venerdì 31 luglio 2020

LA COLLINA DEI PAPAVERI

(Kokuriko-zaka kara di Goro Miyazaki, 2011)

Goro Miyazaki, figlio del ben più celebre Hayao, torna alla regia dopo cinque anni dal suo esordio - I racconti di Terramare - e sigla il diciottesimo lungo dello Studio Ghibli (diciannovesimo se contiamo Nausicaa, prodotto poco prima della fondazione dello Studio stesso). Guardando La collina dei papaveri si evince come il figlio d'arte sia maturato nei cinque anni trascorsi dall'opera precedente: se I racconti di Terramare, pur non meritando alcune delle critiche ricevute all'epoca della sua uscita, aveva un incedere pesante, a volte macchinoso, e faceva percepire allo spettatore tutte le sue due ore di durata, La collina dei papaveri gode invece di un passo lieve, avvolgente, dotato anche nella narrazione di quella leggiadria che emanano i disegni ancora una volta superbi che accompagnano quasi tutte le uscite dello Studio Ghibli. Proprio mentre Goro è in procinto di uscire nella sale con il primo lavoro dello studio realizzato in CGI, fa piacere volgere ancora una volta lo sguardo al passato e bearsi del lavoro di una delle poche realtà rimaste a fare grandi film in animazione tradizionale. Per questo film Goro Miyazaki abbandona qualsiasi deriva fantastica e confeziona una storia intima con protagonisti due adolescenti, Umi e Shun, e il mondo che ruota intorno alle loro vite.


Umi è una sedicenne che oltre ad andare a scuola aiuta la nonna nella gestione di un ostello ricavato nella loro grande abitazione, la madre di Umi è negli Stati Uniti, il padre è morto in una battaglia navale durante la guerra di Corea. Siamo infatti negli anni 60, il Giappone è un paese con un'economia emergente che si sta lanciando a grandi passi nel futuro per lasciarsi alle spalle i traumi della guerra. Umi porta avanti una sua tradizione personale, ogni mattina issa su un pennone nel giardino di casa delle bandiere navali che dovrebbero servire come segnalazione per riportare la nave del padre a casa, un sogno che Umi sa che non potrà mai veder realizzato. A sua insaputa, tutti i giorni, un rimorchiatore che passa davanti all'ostello risponde al suo segnale. Shun invece è uno dei leader dell'assemblea dei rappresentanti scolastici, lavora per il giornalino indipendente della scuola e insieme a molti suoi compagni ha occupato un vecchio edificio per portare avanti tutta una serie di attività culturali collaterali al programma scolastico. Dopo un primo incontro che non mette Shun in ottima luce agli occhi di Umi, il rapporto tra i due ragazzi si chiarirà e diventerà sempre più profondo portando cambiamenti importanti per loro e per tutto l'ambiente scolastico.


C'è un'attenzione ai gesti molto marcata nel film di Miyazaki, rituali che donano forza all'ennesima eroina Ghibli: l'abitudine nell'alzare le bandiere tutte le mattine, l'impegno maniacale nella preparazione del cibo, anche nel ruolo centrale che avrà Umi nel salvare e rilanciare il Quartier Latin, l'edificio storico occupato dagli studenti; la ragazza è il vero cuore di un film dolcemente sentimentale che ci mostra come con la dedizione si possano ottenere risultati insperati e che imbastisce una serie di legami tra i protagonisti tutti da scoprire. Per certi versi sembra quasi che Goro abbia assimilato più la lezione di Takahata o di altri collaboratori dello Studio Ghibli che non quella del padre, e in fondo è giusto così, i cloni non servono a nessuno e per cause di forza maggiore (Takahata ci ha lasciato un paio di anni fa e Miyazaki Sr. ormai tocca gli 80) bisogna iniziare a guardare verso un orizzonte più lontano. L'avvento del primo film in CGI può essere un primo passo (che personalmente non mi entusiasma), vedremo se le nuove leve riusciranno in maniera seppur personale a non snaturare l'anima di quello che è un vero patrimonio dell'animazione.

mercoledì 29 luglio 2020

MOLTE VITE, MOLTI MAESTRI

(Many lives, many masters di Brian Weiss, 1988)

Brian Weiss, oltre che scrittore, è prima di tutto uno stimato medico; laureatosi alla facoltà di medicina della prestigiosa Università di Yale è stato per diverso tempo direttore del reparto di psichiatria dell'ospedale Mount Sinai di Miami. In Molte vite, molti maestri Weiss mette nero su bianco il resoconto di un percorso terapico intrapreso con una paziente qui indicata con il nome fittizio di Catherine per garantirle l'anonimato. La paziente in questione soffre di ansie, fobie, attacchi di panico e diversi altri disturbi che rendono alla giovane donna la vita parecchio difficile. Catherine è una donna molto religiosa cresciuta in una famiglia che lo è altrettanto, è una donna attraente, con un buon lavoro nello stesso ospedale dove esercita il Dottor Weiss, di tanto in tanto posa come modella per delle linee di costumi da bagno, nessun trauma troppo evidente a dettare tutte le paure di cui la giovane soffre. Eppure Catherine vive in preda all'ansia, ha paura del buio, non riesce a inghiottire pillole per paura di soffocare, è terrorizzata all'idea di prendere l'aereo, ha paura dell'acqua e vive con il terrore di affogare, presenta una serie di sintomi di difficile spiegazione che non le rendono di certo leggera l'esistenza. Incubi, insonnia, paura della morte, tutto in continuo peggioramento. Dopo un percorso terapico di un anno e mezzo molto stimolante durante il quale la paziente collabora con entusiasmo per cercare di sviscerare le cause dei suoi problemi, le paure di Catherine sono ancora tutte lì. Il Dottor Weiss decide allora di ricorrere all'ipnosi regressiva, una pratica tramite la quale, in seguito a un profondo stato di rilassamento di corpo e mente, è possibile recuperare traumi nascosti nel passato del paziente e ormai rimossi grazie proprio all'estremo stato di quiete capace di acuire la memoria e riportare a galla episodi all'apparenza ormai perduti.

