lunedì 27 settembre 2021

L'AMORE BUGIARDO - GONE GIRL

(Gone girl di David Fincher, 2014)

Well, well, well... devo ammettere di essere rimasto un po' deluso dalla visione di questo Gone girl, in parte perché le critiche che ne avevo letto all'epoca della sua uscita erano tutte più o meno entusiastiche, in parte perché dal regista di opere come Seven, Fight club, Il curioso caso di Benjamin Button, Zodiac o dell'ultimo Mank ti aspetti a ragion veduta sempre moltissimo; ecco, capitalizzato un bel discorso sull'evolversi della vita di coppia all'interno del matrimonio, questo sì molto interessante, su altri versanti il film mi ha lasciato invece parecchio tiepido. Dopo un inizio che potrebbe andar bene per una sofisticata commedia romantica, nello sviluppo il film di Fincher, tratto dall'omonimo romanzo di Gillian Flynn, prende la via del thriller psicologico dove le apparenze non è detto che siano davvero quel che sembrano, gioco però a mio modesto parere fin troppo scoperto e che da quel punto di vista non offre grosse emozioni né sorprese se non allo spettatore un po' distratto o poco avvezzo al genere, gli sviluppi e il twist di trama che porta al finale non arrivano assolutamente inaspettati e men che meno sorprendono; detto questo il film è ben girato e lo si guarda volentieri ma come detto sopra un po' di delusione rimane ad aleggiare sui titoli di coda.

Nick (Ben Affleck) e Amy (Rosamunde Pike) sono una di quelle coppie da film: entrambi belli e affascinanti, con impieghi interessanti anche se per estrazione sociale e carattere un po' diversi, Amy è infatti figlia di due scrittori che hanno fatto fortuna con i libri della Mitica Amy, racconti ispirati alla vita della loro figlia che in realtà non è mai stata proprio perfetta come quella della sua controparte cartacea. Quando da New York la coppia si trasferisce in Missouri per accudire la madre malata di Nick le cose cambiano, entrambi perdono il lavoro, Amy rimane a casa, Nick con i soldi di lei apre un bar che gestisce con la sorella Margo (Carrie Coon). Quello che sembrava un idillio da favola di una coppia in perfetta sintonia, in società, a letto, nel privato, diventa un rapporto dove iniziano le recriminazioni: nasce qualche sospetto, i legami e l'amore incondizionato pian piano si sfaldano e la passione iniziale evapora giorno dopo giorno, atto dopo atto, mancanza dopo mancanza. Un giorno Nick, rientrando a casa, trova segni di colluttazione, Amy è sparita, non resta che chiamare la polizia che accorrerà nella persona del detective Rhonda Boney (Kim Dickens). Ci vuole poco alle forze dell'ordine e all'intera comunità per iniziare a sospettare di Nick, l'uomo è troppo poco preoccupato, alcuni elementi remano contro e lo incriminano, un'amica di Amy sembra avere qualcosa di importante da rivelare, per Nick tutta la faccenda prende una brutta piega.

Come si arriva da un amore nato in maniera brillante, vivo, sincero, divertente, uno di quelli che brucia da principio con il fuoco della passione, al momento di non avere più nulla in comune, alle continue recriminazioni, al non sopportare più quella che per propria scelta è diventata la nostra metà, a essere infastiditi e a dare fastidio, a vedere solo più difetti e nessun pregio, a ricevere ed elargire solo umiliazione e risentimento invece di accettazione, amore e comprensione, a pretendere, a voler cambiare l'altro, a non volersi più sforzare di essere il meglio che le nostre possibilità potrebbero concedere per brillare agli occhi del partner? Questo è il discorso che merita attenzione in Gone girl, traccia portante di un thriller che si rivela tutto sommato convenzionale, i motivi d'interesse vanno cercati nel giudizio della comunità, nell'importanza che diamo alle condizioni sociali, al lavoro piuttosto che alle persone, e in tutta una serie di riflessioni che risultano però soffocate da questa trama gialla non troppo coinvolgente e troppo leggibile, regia precisa di Fincher che però non riesce a stupire come in altre occasioni, Affleck sappiamo che difficilmente si rivela la carta vincente quando è davanti alla telecamera, brava la Rosamunde Pike ma nel complesso tra tutti i film realizzati da Fincher (me ne mancano un paio da vedere) questo mi è sembrato l'unico tutto sommato superfluo.

sabato 25 settembre 2021

IL POSTO

(di Ermanno Olmi, 1961)

Con colpevole ritardo approccio il cinema di Ermanno Olmi non privo di un certo timore, afflitto da un pregiudizio di pesantezza da me legato aprioristicamente all'opera del regista, convinzione maturata chissà per quali motivi, poi negli anni magari è mancata l'occasione, gli stimoli sono sempre molti e così, per una ragione o per l'altra, non ci si è mai incontrati. Vista la disponibilità sul catalogo di Prime Video decido di partire proprio da qui, quasi dagli albori, dal secondo lungometraggio del regista bergamasco datato 1961, in realtà il primo che trova ampio riscontro e quello che lancia la carriera di Olmi grazie al Premio della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia. Il posto è un film che coglie il cambiamento dei tempi e predice quello che sarà il tristo destino per milioni di italiani usciti dal secondo dopoguerra e dalle gravi difficoltà caratterizzate da quella miseria così ben raccontata e messa in scena nel periodo del neorealismo; con il decennio dei 60 siamo nel pieno del boom economico, i giovani lasciano le campagne e ambiscono a posti di lavoro sicuri, duraturi, non solo quelli delle fabbriche, si coltiva ora per i propri figli il sogno di una carriera pulita, impiegatizia, lontana dall'aratro e chiusa all'interno delle quattro mura di qualche prestigioso edificio cittadino. E da qui prende il via la storia minima del nostro Domenico Cantoni.

