martedì 30 giugno 2020

OUTRAGE

(di Takeshi Kitano, 2010)

Rispetto ad altre sue opere più famose con Outrage Takeshi Kitano perde un (bel) po' della sua poesia malinconica (L'estate di Kikujiro), del suo essere fuori dagli schemi (Zatoichi) o ai limiti dell'assurdo (Takeshis'), lascia andare anche quel pizzico di epica malavitosa (Brother) che si distingueva in alcune sue opere precedenti. Beat Takeshi asciuga, con Outrage rimangono il gusto della narrazione e la propensione a non fare sconti sulla violenza, soprattutto in determinate scene che incorniciano questa storia Yakuza di opportunismo e tradimenti. Ne esce un film meno coinvolgente rispetto a quelli sopra citati, più convenzionale pur rimanendo un prodotto più che valido, soprattutto per chi ama il gangster movie.

A Tokyo diverse famiglie si contendono la gestione criminale di redditizie attività illegali; a capo di tutta l'organizzazione c'è il Presidente (Soichiro Kitamura), un uomo ormai non più giovane ma ancora in grado di ordire intrighi ed esercitare il suo potere. Tra le famiglie che devono obbedienza al Presidente c'è quella di Ikemoto (Jun kunimura), un leader che sta portando avanti un'alleanza con Murase (Renji Ishibashi) a causa di un patto d'onore stretto in carcere. Questa alleanza però al Presidente non piace, questi intima a Ikemoto di sbarazzarsi della banda di Murase, lo stesso Ikemoto si rivolgerà al suo sottoposto Otomo (Takeshi Kitano), a capo di uno dei gruppi criminali più feroci dell'area di Tokyo, per risolvere la questione. Le cose si complicheranno sempre più con il crescere degli interessi, con l'inasprirsi delle rappresaglie e con l'aumentare della sete di potere dei vari partecipanti a questo gioco al massacro.


Outrage è una serie di manipolazioni, tradimenti, esecuzioni e vendette che ci portano dove nulla ha più valore, nemmeno quell'onore tanto caro alla tradizione giapponese, solo Otomo e pochi altri ne mantengono una parvenza seppur distorta da un contesto avulso dalla realtà di tutti i giorni che vivono le persone normali. A contrastare con le esplosioni di violenza, decisamente creative anche se non tutte originali (l'uso delle bacchette come arma d'offesa l'avevamo già visto proprio in Kitano seppur declinato in maniera diversa) c'è l'espressione granitica, quasi assente dell'invece presentissimo Otomo, Kitano ritaglia per sé la parte di un capogruppo spietato e incline alla violenza, così come lo sono anche diversi esponenti degli altri clan. È proprio la violenza che esplode a più riprese la cifra distintiva di un film che non ha tante altre frecce al suo arco. Kitano dirige con professionalità ma senza proporre soluzioni memorabili, anche la sceneggiatura fila dritta senza mai arrotolarsi su sé stessa, per gli amanti del genere Outrage resta un bel film, la gran parte degli attori è perfetta per il ruolo che ricopre, mancano le sorprese, il coinvolgimento emotivo e quel pizzico di epica scorsesiana che in film a tema spesso non guasta. Outrage è asciutto, tosto, funzionale, anche avvincente per alcuni versi, da Kitano però ci si aspetta di più.

sabato 27 giugno 2020

KYOTO STORY

(Kyōto Uzumasa monogatari di Yoji Yamada e Tsutomu Abe, 2010)

Yoji Yamada (qui coadiuvato da Tsutomu Abe) è un nome storico del Cinema giapponese, indicato come uno dei maggiori discepoli del maestro Yasujirō Ozu, lungo la sua carriera di regista ha inanellato una serie infinita di pellicole, ben quarantasei delle quali facenti parte di una stessa serie, quella di Tora-San, una delle più longeve della Settima Arte. Legato storicamente alla casa di produzione cinematografica Shochiku, fondata a Tokyo nel 1895, con Kyoto Story Yamada pennella un ritratto affettuoso del quartiere Uzumasa di Kyoto, in particolar modo di un frammento di quel quartiere, la Daiei Shopping Street, strada commerciale che prende il nome dagli ormai dismessi studi cinematografici della Daiei, rivale storica delle produzioni Shochiku. È uno sguardo tenero quello che ha Yamada per il quartiere e per le sue storie, l'impianto di Kyoto Story è finzionale, il regista ci racconta le vicende sentimentali della giovane Kyoko le quali sono inframezzate da brevi interviste in forma documentaristica ai negozianti della Daiei shopping street, uomini e donne che sono anche i vicini e i parenti dei protagonisti della storia; non mancano gli accenni al passato glorioso degli studi di produzione che vivono ancora come attrazione del quartiere e dove si è fatta la storia del jidai-geki, il film di stampo storico della tradizione giapponese, lustro per la Daiei il Leone d'oro a Venezia e l'Oscar a miglior film straniero per Rashomon di Akira Kurosawa, film girato proprio negli studi della Daiei.


Sorge l'alba di un nuovo giorno sulla Daiei shopping street, il cielo è ancora rosa, il traffico inizia a muoversi, il tram scivola sui binari nel quartiere dei vecchi studi cinematografici, Kyoko (Hana Ebise) corre fino alla lavanderia dei suoi genitori, pronti per un'altra dura giornata di lavoro, la bottega e la casa coesistono in simbiosi, un po' come accade per i locali di tutti i piccoli commercianti della zona, i produttori di tofu genitori di Kota (Yoshihiro Usami), il ragazzo di Kyoko, o i proprietari del piccolo ristorante di zona che una volta serviva le star venute a girare negli studios. Si respira un'aria di serenità, le chiacchiere di quartiere, gente che lavora duro, la scuola, i sogni. Kyoko lavora part-time nella biblioteca dell'università, nel resto della giornata dà una mano in lavanderia, Kota si è ritagliato un po' di tempo per sfondare nel mondo dello spettacolo, per diventare un comico, non ha intenzione di seguire le orme dei genitori e rilevare l'attività di famiglia. A Kota però manca il talento per poter davvero arrivare da qualche parte, il suo rifiuto di prendere in considerazione un'attività dignitosa come quella dei suoi genitori indispettisce un poco Kyoko che comunque ha sempre incoraggiato il ragazzo che passa da un'audizione fallimentare a un'altra. Un giorno Kyoko incontra in biblioteca uno studioso di antichi ideogrammi, Enoki (Sôtarô Tanaka), un uomo maturo ma estremamente goffo ed esagerato nei modi, un carattere stridente in mezzo al contegno pudico ed educato degli abitanti di Kyoto. Passerà poco prima che Enoki perda la testa per la bella Kyoko. Così tra testimonianze veritiere (i negozianti della shopping street lo sono sul serio) e sguardi nostalgici a un passato glorioso si sviluppa la delicata storia di Kyoko che la porterà a dover prendere qualche importante decisione.