Quello che emergerà da queste sedute ha dell'incredibile, non solo per la paziente, le rivelazioni fatte da Catherine in stato di ipnosi turbano per primo il suo terapista per arrivare poi, seduta dopo seduta, a migliorare notevolmente sia la condizione della paziente che finalmente inizia a superare le sue ansie, ma anche il punto di vista del medico che si trova di fronte a scenari via via sempre più interessanti e che doneranno anche a lui un maggior stato di serenità e consapevolezza. Non solo in queste sedute Catherine ricorda episodi chiave del suo passato ma riesce a far emergere ricordi da altre vite vissute in epoche precedenti, anche molto lontane dal nostro presente, ricordi vividi, dettagliati, traumi e sofferenze sepolte in altre esistenze, in altri corpi, ma collegate da un continuo processo di apprendimento all'attuale vita della paziente. Poco importa che si creda o meno nella reincarnazione per come ce la illustra l'autore, il grande merito di questo libro è quello di mettere in prospettiva cosa può davvero essere importante per noi, qui si espone una teoria per cui la nostra esistenza terrena ha come unico scopo l'apprendimento e il miglioramento di noi stessi, ovviamente questo miglioramento è completamente slegato dalle beghe terrene e dai beni materiali, l'esistenza sulla Terra è da intendersi come una scuola d'amore, di tolleranza, carità e serenità, concetti che sono alla base più o meno di tutte le religioni, poi travisate per interessi terreni. Lo scritto di Weiss rasserena, è capace di donare spunti di riflessione, speranza, e mette nello stato d'animo giusto per intraprendere davvero quei miglioramenti che tutti possiamo mettere in pratica, non necessariamente ricorrendo all'ipnosi regressiva, a volte, almeno per chi non ha traumi importanti e grossi disagi da superare, un buon esame di coscienza potrebbe essere un buon punto di partenza.

Argomenti indubbiamente da approfondire, oltre a quelli a cui si accenna poco sopra, dalle sedute di ipnosi di Catherine esce molto altro, rivelazioni che qui non svelo e lascio a voi scoprire; Molte vite, molti maestri è un libro che può cambiare in meglio le nostre prospettive e aiutare ad affrontare la vita con maggior serenità, magari consapevoli che per noi questa non è l'ultima possibilità e che in qualche modo altro ci aspetta, qui come altrove.

domenica 26 luglio 2020

THE LITTLE HOUSE

(Chiisai ouchi di Yoji Yamada, 2014)

Prosegue l'esplorazione del Cinema di Yoji Yamada. Con The little house il regista adatta un romanzo di Kyoko Nakajima che narra le vicende legate a una coppia sposata che vive a Tokyo in una bella casa dal tetto rosso; siamo negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, in quel tempo il Giappone era in guerra con la Cina mentre mese dopo mese si muovevano gli eventi che avrebbero portato il Paese allo scontro aperto con gli Stati Uniti d'America.

La storia si svolge su tre piani temporali: nel presente l'ormai anziana Taki (Chieko Baisho) arriva alla fine dei suoi giorni; dopo la cerimonia funebre il suo affezionato nipote Takeshi (Satoshi Tsumabuki) inizia a ripercorrere con la memoria l'ultimo periodo della vita della zia (secondo piano temporale) che negli ultimi anni di vita aveva preso a scrivere la sua autobiografia, racconto che porta la narrazione su un terzo piano temporale, la sua giovinezza, in un'epoca in cui una giovane Taki (Haru Kuroki) lasciò la prefettura di Yamagata per trasferirsi a Tokyo a servizio della famiglia Hirai. Il Signor Hirai (Takataro Kataoka) è un dirigente di un'azienda di giocattoli, uomo molto tradizionalista è sposato alla bella Tokiko (Takako Matsu), i due hanno un figlio, il piccolo Kyoichi alla cui guarigione dalla poliomielite contribuiranno molto le cure offerte proprio da Taki che pian piano diventerà una di famiglia. Un giorno, durante un incontro tra colleghi alla casa dal tetto rosso, il Signor Hirai presenta alla famiglia l'ultimo acquisto dell'azienda, un nuovo creativo, giovane, sensibile, un po' sognatore e scapolo, molto diverso dai barbosi amici che di solito frequenta il Signor Hirai, il suo nome è Shoji Itakura (Hidetaka Yoshioka) e molto presto, in modi diversi, entrerà nei cuori di Taki e di Tokiko.


Il film di Yamada mantiene un tono molto letterario, pur non sapendo a priori che il film è tratto da un libro, l'informazione la si può dedurre semplicemente godendo dell'incedere del racconto, messa in scena lievemente patinata rispetto ad altre opere del regista, sguardo comunque sempre accattivante e amorevole nei confronti dei personaggi, soprattutto quelli femminili, bello sguardo sui luoghi che vanno sempre a impreziosire i racconti messi in scena dal regista, qui inoltre c'è un bellissimo lavoro sui costumi d'epoca, sulla ricostruzione della casa, sugli accessori come gli ombrelli della tradizione giapponese, gli arredi, gli spazi. Molto curioso il contrasto sull'aspetto storico narrato dal punto di vista di una giovane Taki, una donna che ha praticamente vissuto sempre in casa, in un ambiente chiuso, con notizie riportate, spesso filtrate dalle opinioni degli uomini che frequentavano casa Hirai, e che pur avendo vissuto quei tempi ne conserva un'idea parziale rispetto a quella del nipote Takeshi che pur non avendoli vissuti ne conosce meglio le implicazioni geopolitiche per averle apprese lungo il suo percorso di studi, questo contrasto uscirà più volte nel corso della lettura dell'autobiografia della zia da parte di Takeshi. Al centro della narrazione una, forse due, storie d'amore delicate, trattenute, quasi impossibili nella società giapponese degli anni 30/40, raccontate con garbo da un regista del quale ormai, dopo soli tre film, posso ammettere di essermi invaghito.


