protagonisti, con un'attenzione particolare al momento del distacco, quando gli amici animali vengono lasciati soli a casa. Poi c'è lo sviluppo della trama che scorre risaputo (con qualche vetta nella scena psichedelica delle salsicce) ma che intrattiene e diverte il giusto, allietato da incontri con quelli che sembrerebbero avversari come il tenero (?) Ne(r)vosetto (coniglietto) alla guida di un nutrito manipolo di animali rivoluzionari (contro l'addomesticamento) tra i quali spicca il duro Tatuaggio (maiale). Nel finale si gioca con i vezzi e con le strane abitudini che i padroni hanno verso i loro amati compagni di vita. A far da cornice al tutto una splendida e colorata versione di New York.
Accattivante anche graficamente, con un design dei personaggi semplice ma ben realizzato, Pets è il classico prodotto per famiglie, carino, con le sue brave scene d'azione, con passaggi divertenti e alcuni più commoventi (ma nemmeno troppo). Prodotti come questo rischiano di perdersi nel mare della produzione d'animazione ormai davvero ampia e che offre episodi decisamente più riusciti e sorprendenti di questo, allora diventa importante giocarsi bene la carta della promozione e i tipi della Illumination in questo sono stati davvero bravi.
Il battage pubblicitario legato al lancio di Pets - Vita da animali nelle sale cinematografiche e i relativi trailer di promozione al film, avevano lasciato intendere di trovarsi di fronte a un prodotto un poco diverso da quello che alla fine questo Pets si è rivelato essere. In aggiunta, le critiche di conoscenti e amici che erano riusciti a vedere il film al cinema avevano smorzato ogni mio entusiasmo. Quello che mi aspettavo era un film basato sulle gag, molte delle quali bruciate in anticipo proprio dai trailer; Pets invece si è rivelato un film d'animazione che propone i suoi temi e una sua storia, magari derivativa (chi ha detto Toy Story?), poco originale, sicuramente per nulla innovativa, ma che a conti fatti assolve al suo compito di intrattenere per un'oretta e mezza grandi e piccini senza annoiarli particolarmente (e questo è già qualcosa). Alla fine a noi non è nemmeno dispiaciuto.
L'idea di base è quella di mostrare al pubblico cosa fanno i più disparati animali domestici quando vengono lasciati soli a casa dai loro padroni impegnati in interminabili giornate lavorative, un po' quello che appunto accadeva ai giocattoli di Toy Story quando i bimbi andavano a scuola o all'asilo. Oltre a mettere in scena le situazioni più assurde ed esilaranti (quelle che tutti hanno visto nei trailer) tutti questi animali creano una piccola comunità che nel corso del film si rivelerà tanto affezionata ai rispettivi padroni quanto unita in un'amicizia interspecie che potrebbe insegnare qualcosa a qualcuno.
Max (cane) vive a New York con la sua padrona Katie (donna umana) che un bel dì porta a casa un nuovo inquilino, l'enorme e peloso Duke (cane). I due si guardano di traverso, in cagnesco verrebbe da dire ma sarebbe troppo facile, questa situazione, evento dopo evento farà sì che i due si smarriscano e non riescano più a tornare a casa. In una ridda di incontri con gli animali più strambi nei luoghi più impensabili, inizia un'avventura per tornare a casa per i due cani che non potranno fare a meno di fraternizzare tra loro, e una ricerca degli stessi da parte di un ben assortito gruppo di amici: Gidget (cagna) innamorata di Max, Chloe (gatta), Mel (cane), Buddy (cane), Tiberius (falco), Nonnotto (cane), Pisellino (uccello) e Leonardo (cane). C'è anche un criceto che non ricordo come si chiama.
La prima parte del film è dedicata alle scene divertenti e alla presentazione dei protagonisti, con un'attenzione particolare al momento del distacco, quando gli amici animali vengono lasciati soli a casa. Poi c'è lo sviluppo della trama che scorre risaputo (con qualche vetta nella scena psichedelica delle salsicce) ma che intrattiene e diverte il giusto, allietato da incontri con quelli che sembrerebbero avversari come il tenero (?) Ne(r)vosetto (coniglietto) alla guida di un nutrito manipolo di animali rivoluzionari (contro l'addomesticamento) tra i quali spicca il duro Tatuaggio (maiale). Nel finale si gioca con i vezzi e con le strane abitudini che i padroni hanno verso i loro amati compagni di vita. A far da cornice al tutto una splendida e colorata versione di New York.
Accattivante anche graficamente, con un design dei personaggi semplice ma ben realizzato, Pets è il classico prodotto per famiglie, carino, con le sue brave scene d'azione, con passaggi divertenti e alcuni più commoventi (ma nemmeno troppo). Prodotti come questo rischiano di perdersi nel mare della produzione d'animazione ormai davvero ampia e che offre episodi decisamente più riusciti e sorprendenti di questo, allora diventa importante giocarsi bene la carta della promozione e i tipi della Illumination in questo sono stati davvero bravi.
sabato 15 luglio 2017
GIOCHI STELLARI
(The last starfighter di Nick Castle, 1984)
Giochi stellari è per me uno di quei film ascrivibili al filone nostalgia, uno di quei prodotti pensati, scritti e realizzati principalmente per bambini e adolescenti degli anni 80 (con qualche capatina nei 90) che tanto hanno segnato il nostro immaginario fantastico di quel periodo. Tra i vari film di questo genere sfornati in quegli anni, indubbiamente restano vivi i grandi titoli come I Goonies, Ghostbusters o Ritorno al futuro, ma ci sono anche quelle che potremmo definire le seconde linee, film che non sono riusciti a rimanere grandi nel tempo come quelli sopra citati ma che ancora vengono ricordati con affetto da chi era un pischello all'epoca della loro uscita in sala.