I Cantoni sono una famiglia di Meda, comune a nord di Milano, vivono in una vecchia cascina che ormai ha perso la sua funzione, i suoi abitanti hanno iniziato la vita di pendolari, il padre è operaio in città, Domenico (Sandro Panseri) è in cerca del primo impiego e per il relativo colloquio si reca a Milano, il fratello più giovane studia ancora, la mamma lavora in casa. Domenico è spinto dalla famiglia verso l'idea del posto fisso, quello che ti sistema per tutta la vita: tutto è nuovo, la realtà contingente, la città, le grandi aziende; Domenico segue la corrente e il consiglio dei genitori, candido, spaesato, arriva a Milano per la candidatura per un posto da impiegato: esami scritti, visite mediche, se tutto va bene colloquio. Tutto sembra facile, le possibilità non mancano, l'economia è in espansione, ma lungo quella prima giornata di selezione a interessare e colpire realmente Domenico sarà la giovane Antonietta (Loredana Detto), compagna di selezione con la quale il giovane passerà il pomeriggio e dei bei momenti. Le vicende lavorative però non lasceranno i due ragazzi a stretto contatto, per Domenico e per molti altri, Antonietta compresa, una nuova vita ha inizio.

Nessun accenno a quella pesantezza che mi aspettavo, Il posto è un film piacevole che corre via leggero pur portando in sé una visione lucida e predittiva di quella che sarà la vita a dipendenza della grande azienda, siamo nel pieno sviluppo del nuovo sistema di lavoro e Olmi ha già capito tutto, il suo protagonista è un ragazzo pulito, timido, educato e un po' timoroso, Sandro Panseri è perfetto per questo ruolo (peccato non averlo visto più impegnato al cinema), incarna in maniera impeccabile l'ingenuità dello spaesato che arriva da un'altro mondo, meglio va nel rapporto tutto nuovo con la compagna d'avventura, quella della ricerca del posto, anche Loredana Detto è magnifica, più vivace e sbarazzina di Domenico lo aiuta a superare i suoi impacci; la giovane attrice, anche lei poi sparita dagli schermi, diverrà moglie di Ermanno Olmi. Il regista dipinge una Milano vivacissima, indaffarata nei suoi lavori, gli esterni sono rumorosi, vivi, restituiscono tutta la vivacità della città, si ammira anche una bella inquadratura che ritrae una San Babila sventrata dai lavori di costruzione della metro. Il fulcro sta nel passaggio dalla vita contadina, ormai abbandonata, al nuovo stile di vita del pendolare che torna in campagna solo per dormire, in pochi tratti e in maniera leggera e divertita (ma a pensarci nemmeno poi tanto) Olmi descrive meschinità, vizi e malcostumi del nascente mondo impiegatizio a posto fisso, piccole invidie, reprimende, malcelate malignità, ingenuità, fancazzismo e tendenza ad approfittare delle situazioni, tutti mali che si diffonderanno e che chiunque sia stato impiegato in una grande azienda, per un verso o per l'altro, oggi conosce molto bene. Alla fine non rimane che fingere allegria e soddisfazione, questo rimane e si cerca di andare avanti, magari sgomitando un poco per cercare un inutile posto al sole (letteralmente) per meglio collocarsi all'interno di questa nascente piccola borghesia e sull'onda del nuovo consumo.

venerdì 24 settembre 2021

TENET

(di Christopher Nolan, 2020)

Con Tenet Christopher Nolan abbandona qualsiasi residuo emotivo che il suo cinema potesse ancora vantare per dedicarsi completamente all'immagine, alla tecnica, alla tesi, alla costruzione ingarbugliata da film cervello che contraddistingue il suo corpo d'opera fin dagli esordi, lo fa in grande e in maniera più complessa del solito tanto che ancora oggi sto chiedendomi cosa ho guardato lungo tutta la durata del film. Tenet sembra un videogioco, nella sua struttura, un pezzo dopo l'altro, tanti quadri da risolvere e da rigiocare più e più volte per venire a capo di una storia enigmatica, proprio come in un videogioco, è consigliata l'esperienza plurima per comprendere al meglio ciò che sta dietro al palindromo Tenet, per risolvere il quadro tentativo dopo tentativo, nello stesso spirito del film riavvolgere e far rivivere l'esperienza per modificare, se non il passato, almeno la percezione di esso. Peccato che, almeno al cinema, non sia la norma rivedere un film subito più e più volte (magari qualche appassionato che l'avrà visto a ripetizione c'è anche stato), lo si può fare in seguito, certo, può essere anche piacevole questo intrigo di costruzioni ma l'impressione di essersi persi molti dei pezzi del puzzle a fine visione rimane forte, e sì che scrive uno che ha letto i fumetti di Grant Morrison, ma qui si esagera davvero un poco. Nonostante questo appunto sia stato mosso a Nolan per diversi dei suoi ultimi film, personalmente questa è la prima volta che non trovo nessun coinvolgimento emotivo durante la visione, il gioco va bene, ragionare su un film anche, ma se non c'è nessun appiglio emotivo, non ci sono temi realmente interessanti se non elucubrazioni su tecnica cinematografica e futuro appannaggio più degli addetti ai lavori, se non c'è cuore e nemmeno pancia, allora vale ancora la pena?

Detto questo il film lo si guarda, capito che si sta giocando si cerca di stare al gioco tentando di entrarci dentro, di per sé la visione risulta piacevole, come sempre per Nolan grande perizia tecnica (che perde probabilmente molto su schermo domestico) e un effetto realmente straniante nei momenti in cui il film presenta l'inversione dell'entropia, se già con Inception Nolan aveva messo in scena effetti speciali davvero avvolgenti e capaci di colpire l'immaginario, qui il connubio tra tesi, immagini e musica inquieta, i movimenti fuori fase dei protagonisti risultano innaturali in maniera convincente, cosa non da poco, regalando qualche sensazione che, con i dovuti distinguo, richiama in parte qualche movimento adottato da Lynch per straniare il pubblico (ma in questo Lynch è un maestro, Nolan almeno per ora no); a differenza di altri che hanno criticato le musiche di Goransson ho trovato invece molto adatto lo score musicale, capace di sottolineare bene i momenti innaturali della vicenda. Interessanti tutti i rimandi al quadrato del Sator, antica iscrizione in quadro palindromo che risale all'antichità e formata da cinque parole che ricorrono nel film purtroppo senza grandi riferimenti e spiegazioni se non per il fatto del doppio senso di lettura che richiama il doppio senso di svolgimento del tempo. A vivere e rivivere l'avventura scritta dallo stesso regista nel ruolo del protagonista senza nome c'è John David Washington, affascinante quando serve, atletico e dinamico ma espressivo quanto un Clint d'annata (che tanto quanto aveva il cappello), comunque funzionale, e un Robert Pattinson convincente ai quali si aggiungono Elizabeth Debicki e il cattivo da fumettaccio di serie b interpretato da Kenneth Branagh.