La delicatezza, la serenità di sguardo, il rispetto, caratterizzano opere che corrono come un fiume placido e si lasciano amare senza riserve, peccato che dell'immensa produzione di Yamada solo poche opere siano disponibili o facilmente reperibili nel nostro paese.

mercoledì 22 luglio 2020

FAVOLACCE

(di Damiano e Fabio D'Innocenzo, 2020)

"Sento parecchio rimorso per avervi raccontato questa storia insensata, amara e anche pessimistica, vi meritavate forse qualcosa di più realistico, una storia normale, di quelle che accadono tutti i giorni, e non lo sfogo di un annoiato dalla vita, vi chiedo scusa, ricominciamo da zero".

Questa è la chiusa al film da parte della voce narrante, una voce importante fin dalle prime battute di questo lavoro dei fratelli D'Innocenzo, un elemento che ci presenta quella che non vuole essere una storia vera, come spesso ci accade di vedere al Cinema, non vuole essere nemmeno una storia come un'altra, vuole essere invece una favola, come gli stessi registi hanno dichiarato a più riprese, per non rischiare fraintendimenti l'hanno pure specificato nel titolo, e non una bella favola ma una favola nera, nerissima, una favolaccia quasi insostenibile. Anzi, insostenibile senza il quasi. E la voce coglie nel segno, è una storia pessimistica, troppo, seppur non lontana da alcune realtà nostrane, dai comportamenti di genitori incapaci di esserlo, una storia molto, troppo, tendente al nero.


Periferia romana, un quartiere decentrato, villette a schiera, spaziose, con il giardino, a dare quasi un'idea di benessere. All'interno delle case, dentro quei giardini, vive un'umanità gretta, disillusa, senza prospettive, con un'amore contorto e trattenuto che non riesce mai ad arrivare nella maniera giusta ai più piccoli, ai figli, veri protagonisti di questa favola del disagio. Ciò che muove questi adulti mai giunti a maturazione sono sentimenti come l'invidia e la rabbia, sentimenti acuiti e incancrenitisi a causa della mancanza di lavoro o dalla presenza di lavori svilenti, da desideri materiali, estranei all'amore, dall'incapacità di creare rapporti basati sulla sincerità, in taluni casi dalla mera ignoranza. In un mondo dove non c'è niente, la casa, la scuola e poco altro, i genitori non fanno che scaricare frustrazioni più o meno consapevolmente sui loro figli, un gruppo di ragazzi senza guida o con figure di riferimento sbagliate; anche quando un po' d'amore affiora, il comportamento di questi genitori appare più infantile di quello dei ragazzi, i due registi raccontano una generazione non in grado di prendersi cura della successiva, incapace di mettere la giusta distanza tra le loro azioni e quelle che dovrebbero essere più adatte ai bambini che si trovano a recitare ruoli lontani da quelli a cui avrebbero diritto alla loro età, circondati da una confusione e da una mancanza di punti di riferimento che taglia loro le gambe. Questi bambini sono diretti magnificamente dai fratelli D'Innocenzo, grandi professionisti sotto molti punti di vista, ma proprio con i bambini, vista anche la delicatezza dei temi trattati, viene qui fatto un grande lavoro, bellissimi volti che magari, chissà, in un prossimo futuro ritroveremo per ruoli da adulti o ragazzi fatti.


La storia, sceneggiata dagli stessi registi, è un bel pugno allo stomaco, non lascia speranza, eccede nel pessimismo trovando fine compiuta in una chiusa quasi irricevibile, che porta la narrazione nel mondo della favola nera, un finale con il quale bisogna scendere a patti e non ho remore nell'ammettere di non essere riuscito a farlo fino in fondo, nonostante l'ottimo lavoro dei D'Innocenzo anche in sede di regia (alcune sequenze sono effettivamente molto riuscite), non posso dire di aver goduto appieno di questo film, forse è troppo difficile farlo, cosa che potrebbe essere un altro punto a favore dei due autori (e qui dimostrano di esserlo) che lasciano indubbiamente il segno elevandosi sopra la media dei prodotti italiani. Un bel film che merita la visione, indubbiamente, però cazzo che botta...

domenica 19 luglio 2020

LA VENDETTA DELLE OMBRE

(di Mauro Boselli e Massimo Carnevale, 2020)

Anno ricco per gli amanti del Tex in formato gigante. Causa la lunga gestazione del Texone di Claudio Villa (l'albo, programmato già da tempo, è uscito infine lo scorso febbraio) possiamo godere di una doppia dose dello Speciale Tex - questo il nome ufficiale del Texone -, il mese scorso è stato infatti dato alle stampe anche l'albo programmato per quest'anno e disegnato dal notissimo Massimo Carnevale, illustratore d'eccezione e copertinista di grande talento. Carnevale inizia a lavorare nel campo del fumetto con la Edilfumetto per approdare poi in Eura Editoriale (oggi Aurea) dove è rimasto per lunghissimo tempo cominciando proprio con le copertine di Lanciostory e Skorpio, riviste antologiche ormai storiche che tutti quanti associano immediatamente all'Eura. Negli anni 90 insieme al compianto Lorenzo Bartoli e ad Andrea Domestici lavora su quello che è divenuto un piccolo culto (e un buon successo commerciale): Arthur King. La notorietà aumenta con lo splendido lavoro fatto nel corso degli anni con le copertine della serie Eura John Doe ancora di Bartoli con Roberto Recchioni, proprio tramite quest'ultimo approda in Bonelli, prima su Dylan Dog con uno degli albi più apprezzati della storia recente della serie, Mater Morbi, per arrivare poi a questo Texone.