Se i capostipiti, film come E.T. ad esempio, mantengono immutata nel tempo la loro potenza emotiva, per altre pellicole il passare degli anni è stato impietoso e una visione odierna di talune di queste risulta oggi sicuramente ridimensionata negli entusiasmi se non proprio difficoltosa o noiosa, e penso a film come Piramide di paura o proprio a questo Giochi stellari che nei miei ricordi di bambino occupavano posti di tutto rispetto.
Giochi stellari, che nel titolo italiano cita un po' WarGames - Giochi di guerra e un po' il ben più celebre Guerre Stellari, vanta alla sua base una bella idea e un potenziale sviluppo che avrebbe potuto essere sfruttato decisamente meglio. Invece la trama si svolge in maniera fin troppo semplice e lineare e il film a oggi paga l'invecchiamento esagerato di effetti speciali allora all'avanguardia. Siamo infatti agli albori dell'epoca digitale, probabilmente nel 1984 le battaglie spaziali di Giochi Stellari, realizzate qui per la prima volta completamente in digitale, ci saranno sembrate delle meraviglie insuperabili, quella semplicissima grafica computerizzata aveva probabilmente l'odore di prodigio. Molto più delle ingenue manifatture in cartapesta di altri film, questi effetti appaiono oggi inguardabili e irricevibili. Giochi stellari, oltre a non essere obiettivamente un gran film, è semplicemente invecchiato male. Rimane il merito di aver proposto soluzioni all'epoca innovative e mai viste prima, se non nel Tron del 1982.
Alex Rogan (Lance Guest) è un giovane che vive insieme alla madre (Barbara Bosson) e al piccolo fratellino (Chris Hebert) in un campo di roulotte, sogna di trasferirsi in una grande città insieme alla sua amata Maggie (Catherine Mary Stewart) e cambiare vita. Le sue giornate passano prevalentemente tra una riparazione e l'altra e tra decine e decine di partite al coin up Starfighter, il cui scopo è quello di distruggere una flotta di astronavi aliene nemiche. Il videogioco è però all'insaputa di tutti un tester per reclutare nuovi Starfighters che possano aiutare la Lega Stellare a sconfiggere il malvagio despota Xur (Norman Snow). Non appena Alex batterà il record del gioco verrà contattato dall'alieno Centauri (Robert Preston) che lo condurrà verso la sua nuova vita tra le stelle.
Buona tutta la preparazione all'arrivo del fantastico con la presentazione della comunità in cui vive Alex, la famiglia, le aspirazioni del giovane e l'attrazione per la bella ragazza americana Maggie, alcune sequenze sono invece forzatissime, come quella dell'intera comunità in tripudio nel momento in cui Alex batte il record del videogioco (ma chi se ne fotte...). Poi arriva la parte fantascientifica con l'ingresso nella storia di Centauri, interpretato da Robert Preston, unico attore degno di menzione dell'intero film, a bordo di una sorta di sfigatissima DeLorean spaziale in anticipo sui tempi. Carini alcuni costumi, ridicola la resa di quello che dovrebbe essere un malvagio impero alieno d'invasione che invece sembra la rappresentazione macchiettistica di una comitiva di decerebrati in gita premio. La trama è risibile nel suo sviluppo, qualitativamente un'occasione un po' sprecata che però all'epoca si rivelò un ottimo successo commerciale. A me piacque parecchio, oggi decisamente meno, in ogni caso rimarrà nel novero dei film da ricordare comunque con immutato affetto.
Giochi stellari è per me uno di quei film ascrivibili al filone nostalgia, uno di quei prodotti pensati, scritti e realizzati principalmente per bambini e adolescenti degli anni 80 (con qualche capatina nei 90) che tanto hanno segnato il nostro immaginario fantastico di quel periodo. Tra i vari film di questo genere sfornati in quegli anni, indubbiamente restano vivi i grandi titoli come I Goonies, Ghostbusters o Ritorno al futuro, ma ci sono anche quelle che potremmo definire le seconde linee, film che non sono riusciti a rimanere grandi nel tempo come quelli sopra citati ma che ancora vengono ricordati con affetto da chi era un pischello all'epoca della loro uscita in sala.
Se i capostipiti, film come E.T. ad esempio, mantengono immutata nel tempo la loro potenza emotiva, per altre pellicole il passare degli anni è stato impietoso e una visione odierna di talune di queste risulta oggi sicuramente ridimensionata negli entusiasmi se non proprio difficoltosa o noiosa, e penso a film come Piramide di paura o proprio a questo Giochi stellari che nei miei ricordi di bambino occupavano posti di tutto rispetto.
Giochi stellari, che nel titolo italiano cita un po' WarGames - Giochi di guerra e un po' il ben più celebre Guerre Stellari, vanta alla sua base una bella idea e un potenziale sviluppo che avrebbe potuto essere sfruttato decisamente meglio. Invece la trama si svolge in maniera fin troppo semplice e lineare e il film a oggi paga l'invecchiamento esagerato di effetti speciali allora all'avanguardia. Siamo infatti agli albori dell'epoca digitale, probabilmente nel 1984 le battaglie spaziali di Giochi Stellari, realizzate qui per la prima volta completamente in digitale, ci saranno sembrate delle meraviglie insuperabili, quella semplicissima grafica computerizzata aveva probabilmente l'odore di prodigio. Molto più delle ingenue manifatture in cartapesta di altri film, questi effetti appaiono oggi inguardabili e irricevibili. Giochi stellari, oltre a non essere obiettivamente un gran film, è semplicemente invecchiato male. Rimane il merito di aver proposto soluzioni all'epoca innovative e mai viste prima, se non nel Tron del 1982.
