lunedì 31 maggio 2021

I RAGAZZI DI FENG KUEI

(Fēngguì lái de rén di Hou Hsiao-hsien, 1983)

I ragazzi di Feng Kuei è il film del cambiamento per Hou Hsiao-hsien, con questo lungometraggio infatti il regista entra con pieno diritto nella New Wave taiwanese e aderisce a quelli che sono i nuovi stilemi per il cinema dell'isola fino ad allora dettati dal Partito Nazionalista Cinese. Si abbandonano i toni scanzonati e leggeri delle prime commedie, l'impianto sentimentale condito da lievi passaggi musicali viene sostituito da una narrazione più vicina al reale che ritrae la condizione della gente comune e che proprio per questo, come accadrà ad altri film della New Wave, viene accostata al neorealismo italiano. In effetti il parallelo è pertinente e proprio con i temi de I ragazzi di Feng Kuei se ne ha una chiara conferma, alla vena nostalgica già espressa nei film precedenti, certamente più ingenui, qui si unisce la realtà di una condizione giovanile affatto spensierata e che va incontro alle difficoltà dovute dal passaggio all'età adulta e all'inserimento produttivo nella società che si fa moderna, siamo infatti nella prima metà degli anni Ottanta. Come molti lavori successivi anche I ragazzi di Feng Kuei presenta qualche ispirazione autobiografica da parte di Hou Hsiao-hsien che proprio con questo film comincia a raccogliere anche qualche riconoscimento internazionale (Grand Prix al Festival dei 3 continenti).

Nel piccolo villaggio costiero di Fengkuei un gruppo di amici tra i quali ci sono Ah-ching (Doze Niu), Ah-rong (Chang Shih) e Kuo-tzu (Chao Peng-chue) passa il tempo scatenando risse con altri gruppi di giovani, bighellonando e bevendo per poi dar vita a qualche nuova faida con la quale dare grattacapi alle loro umili famiglie. In particolare Ah-ching vive una condizione difficile, la sua famiglia deve accudire il padre che vive in una sorta di stato catatonico a causa di una palla da baseball che gli ha sfondato il cranio. Finita la scuola giunge il momento per questi sfaccendati di trovarsi un lavoro, tramite la sorella di uno di loro troveranno un appartamento in cui stare nella grande città portuale di Kaohsiung, qui Ah-ching si innamorerà di Hsiao-hsing (Hsiu-ling Lin), la ragazza di Huang Chin-ho (Tou Chung-hua), il loro vicino di casa, per lei tenterà di mettere la testa a posto e diventare una persona migliore, si dovrà scontrare però con le delusioni dell'età adulta: un amore non corrisposto, i rapporti difficili con gli altri, le difficoltà d'inserimento nella nuova società produttiva che molto chiede e decisamente meno dona in cambio.

C'è una scena molto bella ne I ragazzi di Feng Kuei, una tra le più celebri e citate del film e che racchiude in sé sia il confronto di questi giovani ragazzi con la dura realtà del mondo e con il suo cinismo, sia il passaggio metaforico a un cinema più adulto (per il regista, per Taiwan) ma anche un interscambio tra cinema e reale. Con un po' di soldi in tasca i tre giovani decidono di godersi un po' di relax andando a vedere un film, vengono indirizzati all'interno di una palazzina in costruzione, la promessa, previo pagamento anticipato, è quella di un film a colori, grande schermo, formato panoramico, installazione abusiva all'undicesimo piano. Giunti sul posto i tre giovani buggerati si trovano di fronte a un enorme finestrone privo di vetro con vista panoramica sulla città. L'inquadratura di Hou Hsiao-hsien, come accadrà altre volte fino a divenire cifra di stile, ci mostra dall'interno i contorni di questa che è un'ulteriore inquadratura sull'esterno, il cinema del regista riprende finalmente la realtà, senza filtri e senza costrizioni e questa realtà non è quella candida dei primi film, i protagonisti sono appena stati truffati, quello che si vede "nel film" è la città, con tutte le sue sfide e le sue insidie, con le difficoltà e le responsabilità alle quali i protagonisti andranno incontro. Come si accennava prima non mancano inserti nostalgici, in alcune occasioni Ah-ching torna con la memoria a un tempo più felice, quello dell'infanzia, dove il padre era ancora in salute e la vita più semplice; non mancano nemmeno dichiarazioni d'amore verso il cinema qui con un omaggio al capolavoro nostrano Rocco e i suoi fratelli. Con I ragazzi di Feng Kuei si apre un nuovo capitolo nella carriera del regista e in generale per tutto il cinema di Taiwan.