A colpire in Kyoto Story è il senso di pace che permea tutta la pellicola, nonostante la città conti circa un milione e mezzo di abitanti Kyoto sembra un paese a misura d'uomo, Yamada effettua alcune splendide riprese che ne accentuano la bellezza, puntando proprio su un sentore di serenità incorniciato dai bei colori della natura cittadina. Nonostante il film presenti un buon ritmo (di breve durata e non ha momenti di stanca pur essendo costruito principalmente su dialoghi) nulla sembra mai frenetico, nemmeno il treno ad alta velocità Shinkansen. Yamada mette in scena un percorso di crescita per i suoi personaggi che è anche l'occasione per omaggiare un passato importante per il Cinema del sol levante senza mai mettere in secondo piano i suoi personaggi, riempie il quartiere di grande dignità e poggia uno sguardo sicuramente romantico sulle sue strade come sui giovani protagonisti di questo Kyoto Story. Siamo di fronte a un film che mette di buon umore, ottimo viatico e porta d'ingresso per scoprire il Cinema di un autore da noi ancora poco noto di cui è reperibile altro materiale, parte di questo probabilmente più ostico di Kyoto Story, altro ancora quasi impossibile da recuperare.

giovedì 25 giugno 2020

NOI

(Us di Jordan Peele, 2019)

Il Cinema di Jordan Peele è politico in modo sfacciato, dietro i suoi due film da regista c'è un messaggio sulle storture della società statunitense per nulla sottile, metafora al servizio della quale anche la storia narrata si piega; eppure Peele ha la capacità di mantenere un buon equilibrio tra contenuto e contenitore, andando a costruire film horror edulcorati dalla violenza estrema, capaci così di essere fruiti anche da chi non ama le derive più sanguinose del genere, aprendo quindi alla platea più vasta possibile il suo messaggio (e ovviamente anche il ritorno economico). Ciò che più sta a cuore al regista è la condizione delle minoranze, quella dei neri d'America in primis ma non solo, in Noi si potrebbe leggere il tentativo di riappropriarsi di una vita degna di essere vissuta da parte di qualsiasi minoranza, che sia quella discriminata per il colore della pelle o quella vittima di una disparità sociale ed economica svilente. Il regista ha anche un certo gusto per la messa in scena simbolica, nella sequenza dei conigli perché questi sono al 99% bianchi? Non sfugge nemmeno il significato della scena all'interno della casa degli specchi che diviene lampante al cospetto dei doppi malvagi dei protagonisti. Anche Noi come il precedente Scappa - Get out è un film che istiga alla riflessione, meno ironico del suo predecessore ma non per questo fallisce nello scopo di divertire lo spettatore.


Prologo: la piccola Adelaide (Madison Curry) durante una serata al luna park in compagnia dei genitori si allontana finendo nella casa degli specchi, lì vivrà un'esperienza che la lascerà traumatizzata. Stacco. Adelaide (Lupita Nyong'o), ormai adulta, si è costruita una bella famiglia, è sposata con Gabe Wilson (Winston Duke), un'omaccione gentile e un po' distratto, e ha due bei bambini: l'adolescente Zora (Shahadi Wright Joseph) e il più piccolo Jason (Evan Alex). Durante una vacanza a Santa Cruz Adelaide mostra difficoltà nel tornare sui luoghi dove visse (all'insaputa del marito) quell'esperienza da bambina. Una sera, nella loro casa lussuosa, la famiglia Wilson riceve una visita inquietante, una famiglia di loro doppi, una sorta di controparte malvagia e distorta, fa irruzione in casa reclamando il posto che spetta loro di diritto: quello alla luce del sole. Sono delle ombre maligne, vestite di rosso e munite di forbicioni, dei doppelgänger disposti a tutto pur di emergere dagli scantinati della vita dove finora erano stati reclusi. Seguono scontri.


Come si diceva tra simbolismi e sviluppi di trama la denuncia è chiara, per non dare adito a dubbi Peele lascia alle parole di Red, il doppio di Adelaide, il compito di tradurre per i meno attenti: alla domanda "ma voi cosa siete?" la voce distorta di Red risponde semplicemente "Siamo americani". La minaccia è inclusiva, Peele mette al centro della narrazione una famiglia di colore (così come di colore sono anche i doppi malvagi), ma il discorso qui è ancor più universale, siamo noi che torneremo per tormentarci, noi, le stesse persone che formano insieme la nostra società, le persone che noi abbiamo escluso che prima o poi daranno il giro a tutta la baracca, noi sono i nostri sbagli, le nostre esclusioni e le nostre prevaricazioni e sì, vedi alla voce Minneapolis (per citare una delle più recenti), sono i nostri razzismi. Appurato il contesto il film regge bene anche come thriller teso del filone "il nemico in casa", i Wilson dovranno cercare di sopravvivere con tutte le loro forze ai loro aggressori, diventando qualcosa che (ancora) non sono, anche nello sviluppo il tema rimane politico, la soluzione al problema è ancora una volta la violenza. Peele ha una bella mano per le riprese, riesce a dirigere ottimamente almeno le due donne del cast, Lupita Nyong'o e Shahadi Wright Joseph sono molto convincenti nei loro doppi ruoli, il clima di minaccia si respira quasi costantemente, meno riusciti i tentativi d'ironia mentre soddisfa la scelta in chiusura del film. Certo, qualche ingenuità non manca, penso per lo più alla spiegazione sull'origine dei doppi che avrei lasciato nel mistero, a volte sembra che Peele tiri il freno a mano per non farci vedere troppo, ma a conti fatti Noi è una bella opera seconda, viste le critiche positive a Scappa - Get out non era facile non deludere le aspettative. Ora si aspetta qualche variazione anche al tema.

domenica 21 giugno 2020

LANTERNA VERDE

(Green Lantern di Martin Campbell, 2011)

Nel periodo successivo alla sua uscita questo Lanterna Verde fu sbertucciato in tutte le maniere, il film fu aspramente criticato anche dai fan del personaggio, lo stesso Ryan Reynolds si disse insoddisfatto dell'esperienza negando un suo eventuale coinvolgimento in un ipotetico sequel, anche gli incassi al botteghino andarono maluccio. Alla luce delle successive esperienze di trasposizione in video degli eroi DC Comics e valutando a mente fredda l'esito di Green Lantern questo trattamento il film non lo meritava. Intendiamoci, Lanterna Verde non è un bel film, nemmeno lontanamente, arrivati più o meno al quarantacinquesimo minuto si inizia a invocare l'intervallo, nemmeno ci trovassimo su un campo da calcio distrutti dalla fatica di giocare una partita a corto di fiato. Il film a un certo punto inizia ad annoiare, a parte qualche tentativo d'ironia demente mal concepito il film non riesce a risultare divertente, seppur si sia investito sugli effetti speciali mancano anche le sequenze action appassionanti, cosa ancor più grave se pensiamo che dietro la macchina da presa c'è il Martin Campbell di Casino Royale, non che sia un grande autore ma almeno sul piano del dinamismo era lecito aspettarsi qualcosina in più. Contestualizzando però Lanterna Verde arriva addirittura prima della nascita del DC Extended Universe, precorre quindi un po' i tempi del grande rilancio dell'universo Dc che ha potuto giovare di più tempo ed esperienze pregresse per sfornare prodotti migliori di questo senza riuscirci troppo spesso, se pensiamo ad Aquaman, a Justice League o anche a Batman Vs Superman: Dawn of Justice alla fine Lanterna Verde non fa nemmeno una figura così meschina.