Alex Rogan (Lance Guest) è un giovane che vive insieme alla madre (Barbara Bosson) e al piccolo fratellino (Chris Hebert) in un campo di roulotte, sogna di trasferirsi in una grande città insieme alla sua amata Maggie (Catherine Mary Stewart) e cambiare vita. Le sue giornate passano prevalentemente tra una riparazione e l'altra e tra decine e decine di partite al coin up Starfighter, il cui scopo è quello di distruggere una flotta di astronavi aliene nemiche. Il videogioco è però all'insaputa di tutti un tester per reclutare nuovi Starfighters che possano aiutare la Lega Stellare a sconfiggere il malvagio despota Xur (Norman Snow). Non appena Alex batterà il record del gioco verrà contattato dall'alieno Centauri (Robert Preston) che lo condurrà verso la sua nuova vita tra le stelle.
Buona tutta la preparazione all'arrivo del fantastico con la presentazione della comunità in cui vive Alex, la famiglia, le aspirazioni del giovane e l'attrazione per la bella ragazza americana Maggie, alcune sequenze sono invece forzatissime, come quella dell'intera comunità in tripudio nel momento in cui Alex batte il record del videogioco (ma chi se ne fotte...). Poi arriva la parte fantascientifica con l'ingresso nella storia di Centauri, interpretato da Robert Preston, unico attore degno di menzione dell'intero film, a bordo di una sorta di sfigatissima DeLorean spaziale in anticipo sui tempi. Carini alcuni costumi, ridicola la resa di quello che dovrebbe essere un malvagio impero alieno d'invasione che invece sembra la rappresentazione macchiettistica di una comitiva di decerebrati in gita premio. La trama è risibile nel suo sviluppo, qualitativamente un'occasione un po' sprecata che però all'epoca si rivelò un ottimo successo commerciale. A me piacque parecchio, oggi decisamente meno, in ogni caso rimarrà nel novero dei film da ricordare comunque con immutato affetto.
martedì 11 luglio 2017
STARK
(di Edward Bunker, 2006)
Stark è uno dei due romanzi di Edward Bunker pubblicati postumi, esce nel 2006, anno successivo alla morte dello scrittore, e ancora una volta ci troviamo di fronte a un romanzo criminale. In realtà Stark è più una novella criminale a dirla tutta, un libro breve che ha un sapore lievemente diverso da quello di alcuni dei suoi illustri predecessori. Leggendo infatti opere come Litte Boy Blue, Come una bestia feroce o Animal Factory, si aveva la chiara impressione di venir calati dentro narrazioni ad alto tasso di realtà, cosa che effettivamente avveniva in quanto la vita difficile e sregolata dello scrittore era molto spesso alla base delle vicende narrate nei suddetti romanzi. Nell'incedere della narrazione non si percepiva quasi mai la presenza di un'afflato finzionale, la mano dell'autore sembrava condurci in luoghi duri, da noi molto lontani ma comunque palpabilmente molto, molto reali, caratteristica questa difficilmente riscontrabile in opere di scrittori anche molto gettonati e dediti a generi affini a quelli trattati da Edward Bunker.
Stark sembra avere un taglio un poco diverso, come sottolinea anche la moglie di Bunker, Jennifer Steele, nella postfazione al libro, Stark è uno dei primi scritti dello scrittore, rimasto in un cassetto fino alla sua morte, tornato alla luce grazie all'interessamento dell'agente letterario Nat Sobel. Lo stile di Bunker probabilmente ancora non era definito, lo scritto era poco autobiografico, il tipo di personaggio narrato (un truffatore) non troppo amato dal suo stesso creatore, fatto sta che questa volta ci si trova di fronte a un libro che si percepisce essere puramente finzionale, diverso dalle altre opere dello scrittore. Non che in questo ci sia qualcosa di male, anzi, Stark è un bel libro, scritto benissimo e che si legge tutto d'un fiato, coinvolgente e divertente. Non il solito Bunker, davvero buono ma certamente non il migliore. Comunque ad avercene.
Ernie Stark non era la persona più perbene sulla Terra. Chiedetelo agli amici. Sempre che li avesse. Era un imbroglione di mezza tacca che sognava costantemente di fare il colpo grosso. Quello che lo avrebbe fatto vivere da gran signore. Ma il più delle volte restava fregato. Se non dal pollo di turno, dalla polizia.
Nelle prime quattro righe del romanzo c'è la perfetta descrizione del suo protagonista, un truffatore tossicodipendente in libertà, tenuto stretto al guinzaglio dal detective Crowley, intenzionato a usarlo come informatore per arrivare ai fornitori di un giro grosso di droga che ha come piccolo distributore l'hawaiano Momo Mendoza. Mentre Crowley non si fà scrupolo nel mettere in pericolo l'integrità di Stark nell'ambiente della mala, quest'ultimo deve destreggiarsi per guadagnarsi la fiducia di Momo e non destare troppi sospetti nel suo diffidente guardaspalle muto, il minaccioso e ben piazzato Dummy, con il quale Stark condivise in passato l'ospitalità nelle patrie galere. È dura tenere in contemporanea a bada la scimmia della tossicodipendenza, il desiderio per Dorie, la ragazza di Momo, i sospetti di Dummy e le pretese di Crowley, cercando allo stesso tempo di entrare nel giro grosso, un po' per allentare la presa della polizia, un po' nella speranza di riuscire davvero a svoltare una volta per tutte fregando magari quanta più gente possibile. Tra un inganno e l'altro Stark ci proverà, lasciandosi alle spalle una cospicua scia di guai e cadaveri.