venerdì 28 maggio 2021

SHUTTER ISLAND

(di Martin Scorsese, 2010)

Quando nel 2010 Shutter Island esce nelle sale il film viene aspramente denigrato da parte della critica che lo definisce "il peggior film di Scorsese insieme a The departed", un film "normalizzato" e privo dello sguardo autoriale proprio del regista di New York, una narrazione che guarda a quanto già fatto nei generi noir e thriller, priva di originalità, dalla costruzione risaputa e dalle rivelazioni telefonate. Bene, iniziamo con il dire che a mio avviso (opinione personale, certo) non credo sia possibile, scorrendo la filmografia di un regista che ha contribuito a fare la storia del cinema, apporre accanto ad alcuno dei suoi titoli la parola "peggiore" che sottintende non solo un ultimo posto in un'ideale classifica ma anche un esito molto molto scadente. Al limite, come sicuramente succederà a ciascuno di noi, si potranno avere delle preferenze, citare opere meno riuscite o a seconda dei gusti meno accattivanti, meno interessanti, io potrei citare Hugo Cabret per esempio, uno dei film che mi hanno appassionato meno all'interno della filmografia del regista, pur riconoscendone alcuni innegabili meriti. Questo per dire quanto a mio avviso Shutter Island sia stato ingiustamente vilipeso, parliamo di un'opera di un regista che all'epoca ha già firmato più di venti lungometraggi di finzione, molti riconosciuti come capolavori assoluti, un numero più o meno simile di documentari, incursioni nella serialità televisiva, numerosi cortometraggi, un uomo che conta quasi settanta primavere e che realizza un bellissimo film, magari sì, poco originale. E quindi? Credo che a Scorsese lo si possa concedere, anche in virtù dell'età, un bel film che segue binari già tracciati, e che senza troppi traumi si possa godere di questo Shutter Island che in quanto a tensione, ricostruzione d'ambiente e descrizione del protagonista non lascia il fianco scoperto a critiche di sorta, senza contare il lavoro di altissimo livello portato avanti su un sonoro avvolgente e a tratti inquieto e sulle splendide scenografie di Dante Ferretti.

1954. L'agente federale Edward Daniels (Leonardo DiCaprio) viene inviato insieme al suo nuovo partner Chuck Aule (Mark Ruffalo) su Shutter Island, un'isola che ospita un manicomio criminale dove si cerca una strada efficace per curare i criminali violenti affetti da patologie psichiatriche. I due agenti sono sul luogo per indagare sulla misteriosa scomparsa di una paziente, Rachel Solando (Emily Mortimer), che sembra essere svanita nel nulla dalla sua cella: porta chiusa dall'esterno, sbarre alle finestre, una scogliera e un'oceano come difese naturali contro ogni fuga. L'istituto di correzione è seguito dal luciferino Dottor Cawley (Ben Kingsley), medico all'apparenza illuminato alla ricerca di vie alternative alla lobotomizzazione dei pazienti difficili da recuperare. Fin da subito l'ambiente sembra molto ostile ai due agenti, lo stesso dottore, il capo delle guardie McPherson (John Carroll Lynch), il direttore dell'istituto, sembrano tutti voler mettere i bastoni tra le ruote ai due agenti per intralciarne le indagini. Il luogo diviene sempre più cupo e minaccioso, l'uragano che si abbatte sull'isola non aiuta di certo l'umore e dal passato di Daniels riemergono i fantasmi: i ricordi dei lager nazisti durante la Guerra Mondiale in Europa, i lutti familiari, anche l'equilibrio dell'agente inizia a vacillare.