Ora dovrei parlarvi della trama del film ma questo lo farò quando finalmente riuscirò a venirne a capo. Quando sarà, mi infilerò in un tornello con un respiratore sul muso e uccidendo decine di ignari passanti tornerò qui per raccontarvela facendo ben attenzione a non entrare in contatto con il me stesso presente. O futuro. O passato. Non lo so, non ci ho capito ancora nulla. 

giovedì 23 settembre 2021

JUDAS AND THE BLACK MESSIAH

(di Shaka King, 2021)

Biopic convenzionale ma ben realizzato che cade a fagiolo in un periodo in cui la coda lunga del movimento Black Lives Matter riporta sotto i riflettori e al cinema le disparità e le ingiustizie alle quali i neri vanno incontro ancora oggi soprattutto in un paese profondamente razzista come quello degli Stati Uniti d'America. Il regista Shaka King, nato a New York da genitori immigrati e cresciuto a Brooklyn, è qui al suo primo lavoro di rilevanza internazionale (il suo esordio Newlyweeds è poco noto); King mette in scena la biografia di Fred Hampton, il presidente della sezione dell'Illinois delle Pantere Nere, produce Ryan Coogler, altro nome votato alla causa, regista di Black Panther della Marvel e di Creed - Nato per combattere. Costruzione classica da manuale bella e pronta per l'Academy, Judas and the black messiah raccoglie infatti sei candidature agli ultimi Oscar vincendone due, quello per il miglior attore non protagonista a Daniel Kaluuya e quello per la miglior canzone. Nonostante per sceneggiatura e regia il film non si distingua in modo particolare, la storia di Hampton e l'indignazione che il film è capace di riportare a galla rendono Judas and the black messiah meritevole della visione.

Fine degli anni 60 a Chicago. Bill O'Neal (Lakeith Stanfield) è un ladro d'auto che viene pizzicato, accusato di furto e, fatto ancor più grave, di essersi spacciato per un agente federale. Il vero agente dell'F.B.I. Roy Mitchell (Jesse Plemons), dopo aver paventato al ladruncolo una pena dura per le sue imputazioni, gli offre una via d'uscita: infiltrarsi nell'organizzazione locale delle Pantere Nere, il Black Panther Party, e riferire tutti i movimenti del loro leader, Fred Hampton (Daniel Kaluuya), un giovane con ideali marxisti ancora ferito dalle morti recenti di leader carismatici come Malcom X e Martin Luther King; il ragazzo ha una grande capacità dialettica e di aggregazione, riuscendo ad arrivare ai fratelli neri, alle gang di strada, ai bianchi impoveriti dal sistema, ai portoricani e a tutte le minoranze schiacciate dalla società dei bianchi ricchi e dalla violenza dei porci (le forze dell'ordine). Inizia così la nuova vita di quello che è il vero protagonista del film e il Giuda del titolo, i discorsi coinvolgenti di Hampton e le iniziative meritevoli dell'organizzazione - tipo sfamare i bambini poveri - fanno breccia anche su O'Neal che sotto il giogo della spada di Damocle tesa sulla sua testa dall'F.B.I. continua però a tradire e a passare informazioni ai tutori del (dis)ordine, tutta la vicenda coinvolgerà molte persone tra le quali la compagna di Hampton, Deborah Johnson (Dominique Fishback), come spesso accade quando al potere si lascia la corda troppo lunga gli eventi finiranno in tragedia.

Judas and the black messiah è uno di quei film dove la Storia è più grande dell'opera, l'episodio narrato ha una capacità di per sé sconfinata per catturare l'attenzione e coinvolgere il pubblico, si vince facile e Shaka King vince senza mettere in campo surplus di talento. Intendiamoci, Judas è un bel film che può contare su due attori praticamente coprotagonisti in ottima forma e che delineano due personaggi ai quali si resta avvinghiati, per motivi diversi, ma nella stessa misura. Ottima ricostruzione d'ambiente e nervoso che sale per le ingiustizie narrate (a prescindere dal fatto che Hampton fosse o meno un santo), spesso le questioni politiche e sociali che innescano rivendicazioni urgenti sono difficili da mantenere sul mero piano della dialettica verbale, ma uno Stato non può mai permettersi comportamenti criminali o antidemocratici (ops!). Coinvolgenti i dibattiti, i discorsi che Kaluuya declama ispirandosi agli storici esponenti del movimento per i neri, Malcolm X su tutti, rendono giustizia a un personaggio di primo piano per la lotta razziale finora dimenticato dal cinema e che qui trova almeno una piccola parte di giustizia mediatica mai concessagli prima, questo servirà a qualcosa? Lo speriamo vivamente ma con non troppo ottimismo.

lunedì 20 settembre 2021

OKJA

(di Bong Joon-ho, 2017)

Okja non ha la forza di altri film del regista sudcoreano, non è un Parasite e nemmeno uno Snowpiercer, con questo film Bong Joon-ho, pur occupandosi ancora di capitale, non mette in scena una denuncia sull'ingiustizia sociale, sulla macabra differenza tra classi che riempie di sofferenze il nostro mondo vigliacco, confeziona invece quella che a tutti gli effetti sembra essere una favola ecologista e animalista, a tratti caciarona nello sviluppo, con personaggi grotteschi e sopra le righe ma che non manca di toccare il cuore nei momenti giusti, magari in maniera facile e fin troppo diretta ma capace di cogliere nel segno e che sul finale raggiunge probabilmente il suo scopo facendo passare un poco la voglia di mangiare carne o quantomeno spingendo a riflettere sull'abuso scellerato che in molti ancora ne fanno alimentando la proliferazione degli allevamenti intensivi.