Libro molto cinematografico, una storia che sarebbe perfetta per una buona trasposizione per il grande schermo, non per nulla Edward Bunker ha firmato nell'arco della sua carriera anche diverse sceneggiature (Vigilato speciale, A 30 secondi dalla fine, Animal Factory) e ha collaborato come consulente al film capolavoro di Michael Mann: Heat - La sfida. Magari non troppo rappresentativo di quel che è stato il Bunker scrittore ma Stark rimane comunque una lettura consigliata.
Stark è uno dei due romanzi di Edward Bunker pubblicati postumi, esce nel 2006, anno successivo alla morte dello scrittore, e ancora una volta ci troviamo di fronte a un romanzo criminale. In realtà Stark è più una novella criminale a dirla tutta, un libro breve che ha un sapore lievemente diverso da quello di alcuni dei suoi illustri predecessori. Leggendo infatti opere come Litte Boy Blue, Come una bestia feroce o Animal Factory, si aveva la chiara impressione di venir calati dentro narrazioni ad alto tasso di realtà, cosa che effettivamente avveniva in quanto la vita difficile e sregolata dello scrittore era molto spesso alla base delle vicende narrate nei suddetti romanzi. Nell'incedere della narrazione non si percepiva quasi mai la presenza di un'afflato finzionale, la mano dell'autore sembrava condurci in luoghi duri, da noi molto lontani ma comunque palpabilmente molto, molto reali, caratteristica questa difficilmente riscontrabile in opere di scrittori anche molto gettonati e dediti a generi affini a quelli trattati da Edward Bunker.
Stark sembra avere un taglio un poco diverso, come sottolinea anche la moglie di Bunker, Jennifer Steele, nella postfazione al libro, Stark è uno dei primi scritti dello scrittore, rimasto in un cassetto fino alla sua morte, tornato alla luce grazie all'interessamento dell'agente letterario Nat Sobel. Lo stile di Bunker probabilmente ancora non era definito, lo scritto era poco autobiografico, il tipo di personaggio narrato (un truffatore) non troppo amato dal suo stesso creatore, fatto sta che questa volta ci si trova di fronte a un libro che si percepisce essere puramente finzionale, diverso dalle altre opere dello scrittore. Non che in questo ci sia qualcosa di male, anzi, Stark è un bel libro, scritto benissimo e che si legge tutto d'un fiato, coinvolgente e divertente. Non il solito Bunker, davvero buono ma certamente non il migliore. Comunque ad avercene.
Ernie Stark non era la persona più perbene sulla Terra. Chiedetelo agli amici. Sempre che li avesse. Era un imbroglione di mezza tacca che sognava costantemente di fare il colpo grosso. Quello che lo avrebbe fatto vivere da gran signore. Ma il più delle volte restava fregato. Se non dal pollo di turno, dalla polizia.
Nelle prime quattro righe del romanzo c'è la perfetta descrizione del suo protagonista, un truffatore tossicodipendente in libertà, tenuto stretto al guinzaglio dal detective Crowley, intenzionato a usarlo come informatore per arrivare ai fornitori di un giro grosso di droga che ha come piccolo distributore l'hawaiano Momo Mendoza. Mentre Crowley non si fà scrupolo nel mettere in pericolo l'integrità di Stark nell'ambiente della mala, quest'ultimo deve destreggiarsi per guadagnarsi la fiducia di Momo e non destare troppi sospetti nel suo diffidente guardaspalle muto, il minaccioso e ben piazzato Dummy, con il quale Stark condivise in passato l'ospitalità nelle patrie galere. È dura tenere in contemporanea a bada la scimmia della tossicodipendenza, il desiderio per Dorie, la ragazza di Momo, i sospetti di Dummy e le pretese di Crowley, cercando allo stesso tempo di entrare nel giro grosso, un po' per allentare la presa della polizia, un po' nella speranza di riuscire davvero a svoltare una volta per tutte fregando magari quanta più gente possibile. Tra un inganno e l'altro Stark ci proverà, lasciandosi alle spalle una cospicua scia di guai e cadaveri.
Libro molto cinematografico, una storia che sarebbe perfetta per una buona trasposizione per il grande schermo, non per nulla Edward Bunker ha firmato nell'arco della sua carriera anche diverse sceneggiature (Vigilato speciale, A 30 secondi dalla fine, Animal Factory) e ha collaborato come consulente al film capolavoro di Michael Mann: Heat - La sfida. Magari non troppo rappresentativo di quel che è stato il Bunker scrittore ma Stark rimane comunque una lettura consigliata.
Edward Bunker in Le iene (Mr. Blue) |
mercoledì 5 luglio 2017
SETTEFOLLI
(di Marcello Ciorciolini, 1982)
Assolo anarchico in cornice povera. Settefolli è un one man show del comico demenziale Giorgio Bracardi che qui inanella un fuoco di fila di gag, personaggi e tormentoni del suo repertorio all'interno di un progetto di poco meno di un'ora di durata nato per il programma televisivo Che fai, ridi? nell'ormai lontano 1982.
Nel piccolo paese di Settefolli, sito nell'Appennino Tosco-Amatriciano, gravitano una serie di personaggi fuori dal comune, tutti interpretati da Bracardi stesso, che sono la personificazione di alcuni macchiettistici caratteri ascrivibili alla più becera e stramba produzione del nostro Belpaese, stereotipi forzati e caricati all'inverosimile allo scopo di strappare la risata al pubblico, giocando con il grottesco, le fissazioni, le partigianerie politiche e la demenzialità dei vari personaggi di volta in volta messi in scena dall'attore romano.