Shutter Island potrà anche avere uno sviluppo intuibile da chi mastica storie con una buona frequenza, ciò nonostante Scorsese crea una tensione da manuale mettendo in campo tanto del suo talento, magari non tutto, ma alcune inquadrature claustrofobiche e articolate sono realmente impressionanti e tutto il gioco creato sui sospetti continui, supportato dal comparto sonoro e dal montaggio che dona un ottimo ritmo alla narrazione, tiene lo spettatore sempre con l'attenzione altissima; ci troviamo di fronte a un film di genere, tesissimo e girato mirabilmente, le sequenze dove anche gli agenti atmosferici sembrano mettersi contro gli agenti federali sono da manuale del thrilling, DiCaprio è una garanzia e qui sbaraglia la concorrenza di un Ruffalo un po' sottotono e di un Kingsley di maniera, ben adeso alle atmosfere anche lo score musicale assemblato da Robbie Robertson. Non sarà il film balzato in cima alle preferenze degli spettatori tra quelli girati da Scorsese ma a mio modo di vedere Shutter Island rimane un gran bel film, anche perché se critichiamo aspramente esiti come questo Dio salvi molto di ciò che circola nelle sale.

giovedì 27 maggio 2021

LO SQUALO

(Jaws di Steven Spielberg, 1975)

Lo squalo di Steven Spielberg è ormai divenuto un pezzo di storia del cinema, un tassello fondamentale per l'evoluzione della settima arte, sia per quello che riguarda il versante dei contenuti ma anche per un discorso prettamente industriale e produttivo. Ed è in quest'ottica che guardiamo al primo vero successo commerciale di Spielberg, Lo squalo è un film di aperture e di record che hanno cambiato il modo di vedere il cinema; siamo a metà degli anni 70 negli Stati Uniti in piena New Hollywood, una corrente cinematografica nella quale gli autori contano più delle case di produzione, dove gli attori cambiano approccio e tratteggiano personaggi più credibili, più umani, sono anni che ci hanno regalato capolavori di altissimo livello e volti come quelli di De Niro, Pacino, Streep, Hoffmann, Nicholson e Jane Fonda per citarne solo alcuni tra i più celebri. In questo contesto di grande fermento si muovono alcuni registi/autori ai quali tutti gli appassionati di cinema guardano tutt'ora con amore, rispetto, gratitudine, idolatria e passione, parliamo di gente del calibro di Coppola, Scorsese, Spielberg, De Palma, Allen, Cimino, Pollack e ci fermiamo qui solo per non sfociare in un elenco troppo lungo. Lo squalo arriva a spezzare un po' questa corrente autoriale, nonostante lo stesso Spielberg ci sia pienamente inserito nel mezzo, scombinando e sovvertendo diverse consuetudini consolidate; intanto si parla di un film costato nove milioni di dollari nel 1975, andando a sforare un budget previsto di quattro milioni, meno della metà, cifra all'epoca più che ragguardevole, sfora largamente anche i tempi di ripresa, cosa non facilmente consentita fino a quel momento, scombina le carte delle dinamiche distributive e di marketing usufruendo di promozione su scala nazionale e visibilità in un numero elevato di sale, tutte cose che in precedenza non esistevano o che al limite venivano realizzate in maniera graduale nel corso del tempo. L'incasso è stratosferico e, visto anche l'approccio spettacolare del film, con l'uscita de Lo squalo si va a datare per convenzione anche la nascita del blockbuster, spostando quindi l'attenzione delle case di produzione su questo nuovo filone che necessitava per forza di cose del loro intervento, i costi infatti erano alti, insostenibili per un modello di cinema indipendente, e gli effetti speciali non potevano contare ancora sull'economia del digitale. Il film di Spielberg in poche parole cambia il cinema. Sul piano squisitamente narrativo Lo squalo viene indicato come una pietra miliare di quello che sarà il mood tensivo per il thriller e l'horror a venire e anche qui di cose ce ne sarebbero da dire a iosa. Indubbiamente la tensione crescente creata ad arte dalla scelta di non mostrare troppo spesso lo squalo (scelta dovuta anche al fatto che i quattro squali meccanici usati per le riprese continuavano a rompersi impedendone un uso più massivo) risulta vincente in tutta la prima parte del film, sottolineata in maniera perfetta dal ripetersi di quelle due note ormai storiche di John Williams che con questo tema musicale estrae la matta dal mazzo. Spielberg scombina bene le carte allungando i tempi di attesa del confronto, costruisce la situazione, quando ci si aspetta la nuova vittima si viene smentiti, quando siamo pronti per lo squalo questo non si vede, espedienti che accrescono una tensione che, attenzione, era da manuale nel '75 e lo è ancor oggi se contestualizzata, per amor di verità c'è da dire che riguardando oggi il film non si trema di certo sulla sedia e l'unico episodio di jump scare si verifica in una situazione dove tra l'altro lo squalo non c'entra nulla. Anche sul versante horror e su quello degli effetti visivi tutto deve essere riportato alla data d'uscita, film encomiabile ma che oggi ovviamente difficilmente potrebbe impressionare qualcuno se non chi come il protagonista Martin Brody (Roy Scheider) soffra di un cattivo rapporto con l'acqua. Ciò di cui invece si parla meno ed è a mio avviso il vero punto di forza del film di Spielberg è come Lo squalo sia un grandissimo classico d'avventura, dimentichiamoci il thriller e l'horror, è la dimensione avventurosa che permette al film di travalicare i tempi, sono il confronto eterno tra uomo e forze della natura, la sfida con la bestia, il riferimento è più a Moby Dick che ad altro, anche dal punto di vista dello score musicale, lasciate da parte il mi e il fa che precedono l'arrivo dello squalo, la partitura di Williams è una presentazione perfetta per un classico dell'avventura che ricorda addirittura i film di genere del cinema classico targati Disney, tutta la seconda parte del film, quella a bordo dell'Orca, la nave del cacciatore di squali Quint (Robert Shaw) è da manuale dell'epopea in mare, qui c'è il confronto tra tre uomini molto diversi tra loro, il terzo è l'oceanografo Hooper (Richard Dreyfuss), e quello tra loro e la bestia, piccola perla il monologo di Quint sulla barca, personaggio che sembra dover scontare i peccati del suo passato (ha trasportato la bomba che finì sul Giappone), ottima prova d'attore che eclissa quelle dei pur centrati, e forse più ricordati, Dreyfuss e Scheider. È sotto quest'ultimo punto di vista che ancora oggi il film mantiene un valore che va oltre quello storico derivante da tutto ciò che abbiamo detto finora. Seguiranno ovviamente emuli ed epigoni, diversi sequel e improbabili varianti di cui si ricorda con affetto almeno Piraña di Joe Dante e L'orca assassina di Michael Anderson, rimangono però insuperate per diverso tempo le scelte di regia di Spielberg, le riprese subacquee, la bella location di Martha's Vineyard ma soprattutto la summa di elementi inseriti tutti al posto giusto, per diversi versi Lo squalo è ciò che ha permesso a Spielberg di diventare ciò che è diventato, anche per questo al film dobbiamo tutti qualcosina.