La Mirando Corporation è una multinazionale dell'alimentazione interessata solo al profitto e gestita per anni in maniera spietata da Nancy Mirando (Tilda Swinton), affarista priva di scrupoli; la compagnia è ora in mano alla sua gemella Lucy (sempre Tilda Swinton), più folle ma più attenta alle apparenze. Si ripudiano quindi (apparentemente) gli ogm e si lancia la campagna del supermaialino, una nuova razza scoperta (?) proprio dalla Mirando che distribuirà alcuni di questi esemplari a contadini sparsi ai quattro angoli del globo, uno in ogni paese dove è presente una sede della Mirando, dopo dieci anni il maialino cresciuto meglio verrà premiato e diventerà una sorta di testimonial capace di rilanciare la Mirando in una nuova era. Okja è una di questi maialini, finita in Sud Corea viene allevata dalla piccola Mija (Ahn Seo-hyun) che troverà nel supermaiale la sua migliore amica, e dallo zio Hee-Bong (Byun Hee-Bong). Okja è gigantesca, una specie di Pippo della Pampers ma con le orecchie lunghe, nonostante la sua stazza Okja è un animale innocuo e affettuoso pronto a tutto pur di proteggere la sua Mija e poter giocare con lei. Quando proprio Okja viene scelta come miglior supermaialino del mondo l'attuale testimonial dell'azienda, il personaggio televisivo Dr. Johnny Wilcox (un vero ebete interpretato da Jake Gyllenhaal), si reca in Sud Corea per la premiazione. Ciò che il vecchio zio non ha detto alla nipote Mija è che Okja verrà riscattata dalla corporation e portata negli Stati Uniti dove migliaia di supermaialini sono destinati al macello. Mija partirà così al salvataggio prima alla volta di Seul poi oltreoceano aiutata da una stramba squadra di animalisti americani capitanata dal giovane ed elegante Jay (Paul Dano) e supportata dal traduttore K (Steven Yeun, il Glenn di The Walking Dead), l'operazione sarà tutt'altro che semplice.

L'impianto è quello del racconto per ragazzi fruibile da tutti, un paio di sequenze potrebbero turbare un poco i più piccoli per i quali però l'identificazione con la piccola Mija che ama in maniera innocente il suo maiale è scontata. Il film vive di una sua parte asiatica, con riprese più riflessive e meravigliose nella scelta delle location, e una statunitense più dinamica anche se c'è da dire che alcune sequenze divertenti e ottimamente orchestrate da Bong Joon-ho ci sono anche quando l'azione si svolge in Corea, scene nelle quali la creatura Okja è amalgamata magnificamente con il resto del cast. Come accadeva già in Snowpiercer Tilda Swinton recita caricando il suo personaggio (personaggi in realtà) fino al grottesco, così come fa Gyllenhall che risulta anche un filo insopportabile, in controluce una critica chiara al sistema del capitale sempre alla ricerca di nuove risorse da spremere con crudeltà e indifferenza, più lampante il discorso sulla difesa degli animali vittime dell'ingordigia umana. Meno ficcante di altre sue opere anche questo Okja non è però privo dei temi cari al regista, la propensione del male (perché le corporation lo sono, giusto nel caso qualcuno ancora non se ne fosse accorto) a vivere di narrazioni manipolate è evidente (e anche qui ne sappiamo qualcosa) e Bong Joon-ho con questo ci gioca, il taglio scelto non è probabilmente quello che più si confà al regista sudcoreano che comunque ci ha abituato a vene umoristiche nei suoi film, ancora una volta si sta in bilico tra occidente e oriente, gli esiti di Parasite non sono ovviamente paragonabile a quelli di questo film, meno riuscito ma comunque godibile.

domenica 19 settembre 2021

IL SESSO NELLE CAMERE D'ALBERGO

(Otherwise known as the human condition. Selected essays and rewiews di Geoff Dyer, 2011)

Dev'essere davvero un bel tipo Geoff Dyer, un vero imbucato della letteratura come lui stesso si definisce. Questa raccolta di suoi scritti, proprio com'era nelle intenzioni, nei gusti e nelle inclinazioni dell'autore, non ha un vero e proprio filo conduttore nonostante l'antologia sia divisa per sezioni tematiche, salta invece con stile dalla corposa sezione iniziale dedicata alla fotografia alle riflessioni sulle altre arti figurative, dall'amore per la letteratura e per alcuni scrittori in particolare alla passione sconfinata per la musica, dalla cronaca di brevi viaggi si passa poi a pezzi sulla moda fino ad arrivare a quella che è la sezione più sfiziosa del libro dedicata ai racconti personali che spaziano dai resoconti sull'amore per la vita a base di sussidi di Stato al primo incontro con la moglie, dall'ossessione maniacale per cappuccino e brioche all'influenza dei fumetti Marvel nella vita di un uomo, insomma c'è di che sbizzarrirsi in questa raccolta che ingloba un paio di pubblicazioni inglesi che in origine uscirono con i nomi di Anglo-English attitude e Working the room comprendenti rispettivamente pezzi scritti tra il 1984 e il 1999 la prima e da lì fino al 2009 la seconda. Il titolo pruriginoso è quello di uno degli articoli pubblicati nel libro, meglio in realtà l'originale Otherwise known as the human condition, il titolo che accorpava le due precedenti raccolte scelto per l'edizione inglese.

Geoff Dyer riempie molti dei suoi scritti di trasporto e reale ammirazione se non passione vera per gli argomenti di cui scrive, riuscendo a interessare il lettore a materie magari dallo stesso prese finora poco in considerazione. Prendiamo me per esempio, completamente ignorante di quel che concerne la fotografia se non per la conoscenza superficiale di un paio di nomi arcinoti, mi trovo a leggere con interesse vivo e crescente curiosità brani costruiti attorno a fotografie più o meno celebri che ci dicono del loro posto nella Storia e nell'attimo in cui sono state scattate, di ciò che potrebbe esserci nella testa e nei cuori dei soggetti ritratti, di ciò che suggerisce l'immagine rispetto a ciò che probabilmente è rimasto fuori dall'inquadratura, e ancora stili, tematiche, visioni e strumenti di fotografi come Jacques Henri Lartigue, Robert Capa, Ruth Orkin, Richard Avedon e tantissimi altri ancora. Non parliamo poi dell'estasi quando ci si ritrova a camminare con Dyer su sentieri di per sé già amati quali per me possono essere la letteratura o la musica, gli spunti qui sono infiniti. Dyer, laureato in letteratura inglese a Oxford, apre al lettore tantissime possibilità di approfondimento, sia critico che di mero catalogo, libri e autori magari da noi mai affrontati che tramite le parole di Dyer invocano a gran voce di essere inseriti nell'interminabile lista delle cose da leggere che molti lettori tengono sempre a portata di mano, in questo senso Il sesso nelle camere d'albergo diventa una fonte preziosa di consigli da tenere sul comodino anche a lettura terminata, per ammirare le foto di un artista a noi sconosciuto oggi, acquistare un libro domani (magari partendo da Figli e amanti di D. H. Lawrence), quando si ha il giusto tempo ascoltare un disco pubblicato dall'etichetta Ecm (Edition of contemporary Music), Dyer ci suggerirebbe Keith Jarrett probabilmente, e via discorrendo. Nella sezione dei personali si ritrova in larga parte il piglio divertente e attraente che Dyer ha già mostrato in altre sue opere di fiction come Paris trance o Brixton pop, andando a chiudere in maniera lieve una raccolta di scritti piacevole dal primo all'ultimo pezzo. Il mix tra narrazione brillante e critica intelligente che Dyer dimostra di saper padroneggiare alla perfezione ha permesso all'autore inglese di realizzare il suo sogno più grande: quello di non dover mai lavorare! 