Boselli imbastisce per il disegnatore romano un'altra ottima sceneggiatura che mescola diversi elementi portando Tex una volta ancora in quei territori ibridi dove la cruda realtà delle pallottole di piombo incontra il mistero etereo degli spiriti. Come elemento di congiunzione troviamo il Carnivale, il carrozzone itinerante che porta alla gente semplice di provincia il sollazzo macabro dei freaks, dei "fenomeni da baraccone" da ammirare e additare con malcelata meraviglia e stupore (a riguardo si consiglia di recuperare la bella serie tv Carnivale). Questo circo errante, composto in prevalenza da artisti con sangue indiano, è diretto dal mefistofelico Jack Shado, il carrozzone indiano unisce le forze per portare a termine un loro piano di vendetta con i fratelli Fortune, due poco di buono sulle cui tracce ci sono Tex, Carson, Kit e Tiger Jack, cosa che rende il loro cognome davvero fuori luogo. Se i due fratelli sono mossi da pura e semplice avidità, gli indiani hanno da lavare un'onta importante e per far questo si serviranno delle spaventose ombre.

Massimo Carnevale mette il suo stile a servizio del west, della narrazione classica texiana, pur confezionando un bellissimo Texone questo è un po' un peccato. Avendo gli occhi ancora illuminati da alcuni splendidi lavori del disegnatore eseguiti per varie copertine, mi aspettavo un approccio al Texone più sperimentale e personale, che è quello che mi aspetto ogni volta che acquisto un Texone e che purtroppo non sempre ritrovo. Sia chiaro, il lavoro di Carnevale e inattaccabile, uso fantastico degli scuri per ombre e notturni di rara inquietudine, studio delle inquadrature per rimarcare al meglio le sequenze più "orrorifiche" e sovrannaturali, graffi sui volti a definirne cumuli di primavere passate, eccessi di cattiveria, lampi di follia, immota testardaggine. Lavoro eccelso sulle atmosfere, nella resa delle condizioni climatiche ma soprattutto una maestria naturale nel donare spessore immediato ai protagonisti dell'Indian Carnival come Tommy Skeleton, Jim Coyote, Storm, Johnny Bear, L'Uomo Tatuato, la bella Tesan-Win e l'inquietante Strega Ragno. Insieme a quello di Villa il Texone di Carnevale costituisce un'accoppiata preziosa, annata ricca come si diceva, il Tex gigante è ormai un must per gli amanti del western che quest'anno hanno trovato pane per i loro denti.

venerdì 17 luglio 2020

INITIAL D

(Tau man ji D di Andrew Lau e Alan Mak, 2005)

Nuova incursione nel Cinema orientale, questa volta siamo dalle parti di Hong Kong, città che per anni è stata la patria d'oriente del Cinema action e muscolare (ma non solo), una scuola prolifica che ha sfornato parecchi prodotti di alto livello. Tocca dire, purtroppo, che non è il caso di Initial D, film a target adolescenziale che pur lasciandosi guardare non ha davvero nessuna freccia al suo arco per entusiasmare lo spettatore con un minimo di pretese di qualità. Initial D è tratto dall'omonimo manga in quarantotto volumi di Shuichi Shigeno che ha generato anche diverse trasposizioni in anime, le serie a cartoni animati giapponesi, e questo live action diretto a quattro mani (ma ne sarebbero bastate davvero anche solo due) da Lau e Mak. Al centro della vicenda ci sono le corse illegali in auto che prendono vita sui tornanti del monte Akina e dove a guidare i veicoli sono dei ragazzi adolescenti o poco più. Proprio le gare, che avrebbero dovuto essere il punto di forza del film, si rivelano invece il suo punto debole (non che ne manchino altri), le discese a rotta di collo dal monte Akina sono tutte più o meno uguali, le riprese molto simili tra loro, si aspetta a ogni curva la scodata vincente propria del drifting, le variazioni sono minime e il gioco viene presto a noia, in un film come questo dove l'aspetto dinamico è fondamentale una regia più fantasiosa e vivace era il minimo che ci si potesse aspettare, invece...


Takumi (Jay Chou) è uno studente che dopo la scuola lavora alla stazione di servizio di proprietà della famiglia del suo amico Itsuki (Chapman To), uno sbruffoncello grassotto dagli scarsi talenti. La sera Takumi aiuta il padre ubriacone Bunta (Anthony Wong) con le consegne di tofu che l'uomo prepara durante il giorno. A Takumi capita spesso di effettuare delle consegne con la AE86 di suo padre proprio sul monte Akina sulle cui strade Takumi si è fatto le ossa e, un po' per esperienza, un po' per talento, un po' per genetica (il padre è stato un grande pilota), ha imparato a conoscerne le strade come le sue tasche. Coinvolto dal suo amico Itsuki, Takumi entrerà nel giro delle gare clandestine che si corrono più per la gloria che per i soldi, qui affronterà altri piloti fino ad arrivare a gareggiare contro dei veri professionisti. Nel frattempo prenderà corpo una bella relazione con l'amica d'infanzia Natsuki (Anne Suzuki) innamorata da tempo del ragazzo, Natsuki però sembra serbare un qualche tipo di segreto.