Hal Jordan (Ryan Reynolds) è un adulto irresponsabile che rifugge ogni tipo d'impegno, cosa che rende il rapporto con la bella Carol Ferris (Blake Lively) incostante. Hal è un collaudatore di aerei per le Industrie Ferris, segue in questo le orme del padre, pilota di aeronautica deceduto proprio a causa di un incidente aereo. Visto il suo sprezzo del pericolo Hal viene scelto dall'alieno morente Abin Sur (Temuera Morrison) come suo successore e possessore dell'anello, un costrutto magico che insieme alla lanterna del potere trasforma Hal in uno dei difensori galattici appartenenti al Corpo delle Lanterne Verdi, una sorta di polizia di difesa su scala galattica. Create dai Guardiani del pianeta Oa, le Lanterne stanno passando un periodo burrascoso a causa dell'entità maligna Parallax che attinge il suo potere dal sentimento della paura, così come le Lanterne incanalano il loro grazie alla forza di volontà. L'entità Parallax arriverà anche a minacciare la Terra, nel settore d'universo difeso proprio da Hal Jordan che per affrontare questo nemico non potrà contare sui suoi nuovi compagni di corpo: Kilowog, Tomar-Re e Sinestro (Mark Strong).


Costruzione molto classica, presentazione del personaggio e sviluppo con tutti i topoi del fumetto supereroico, a partire dalla doppia identità (qui nascosta da una mascherina efficace quanto gli occhiali di Clark Kent), dall'affermazione del protagonista fino al rapporto con la donna della vita che arriverà a scoprire il doppio ruolo del suo eroe. Green Lantern è un film che punta molto sugli effetti speciali, almeno nelle scene galattiche, purtroppo questo è anche l'aspetto che si dimentica più facilmente, nella realizzazione in cgi non c'è davvero nulla di memorabile, il protagonista sfoggia un bel look ma qui ci fermiamo, poco convincente il villain Parallax (è una nuvola malvagia, suvvia...) così come non esaltano i comprimari, sprecato totalmente un personaggio dal carisma potenziale altissimo come Sinestro, quello che avrebbe dovuto essere la vera nemesi di Hal, impettiti e inutili anche i Guardiani (se allo spettatore poi vengono in mente i Guardiani della Galassia è finita), nel complesso c'è davvero poco di interessante in questo Lanterna Verde. Con le sequenze aeree iniziali non si era partiti neanche male, qui Campbell offre una buona prova, poi tutto si appiattisce a causa di una cgi poco entusiasmante seppur fluida e funzionale, il film regge per trenta o quaranta minuti poi sfuma nella noia e nel già visto.

Peccato perché Geoff Johns qui produttore esecutivo aveva su carta fatto grandi cose con questo personaggio, le potenzialità delle Lanterne sono letteralmente infinite, proprio come per il loro potere l'unico limite qui è l'immaginazione che purtroppo è stata parecchio scarsa. C'è da dire che per chi ha apprezzato le opere successive sfornate in casa DC, quelle che abbiamo citato prima per esempio, un'occasione a questo film si potrebbe anche dare, nonostante molte critiche anche legittime non mi è sembrato peggio di alcune opere dedicate ai colleghi più blasonati.

giovedì 18 giugno 2020

UNA NOTTE DA LEONI 3

(The hangover part III di Todd Phillips, 2013)

Ultimo capitolo della saga demente diretta da Todd Phillips, questa volta il canovaccio non è spudoratamente ricalcato sul capostipite; non c'è un matrimonio da mettere a rischio né celebrazioni festose a cui partecipare, anzi, c'è il funerale dell'amato padre di Alan (Zach Galifianakis), non c'è nemmeno la telefonata introduttiva di Phil (Bradley Cooper) che preannuncia il disastro (e se ne sente un poco la mancanza). Viene meno anche la struttura corale, è pur vero che i protagonisti ci sono ancora tutti, alla cricca si aggiunge anche un John Goodman gigione, ma questo terzo capitolo poggia all'80% sulle spalle larghe di Galifianakis e per il restante 20% sulla mimica idiota di Ken Jeong, l'interprete dell'ormai mitico Leslie Chow. A sparire è ancora una volta il povero Doug (Justin Bartha), il più assennato dei ragazzi, rapito da Marshall (John Goodman), un delinquente al quale Chow, dopo una movimentata evasione dalle prigioni di Bangkok, ha rubato diversi milioni in lingotti d'oro e che ora intima a Phil, Stu e Alan di recuperare per lui l'oro e l'orientale fuori di testa pena la vita del caro Doug (quello bianco).

La trama è un pretesto per inanellare gag, situazioni, battute, momenti e sequenze che hanno come unico scopo portare alla risata lo spettatore. A fare da collegamento al primo film c'è il ritorno sul luogo del delitto, quella Los Angeles che già vide una volta le imprese deliranti dei nostri, non manca inoltre una tappa a Tijuana, città della perdizione sul confine tra U.S.A. e Messico, c'è anche un'apertura sentimentale per Alan che invece di trovare il posto che gli compete in qualche ospedale psichiatrico troverà quella che per lui potrebbe essere una sorta di anima gemella (Melissa Mccarthy). È proprio Alan il personaggio su cui la sceneggiatura costruisce qualcosa, una specie di percorso delirante, sue sono le scene migliori come quella con la giraffa o l'esibizione al funerale del padre, e ancora una volta il meglio arriva dopo i titoli di coda. Torna in una piccola parte anche Heather Graham, quarantatré anni e sempre più bella e anche qui sarà Alan a dare il meglio di sé.


Obiettivo centrato ancora una volta, Todd Phillips ha l'intelligenza di fermarsi in tempo prima di svilire il brand e di dedicarsi ad altro, si ride ancora parecchio, Bradley Cooper ed Ed Helms diventano comprimari "non protagonisti" di lusso, qui regna il vero confronto tra scemi, due tipi di scemo diversi Alan e Chow, entrambi irresistibili, tirate le somme quella di Una notte da leoni si conferma la migliore saga comica degli ultimi anni tanto da far ancora fatica a comprendere come il passaggio da tutto questo a un film (bellissimo) come Joker sia stato possibile per il regista Todd Phillips.

mercoledì 17 giugno 2020

SONO LA BELLA CREATURA CHE VIVE IN QUESTA CASA

(I am the pretty thing that lives in the house di Oz Perkins, 2016)

Il secondo film di Oz Perkins, figlio del ben più noto Anthony, è un'opera formale, costruita con cura e attenzione, ma di ben poca sostanza. Nonostante il film sia ambientato in epoca recente e non ci siano grandi castelli o enormi magioni a inquadrare la storia narrata, l'approccio potrebbe essere riconducibile al genere gotico sebbene per rientrare di diritto nel filone e ritagliarsi un po' di spazio il film avrebbe avuto bisogno di una maggior dose di inquietudine, palese o sotterranea poco importa, qui tutto sommato appena accennata e insufficiente per rendere il film degno di essere ricordato. La messa in scena è elegante, lo sviluppo controllato, non si abusa di jump scare, non ci sono scene madre, non si cerca mai l'effettaccio grossolano, Perkins si prende i suoi tempi, la camera si muove lenta, si gioca con i contrasti luce/buio o ancor meglio penombra/buio, i personaggi sono per lo più silenti, poche battute, molto è delegato alla voce over che presenta la situazione e mette le cose in chiaro fin da subito. Sappiamo dalla prima sequenza che in quella casa del Massachussets c'è uno spirito di una bella creatura (ormai defunta) che non è stata capace di lasciare i suoi luoghi, sappiamo che la protagonista del film di lì a poco, in quella casa, vedrà la fine della sua esistenza. Non c'è mistero, anche nello sviluppo tutto è facilmente intuibile, si lavora sulle atmosfere.

Una casa in cui è morto qualcuno non può essere più comprata o venduta dai vivi, può essere solamente prestata dai fantasmi che vi sono rimasti”.