venerdì 17 settembre 2021

11 MINUTI

(11 minut di Jerzy Skolimowski, 2015)

Jerzy Skolimowski nel 2015, anno di uscita del film, aveva 77 anni, intatta la voglia di fare cinema e sperimentare, con il digitale, con concetti un pochino criptici, con la struttura e con la dilatazione del tempo, in un film di 81 minuti Skolimowski ce ne mostra 11, protagoniste più persone, brevissimi momenti di vita ripresi in un gioco a incastri che nel giro di questi undici minuti porteranno al loro climax diversi destini, al cambiamento o forse, in maniera più semplice, a un vuoto, una mancanza, un difetto, proprio come una piccola macchia nera a disturbare lo sfondo e l'insieme. Ciò che conta è il momento, la coincidenza, il caos, in un film dove non esiste una trama portante ma brevi passaggi di trame minori, quotidiane, alcune banali come quella di un gruppo di suore che acquistano degli hot dog, quella di un uomo anziano che dipinge un panorama, altre più peculiari, una giovane e bella attrice molestata, un ragazzo impegnato in un'effrazione, un marito geloso pronto al colpo di testa e via così. Il piglio del regista non è certo ottimista, nelle nostre vite il caso, il fato, chiamatelo come volete, può improvvisamente giocare la sua carta, impossibile da prevedere, subitaneo come una macchia apparsa nel cielo, quasi come fosse un ufo manifestatosi all'improvviso, senza indizio alcuno, ingestibile.

Quattro suore si fermano a un chiosco per hot dog, il venditore è alla vigilia del matrimonio di suo figlio. Un corriere che consegna droga intrattiene una relazione con la moglie di un cliente, un'equipe medica tenta di portare in ospedale una partoriente intralciata da un uomo violento. Un ragazzo intento a scassinare un negozio trova una sorpresa, un anziano dipinge un quadro. Un'attrice fa un provino per un film erotico, suo marito è geloso, una coppia di amanti non vuole frequentare un conoscente che lavora nel porno. Una ragazza ha combinato un gaio e rivuole il suo cane. Frammenti di esistenze destinati quantomeno a lambirsi nelle strade di una Varsavia dal sapore internazionale, sullo sfondo una macchia nera, un qualcosa di non chiarificato che troverà parziale spiegazione solo sul finale di questo breve film.

Scene inquadrate da dispositivi mobili, telecamere di sicurezza e poi un saggio di regia e sceneggiatura che allarga e comprime costantemente gli eventi, dal personale al collettivo, dagli 81 agli 11 minuti come se il tempo fosse visto attraverso una lente di scomposizione cubista, Skolimowski ci lascia intravedere la falla, il buco nero del caos per tornare a rifugiarsi nella superficialità di eventi banali, tutto corre, tutto va di fretta, tutto si riduce a una lettura veloce come si conviene all'epoca dei social dove l'approfondimento è bandito, il contenuto dev'essere veloce per poter così poi passare ad altro, a un'altra tranche, a un altro pezzo di vita, tutto deve correre come di corsa vanno alcuni dei protagonisti del film, alcuni eventi irrompono stranianti, altri sono enigmatici, la fine non si può che ipotizzarla con occhio pessimista. Opera assolutamente moderna di un regista oggi già ottantatreenne.