martedì 25 maggio 2021

UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK

(A rainy day in New York di Woody Allen, 2019)

Mi capita di guardare uno dei film recenti di Woody Allen ed è proprio allora che Woody Allen mi manca di più, nel momento in cui la sua mancanza dovrebbe invece risultarmi attenuata. I personaggi dei suoi ultimi film, pur se ringiovaniti, continuano a essere scritti su quel fantastico modello che tutti conosciamo ed è proprio quando questo modello viene seguito in maniera pedissequa che ce ne fa rimpiangere ancor di più l'assenza. Fortunatamente ciò non avviene nel caso di Un giorno di pioggia a New York, il giovane protagonista, Timothée Chalamet, è infatti molto bravo a trovare una sua personale cifra stilistica (e in questo credo ci sia forte lo zampino di Allen stesso nel ruolo di direttore d'attori) nonostante sia evidente come la penna del regista, qui anche nelle vesti di sceneggiatore, torni a ruoli con caratteristiche simili a quelli già raccontati in altri contesti, o addirittura nello stesso contesto, più e più volte in precedenza. Nonostante tutti i rimandi al cinema alleniano che fu, i ricordi e le nostalgie, Un giorno di pioggia a New York si conferma un'ottima commedia sentimentale capace di non farci rimpiangere il passato e di farci innamorare ancora una volta della Grande Mela come forse solo la telecamera di Allen sa fare. Uno dei punti di forza del film, data per scontata la cornice dal fascino intramontabile, è proprio l'interpretazione di Chalamet che porta sulle spalle la responsabilità di un nome ingombrante (il suo personaggio si chiama Gatsby Welles) e di un modello che lo è altrettanto, il giovane attore trova la via giusta per dare corpo e movenze a un personaggio in cerca del suo posto nel mondo, magari lontano da una famiglia che impone la realizzazione di grandi aspettative, che un po' soffoca e un po' riserva (grandi) sorprese, e quindi di conseguenza anche lontano dalla sua amatissima New York.