Come si diceva il film si può guardare a patto di non aspettarsi nulla, in ogni caso ci sono modi migliori per passare un paio d'ore, Initial D non rientra di certo tra le migliori espressioni del Cinema asiatico. Anche dal punto di vista attoriale non c'è troppo da stare allegri, il protagonista Jay Chou ha meno espressioni di quelle che attribuiva Leone a Eastwood (non ha nemmeno il cappello quando guida), Wong recita per tutto il film con gli occhi chiusi per caricare la parte dell'ubriaco, Chapman To gioca la parte del deficiente, della macchietta vista in tanti manga, insopportabilmente sopra le righe, si salva la Suzuki che tra l'altro interpreta anche il personaggio più bistrattato, unico ruolo femminile di peso in un film tutto al maschile e non ne esce nemmeno troppo bene. Initial D potrebbe interessare agli appassionati di auto ma manca l'adrenalina che la gara dovrebbe scatenare, il manga non vanta un'edizione italiana e quindi anche qui non c'è un pubblico di riferimento, lo si può consigliare a chi ha apprezzato le serie anime, rimarcando una volta ancora che in giro si trova sicuramente di meglio.

giovedì 16 luglio 2020

PHILIP K. DICK - TUTTI I RACCONTI: 1955 - 1963

(Short stories collection Vol. 3 di Philip K. Dick, 1955 - 1963)

Il terzo dei quattro volumi editi da Fanucci che raccolgono l'intera produzione dei racconti brevi di Philip Kindred Dick si concentra sugli scritti editi tra il 1955 e il 1963. Proprio il '55 è un anno di svolta per Dick, la produzione di racconti brevi inizia a diradarsi e lo scrittore si concentra su narrazioni che troveranno la forma del romanzo, proprio di quest'anno è il suo primo esito lungo, Solar lottery, pubblicato in Italia come Lotteria dello spazio o anche sotto il nome di Il disco di fiamma. Se vogliamo fare un piccola proporzione, nei due anni immediatamente precedenti, il '53 e il '54, Dick pubblica una media di una trentina di racconti per anno, nel 1955 la sua produzione cala a una dozzina di racconti che andranno ancora a diradarsi negli anni successivi mentre prende un ritmo abbastanza costante la pubblicazione dei romanzi. Proprio nei racconti di questo volume si possono trovare diversi spunti che Dick amplierà poi nei suoi lunghi, non solo idee e tematiche ma anche qualche scenario come quello de The days of Perky Pat ripreso in seguito in uno dei suoi libri più celebri: Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Non è un periodo comunque facile per lo scrittore che sta cercando di affrancarsi dalla letteratura di genere per andare verso lo stile che identifica il "romanzo" vero e proprio, tutti i tentativi in questa direzione però falliscono e Dick si vede costretto ad ammettere che la sua via alla letteratura è quella della fantascienza o al limite del fantastico. Sono anche gli anni della Guerra Fredda e del dopo bomba, una delle tematiche ricorrenti e prevalenti in questa raccolta è quella della vita post cataclisma o della minaccia della guerra nucleare con i relativi strascichi di paura e terrore che questa riversa sulla popolazione americana (o terrestre). Pensiamo allo scenario del già citato I giorni di Perky Pat con i protagonisti costretti a vivere sotto il livello del suolo a causa delle radiazioni, o a Un'incursione in superficie (il titolo è un programma) o anche al terrore e al bisogno impellente del rifugio antiatomico di Foster, sei morto! che collega la paura per la bomba all'emergente e sempre più diffuso bisogno consumistico della società americana, ripreso in tantissimi racconti, da Nanny a Servizio assistenza a Diffidate delle imitazioni e da Dick aspramente criticato. Il malcostume americano è esportato da Dick su scala interplanetaria, quindi avremo minacce belliche tra razze diverse con conseguenti manifestazioni razziste (Veterano di guerra), l'escalation dell'avidità per il Dio denaro declinata tra le dimensioni (Commercio temporale), la crisi dell'istituzione matrimoniale così sacra nell'America puritana (Umano è) e così via. Nel corso di questo volume, più che nei precedenti, si nota una sorta di evoluzione se non nello stile di scrittura quantomeno nella struttura dei racconti, banco di prova per i romanzi a venire, si va ad affinare l'arte dell'intrigare di Dick, con l'inganno, con l'articolato che porta a situazioni un po' più complesse e apprezzate anche in altri ambiti come accadrà per Minority report portato al cinema da un certo signor Spielberg o come si può evincere dall'intersecarsi di più racconti come nel caso di Presidente di riserva e Cosa ne facciamo di Ragland Park? Con la chiusura di questa raccolta giunge il tempo per il lettore di iniziare a confrontarsi con le opere più strutturate scritte da Dick delle quali ci sono piccoli assaggi negli ultimi episodi di questo volume, un poco più corposi e complessi. La qualità media, seppur altalenante (è pur sempre un'antologia di racconti), rimane alta, l'unica pecca del volume, almeno in questa edizione, è attribuibile a Fanucci che, evidentemente per necessità di foliazione, omette all'interno dei racconti degli evidenti stacchi presenti nei racconti originari che avevano la funzione di "cambio di scena" creando una sensazione in molti casi davvero fastidiosa per il lettore al quale rimane la speranza che il malcostume non si ripeta nel quarto e ultimo tomo della raccolta.

martedì 14 luglio 2020

PHILIP K. DICK'S ELECTRIC DREAMS

Negli ultimi anni l'immaginario fantascientifico (non solo quello tratto da Philip K. Dick) è stato saccheggiato a mani basse dalla serialità televisiva che ci ha offerto decine di prodotti a tema declinati in diverse salse con risultati che hanno toccato vette di eccellenza che non saranno dimenticate (si, sto pensando alle prime stagioni di Black Mirror). In particolare dagli scritti di Dick sono nate la serie The man in the high castle (da La svastica sul Sole) e le meno fortunate Minority Report, prodotta dopo il successo dell'omonimo film diretto da Steven Spielberg e Total Recall 2070, serie canadese poco nota e arrivata addirittura prima della rinascita della nuova serialità degli anni 2000. Electric dreams è uno dei più recenti prodotti a ispirarsi alle opere dello scrittore di Chicago, attinge per questa prima stagione alla vastissima produzione dei racconti brevi che Dick scrisse per varie riviste di genere nel corso della sua carriera, la serie è antologica, presenta quindi una decina di adattamenti da altrettanti racconti tutti slegati tra loro e uniti semplicemente dalle idee di uno dei pilastri della fantascienza mondiale, idee qui riviste e riadattate alla nostra società e a quello che potrebbe essere il nostro futuro. La serie pesca da racconti scritti tra il '53 e il '55 all'interno di una produzione che copre un arco temporale dai primi anni Cinquanta fino ai primi anni Ottanta del secolo scorso.