Il fantasma lo intravediamo da subito in un'immagine sfocata, sapientemente costruita, si rivelerà essere lo spettro di una giovane molto bella in abiti ottocenteschi. La casa che è protagonista della vicenda è abitata dall'anziana scrittrice di libri horror Iris Blum (Paula Prentiss), una vecchia signora ormai malata e poco presente a sé stessa, quello che è il curatore dei suoi averi, il signor Waxcap (Bob Balaban), assumerà la giovane infermiera Lily Saylor (Ruth Wilson) affinché si prenda cura della donna. Nella solitudine della casa, soprattutto la sera, la pavida Lily inizierà a provare inquietudine, qualche strano episodio, un muro che inizia a presentare macchie sospette, un tappeto smosso, piccoli segni di una qualche presenza, all'apparenza neanche troppo minacciosa. Nella trama di un libro incompiuto della Blum, Lily leggerà la storia di Polly (Lucy Boynton), la giovane che continua a consumarsi in quella casa...

Sono la bella creatura che vive in questa casa è fatto di attese, di fotografie, è scolpito in un luogo, è un film che mostra rispetto per chi sta al di qua e per chi sta al di là della morte, è accompagnato da un lavoro discreto ma molto efficace su suoni e musiche (di Elvis Perkins, fratello del regista), è un'attesa che però lascia inappagati, il film scorre senza sussulti, non provoca spaventi (e forse non vuole nemmeno farlo), non avvince, si lascia ammirare per un buon gusto di forma, ma da subito inizia a sbiadire nella memoria, come uno spettro, prima che si arrivi all'epilogo già noto. In sostanza un lavoro poco incisivo da parte di un regista che dimostra di conoscere e saper usare i suoi mezzi, anche molto bene, per la prossima opera non resta che andare alla ricerca di una buona storia, magari facendola scrivere ad altri.

domenica 14 giugno 2020

CONTATTI

(Contactos di Paulino Viota, 1970)

Abbiamo già avuto modo in più di un'occasione di ricordare come nel pieno della pandemia da Covid 19, per aiutarci a starcene buoni a casa nostra, Raiplay abbia messo a disposizione gratuitamente parte della programmazione del contenitore cinefilo Fuori Orario. Questa è indubbiamente una bella occasione, soprattutto per il cinefilo incallito, inguaribilmente curioso, di andare a scovare film e reperti altrimenti poco visibili su altre piattaforme e men che meno sulle reti generaliste e, sottolineiamolo, anche quando programmati da Fuori Orario su Rai 3 accessibili solo in orari inumani. Grande opportunità dicevamo, ma si sa, le opportunità portano con loro anche un fattore di rischio, la probabilità di incappare in opere lontane dai propri gusti, indigeribili, o magari poco appaganti nonostante un loro valore storico e artistico riconosciuto è sempre presente, se non si è dei super esperti di (Storia del) Cinema l'unica è affidarsi ai consigli di critici professionisti e sperare per il meglio, io ad esempio così ho fatto approcciandomi a questo Contatti di Paulino Viota. Purtroppo questa volta è andata male, pur riconoscendo al regista qualche merito (legato più che altro a questioni di grande coraggio) Contatti mi ha lasciato abbastanza indifferente, fortunatamente la durata davvero esigua (un'oretta) non permette al tedio di gettare lo spettatore nello sconforto, diciamo che per chi è a caccia di un Cinema diverso qui il rischio ce lo si può prendere anche a cuor leggero.

Premessa: Contatti è il primo dei tre lungometraggi girati dal regista, alle spalle già diversi corti e almeno un mediometraggio. Siamo nel 1970 in Spagna, sono anni in cui la condizione economica della popolazione iniziava a migliorare e ad avvicinarsi al progressivo benessere degli altri paesi europei, gli spagnoli iniziano a vedere innanzi a loro un futuro con qualche prospettiva ma sono ancora sotto il regime franchista che andrà avanti per almeno un altro lustro, un regime che non lesinava agli oppositori torture, condanne a morte, fucilazioni, insomma... il pacchetto completo offerto dalle peggiori dittature. È in questo clima non troppo disteso che Paulino Viota, prendendosi i suoi rischi, gira clandestinamente questo film che per i contenuti, seppur molto vaghi, avrebbe potuto essere inviso al regime, è proprio questo atto di coraggio che può portare ad apprezzare un'opera altrimenti molto povera sia dal punto di vista formale che di contenuto.


Viota gira principalmente in interno, anche per un'ottica di prudenza immagino, un corridoio di una casa dove si affittano delle camere, le camere stesse, un tratto di strada in esterno e il ristorante (anche qui una sola stanza) dove i due protagonisti lavorano, due giovani  amanti che sono anche gli affittuari delle due stanze di cui sopra. Principalmente inquadrature fisse, qualche brevissimo pianosequenza e carrello di raccordo, pochissimi movimenti di macchina. Anche il bianco e nero, restaurato di recente, presenta una grana che mostra i segni del tempo. La protagonista e il suo amante Javier sono probabilmente coinvolti in qualche non ben specificata attività anti governativa, c'è sempre un clima di sospetto nella pensione, i due nascondono la loro relazione alla proprietaria di casa, Javier ha degli incontri ermetici con l'amico Juan, dai discorsi trapela l'insoddisfazione per una situazione generale pesante e per la mancanza di diritti, anche nell'ambiente di lavoro. Accenni, incontri clandestini in strada, un clima di oppressione sottolineato dall'assenza di musica e dalla limitatezza delle location. Dialoghi vaghi a indicare una condizione generica, mai fatti concreti, il film è una metafora della vita nella Spagna di quegli anni, ma oltre a questo e, va sottolineato ancora, al coraggio di Viota che non in molti avrebbero avuto, il film in tutta sincerità non ha davvero nulla di interessante da dire anche se rimane un documento di una certa importanza per il contesto storico in cui è stato realizzato. Solo per veri appassionati di Cinema nascosto o storici del periodo franchista.

sabato 13 giugno 2020

GREEN BOOK

(di Peter Farrelly, 2018)

Green book è un film hollywoodiano fino al midollo, uno di quelli che li guardi e sembrano costruiti sequenza dopo sequenza per trionfare alla notte degli Oscar (cosa poi in effetti avvenuta), è uno di quei film che si sviluppano proprio come te lo aspetti, tanto che arrivati a metà hai già in mente come si svolgerà la scena finale. Nulla di male, perché Green book racconta proprio una bella storia e lo fa per bene, in maniera classica, prevedibile, ma con tutti gli elementi al posto giusto e sì, anche con una bella dose di buoni sentimenti; ma alla fine, se andiamo a vedere, i buoni sentimenti non hanno mai fatto male a nessuno, e quindi...