martedì 14 settembre 2021

LA CASA DI CARTA - PARTI 1 - 5

La casa di carta è un prodotto perfetto per il binge watching, insuperabile nell'incollare lo spettatore alla poltrona e, alla luce di ciò che abbiamo visto fino alla fine di questa quinta stagione, capace di mantenere questo aspetto vivo in quasi tutti gli episodi girati. L'ideatore Álex Pina e il suo team di sceneggiatori hanno studiato quali sono le corde che il pubblico vuole che vengano toccate, stimolate, mettendo insieme tutta una serie di caratteristiche che probabilmente nemmeno il famoso algoritmo sarebbe riuscito ad amalgamare così bene (da notare che la serie non nasce come produzione Netflix). Eppure sul principio il successo in patria non è stato così eclatante, anche lo stesso Pina, come dichiarato in più interviste, non si aspettava il successo poi ottenuto con l'approdo sulla piattaforma o il prosieguo oltre la prima stagione (motivo per cui sono state prese alcune decisioni soprattutto per uno dei personaggi chiave della serie). Parliamo ora per "rapine" invece che di serie o stagioni. Alla prima rapina, seppure imperfetta in alcuni particolari, si può davvero perdonare tutto, l'esperienza è appagante nella maniera più assoluta e totale, si fa davvero fatica a staccarsi dalla visione in quanto il meccanismo a orologeria messo in piedi dagli sceneggiatori, o dal Professore (Álvaro Morte) se preferite, sicuramente passibile di qualche obiezione qua e là, lascia sempre lo spettatore con il fiato sospeso e con quella sensazione che no, non è ancora il momento di andare a dormire, diventa vitale vedere almeno ancora una puntata, peccato poi che il momento di andare a dormire non arrivi mai se non con la conclusione della rapina alla zecca di Stato, il viaggio dura però ventidue episodi, diventa difficile fare una tirata unica, maledetto Pina! La rapina alla zecca di Stato è un saliscendi emotivo continuo, dall'introduzione dei personaggi al momento in cui ci si affeziona profondamente a loro passa davvero poco, anche i più problematici hanno un fascino e un carisma magnetici (penso a Berlino in maniera particolare, interpretato dal magnifico Pedro Alonso), i rapporti interpersonali, seppur malvisti dal Professore, hanno un'importanza fondamentale nell'economia della storia eclissando (soprattutto durante la seconda rapina) anche i piani studiati fin nel minimo dettaglio dagli ideatori, il Professore ma poi anche Berlino e Palermo (Rodrigo de la Serna) per il colpo alla Banca di Spagna. La tensione è costante, i cliffangher calibratissimi, i personaggi sono tratteggiati in maniera splendida, anche gli avversari, l'ispettore Raquel Murillo (Itziar Ituño) ma anche il direttivo dei Servizi con Prieto (Juan Fernandez) e Tamajo (Fernando Cayo), tutto funziona molto bene e alla fine ci si ritrova a voler sapere cosa ha ideato il Professore per quel tipo di situazione, come si uscirà da una crisi spinosa, cosa accadrà a questo o a quel personaggio e ci si ritrova a non volersi mai alzare da quella maledetta poltrona. Tutto ciò è condito da una simbologia iconica che ha catturato l'immaginario dei fan de La casa di carta fin da subito: la tuta rossa con la maschera di Dalì è divenuta un simbolo, un po' come accadde al Guy Fawkes di V for Vendetta per il movimento Occupy Wall Street, li accomuna un sentimento contrario al potere costituito che può essere tacciato di populismo quanto si vuole ma che parla alla pancia di una base stufa marcia di politicanti da quattro soldi che proprio in questi giorni tornano a mostrare la loro prepotenza e le loro inclinazioni dispotiche ma sempre protettrici di una casta odiosa e delle loro stesse persone, non per nulla gli avversari della banda, sia all'interno che all'esterno sono rappresentati come infidi vermi pronti a tutto (chi è che non avrebbe sparato volentieri un colpo a quel fascistone di Gandía?). Il gioco mostra un poco la corda con la seconda rapina, lo schema si ripete con nuovi innesti che però non hanno il carisma del cast originale, il meccanismo a orologeria che caratterizzava la prima parte si perde con l'avanzare delle puntate per far spazio a un'inclinazione maggiormente action che sposta il focus dall'heist movie alla war zone, alcuni colpi di scena (importantissimi) sono telefonati a causa della struttura delle puntate e si avverte qua e là anche qualche momento di bonaccia, mettiamoci anche qualche sequenza davvero poco plausibile e potremmo dire che la chiusura alla fine della rapina alla zecca di Stato sarebbe stata perfetta; il successo impone però di proseguire, il prodotto rimane pur sempre piacevolissimo ma la magia di quelle due prime stagioni rimane ineguagliata. A dicembre ci aspetta una conclusione definitiva, almeno così sembra, vada come vada Tokio (Úrsula Corberó), Rio (Miguel Herrán), Mosca (Paco Tous), Nairobi (Alba Flores), Denver (Jaime Lorente), Stoccolma (Esther Acebo), Helsinki (Darko Perić) e tutti gli altri ci mancheranno molto.



PS: No Arturito, tu non mi mancherai per niente!

venerdì 10 settembre 2021

THE BLUES BROTHERS

(di John Landis, 1980)

Quando sei in missione per conto di Dio non puoi fallire, non ci sono cazzi. 

The Blues Brothers è un inno all'esagerazione, l'espressione steroidea del divertimento smisurato, senza limiti, slegato dai concetti di credibilità e dai principi basilari della fisica, è un concentrato di icone pop mischiato alla presenza dei veri miti del blues e del soul, La Principessa Leila e John Lee Hooker insieme, di che cazzo stiamo parlando?, mica si può pretendere poi che uno su una sgangherata Dodge Monaco acquistata a una svendita della polizia rispetti i limiti di velocità o si fermi a ogni semaforo giallo si ponga sul suo cammino quando in ballo c'è la sopravvivenza di un'orfanotrofio per giovani anime e una sorta di redenzione divina da agguantare. Nel rivedere oggi The Blues Brothers, a distanza di tanti anni, la cosa più fantastica che salta all'occhio sta nel realizzare, ancora una volta, cosa era possibile creare in passato senza l'ausilio del digitale, cose che oggi appaiono ai limiti dell'incredibile, nemmeno fossero navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. Lasciamo pure perdere il numero impressionante di auto adoperate e distrutte per dar vita alla fantastica sequenza finale in cui Jake ed Elwood si precipitano a Chicago per pagare in tempo le tasse dell'orfanotrofio (a Steven Spielberg tra l'altro) prima che questo venga fatto chiudere; ma riguardiamocela quella sequenza, è un trattato sul blockbuster ai tempi dell'analogico, una costruzione che sfida ogni regola e assicura a Landis, insieme ad altre cose, lo status di grande regista senza se e senza ma. Jake e Elwood sono cartoni animati in qualche strano modo trasferiti nel mondo degli umani, a loro non può succedere nulla e il pubblico lo accetta, mica per niente, no, è perché sono in missione per conto di Dio, protetti da tutto, dal crollo di palazzi, da inseguimenti in auto distruttivi, da sventagliate di mitragliatrice, da esplosioni di gas propano, giusto le bacchettate della vecchia Pinguina possono arrecare qualche disturbo ai nostri eroi che, impassibili a tutto, non fanno altro che rialzarsi, scrollare la polvere dalle loro giacche nere e ripartire per la loro missione.

Pensare che all'inizio il film non è nemmeno stato questo grande successo al botteghino, budget sforato e anche di parecchio, incassi negli U.S.A. non così lusinghieri, The Blues Brothers diventa il primo film ad aver accumulato più soldi all'estero che in patria. Siamo nei primi anni 80 e le grandi star della black music erano forse viste come fuori moda, tra disco, new wave, post punk il caro vecchio blues attirava meno, soprattutto il pubblico bianco, ma il film cresce con gli anni e diventa un vero e proprio cult capace di ritagliarsi un posto al sole nella storia del cinema. La trama è tanto semplice quanto ammantata di un'implausibilità crescente che monta scena dopo scena. Jake (John Belushi) esce di galera dopo tre anni scontati per rapina, ad aspettarlo c'è suo fratello Elwood (Dan Aykroyd) che si presenta con un'auto della polizia acquistata a una svendita, questi informa il suo pingue fratello che l'orfanotrofio dove sono cresciuti e dove hanno imparato ad amare il blues grazie al custode Curtis (Cab Calloway) sta per essere chiuso per mancanza di fondi, Jake e Elwood avranno undici giorni per racimolare cinquemila bigliettoni per sistemare la posizione dell'orfanotrofio con il fisco, nel farlo dovranno rimettere insieme la banda e scontrarsi con gruppi country, Polizia di Stato, gestori di locali defraudati di parecchie birre, ex assassine e addirittura con i nazisti dell'Illinois!