Nonostante il taglio da documentario che vorrebbe descrivere una giornata tipo dei cittadini del piccolo comune, persone dalle strane abitudini e dai modi gentili, quello che rimane è un'antologia di sketch e personaggi di qualità per forza di cose altalenante, poveri sono i mezzi così come non offrono spunti d'interesse regia, fotografia e via discorrendo, in fondo lo scopo non era quello di confezionare un bel film quanto quello di offrire una vetrina spaziosa alla comicità di Bracardi, in questo la missione è completamente riuscita.
Si avvicendano quindi il folle che in piena notte vaga per la cittadina urlando a squarciagola il nome di "Patrooooocloooo!!!", il pastore suo degno compare alla sempiterna ricerca de li pecuri ormai irrimediabilmente smarrite e il saggio del villaggio portatore sano di banalità assortite. Questi primi personaggi si reggono sulla ripetizione, sulla comparsata multipla, sul mero disturbo demenziale, semplicissimi e proprio per questo capaci di strappare sempre una risata. Già più strutturati invece sono il professore e Sindaco di Settefolli, nostalgico del Risorgimento Italiano ed esasperato dalla dilagante ignoranza dei compaesani (e un po' bestia pure lui) e il dj della radio del paese, personaggio assolutamente trascurabile. Più interessanti e divertenti, almeno a mio modo di vedere, il macellaio, fascistone dichiarato sempre pronto ad esaltare la figura del Duce, ma soprattutto il pianista e il farmacista.
Il primo rappresenta l'élite musicale d'avanguardia in esibizioni composte di strane sonorità, smorfie, faccette e gestualità assortite, con tanto di sputazzo sul pubblico a spregio della loro ignoranza, personaggio effettivamente irresistibile ma non ancora al livello del farmacista che ha conquistato la mia preferenza assoluta, un surrogato del medico del paese per il quale il rimedio a ogni malanno è una sana dose di purgante e quindi, di conseguenza, una liberatoria e sonora cacata, umorismo scatologico che nell'interpretazione di Bracardi, ve lo garantisco, diventa irresistibile.
La scelta intelligente di contenere la durata di un'esperimento che non poteva reggersi su un minutaggio più elevato, nonostante i cali d'interesse che pure ci sono, rende la visione di Settefolli comunque piacevole, un buon recupero per scoprire anche un modo di fare televisione che oggi non si usa più.
Assolo anarchico in cornice povera. Settefolli è un one man show del comico demenziale Giorgio Bracardi che qui inanella un fuoco di fila di gag, personaggi e tormentoni del suo repertorio all'interno di un progetto di poco meno di un'ora di durata nato per il programma televisivo Che fai, ridi? nell'ormai lontano 1982.
Nel piccolo paese di Settefolli, sito nell'Appennino Tosco-Amatriciano, gravitano una serie di personaggi fuori dal comune, tutti interpretati da Bracardi stesso, che sono la personificazione di alcuni macchiettistici caratteri ascrivibili alla più becera e stramba produzione del nostro Belpaese, stereotipi forzati e caricati all'inverosimile allo scopo di strappare la risata al pubblico, giocando con il grottesco, le fissazioni, le partigianerie politiche e la demenzialità dei vari personaggi di volta in volta messi in scena dall'attore romano.
Nonostante il taglio da documentario che vorrebbe descrivere una giornata tipo dei cittadini del piccolo comune, persone dalle strane abitudini e dai modi gentili, quello che rimane è un'antologia di sketch e personaggi di qualità per forza di cose altalenante, poveri sono i mezzi così come non offrono spunti d'interesse regia, fotografia e via discorrendo, in fondo lo scopo non era quello di confezionare un bel film quanto quello di offrire una vetrina spaziosa alla comicità di Bracardi, in questo la missione è completamente riuscita.
Si avvicendano quindi il folle che in piena notte vaga per la cittadina urlando a squarciagola il nome di "Patrooooocloooo!!!", il pastore suo degno compare alla sempiterna ricerca de li pecuri ormai irrimediabilmente smarrite e il saggio del villaggio portatore sano di banalità assortite. Questi primi personaggi si reggono sulla ripetizione, sulla comparsata multipla, sul mero disturbo demenziale, semplicissimi e proprio per questo capaci di strappare sempre una risata. Già più strutturati invece sono il professore e Sindaco di Settefolli, nostalgico del Risorgimento Italiano ed esasperato dalla dilagante ignoranza dei compaesani (e un po' bestia pure lui) e il dj della radio del paese, personaggio assolutamente trascurabile. Più interessanti e divertenti, almeno a mio modo di vedere, il macellaio, fascistone dichiarato sempre pronto ad esaltare la figura del Duce, ma soprattutto il pianista e il farmacista.
Il primo rappresenta l'élite musicale d'avanguardia in esibizioni composte di strane sonorità, smorfie, faccette e gestualità assortite, con tanto di sputazzo sul pubblico a spregio della loro ignoranza, personaggio effettivamente irresistibile ma non ancora al livello del farmacista che ha conquistato la mia preferenza assoluta, un surrogato del medico del paese per il quale il rimedio a ogni malanno è una sana dose di purgante e quindi, di conseguenza, una liberatoria e sonora cacata, umorismo scatologico che nell'interpretazione di Bracardi, ve lo garantisco, diventa irresistibile.