La vicenda è ispirata alla vera storia del musicista di colore Don Shirley (Mahershala Ali) e all'amicizia di questi con Frank Vallelonga (Viggo Mortensen) detto "Tony Lip", un italoamericano dall'appetito spropositato e con una propensione naturale per le "stronzate". Shirley è un pianista di grande talento amato dalla società bene di tutti gli Stati Uniti d'America. Siamo però nei primi anni 60 e, soprattutto negli Stati del Sud, prima che un grande musicista Don è pur sempre un negro. Un negro molto orgoglioso però, deciso a non mollare per strada un solo grammo di dignità durante la lunga e faticosa turné che attraverserà proprio gli Stati del Sud per toccare le migliori location dove esibirsi ma anche le peggiori bettole dove dormire in quanto la segregazione ancora non consente ai neri di avere gli stessi diritti e la stessa dignità riservate anche al peggior bifolco bianco. Per questo viaggio Don ha bisogno di un autista capace anche di organizzargli spostamenti e serate in modo che non si verifichino intoppi di sorta, dopo alcuni colloqui ecco arrivare Frank, in pausa forzata causa chiusura del Copacabana, locale dove lavorava fino a poco tempo prima come buttafuori. Anche Frank ha le sue riserve sui neri, ma in fondo è un uomo tollerante e di buon cuore, pur con qualche condizione accetterà il lavoro lasciando a casa moglie e figli diretto a Sud nella speranza di riuscire a tornare in tempo dall'amata famiglia almeno per la vigilia di Natale. E sappiamo tutti come vanno a finire i film dove c'è di mezzo il Natale.


Al centro del film di Farrelly, che insieme al fratello arriva dalla commedia demenzialtriviale, c'è il classico schema della coppia formata da tipi (stereotipi?) molto diversi tra loro. Frank, pur essendo un buon uomo, ha conoscenze nella malavita, ama a dismisura la famiglia, è un'ottima forchetta, gesticola abbondantemente e trasuda copiosamente l'origine italiana. Don è invece il tipo di negro molto emancipato, di grande cultura, elegante che rischia di peccare di razzismo al contrario e di supponenza nei confronti del resto della sua gente. Lungo il viaggio le posizioni dei due uomini trovano sempre più punti di contatto e si avvicinano sempre più, grazie alla parlantina di Frank l'abitacolo dell'auto diviene un piccolo mondo dove curare e far crescere quello che diverrà un meraviglioso percorso d'amicizia e di rispetto reciproco. Il contorno è un road movie che offre splendidi costumi e ottime scenografie che riportano lo spettatore in una meravigliosa New York degli anni Sessanta prima e poi giù nel Kentucky, nell'Iowa fino al delta del Mississipi in un viaggio costellato da crescita e tanti piccoli episodi sfiziosi.


Green Book è un bel film, classico, molto divertente, commovente nei punti giusti, che ti delizia con la bravura degli attori e con una sceneggiatura lineare e impeccabile. Concorre come miglior film agli Oscar proprio nel momento giusto, l'anno in cui l'Academy ha candidato qualsiasi nero avesse anche solo starnutito l'anno precedente, travolta dalle polemiche che si concretizzarono nel movimento #Oscarsowhite. Pensiamo alla follia della candidatura di un film come Black Panther (oddio) per esempio, ma il lizza c'era anche il grande Spike con il suo BlackKklansmen, c'era il messicano Roma e altre cose ancora. Pur non avendo nulla di nuovo da offrire e nulla di così eclatante nemmeno sul piano della regia o nei comparti tecnici, visti sei film degli otto candidati, posso sbilanciarmi nel dire che il premio a Green Book è meritato (però anche La favorita di Lanthimos...), in fondo avremo sempre bisogno di quelli che non possiamo far altro che definire "bei film", semplicemente, senza sovrastrutture e significati reconditi. Tutto qui, al di là dei temi purtroppo sempre attuali, in questi giorni poi, Green Book non è null'altro che un gran bel film.

giovedì 11 giugno 2020

SUSPIRIA

(di Dario Argento, 1977)

Chi frequenta con un minimo di costanza questi lidi sa come l'horror non sia il mio genere d'elezione pur godendone di tanto in tanto quando ho voglia di togliermi qualche curiosità. Ammetto di aver scelto di guardare Suspiria perché attratto dal remake (se così lo si può definire visto quel che si legge in giro) di Luca Guadagnino, opera che però non volevo affrontare senza aver guardato prima l'originale di Dario Argento. Film indiscutibilmente visionario ma ancor più visivo, che trova l'apice del suo interesse nella costruzione della sequenza, nello sperimentalismo della fotografia, nell'insistenza cromatica, nella gestione degli spazi, nel riguardo al décor e anche, ma in misura minore, nella creazione della tensione e in un certo gusto per lo splatter (ma splatter qui è un parolone e la cosa non necessariamente ha un'accezione negativa). La messa in scena dimostra un talento, uno stile peculiare nel seguire una direzione caratterizzante per l'intero film, Suspiria è sovrabbondante in tutto: nei colori, nei suoni, nell'onnipresente musica dei Goblin, nella ricercatezza dello stile che tra location Liberty e Art déco incornicia in maniera a tratti più elegante a tratti più pacchiana l'intera vicenda. Vicenda che è un po' il punto debole del film, lo sviluppo non ha reali punti di interesse, si segue il saliscendi della tensione in una trama abbastanza prevedibile che, ormai indicata come primo episodio della Trilogia delle Madri, sappiamo dove andrà a parare, probabilmente visto ai tempi e contestualizzato sul finire dei 70 anche questo aspetto contribuì al successo del film al quale però alcune critiche sulla costruzione non furono risparmiate (critiche obiettivamente condivisibili).


Susy Benner (Jessica Harper) è una giovane ragazza americana che si trasferisce a Friburgo per frequentare la prestigiosa Accademia di danza della città. Arriva in aeroporto in una buia notte funestata da una tempesta assordante, raggiunge zuppa d'acqua la scuola dove assiste all'inquietante fuga di una donna terrorizzata (Eva Axén) e dove viene lei stessa rifiutata per quello che il giorno dopo sembrerà un banale equivoco. Stabilitasi forzatamente nella scuola Susy inizia fin da subito a percepire un'alone di teso malessere all'interno dell'istituto nonostante le rassicurazioni della direttrice (Joan Bennett). Dopo uno strano incontro la giovane inizia a sentirsi male, la direttrice, insieme alla sua assistente Miss Tanner (Alida Valli) e al Dottor Verdegast (Renato Scarpa), si prenderà cura della ragazza che inizierà a legare sempre di più con la compagna di corso Sarah (Stefania Casini) la quale inizierà a instillare dei dubbi nella mente di Susy sulla reale salubrità del luogo in cui risiedono.


È un film sensoriale Suspiria, da ammirare per le scelte estetiche e per l'innovativo per l'epoca uso dei colori gestiti dal direttore della fotografia applicando tessuti colorati sulla camera, così oltre che per il sangue Suspiria ha continue virate cromatiche in prevalenza rosse ma che non lesinano sui toni del blu, del giallo e così via. Molto importante il rapporto con l'architettura, sia in interno con gli ambienti della scuola stessa, sia in esterno per la fuga della Axén e per la sequenza girata nella Konigsplatz di Monaco. Stesso discorso vale per l'impianto sonoro, ricco e riempito in maniera continua dalle musiche dei Goblin capaci di creare tensione ancor più delle immagini di Argento. Nel mezzo c'è anche una storia che finirà per avere un sentore ancestrale, onestamente non troppo spaventosa e neanche così interessante. Il film a ogni modo vale la visione, non fosse altro che per l'impianto visivo e per l'alto valore storico, per l'horror e per il Cinema di genere nostrano, apprezzato all'epoca più all'estero che da noi. Avremo modo di tornarci a seguito della visione del Suspiria di Guadagnino.

mercoledì 10 giugno 2020

THE IRISHMAN

(di Martin Scorsese, 2019)