Gatsby Welles e Ashleigh Enright (Elle Fanning) studiano al college di Yardley, sono una bella e giovane coppia di estrazione alto borghese, figlia di banchieri lei, rampollo di una famiglia prestigiosa lui; quando per Ashleigh si presenta l'occasione di andare a New York a intervistare il famoso regista Roland Pollard (Liev Schreiber) per il giornale della scuola, Gatsby pianifica con entusiasmo un weekend nella Grande Mela per mostrare alla sua ragazza tutti i luoghi che lui più ama della città e che lei non conosce in quanto originaria dell'Arizona, e se tutto ciò avvenisse sotto un romantico scroscio di pioggia, beh... tanto di guadagnato. Una volta in città, separatisi per il tempo dell'intervista, i due ragazzi per una serie di eventi non riusciranno più a rispettare i loro programmi e affronteranno un weekend rivelatore per entrambi e foriero di parecchie novità, lui ritroverà tutta una serie di vecchie conoscenze e farà finalmente i conti con la sua famiglia, lei scoprirà il mondo del jet set e il lato vivace di una città che offre moltissimo. Quando finalmente i due si rincontreranno sarà con una nuova consapevolezza e un futuro in vista molto diverso da quello che sembrava possibile solo fino a un paio di giorni prima.

Film nostalgico, per noi spettatori, per il regista, quasi un passaggio di testimone verso il futuro, perché se noi guardiamo indietro, se Allen guarda a un cinema di alcuni anni fa, al ricordo della sua New York, i protagonisti invece guardano avanti e nel giro di un weekend cambiano, crescono, fanno nuove esperienze e accumulano rivelazioni, su loro stessi, sul loro mondo, sul mondo, e finalmente lui, il personaggio che era Allen e che è stato di Allen non è più, non completamente almeno, è qualcosa che qui è di Chalamet quanto di Allen se non di più, e questo è un grande passo per il regista newyorkese e in generale per l'ottima riuscita del film. Bellissima la fotografia di Storaro di cui possiamo essere orgogliosi, ottimi gli interpreti, di Chalamet abbiamo detto ma anche Selena Gomez e soprattutto Elle Fanning, in alcuni momenti di scarsa sobrietà il giusto sopra le righe, contribuiscono a creare un cast giovane che tiene testa ai vari Schreiber, Jude Law e Diego Luna. Un episodio felice della nutritissima filmografia del regista che fa venir voglia di andare a riprendere tutti i titoli imperdibili di Allen, non male se pensiamo che ormai si è superata la soglia dei cinquanta film e che in occasioni come questa il regista, che ormai ha superato le ottantacinque primavere, non mostra segni di stanchezza.

domenica 23 maggio 2021

FORTAPÀSC

(di Marco Risi, 2009)

Il film di Risi si apre con un'abusatissima sequenza aerea in notturna con panoramica sulla città di Napoli e le note di Vasco Rossi in sottofondo; la spocchiosa vocina che ogni tanto fa capolino nel mio cervello interviene per suggerirmi che sì, in fondo potevamo anche chiuderla lì. Invece, per fortuna, la vocina è rimasta inascoltata e Fortapàsc si è rivelato un bel film con uno sguardo originale sulle vicende di camorra e sulla storia del giornalista Giancarlo Siani. Quello che arriva forte allo spettatore è la volontà di non concedere nulla allo spettacolo ad ogni costo, manca il ritratto della figura dell'eroe da ritrovare nel protagonista, Giancarlo Siani viene raccontato come un giovane coscienzioso, pulito e appassionato del suo lavoro, un ragazzo che quando viene a conoscenza di fatti interessanti, e a Torre Annunziata in quegli anni "interessante" vuol dire camorra, non si gira dall'altra parte ma continua a cercare di capire per raccontare le cose come stanno. Ovviamente uno così può facilmente diventare scomodo agli occhi di qualcuno. Manca anche il tono epico di molti romanzi criminali, qui nella costante anormalità di un territorio ostaggio dei banditi si cerca di ricondurre il tutto a una narrazione del reale, unica piccola concessione quella vena lievemente comica che alcuni delinquenti dimostrano e che stempera un poco alcuni momenti anche molto violenti nelle situazioni presentate, non nelle immagini dove anche qui non si eccede mai inutilmente, insomma... Risi sceglie di trattare la materia con un certo equilibrio senza mai uscire troppo dalle righe, con quell'onestà di fondo che era propria del giovane giornalista.