La scelta intelligente di contenere la durata di un'esperimento che non poteva reggersi su un minutaggio più elevato, nonostante i cali d'interesse che pure ci sono, rende la visione di Settefolli comunque piacevole, un buon recupero per scoprire anche un modo di fare televisione che oggi non si usa più.
lunedì 3 luglio 2017
UNDERWORLD
(di Don DeLillo, 1997)
Tutta la storia della palla da baseball è un espediente di scarsissima rilevanza, non state a pensarci più di tanto, Underworld è molto altro. Resta ora da capire cosa sia di preciso, dilemma non così semplice da risolvere. Approfondiamo. Don DeLillo, con lo scopo di raccontarci frammenti di storia personale di alcuni personaggi presenti in Underworld, lega questi ultimi al possesso di una famosa palla da baseball, quella che segnò il punto della vittoria nella finale delle World Series del 1951 giocatasi tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers. Tutto ciò è un mero pretesto che ha colpito l'attenzione di critici e lettori, il libro si sarebbe tenuto in piedi benissimo senza il passaggio di mano in mano della suddetta palla, che tra l'altro neanche lontanamente entra in possesso di tutti i protagonisti di questo libro monumentale. Finanche i personaggi presenti nella storia sono una sorta di pretesto, certo mille volte più significativi e importanti di quella palla, per raccontare le svolte (o probabilmente la deriva, giusto per avvicinarsi al sentire dell'autore) di un intero Paese, un'America ormai priva di direzione e valori, se non quelli chiaramente vacui e sbagliati del capitale, dello status sociale, dell'apparenza a scapito di un qualcosa di più sostanziale e concreto che in tempi ormai passati era ben presente nella società statunitense, una disgregazione a favore dell'individualismo spinto al posto di un senso di appartenenza, comunitario, dettato anche da motivazioni poco felici e preoccupanti come potevano essere quelle mosse dalla paura della bomba in un clima di esasperata Guerra Fredda.
Quello che traspare dalle pagine di Underworld è un sentimento di decadenza inevitabile, almeno io l'ho percepito così, uno scontento per una direzione intrapresa dall'America ormai irreversibile, messa in pagina nero su bianco tramite tanti piccoli frammenti di vicende personali, spalmate nell'arco di decenni, dai 50 ai 90 del secolo scorso, descritte da DeLillo con una prosa da grande maestro, una sorta di puzzle che tra rimandi e salti temporali ricostruisce atmosfere, sensazioni, paure, sentimenti più che vere e proprie storie. Senza nasconderci dietro un dito diciamo pure che la lettura di Underworld è impegnativa e difficoltosa, per quanto sia fuor di dubbio che ci si trovi di fronte a un'opera maestosa e meritoria, il libro non va affrontato con leggerezza, è necessario trovarsi in una situazione mentale ottimale per intraprendere l'impresa, non tanto per la mole dello scritto (880 pp. fitte) quanto per la sua frammentarietà e per la mancanza di scorrevolezza, non il classico libro che si legge tutto d'un fiato. Eppure DeLillo è maledettamente bravo, le prime cinquantaquattro pagine presentano la migliore descrizione di un evento sportivo che mi sia mai capitato di leggere, roba da far correre a nascondersi in un cantuccio anche il Nick Hornby di Febbre a 90°, lettura da non mancare per ogni appassionato di sport. La struttura adottata dallo scrittore nella scansione delle varie vicende che vanno a comporre Underworld, dà l'impressione che nelle quasi novecento pagine del libro ci sia l'intera storia recente dell'America, tutta, in tutti suoi aspetti, nonostante gli eventi storici narrati non siano moltissimi e sicuramente non occupino un ruolo di primo piano, qui non parliamo solo di fatti ma soprattutto di idee, percezione, mentalità, sensibilità, una mistura costitutiva difficile da spiegare a parole, bisognerebbe provare a leggere l'opera per comprenderne appieno stile e portata. Leggendo Underworld mi è venuto in mente il lavoro di Ellroy, il suo narrare un'ipotetica storia d'America attraverso i suoi aspetti più criminosi e sotterranei, DeLillo fa la stessa cosa utilizzando però concetti e materia più astratta, impalpabile ma altrettanto ficcante e significativa, forse ancor di più in quanto più universale e partecipata.
I temi ricorrenti sono molti e i più disparati, dettati dall'ampio spettro di situazioni, epoche, etnie e condizioni sociali prese in esame lungo il corso della narrazione, alcuni di essi sembrano assurgere a un ruolo molto vicino al simbolismo. Tra i più frequenti, quelli quasi ossessivi per i rifiuti, la spazzatura, l'immondizia, probabilmente nella mente dell'autore metafora del decadentismo di una società basata unicamente sul consumo e sull'accumulo, ricorrente anche il tema della bomba, delle armi e della minaccia nucleare (ripresa anche sotto forma di scorie), accenno all'imperialismo forse, ma più spesso richiamo a quella paura collettiva capace di tenere insieme un Paese disgregatosi davanti allo svanire di una minaccia verso la quale fare fronte comune (rappresentata dall'Ex Unione Sovietica). Aleggia anche una vena nostalgica nella descrizione di anni sicuramente più difficili di quelli moderni ma più diretti e in qualche modo più innocenti, nonostante la miseria, la condizione sociale più povera di alcuni protagonisti e tutte le difficoltà che potevano nascere dal fatto di vivere in quartieri come il Bronx durante anni tutto sommato turbolenti. Si mischiano pubblico e privato, movimenti culturali, vizi e storture del paese (metaforicamente) più grande del mondo.
Inserito nel filone del postmodernismo, Underworld si ritaglia con merito un posto importante all'interno di questa corrente letteraria ma si può considerare un'opera di grandissimo valore anche esulando dai confini di un'etichetta che a tutti gli effetti potrebbe stare un po' stretta a un libro di questa portata.