L'epica del mondo della malavita al suo crepuscolo, questo ci mostra col bellissimo The Irishman il regista Martin Scorsese, un lunghissimo discorso sul tramonto di un genere e sullo scorrere del tempo che facilmente può essere interpretato anche come la premonizione della fine di un modo di fare Cinema, di raccontare, legato all'avanzare dell'età di quello che è uno dei più grandi registi viventi (il più grande?) e di una generazione d'attori probabilmente irripetibile (senza nulla togliere agli ottimi eredi) che forse per un'ultima volta ci offre una prova corale che ci permette finalmente di ammirare insieme in un film degno di questo nome Robert De Niro e Al Pacino (Heat - La sfida non conta, i due si incontrano pochissimo, Sfida senza regole era una mezza porcheria) entrambi qui a livelli sublimi, in più un Joe Pesci che nulla ha da invidiare agli altri, un grande maestro, e poi ancora Harvey Keitel (giustissima la sua presenza) e alcuni tra i più recenti protetti di Scorsese come Bobby Cannavale e Ray Romano, entrambi già visti nella splendida Vinyl ideata dallo stesso regista. Quello narrato da Scorsese è un mondo, un misto di realtà e invenzione che nella sua potenza, in relazione alla Storia americana dello scorso secolo, ha pochi eguali tra i quali torna alla mente il miglior Ellroy, quello di American Tabloid, con quella grande capacità di dare un'interpretazione credibile ai lati poco noti dei luoghi oscuri della terra dei sogni. Ha un tono di forte nostalgia The irishman, tutto l'impianto epico del racconto di mafia sta sfumando verso il suo epilogo (che qui trova corpo con la morte di Jimmy Hoffa), Scorsese mette in scena tutto alla sua maniera con un approccio al Cinema che sembra quasi non si possa più prendere in considerazione, emblematica in questo senso l'uscita per Netflix, l'unica a volersi o potersi accollare le spese di una produzione costosissima (stesse difficoltà affondarono Vinyl dopo una sola stagione), pensare che un progetto come The Irishman, mica girato da un pinco pallino qualsiasi, sia stato rifiutato dalle major del Cinema fa riflettere. Un film nostalgico dicevamo, una prova d'amore di un regista per un tipo di Cinema che lui stesso ha contribuito a rendere grande e immortale, in questo senso The Irishman fa il paio con C'era una volta a... Hollywood di Tarantino, entrambi i film usciti nel 2019, entrambi candidati agli Oscar (vince poi Parasite), approcci alla materia molto diversi ma entrambi intrisi di passione e d'amore per la Settima Arte, e portati a compimento dai due autori seguendo il proprio stile d'elezione, vie diverse a un sentimento comune. Guardando The irishman si comprende in maniera perfetta cosa vuol dire il vecchio Martin quando afferma che "il cinecomics non è Cinema"; come gli si può dar torto e non capire il nocciolo della questione di fronte agli incassi di un Endgame e alla difficoltà di trovare fondi per un capolavoro come questo? Speriamo che il tramonto di Frank, di Jimmy, di Russell non sia l'avvisaglia della fine di un'epoca gloriosa per gli amanti della Settima Arte.


Per mettere in scena l'affresco corale che vede al suo centro l'irlandese Frank Sheeran (Robert De Niro) Scorsese ci propone un giro di giostra sul viale dei ricordi. Siamo a metà degli anni 70, Frank e il suo amico e boss della mafia Russell Bufalino (Joe Pesci) intraprendono un viaggio d'affari insieme alle rispettive mogli (Stephanie Kurtzuba e Kathrine Narducci). Sulla strada ricordano la storia della loro amicizia, il loro primo incontro, l'ingresso di Frank nell'organizzazione mafiosa di Angelo Bufalino (Harvey Kietel), la scalata all'interno dei Teamster, il sindacato dei trasporti di Jimmy Hoffa (Al Pacino), l'amicizia sincera che lega Frank sia a Russell che a Jimmy, i rapporti d'affari non sempre semplici tra mafia e sindacato e tutti i legami di questi personaggi con la Storia americana: l'omicidio Kennedy, la baia dei porci, i casinò di Cuba, Trafficante, Giancana, Marcello e tutto quel romanzo criminale che è divenuto, anche grazie al Cinema, epica moderna. Scorsese lavora sui flashback per mettere in scena il passato, sceglie di farlo con gli stessi attori con un'opera impressionante di ritocco digitale, come a ribadire che il film è tutto loro, di quella generazione, il lavoro è notevole, soprattutto su De Niro, quello che aveva bisogno della svecchiata più imponente, riesce a lasciare intatte espressioni e talento di questi grandissimi interpreti (nonostante gli occhi azzurri di De Niro rimangano parecchio stranianti), quello che funziona un po' meno è forse il lavoro sui corpi, nel complesso si ha sempre l'impressione di trovarsi di fronte a dei vecchi ringiovaniti artificialmente, vuoi per la poca dinamica dei movimenti, vuoi perché questi attori li conosciamo (e li amiamo) troppo. L'operazione nel complesso è comunque più che riuscita, ci permette di non perderci nemmeno un'attimo la gioia di vedere all'opera questo cast stellare. Il film è lungo, l'incedere è riflessivo, la violenza è contenuta, ci si sofferma sui personaggi, sulle amicizie, sul difficile rapporto di Frank con la figlia Peggy (Anna Paquin) che legge nel padre un uomo violento, infine sul tradimento.

Si apre con un pianosequenza interno, sui corridoi di una dimora per anziani dove Frank, unico ancora in circolazione, assiste alla fine di un'epoca, la stessa cosa che forse anche noi come spettatori stiamo facendo guardando The irishman. Per certi versi commovente.

lunedì 8 giugno 2020

CENA CON DELITTO - KNIVES OUT

(Knives out di Rian Johnson, 2019)

Dopo la sortita non troppo esaltante in quella galassia lontana lontana, il regista Rian Johnson torna sul nostro pianeta con una storia molto terrena e dagli esiti in larga misura più felici. Si recupera con questo film la tradizione del giallo classico all'inglese con tutti gli elementi del caso: una morte su cui indagare, una bella magione isolata, una serie di sospetti tutti con un movente più o meno valido per provare acredine nei confronti del morto, la polizia che indaga e che si avvale di un detective molto dotato destinato a dipanare la matassa e a raccogliere tutti gli indiziati per la più classica delle ricostruzioni finali. I modelli più lampanti sono i romanzi di Agatha Christie, ma anche le trasposizioni cinematografiche a tema, il riferimento che più facilmente torna alla mente, non fosse altro che per l'assonanza del titolo, è il classico del 1976 Invito a cena con delitto che parodiava il genere (elementi da commedia non mancano nemmeno nel film di Johnson) e proprio come accade anche in Cena con delitto sfoggiava un cast corale di gran lusso. Non dimentichiamo nemmeno Signori, il delitto è servito ispirato direttamente al gioco da tavolo Cluedo, citato anche in una battuta in questo Knives out ("Sembra la casa del Cluedo"). Proprio con la casa il regista realizza le riprese migliori, seguendone corridoi, scalinate, inquadrandone le meravigliose stanze e la maestosa biblioteca, gli arredi sontuosi e rendendo il luogo del delitto un meraviglioso set dove muovere un cast di altissimo livello.