È tutta una corsa al rialzo che, grazie all'idiozia delle istituzioni (sempre attuale quella), da un'infrazione minima scatena la devastazione più totale (vedi la sequenza del centro commerciale) e che garantisce un divertimento sregolato infrangendo qualsiasi appiglio al buon senso, a tutto ciò vengono inframezzati numeri musicali ed esibizioni di veri mostri sacri, oltre ai rispettabilissimi John Belushi e Dan Aykroyd (fatti e strafatti all'epoca) ci sono niente meno che il già citato Cab Calloway, John Lee Hooker, Ray Charles, Aretha Franklin, Steve "The Colonel" Cropper della  Booker T. & the MG's e tanti altri ancora, con questi calibri come poteva il film non entrare nel mito? Colonna sonora da urlo e una regia strepitosa rendono il merito a un'idea sviluppata dalla scintilla nata al Saturday Night Live e consacratasi definitivamente anno dopo anno in uno dei film più fuori di testa e amati di sempre, i due fratelli Blues, con i loro personalissimi stili di ballo, rimarranno per sempre nella memoria di tutti, immortali, vere icone pop (o forse vere icone blues?). E comunque io li odio i nazisti dell'Illinois.

lunedì 6 settembre 2021

GET DUKED!

(di Ninian Doff, 2019)

Potremmo dire che Get duked! è un film mediocre, giusto perché da queste parti ci fregiamo di una certa educazione; il sempre caro ragionier Ugo Fantozzi, uno senza peli sulla lingua in quanto a spirito critico, avrebbe con tutta probabilità e con un pizzico di severità paragonato il film a La corazzata Potemkin riservandogli lo stesso impietoso trattamento. Pur avendo raccolto diverse critiche non così terribili questo esordio al cinema del regista di videoclip Ninian Doff sembra non sappia bene che direzione prendere, Get duked! ha il sapore di un pranzo confezionato da uno chef con poche idee e al quale manca la portata principale; per carità, squarci di bellezza ci sono anche, veicolati però solo dagli splendidi paesaggi delle highlands scozzesi che, insieme a un paio di scene che strappano una risata, comunque non giustificano il tempo dedicato a questa storiella fortunatamente breve. Di suo Ninian Doff porta al film proprio una certa estetica ultrapop che parrebbe mutuata dai videoclip e che ben si adatta soprattutto al personaggio di D.J. Barbabietola, ma ormai le presentazioni cool sui protagonisti e gli inserti grafici piazzati su sottofondo musicale non sono cose nuove e non stupiscono più, il regista azzarda soluzioni più originali nei momenti che vorrebbero essere lisergici con risultati affatto lusinghieri. Tanta buona volontà ma nel complesso non si può di certo bollare Get duked! come un grande esordio, qualcosa di più interessante arriva sotto il punto di vista dei messaggi proposti ma anche qui la tesi finale viene esplicitata in maniera così diretta da risultare posticcia seppur condivisibile.

Il campo estivo Duca di Edimburgo è un progetto rivolto agli studenti che hanno bisogno di migliorare il loro curriculum scolastico, un'escursione di un paio di giorni durante la quale gruppi di giovani ragazzi dovranno collaborare, sfruttare le loro doti di orientamento e le risorse che la natura offre per raggiungere un obiettivo comune. Affidati al professor Carlyle (Jonathan Aris) ci sono tre lavativi che non hanno alcun interesse per la scuola: D.J. Barbabietola (Viraj Juneja) lanciato in una discutibile carriera nell'hip hop, Dean (Rian Gordon) di estrazione proletaria e già condannato a imbustare pesce in fabbrica insieme al padre e al fratello e lo stonatissimo Duncan (Lewis Gribben) che ha dato fuoco al cesso della scuola nel tentativo di far esplodere la sua stessa merda, a loro si unisce il secchione Ian (Samuel Bottomley) che vuole accumulare crediti su crediti per la sua carriera scolastica. Dopo alcune diffidenze iniziali (ma nemmeno molte) i ragazzi si compatteranno in un vero gruppo, in particolar modo quando, durante il loro percorso, incontreranno proprio il Duca (Eddie Izzard), un esponente della vecchia Gran Bretagna che ha in odio le nuove generazioni, soprattutto se provenienti dalle classi sociali ritenute più basse e che non esiterà a sparare contro i nostri eroi trasformando il loro progetto scolastico in un incubo a tratti allucinogeno e quasi sempre demente.

Un filmetto neanche tanto divertente consigliato a chi ama la comicità demenziale, qualche volgarità a ritmo di hip hop e qualche sequenza comica qua e là anche azzeccata. Si sarebbe potuto lavorare decisamente meglio sulla lotta di classe e sull'indifferenza delle vecchie generazioni molto benestanti per l'eredità che hanno lasciato a quella dei giovani d'oggi, tema che è sempre comodo archiviare gettando colpe addosso ai più giovani che in effetti si ritrovano in un sistema che, quello sì, andrebbe fatto esplodere come la merda di Duncan. Purtroppo il tutto si riduce a un'invettiva finale da parte di Dean e poco altro, tipo un'uscita delirante per chiudere tutta la faccenda ad esempio. Peccato, si poteva tirar fuori qualcosa di meglio dall'idea iniziale, a partire dal titolo che avrei preferito nella sua prima stesura, Boyz in the wood, che almeno aveva un bel richiamo sulla fissa di uno dei protagonisti.

venerdì 3 settembre 2021

CREEPSHOW

(di George A Romero, 1982)