Tutta la storia della palla da baseball è un espediente di scarsissima rilevanza, non state a pensarci più di tanto, Underworld è molto altro. Resta ora da capire cosa sia di preciso, dilemma non così semplice da risolvere. Approfondiamo. Don DeLillo, con lo scopo di raccontarci frammenti di storia personale di alcuni personaggi presenti in Underworld, lega questi ultimi al possesso di una famosa palla da baseball, quella che segnò il punto della vittoria nella finale delle World Series del 1951 giocatasi tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers. Tutto ciò è un mero pretesto che ha colpito l'attenzione di critici e lettori, il libro si sarebbe tenuto in piedi benissimo senza il passaggio di mano in mano della suddetta palla, che tra l'altro neanche lontanamente entra in possesso di tutti i protagonisti di questo libro monumentale. Finanche i personaggi presenti nella storia sono una sorta di pretesto, certo mille volte più significativi e importanti di quella palla, per raccontare le svolte (o probabilmente la deriva, giusto per avvicinarsi al sentire dell'autore) di un intero Paese, un'America ormai priva di direzione e valori, se non quelli chiaramente vacui e sbagliati del capitale, dello status sociale, dell'apparenza a scapito di un qualcosa di più sostanziale e concreto che in tempi ormai passati era ben presente nella società statunitense, una disgregazione a favore dell'individualismo spinto al posto di un senso di appartenenza, comunitario, dettato anche da motivazioni poco felici e preoccupanti come potevano essere quelle mosse dalla paura della bomba in un clima di esasperata Guerra Fredda.
Quello che traspare dalle pagine di Underworld è un sentimento di decadenza inevitabile, almeno io l'ho percepito così, uno scontento per una direzione intrapresa dall'America ormai irreversibile, messa in pagina nero su bianco tramite tanti piccoli frammenti di vicende personali, spalmate nell'arco di decenni, dai 50 ai 90 del secolo scorso, descritte da DeLillo con una prosa da grande maestro, una sorta di puzzle che tra rimandi e salti temporali ricostruisce atmosfere, sensazioni, paure, sentimenti più che vere e proprie storie. Senza nasconderci dietro un dito diciamo pure che la lettura di Underworld è impegnativa e difficoltosa, per quanto sia fuor di dubbio che ci si trovi di fronte a un'opera maestosa e meritoria, il libro non va affrontato con leggerezza, è necessario trovarsi in una situazione mentale ottimale per intraprendere l'impresa, non tanto per la mole dello scritto (880 pp. fitte) quanto per la sua frammentarietà e per la mancanza di scorrevolezza, non il classico libro che si legge tutto d'un fiato. Eppure DeLillo è maledettamente bravo, le prime cinquantaquattro pagine presentano la migliore descrizione di un evento sportivo che mi sia mai capitato di leggere, roba da far correre a nascondersi in un cantuccio anche il Nick Hornby di Febbre a 90°, lettura da non mancare per ogni appassionato di sport. La struttura adottata dallo scrittore nella scansione delle varie vicende che vanno a comporre Underworld, dà l'impressione che nelle quasi novecento pagine del libro ci sia l'intera storia recente dell'America, tutta, in tutti suoi aspetti, nonostante gli eventi storici narrati non siano moltissimi e sicuramente non occupino un ruolo di primo piano, qui non parliamo solo di fatti ma soprattutto di idee, percezione, mentalità, sensibilità, una mistura costitutiva difficile da spiegare a parole, bisognerebbe provare a leggere l'opera per comprenderne appieno stile e portata. Leggendo Underworld mi è venuto in mente il lavoro di Ellroy, il suo narrare un'ipotetica storia d'America attraverso i suoi aspetti più criminosi e sotterranei, DeLillo fa la stessa cosa utilizzando però concetti e materia più astratta, impalpabile ma altrettanto ficcante e significativa, forse ancor di più in quanto più universale e partecipata.
I temi ricorrenti sono molti e i più disparati, dettati dall'ampio spettro di situazioni, epoche, etnie e condizioni sociali prese in esame lungo il corso della narrazione, alcuni di essi sembrano assurgere a un ruolo molto vicino al simbolismo. Tra i più frequenti, quelli quasi ossessivi per i rifiuti, la spazzatura, l'immondizia, probabilmente nella mente dell'autore metafora del decadentismo di una società basata unicamente sul consumo e sull'accumulo, ricorrente anche il tema della bomba, delle armi e della minaccia nucleare (ripresa anche sotto forma di scorie), accenno all'imperialismo forse, ma più spesso richiamo a quella paura collettiva capace di tenere insieme un Paese disgregatosi davanti allo svanire di una minaccia verso la quale fare fronte comune (rappresentata dall'Ex Unione Sovietica). Aleggia anche una vena nostalgica nella descrizione di anni sicuramente più difficili di quelli moderni ma più diretti e in qualche modo più innocenti, nonostante la miseria, la condizione sociale più povera di alcuni protagonisti e tutte le difficoltà che potevano nascere dal fatto di vivere in quartieri come il Bronx durante anni tutto sommato turbolenti. Si mischiano pubblico e privato, movimenti culturali, vizi e storture del paese (metaforicamente) più grande del mondo.
Inserito nel filone del postmodernismo, Underworld si ritaglia con merito un posto importante all'interno di questa corrente letteraria ma si può considerare un'opera di grandissimo valore anche esulando dai confini di un'etichetta che a tutti gli effetti potrebbe stare un po' stretta a un libro di questa portata.
Don DeLillo |
sabato 1 luglio 2017
PIRATI DEI CARAIBI - LA VENDETTA DI SALAZAR
(Pirates of the Caribbean: dead men tell no tales di Joachim Rønning ed Espen Sandberg, 2017)
Finalmente anche questa è fatta, avevamo i biglietti gratis per andare a vedere questo ultimo (per ora) capitolo della saga più noiosa di tutti i tempi e quindi... been there, done that, bought the t-shirt.