Pur rimanendo una serie tutto sommato piacevole da guardare a Electric dreams mancano i guizzi che le permetterebbero di emergere e lasciare il segno, schiacciata tra tanta concorrenza la serie si perde per mancanza di originalità e brillantezza. Non c'è un singolo episodio tra i dieci presentati che proponga un'idea realmente nuova o che riesca ad assestare un colpo basso allo spettatore, i futuri proposti dal serial, seppur modernizzati rispetto alla versione anni 50 dei concetti espressi da Dick, non inquietano, non sono il pugno allo stomaco che lo spettatore si aspetta dopo aver visto opere come Black Mirror, nel rendere più moderne le idee dello scrittore gli autori della serie non hanno avuto la stessa genialità di Dick che era un vero visionario, un precursore, un inventore di concetti; qui tutto è già visto ed è narrato in maniera emotivamente troppo poco coinvolgente. Probabilmente l'errore è stato proprio il portare tutto a quello che può essere un futuro possibile per la società odierna perdendo così la meraviglia del retrofuturismo, della sensazione che si prova oggi leggendo le opere di Dick, proiettate nel domani a partire da una società statunitense nel pieno della sua epoca d'oro, quella degli anni 50, e che creano quel cortocircuito tra passato e futuro così affascinante per chi oggi legge l'opera di Dick, questo aspetto nella serie si perde quasi completamente, un vero peccato.


Dai racconti di Dick qui si prende spunto, in alcuni episodi si ricama e si aggiunge per arrivare a riempire la durata di un'ora circa (tanto durano gli episodi), vedi The impossible planet ad esempio, arricchito di risvolti sentimentali assenti nel racconto originale, in altri casi si stravolge completamente il racconto mantenendone giusto uno spunto di partenza, nell'episodio Safe and sound si fatica addirittura a riconoscere il racconto da cui l'episodio è tratto, tanto che pur avendolo letto il collegamento tra questo e la controparte televisiva risulta difficile a farsi. Cambiano le tematiche e l'approccio alla materia. Detto questo la serie rimane comunque godibile, presenta spesso attori di alto livello che offrono ottime interpretazioni, tra i più celebri citiamo Steve Buscemi, Greg Kinnear, Juno Temple, Richard Madden, Brian Cranston, Jack Reynor, Timothy Spall, Anna Paquin, Maura Lynn Tierney e altri ancora; quando la serie accantona il futurismo a tutti i costi escono fuori episodi decisamente piacevoli seppur risaputi, come La cosa padre o The commuter. Philip K. Dick's electric dreams va guardata senza aspettarsi di essere da essa sconvolti, non mancano spunti di riflessione, con Dick non sarebbe possibile, ma non è questa la serie a cui rivolgersi se si vuole rimanere spiazzati. Si è sfruttato un nome di sicuro richiamo per un prodotto che si rivela molto più convenzionale del caos geniale che stava dentro la testa di Dick.

lunedì 13 luglio 2020

TOKYO FAMILY

(Tōkyō kazоku di  Yoji Yamada, 2013)

Di Yoji Yamada e del suo rapporto con il Cinema di Yasujirō Ozu abbiamo parlato brevemente qualche giorno fa in occasione della visione di Kyoto Story, progetto del 2010 portato a termine da Yamada con la collaborazione di Tsutomu Abe e di alcuni studenti universitari. Se con Kyoto Story l'omaggio era legato a un periodo felice della cinematografia nipponica, con Tokyo family in maniera più diretta si celebra il Cinema del maestro Ozu di cui Yamada in gioventù fu assistente, il film è infatti il remake di Viaggio a Tokyo di Ozu, considerato non solo uno dei migliori esiti della Settima Arte giapponese ma in assoluto uno dei film "da vedere" del Cinema tutto. Il taglio è intimista, se nell'originale i protagonisti uscivano dagli orrori della guerra mondiale e della bomba atomica qui la vicenda è ambientata dopo l'incidente nucleare di Fukushima; la tragedia non è al centro del film, la narrazione si concentra sui rapporti dei vari membri della famiglia Hirayama, tratteggiandone alcuni passaggi di crescita, di maturazione, riflettendo parallelamente sulla società moderna giapponese, sui suoi ritmi, sul contrasto tra questa e uno stile di vita sorpassato, ormai appannaggio di pochi anziani, più lento e rispettoso dell'essere umano. Dallo spaccato di una famiglia si arriva a temi universali propri non solo del Paese del Sol Levante.


Il signor Shukichi Hirayama (Isao Hashizume) e sua moglie Tomiko (Kazuko Yoshiyuki) lasciano la loro isola alla volta di Tokyo per andare a trovare i tre figli che nella capitale hanno costruito la loro strada. Il primogenito, Koichi (Masahiko Nishimura), è uno stimato medico che gestisce il suo ambulatorio, è sposato e ha dato due nipotini maschi ai suoi genitori, Shigeko (Tomoko Nakajima) è la figlia di mezzo, per ammissione della stessa madre è cresciuta un po' viziata dalla benevolenza del padre, gestisce un salone di parrucchiere insieme al marito Kozo (Shôzô Hayashiya), uomo dal temperamento frivolo. Il figlio minore è Shoji (Satoshi Tsumabuki) all'apparenza più superficiale e ancora incerto su che strada prendere per il futuro, proprio per la sua indole indecisa è malvisto dal padre con il quale non ha mai avuto un grande rapporto mentre invece adora incondizionatamente la madre. La scusa per intraprendere questo viaggio è quella di portare le condoglianze alla moglie vedova di un vecchio amico del signor Hirayama, i due anziani ne approfitteranno per passare qualche giorno ospiti dei due figli più grandi, i quali però non dimostreranno di avere troppo tempo da passare insieme ai genitori. Quando gli accadimenti della vita metteranno di fronte la famiglia a una dura prova sarà proprio Shoji a dimostrare maggiore sensibilità e a riservare ai suoi genitori qualche piccola sorpresa, cosa che riuscirà a far breccia anche nel cuore del burbero e anziano signor Hirayama.