Tra la fine degli anni 40 e l'inizio degli anni 50 del secolo scorso, nel mondo del fumetto andavano diffondendosi nuovi gusti e tendenze che andarono a eclissare un poco il successo del genere supereroico in voga negli anni della guerra per andare via via a sostituirlo quasi completamente. Furono molte le case editrici di quegli anni a provare nuove vie, prima tra tutte la Timely Comics (Atlas Comics da fine '50) già con un giovane Stan Lee come timoniere e che poi nei 60 diverrà la celebre Marvel Comics che tutt'ora amiamo, più avanti negli anni arrivò la Warren Publishing con serie molto note ancora oggi (Creepy, Eerie, Vampirella), c'era poi ovviamente la National Allied Publications (antesignana della D.C. Comics) e altre ancora, ma il vero cambio di marcia per l'enorme successo di fumetti a genere horror, weird, science fiction e crime lo diede in misura sostanziale la E.C. Comics di Bill Gaines (e Al Feldstein). Tra tutti i generi su cui puntare l'horror e in generale tutto ciò che era weird sembravano essere le migliori potenzialità da sfruttare, i primi tentativi arrivarono sulle serie crime con storielle a tema per poi esplodere, visti i risultati incoraggianti, su alcune delle serie più famose della casa editrice come The Crypt of Terror, The Vault of Horror, The Haunt of Fear, Tales from the Crypt per andare poi anche sulla sci-fi con Weird Science e tornare al crime con Crime SuspenStories. Fu una piccola rivoluzione per vari motivi: i racconti a tema zombi toccavano le corde dell'inconscio degli americani e la paura che questi provavano a causa della tensione da guerra fredda legata alla minaccia della bomba, nelle storie criminali veniva spesso demolita l'istituzione della famiglia felice e del matrimonio così preponderante nella società dell'epoca, soprattutto nei 50, presentando storie con mogli assassine e senza scrupoli, l'asticella delle situazioni orrorifiche si alzava senza remore creando soluzioni intriganti, inoltre funzionava bene la costruzione di molte delle storie che con un twist finale, molto spesso prevedibilissimo una volta capite le meccaniche, volgeva la situazione in favore di una certa giustizia anche se questa spesso premiava azioni criminose e non virtuose. Insomma, materiale che poteva sicuramente intrigare adolescenti e non solo, spesso i disegni erano tirati via, non tutte le storie erano confezionate a regola d'arte, ma dalla E.C. passarono anche dei veri talenti, oltre ai due creatori citati prima anche gente come Johnny Craig poi su Iron Man della Marvel, John e Marie Severin entrambi più avanti a lavorare su Hulk, il grande Wally Wood poi su Devil, Harvey Kurtzman al quale si deve il successo della storica rivista satirica Mad, una delle più celebri in assoluto, e altri ancora. Purtroppo in parallelo al crescente successo dei comics avanzava un'isteria di massa che vedeva nel fumetto i motivi di fenomeni legati alla delinquenza giovanile, istigazione alla violenza e altre scelleratezze simili, aggravate dalla posizione intransigente di alcune commissioni d'inchiesta statunitensi che andarono a nozze con la pubblicazione dello psichiatra Fredric Wertham che con La seduzione dell'innocente riuscì a tagliare le gambe a moltissime case editrici che furono costrette ad aderire a protocolli di autocensura prima e alla chiusura di numerose testate in un secondo momento, la E.C. Comics ad esempio sopravvisse praticamente solo grazie alla rivista Mad mentre il grosso delle pubblicazioni a tema horror e weird vennero cancellate. Furono molti a rimpiangere queste chiusure come molti i giovani ragazzi, futuri autori dell'horror degli anni a venire, a formarsi sui fumetti della E.C. Comics, tra questi un tal George Romero e un certo Stephen King.

Creepshow, regia di Romero, soggetto e sceneggiatura di Stephen King (anche protagonista di uno degli episodi del film), altro non è che una dimostrazione d'affetto e un sentito omaggio a quel tipo di narrazione, ai fumetti horror della E.C. Comics e a quel gusto per l'orrore e per il weird dal sapore così marcatamente retrò. L'intento dei due autori è dichiarato ed è così che va letto il film se ci si vuole realmente trovare dei motivi di interesse, Creepshow va visto come un tuffo nel passato, come la trasposizione di quelle emozioni un po' estreme e allo stesso tempo un po' ingenue che i giornalini della E.C. sapevano suscitare, usciti da quest'ottica il rischio che Creepshow possa perdere gran parte del suo interesse è davvero molto alto. Proprio come accadeva negli albi a fumetti anche qui si avvicendano più episodi, cinque per la precisione, più un prologo e un epilogo. Molte sono le strizzate d'occhio e le scelte di stile e narrative che rimandano ai vecchi fumetti; intanto gli episodi sono introdotti da una figura simile allo Zio Creepy che qui da noi ebbe anche un suo show come Zio Tibia negli anni a cavallo tra gli 80 e i 90 e che in realtà guardava più a un personaggio della Warren, ma il succo rimane lo stesso, i vari fumetti della E.C. erano spesso introdotti proprio da queste figure orrorifiche che parlavano direttamente al lettore, in più Romero sceglie di ricorrere spesso a inquadrature contornate da bordi colorati simili a vignette, anche alcuni passaggi di sequenza ricordano il susseguirsi delle vignette grazie all'uso di cambi di scena bordati da una cornice bianca. L'estetica degli effetti speciali artigianali richiama quella dei vecchi comics, parallelo evidente nella creatura usata nell'episodio La cassa o nella resa visiva dello zio morto di ritorno alla vita in cerca della sua torta ne La festa del papà. Proprio in episodi come questo o come in Alta marea ricorre quel ritorno dalla morte in cerca non tanto di vendetta quanto di una giustizia postuma che si ritrovava in spirito in tanti comics della E.C., in questo l'operazione nostalgica è indubbiamente riuscita. Se valutiamo il film in sé stesso, ignorandone lo scopo, Creepshow non ha questo valore intrinseco così elevato, pur tenendo conto della regia di Romero, che ha sicuramente prodotto esiti più interessanti, e del contributo di King il progetto rimane un semplice divertissement, un b-movie senza picchi verso l'alto. Piccola curiosità, il bimbo del prologo e dell'epilogo è Joe, figlio di Stephen e futuro scrittore horror anch'egli, molto divertente la citazione sui vari oggetti che era possibile acquistare per posta dalle pagine dei comics E.C., tra tutti i famosi occhiali a raggi X ambiti da tutti i giovani adolescenti con gli ormoni in giostra.

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