Prima di andare in sala ho letto diverse recensioni su La vendetta di Salazar che lasciavano presagire la visione di un film decisamente migliore rispetto ai capitoli immediatamente precedenti. In parte ciò è anche vero, il più grande punto a favore di questo film rispetto agli altri è la durata più contenuta, dai dieci ai trenta minuti in meno rispetto agli altri episodi, sembra una cosa da poco ma posso garantirvi che non lo è, il minutaggio elevato è stata la principale causa di sconforto nell'ora finale di tutte le visioni precedenti.
Qui tutto è più sopportabile, anche le sequenze di battaglia non sono mai interminabili, la noia viene tenuta a bada con mestiere, ciò non toglie che nel complesso il film risulti comunque privo di particolare interesse. La trama è semplice e duplice. C'è una nave di fantasmi comandata dal Capitano spagnolo Salazar (Javier Bardem) che cerca vendetta nei confronti di Jack Sparrow (Johnny Depp), il pirata che in gioventù aveva condannato la ciurma di Salazar a un'esistenza da non-morti. In parallelo assistiamo alla storia di Henry Turner (Brenton Thwaites), figlio di Will (Orlando Bloom) ed Elizabeth (Keira Knightely), che cerca fin da bambino di trovare il modo di spezzare la maledizione che lega il padre allo scafo dell'Olandese Volante. Ad allargare il cast arriva Carina Smith (Kaya Scodelario), una (g)astronoma in possesso del segreto per trovare il tridente di Poseidone, manufatto magico capace di spezzare ogni maledizione.
Ci sono diversi buoni momenti lungo il corso della pellicola, a partire dall'ottima scena iniziale durante la quale Jack Sparrow e la sua ciurma tentano un'improbabile rapina alla banca in quel di Saint-Martin. È proprio qui che si incontrano i destini di Jack, Henry e Carina che ben presto incroceranno le loro strade ancora una volta con quella di Barbossa (Geoffrey Rush) e inevitabilmente con quella del feroce Salazar. Devo dire che, senza nulla rivelare, anche l'ultima sequenza del film aveva trovato finalmente la giusta carica sentimentale, traducendosi potenzialmente in un buon finale che sarebbe stato perfetto per archiviare finalmente la saga. Poi in Disney si son fatti due conti e hanno aggiunto una scena dopo i titoli di coda (maledetti).
Poco interessante a mio avviso il Capitano Salazar che non regge il confronto con i vari personaggi visti in questo e nei film precedenti, non parlo solo di Sparrow che ormai avrete capito non essere esattamente il mio idolo, ma soprattutto di Barbossa, Barbanera, Davy Jones e compagnia cantante. A conti fatti un episodio digeribile per chi ama il tema, io cosa posso dirvi? Not my cup of tea!
Finalmente anche questa è fatta, avevamo i biglietti gratis per andare a vedere questo ultimo (per ora) capitolo della saga più noiosa di tutti i tempi e quindi... been there, done that, bought the t-shirt.
Prima di andare in sala ho letto diverse recensioni su La vendetta di Salazar che lasciavano presagire la visione di un film decisamente migliore rispetto ai capitoli immediatamente precedenti. In parte ciò è anche vero, il più grande punto a favore di questo film rispetto agli altri è la durata più contenuta, dai dieci ai trenta minuti in meno rispetto agli altri episodi, sembra una cosa da poco ma posso garantirvi che non lo è, il minutaggio elevato è stata la principale causa di sconforto nell'ora finale di tutte le visioni precedenti.
Qui tutto è più sopportabile, anche le sequenze di battaglia non sono mai interminabili, la noia viene tenuta a bada con mestiere, ciò non toglie che nel complesso il film risulti comunque privo di particolare interesse. La trama è semplice e duplice. C'è una nave di fantasmi comandata dal Capitano spagnolo Salazar (Javier Bardem) che cerca vendetta nei confronti di Jack Sparrow (Johnny Depp), il pirata che in gioventù aveva condannato la ciurma di Salazar a un'esistenza da non-morti. In parallelo assistiamo alla storia di Henry Turner (Brenton Thwaites), figlio di Will (Orlando Bloom) ed Elizabeth (Keira Knightely), che cerca fin da bambino di trovare il modo di spezzare la maledizione che lega il padre allo scafo dell'Olandese Volante. Ad allargare il cast arriva Carina Smith (Kaya Scodelario), una (g)astronoma in possesso del segreto per trovare il tridente di Poseidone, manufatto magico capace di spezzare ogni maledizione.
Ci sono diversi buoni momenti lungo il corso della pellicola, a partire dall'ottima scena iniziale durante la quale Jack Sparrow e la sua ciurma tentano un'improbabile rapina alla banca in quel di Saint-Martin. È proprio qui che si incontrano i destini di Jack, Henry e Carina che ben presto incroceranno le loro strade ancora una volta con quella di Barbossa (Geoffrey Rush) e inevitabilmente con quella del feroce Salazar. Devo dire che, senza nulla rivelare, anche l'ultima sequenza del film aveva trovato finalmente la giusta carica sentimentale, traducendosi potenzialmente in un buon finale che sarebbe stato perfetto per archiviare finalmente la saga. Poi in Disney si son fatti due conti e hanno aggiunto una scena dopo i titoli di coda (maledetti).
Poco interessante a mio avviso il Capitano Salazar che non regge il confronto con i vari personaggi visti in questo e nei film precedenti, non parlo solo di Sparrow che ormai avrete capito non essere esattamente il mio idolo, ma soprattutto di Barbossa, Barbanera, Davy Jones e compagnia cantante. A conti fatti un episodio digeribile per chi ama il tema, io cosa posso dirvi? Not my cup of tea!
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