Lo sguardo di Yamada è sereno, rispettoso dei personaggi, persone comuni con i loro pregi e i loro difetti, la coppia di anziani protagonisti, con i loro piccoli acciacchi e le loro idee precostituite (soprattutto nel caso del padre) avranno modo di rivedere le loro posizioni, sorprendersi inaspettatamente alla loro età, constatare, anche in maniera un poco amara, che i figli sono presi ormai da altro e che in questo Giappone moderno la vita deve correre, i clienti non aspettano, i ritmi non sono prevedibili, il guadagno influenza le scelte e spesso prevale sui sentimenti. La regia è diligente, si prende i suoi tempi (146 min.), li gestisce al meglio senza mai far affiorare un attimo di noia. Ci si appassiona alle vicende semplici di questa famiglia, per noi occidentali c'è in più l'occasione di immergersi in un mondo e in una cultura lontane dalla nostra. Nell'arco dei pochi giorni in cui si svolge la vicenda c'è un bel lavoro di mutazione su almeno tre o quattro personaggi fondamentali tra i quali la ragazza di Shoji, Noriko (Yu Aoi), della quale i genitori del ragazzo non sono a conoscenza, che regalano momenti di forte presa e commozione. Ottimo anche il ritorno al mondo rurale, per arrivare al quale si deve superare il mare, quasi una metafora della lontananza di due stili di vita ormai quasi inconciliabili.

Un altro ottimo film di Yamada la cui produzione si può esplorare su Raiplay gratuitamente a patto di sforzarsi nell'approccio ai film in lingua originale con sottotitoli in quanto la gran parte dell'opera del regista non gode di una distribuzione nel nostro paese. Lo sforzo comunque verrà ricompensato.

lunedì 6 luglio 2020

SORRY WE MISSED YOU

(di Ken Loach, 2019)

Altro grande film che si aggiunge alla lista dei lavori militanti portati a termine da Ken Loach, voce coerente e troppo isolata che continua a gridare contro le ingiustizie perpetrate ai danni di un proletariato sfruttato da una classe imprenditoriale cinica e sfrontata. Sembra quasi un anacronismo parlare ancora di proletariato, in realtà Sorry we missed you (il riferimento è al messaggio che lascia il corriere quando non trova in casa il destinatario) è di un'attualità brutale, si sono solo modificati i luoghi rispetto al recente passato, non più le miniere dell'epoca tatcheriana, le fabbriche dove si lavora a cottimo e scenari simili, qui siamo nell'epoca moderna degli acquisti online, un'epoca dove tutti noi alimentiamo lo sfruttamento di lavori sottopagati e usuranti, qui ci si concentra sul mondo delle consegne, ma pensiamo anche a chi lavora nei magazzini del colosso Amazon, nelle grandi catene di distribuzione e via discorrendo. Loach continua a parlarci della schiavitù moderna, quella di chi non è riuscito a ritagliarsi un posto al sole ed è costretto ad accettare lavori che non vorrebbe fare o che farebbe anche volentieri, come nel caso del protagonista del film, ma a condizioni economiche, salutari e di stress che rientrino in una gestione dignitosa delle ore lavorative e che possano riflettere la stessa dignità nella vita di tutti i giorni. Il messaggio che tutti dovrebbero tenere a mente è che queste persone sono vittime, a volte dei loro errori, molto più spesso di semplici scelte, quasi sempre di una società cieca eretta su fondamenta completamente sbagliate. Il lavoro non nobilita l'uomo, salvo in determinati casi, molto spesso semplicemente lo schiavizza.


Dopo anni di lavori manuali in ambienti difficili da sopportare Ricky Turner (Kris Hitchen) decide di mettersi in proprio, diventare un padroncino, comprarsi un furgone per le consegne e affiliarsi a un grosso magazzino che lavora per i grandi marchi di distribuzione. Il titolare del magazzino mette subito le cose in chiaro: "tu non lavori per noi, lavori con noi", come a dire niente diritti e tanti saluti. Le prime difficoltà iniziano da subito, bisogna investire per il furgone e i soldi non ci sono, i Turner pagano l'affitto, hanno due figli da mantenere, la piccola Liza (Katie Proctor) e l'adolescente turbolento Sebastian (Rhys Stone) e al momento possono contare solo sulle ore che Abbie (Debbie Honeywood), la moglie di Ricky, fa come infermiera domiciliare, lavoro che la tiene lontana da casa tutto il giorno. Abbie sarà così costretta a vendere la sua auto e iniziare ad andare a lavoro con i mezzi pubblici, cosa che tra orari spezzati, turni serali e distanze lunghe carica di stress la madre di famiglia che non avrà più tempo per seguire i figli. Il nuovo lavoro di Ricky per essere minimamente remunerativo lo costringe a giornate lavorative di quattordici ore, sempre in giro nel traffico, tra imprevisti, indirizzi errati, clienti scortesi e multe, sanzioni, e comprensione zero da parte dei datori di lavoro. I soldi non aumentano e la famiglia si sfascia.