Il capostipite di una famiglia facoltosa, Harlan Thrombey (Christopher Plummer), scrittore di successo di libri gialli e fondatore della casa editrice di famiglia, viene trovato morto nella sua stanza dalla domestica Fran (Edi Patterson). Insieme alla polizia arriva sulla scena del crimine anche il detective privato Benoît Blanc (Daniel Craig), assunto in maniera anonima da qualcuno che non crede all'ipotesi sostenuta dalla polizia, quella del suicidio. La sera del fattaccio era presente in casa tutta la famiglia, riunita proprio per festeggiare il compleanno di Harlan. Tutti sospettati quindi: la figlia Linda (Jamie Lee Curtis) e suo marito Richard (Don Johnson) con la loro prole, quella testa calda di Hugh (Chris Evans), l'altro figlio di Harlan, Walt (Michael Shannon) e la moglie Donna (Riki Lindhome) con loro figlio a seguito, lo strambo Jacob (Jaeden Martell), la nuora del defunto Joni (Toni Collette) con la figlia Meg (Katherine Langford), e ancora la domestica Fran e l'infermiera personale di Harlan, la giovane Marta (Ana De Armas). Con l'avanzare delle indagini si scoprirà che tutti avevano i loro motivi di attrito con il vecchio Harlan, quasi sempre per questioni di dipendenza economica, nessuno viene quindi escluso dalle indagini del detective Blanc, a metà strada tra genio e macchietta, il quale potrà contare sull'aiuto di un difetto congenito dell'infermiera Marta Cabrera, incapace di mentire senza vomitare copiosamente.


Sono diversi gli spunti divertenti nel film, dal lieve difetto di Marta appena accennato, al richiamo d'arredo pacchianissimo a Il trono di spade, dalla presenza dell'anziana madre di Harlan, mezza rimbambita (K Callan) fino ad arrivare al detective Benoît Blanc, comunque un tipo sui generis. Il tono seppur divertito non arriva mai alla parodia, anzi, la costruzione della vicenda è abbastanza scrupolosa, il fatto criminoso viene dipanato con dovizia di particolari e con più d'un ribaltamento di carte, come si conviene a un mystery, insieme al detective la vera protagonista è la giovane Marta, l'unica che sembra provare un sincero affetto per l'anziano capofamiglia. Cast in palla che regge a meraviglia le due ore e passa di film, non ci si annoia e si segue con piacere il lavoro di ricostruzione dei tutori dell'ordine. Ben pennellato il tratteggio di caratteri di una manica di sfaccendati arricchitisi sulle spalle del padre celebre, degli altoborghesi che si premurano di mostrarsi di aperte vedute, come fanno nei confronti di Marta, immigrata da un paese del Sudamerica (che cambia di volta in volta in base a quale membro della famiglia si interroghi), ma che alla fine si dimostrano dei semplici bifolchi attaccati ai soldi, in contrapposizione all'unica persona realmente umile e di cuore, quella che arriva da un ceto più povero e con meno diritti.

Cena con delitto ravviva in maniera intelligente e divertente un genere non proprio à la page ma che ancora una volta si dimostra essere un classico intramontabile qui celebrato degnamente con un film capace di farci dimenticare anche il brutto e abbastanza recente Assassinio sull'Orient Express diretto da Kenneth Branagh.

sabato 6 giugno 2020

SUPERNATURAL - NONA STAGIONE

Non so come né perché, ma ci sono capitato sotto un'altra volta. Probabilmente è solo perché sono un debole, non so mettere un punto alle cose, ci ricasco, non ho la volontà di resistere a queste stupide tentazioni. Eppure lo so che Supernatural è un prodotto fuori tempo massimo, pachidermico, poco stimolante e fondamentalmente inutile nell'economia della serialità moderna. Eppure eccoci di nuovo qui. Posso dire a mia discolpa che dall'ultimo mio inciampo, quello con la stagione otto, sono passati ben tre anni, e allora, a maggior ragione, che bisogno c'era di tornare a farsi del male, è come cominciare nuovamente a fumare dopo aver interrotto per quattro gravidanze consecutive, abbastanza stupido no? Che poi lo so che è una perdita di tempo e che ci sono migliaia, forse milioni di cose migliori a cui dedicare attenzione. Un po' è anche colpa di quella stagione otto che un po' m'aveva fregato, perché in miglioramento rispetto alla precedente, quei due stronzetti poi ero tornato a godermeli e a trovarli una simpatica coppia di coglioncioni (eh si, un po' mi ci sono affezionato), ma questa volta nemmeno quello, nemmeno quelle puntate assurde e citazioniste fino all'ignoranza sublime. Gli sceneggiatori ci hanno pure provato, per carità, con risultati questa volta scarsissimi, hanno cercato di far tornare tutto il "meglio" della continuity di Supernatural, forse perché a corto di fiato, ripescando quindi il veggente Kevin (Osric Chau), sia in forma umana che fantasmatica, la mezza svitata Charlie (Felicity Bradbury), lo sceriffo Jody Mills (Kim Rhodes), i Ghostfacers (oh mio Dio!), quell'imbecille di Garth (DJ Qualls) in versione umana e licantropo, ovviamente i due protagonisti e gli immancabili (e meno male) Crowley (Mark Sheppard) e Castiel (Misha Collins).


Per carità, qualche siparietto simpatico non manca, Dean (Jensen Ackles) come al solito non lesina sulle stronzate, il Castiel in versione umana che non sa bene come comportarsi senza la sua grazia è abbastanza comico (non sa come fare pipì, tanto per dirne una), ma nel complesso aleggia una sensazione di rimasticatura all'eccesso di ciò che si è già visto, con noiose varianti, e un approccio alla trama orizzontale completamente allo sbando. E poi ancora con le ventitré puntate annue? Ma che, scherziamo? Nemmeno le migliori sit-com si reggono più con questa mole abnorme di materiale, già le idee di base non sono così rivoluzionarie, perché allungare il brodo in questa maniera?

Ad ogni modo ho detto basta, questa volta per sempre, è stato bello finché è durato, ognuno per la sua strada, basta recuperi, basta Prime Video che mi propone "potresti vederti la decima serie di Supernatural, che ne dici?", "Perché non ti guardi quei due coglioni dei Winchester così nel frattempo giochi col cellulare e magari ci scappa pure qualche acquisto su Amazon?". Fottiti algoritmo dei miei coglioni, ho smesso. Ciao a tutti, sono Dario e non guardo Supernatural da due giorni e spero tanto di non ricascarci, ora datemi quel cazzo di gettone e andatevene affanculo.

Mi guardo allo specchio. Ho gli occhi completamente neri.

venerdì 5 giugno 2020

# RINOMINA

(di Daniele Catalucci, 2018)

Esordio letterario per Daniele Catalucci, bassista della band Virginiana Miller, realtà musicale italiana attiva già dalla seconda metà degli anni 90. È un'opera prima agile quella di Catalucci, se ci si dedica con un minimo di dedizione il libro si legge in poche ore, la sua struttura però, originale e poco battuta, invoglia a tornare a più riprese sui vari segmenti che compongono questo # Rinomina, cosa che permette meglio di coglierne collegamenti, citazioni, intenzioni. Il libro, oltre che dei suoi contenuti, vive anche di alcune idee di fondo indovinate e ben pensate. Non c'è una vera e propria storia in # Rinomina, [o se preferite potremmo dire che ci sono tante piccole (e grandi) brevi storie], vi troviamo invece diversi dialoghi con pochissimi collegamenti a unirli tra loro, dialoghi numerati in ordine progressivo dal primo fino al trentaseiesimo, quello che dovrebbe, forse, chiudere il libro col botto. Oppure si sarebbe dovuto chiudere tutto con il ventiseiesimo segmento? Con la lettura giungerà la comprensione.