Quella che Loach ci racconta è una storia di sofferenza come tante ce ne sono al mondo, anche nei paesi occidentali che si considerano liberali e democratici. Se nel precedente Io, Daniel Blake a negare la dignità al protagonista era uno Stato sordo e cieco, qui è il mondo del lavoro a essere profittatore e disonesto, e i due contesti purtroppo vanno spesso a braccetto. Il tema centrale è quello della tensione familiare che si crea in seguito a situazioni lavorative disagevoli. Ancora una volta Loach tira fuori dal mazzo degli sconosciuti quattro splendidi interpreti, Hitchen mette in scena un padre amorevole che perde completamente il polso della situazione familiare per assenza, stanchezza cronica, nervosismo, stress; insieme a Rhys Stone tratteggia un rapporto padre/figlio difficile e conflittuale inasprito dalla situazione contingente, la madre che come spesso accade nella realtà è il collante che tiene unita la famiglia con la sua forza, anch'essa interpretata magnificamente dalla Honeywood, sarà quella che avrà la reazione più estrema e genuina, quella per la quale tutti noi spettatori (almeno quelli con il cuore al posto giusto) abbiamo parteggiato. Menzione particolare per la vispa Katie Proctor, una splendida bambina che mostra molta più maturità del fratello più grande.

Loach riesce sempre a farci versare qualche lacrima, il suo è un Cinema schierato e di parte su un argomento del quale sembra non fregare più un cazzo a nessuno, in testa queste ridicole sinistre che scaldano i banchi in parlamento e che sono quelle che storicamente e per tradizione ideologica dovrebbero avere a cuore le persone che lavorano. Allora ben venga il Cinema di parte e schierato di Loach, vedi mai che qualche coscienza si smuova. Purtroppo l'impressione è che si predichi solamente ai già convertiti.

venerdì 3 luglio 2020

GRAVITY

(di Alfonso Cuarón, 2014)

Che Alfonso Cuarón abbia un feeling particolare con la costruzione delle immagini e delle inquadrature lo sappiamo da tempo, il lavoro magnifico sulle stesse effettuato con questo Gravity, in gran parte digitale, è stato bissato dal bianco e nero del successivo Roma per il quale il regista messicano si è superato andando a conquistarsi il suo secondo Oscar per la regia (al momento ne ha 4 a suo nome, i suoi film parecchi di più). Per elogiare l'impianto visuale di Gravity potremmo partire dal titolo del film, la ricostruzione dei movimenti dei due protagonisti, Sandra Bullock e George Clooney, in assenza di gravità sono fluidissimi, contribuiscono in maniera decisiva a scatenare nello spettatore i diversi stati d'animo nelle varie sequenze del film, spesso legati all'angoscia ma che restituiscono anche un'idea di libertà, di scoperta, di infinito e di perdita di direzione. Il discorso è chiaramente metafisico, in alcuni passaggi Cuarón ci presenta una metafisica for dummies, vedi l'ultima scena con riferimento talmente palese che anche i bambini delle elementari dopo aver studiato l'origine della vita possono comprendere. Questo nulla toglie alla forza delle immagini, la sequenza finale si lascia apprezzare molto nonostante l'ovvietà di fondo. Ciò che emerge maggiormente in Gravity, oltre al percorso di "rinascita" della protagonista, è la tensione che accompagna la narrazione per l'intera durata del film (fortunatamente contenuta), in questo c'è un perfetto equilibrio tra immagine e narrazione che vanno a costruire un film avvincente seppur dallo sviluppo canonico, cosa che ad esempio non è riuscita al regista con il successivo Roma che indubbiamente aveva motivazioni più personali e di valore ma che mancava completamente di mordente.


Cuarón ha un approccio al tema, parlando sempre di immagini, abbastanza originale. La Terra è lì, immensa, sembra a portata di mano eppure è così lontana. Ci sono i silenzi dello spazio profondo, la leggiadria dei movimenti, gli astronauti liberi di muoversi nel vuoto legati a quello che dovrebbe essere un robusto cavo, esile come il filo che regge una vita. Le distanze sono espresse in km, sembra quasi un'ultima frontiera alla portata di tutti. La dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) è alla sua prima missione spaziale sullo Space Shuttle Explorer, è accompagnata dall'astronauta esperto e prossimo alla pensione Matt Kowalsky (George Clooney). Agganciati al famoso telescopio Hubble per delle riparazioni, i due astronauti vengono investiti da una pioggia di detriti che danneggia l'Explorer uccidendone il resto dell'equipaggio; Stone e Kowalsky si troveranno così alla deriva nello spazio aperto con solo un jetpack come mezzo di propulsione per raggiungere la "vicina" Stazione Spaziale Internazionale per poter usare uno dei suoi Sojuz per tornare a casa.


La tensione è costante ed è data da tutti gli inconvenienti che capitano ai due protagonisti a partire dalla presenza dei detriti in orbita attorno alla Terra e che quindi tornano ciclicamente facendo danni, il tutto acuito dall'inesperienza della Stone che deve far ricorso alla teoria del corso di addestramento per cavarsela nelle situazioni più complesse. Proprio per lei questa prova di resistenza sarà simbolo di una rinascita come essere umano, irrimediabilmente ferito da un trauma del passato, la forza necessaria per affrontare lo spazio sarà la stessa che servirà per affrontare una nuova vita, il tutto porterà alla famosa scena for dummies di cui abbiamo parlato prima. Nonostante i pochi elementi il film regge benissimo proprio per il dosaggio perfetto della tensione, aiutato da immagini spettacolari e da un impianto sonoro all'altezza, la Bullock, vera protagonista, regge il peso del film sulle sue spalle metaforicamente larghe, si gode anche di un respiro internazionale pur essendo a chilometri dal suolo terrestre grazie ai vari costrutti americani, cinesi e internazionali che costellano l'orbita terrestre.

Pur peccando di un pizzico di didascalismo, Gravity rimane un ottimo film, grande esperienza visiva e coinvolgente nella gestione della suspense, manca l'appuntamento con l'Oscar per il miglior film; mi tocca però dire che pur avendo visto solo altri due titoli tra quelli candidati nel 2014 insieme a Gravity in effetti entrambi (non vi rivelerò quali) mi sono sembrati migliori di questo. Probabilmente la produzione si sarà accontentata degli incassi stratosferici e delle altre sette statuette raccolte.

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