Ma quali sono le idee, le premesse alla base di questo frizzante esordio? Poniamo l'ipotesi che le nostre parole, i nostri discorsi con un amico, un parente (o congiunto che va tanto di moda adesso), con una donna, con un uomo, volassero via da noi e in un luogo altro, magari proprio tra le pagine di questo libro, venissero lette, così come sono state pronunciate, da qualcuno che non ci conosce, che nulla sa di noi. Allora quelle parole, che a questo punto potrebbero esser state dette da chiunque, come cambierebbero significato? Come verrebbero interpretate? E in un'anonimato che verrà svelato solo alla fine di ogni dialogo, potranno quelle parole, quegli scambi d'emozioni, di riflessioni, quei ragionamenti, passare dal personale all'universale e andare a toccare un poco la testa e il cuore di tutti quanti?

Una delle intuizioni efficaci dell'autore è quella di sostituire i nomi dei protagonisti dei dialoghi con segni usatissimi oggigiorno nelle comunicazioni telematiche, una chiocciola @, un cancelletto #, talvolta una & commerciale, magari un dollaro $. Quei simboli che spesso usiamo quando siamo distanti, in comunicazioni virtuali nelle quali siamo in attesa di un "prefetto" (vedi la bella introduzione di Simone Lenzi, anche lui Virginiano), sembrano qui riavvicinarsi e trovare corpo in brevi momenti che riescono a far immaginare al lettore delle persone, dei rapporti, delle situazioni e degli stati d'animo concreti e ben precisi. A volte c'è l'inganno, un inganno che crea la nostra mente e non l'autore, e qui sta la seconda bellissima invenzione di Catalucci. Il dialogo arriva a termine, il lettore si è fatto il suo film, ha dato la sua interpretazione, e poi si trova a dover voltare pagina. Solo allora @ e # troveranno un nome e un legame tra loro, un rapporto, una parentela. E così l'immagine del lettore a volte crolla in un attimo per ricostruirsi diversa dopo pochi secondi. Il bello è che queste reazioni saranno differenti per ognuno di noi.

Per ultimo ci sono i contenuti veri e propri di questi dialoghi, vari, a volte divertenti, a volte più intimi e profondi, sempre ben calibrati, riportano alla mente persone che potrebbero essere reali e ci si trova a volte a pensare: "questo è più ricco di me", e per ricchezza non si intende quella materiale, ma quella delle esperienze, dei ricordi, della profondità delle riflessioni qui tratteggiate in poche righe. È una bella lettura questo # Rinomina, dove emergono la passione dell'autore per la cultura e una confidenza non banale con le parole. Non resta ora che aspettare un'opera seconda magari più corposa, i numeri per un bel romanzo ci sono tutti.

martedì 2 giugno 2020

MATTONE E SPECCHIO

(Khesht Va Ayeneh di Ebrahim Golestan, 1965)

Per comprendere un poco il contesto in cui si muovono i protagonisti di Mattone e specchio bisognerebbe per sommi capi conoscere la storia moderna dell'Iran, potrebbero infatti spiazzare le prime sequenze girate da Golestan in una Teheran notturna che sembra già negli anni 60 una modernissima città occidentale con luci sfavillanti, attività commerciali e un look che richiama le società del capitale che oggi difficilmente assoceremmo al paese mediorientale. Semplificando potremmo dire di come l'Iran, prima della rivoluzione iraniana di fine anni 70 il cui simbolo fu l'Āyatollāh Khomeynī, fosse un Paese in via di modernizzazione, tutt'altro che perfetto, ma anche più rispettoso delle libertà personali, della condizione femminile, più aperto verso un'economia industriale al passo con i tempi e meno oppresso da fanatismi religiosi (le magagne comunque, è utile sottolinearlo, non mancavano). Tra l'altro questo passaggio dalla monarchia all'impostazione data da  Khomeynī al Paese è ben tratteggiato in Persepolis (sia fumetto che film d'animazione) di Marjane Satrapi, ottima opera per approfondire l'argomento. La vicenda narrata in Mattone e specchio si svolge prima della radicalizzazione dell'Iran, di primo acchito a colpire sono lo splendido bianco e nero e il lavoro fatto con la fotografia, soprattutto sui notturni, che dona al film una profondità e una modernità eccezionale, qualità queste messe in risalto dal recente restauro del film ad opera della Cineteca di Bologna, il film peraltro è visibile, come altre cose molto interessanti, grazie alla disponibilità di parte del catalogo di Fuori Orario accessibile gratuitamente su Raiplay.


Su Teheran cala il buio, il tassista Hashem (Zackaria Hashemi) carica in centro una donna avvolta nel suo chador, la porta in una periferia desolata. Quando la passeggera scende dal taxi Hashem si rende conto che la donna ha abbandonato una neonata sul sedile posteriore, inutili saranno i suoi tentativi di ritrovarne la madre; dopo alcuni strani incontri al tassista non resta che tornarsene in centro con la bambina. Qui in un locale discuterà sul da farsi con amici e conoscenti, verrà aiutato dalla sua amante Taji (Taji Ahmadi) che da subito si affezionerà alla bambina, la neonata farà scoppiare la crisi tra i due giovani che hanno una visione della vita e delle responsabilità totalmente diversa, ad acuire il disagio della situazione che si viene a creare c'è l'incertezza di un Paese in bilico tra forme d'apertura culturali e il serpeggiare di un fondamentalismo religioso che porta i protagonisti, soprattutto Hashem, a diffidare di chiunque, a partire dai suoi vicini di casa.


Per molti ma non per tutti. Anzi, nemmeno per molti. Nonostante Mattone e specchio sia un film di indubbio interesse culturale per il contesto al quale si accennava sopra e per i visibili meriti artistici di una regia decisamente moderna che si lancia in stacchi di montaggio ad effetto (la scena della scala), sperimentazioni sul sonoro (il vociare di fondo) e sull'assenza di musica se non in presa diretta, il ritmo del film e diversi passaggi con lunghi dialoghi filosofeggianti, inquadrature insistite a sottolineare una situazione o uno stato d'animo, rendono a tratti la visione un poco ostica. Anche nei suoi passi più insidiosi Golestan inserisce però motivi di interesse per chi ha voglia di cercarli: c'è la disillusione un po' cialtrona e un po' irresponsabile di chi consiglia Hashem di sbarazzarsi della bambina (per poi predicare tutto il contrario in altri contesti), ci sono sprazzi di filosofia spiccia, riflessioni più amare e apprezzabili sull'approccio alla vita in un Paese dove molto si sta giocando per il futuro, c'è una bella contrapposizione tra un uomo incline a vivere alla giornata, privo di reali sogni e una donna con un grande bisogno d'amore e che andrà incontro purtroppo a più d'una delusione. C'è tanta indifferenza al dolore. Con poche battute si evince anche la paura a tenere comportamenti malvisti dal giudizio comune, il fondamentalismo incombe e pochi anni più avanti avrà la meglio in un Paese che aveva iniziato a conquistarsi qualche libertà.


L'esordio di Golestan nel campo della finzione (il regista è più che altro documentarista e scrittore) è uno di quei film invisibili che quando capita l'occasione è bene guardare, non è detto che in un prossimo futuro quest'opera non torni a essere un pezzo di difficile reperibilità.
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