Si apre con la notte della morte di Siani per poi riavvolgere tutto in un lungo flashback. Prima metà degli anni 80, Giancarlo Siani (Libero De Rienzo) è un collaboratore precario del Mattino di Napoli che scrive di cronaca nera nella sede di Torre Annunziata. Siani è un ragazzo semplice in un territorio che semplice non lo è per niente, tra l'amore per la bella Daniela (Valentina Lodovini) e l'amicizia non sempre facile con Rico (Michele Riondino) il giornalista inizia a fiutare qualche notizia importante nell'ambito della criminalità organizzata che funesta Torre Annunziata. Intanto la rivalità tra il clan dei Bardellino e quello di Valentino Gionta (Massimiliano Gallo) lascia diversi morti per terra, sarà proprio Siani a fare i primi collegamenti tra queste figure e la classe politica di Torre Annunziata che a partire dal sindaco (Ennio Fantastichini) si dimostra fin troppo molle e tollerante nei confronti degli atti di camorra. Con il trasferimento alla sede di Napoli e i primi articoli di grande rilievo Siani firma pezzi importanti per il futuro cambiamento nelle istituzioni ma anche la sua futura condanna a morte.


Film molto calato nell'epoca dei fatti, la colonna sonora, la cronaca, l'avventura del Napoli di Maradona nell'anno dello scudetto al Verona, tutto riporta la memoria al contesto di quegli anni che molti di noi, tranne i più giovani, hanno vissuto in prima persona, la ricostruzione d'ambiente avvicina lo spettatore alla storia di Giancarlo Siani che viene narrata in maniera molto naturale, senza forzature e con il giusto ritmo e soprattutto la giusta misura. Perfetta l'interpretazione di De Rienzo che trova un feeling perfetto con la direzione scelta da Risi per portare sullo schermo quella che è una cronaca di un'esistenza esemplare nella sua onesta quotidianità. Ben pesato anche il cast dei coprotagonisti, non solo la Lodovini e Riondino ma anche tutti i caratteristi che vanno a comporre la fauna criminale di Torre Annunziata, molti volti già visti in numerose occasioni. Fortapàsc, film dimenticato forse troppo in fretta da molti, sarebbe un ottimo strumento per mostrare e spiegare ai giovani alcuni argomenti, magari nelle scuole dove cinema e altre forme di cultura hanno un posto ancora troppo marginale. 

mercoledì 19 maggio 2021

BIRDMAN - O (L'IMPREVEDIBILE VIRTÙ DELL'IGNORANZA)

(Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) di Alejandro González Iñárritu, 2014)

Non ha poi tutta questa importanza se il piano sequenza di Birdman non è stato girato con un unico movimento continuo di camera (cavolo, sarebbe impossibile da realizzare senza aiuti tecnici) e non ha nemmeno importanza che il suddetto movimento della macchina da presa di Iñárritu non rispecchi l'unità di tempo, la storia si svolge infatti in almeno tre giornate scandite dalle anteprime dello spettacolo in allestimento che è un po' il set nevralgico dell'intero film; quali che siano gli accorgimenti usati dal regista per portare a casa il lavoro, Birdman rimane tecnicamente uno degli esiti più belli e interessanti degli ultimi anni oltre a essere anche un film con diverse cose da dire, grande cinema o come ha detto qualcuno (anche) grande teatro. L'esperienza visiva qui è capace di lasciare lo spettatore talmente ammirato da surclassare anche una narrazione comunque molto, molto valida, in più in Birdman si è costruito un ottimo lavoro di sceneggiatura nella quale si sono riusciti a inserire un paio di giochi metatestuali non banali e divertenti, il primo è il parallelo tra la figura del protagonista Riggan Thomson, un attore in declino, e quella di Michael Keaton che qui lo interpreta, entrambi portati al grande successo dal ruolo di un supereroe, più in generale c'è il discorso che va a contrapporre il cinema di cassetta, nella fattispecie proprio il blockbuster con supereroi, al cinema o al teatro d'autore, un po' il discorso che qualche tempo fa sollevò Martin Scorsese scagliandosi contro i cinecomics, il tutto inserito in una vicenda che lascia aperti alcuni momenti di fascinosa ambiguità.

Riggan Thomson (Michael Keaton) è un attore famoso per il suo ruolo nella saga di Birdman, uno strano supereroe piumato, e che ora tenta di rilanciare la sua carriera producendo un adattamento teatrale dal libro Di cosa parliamo quando parliamo d'amore? dello scrittore Raymond Carver, il re del racconto breve. Riggan ha un matrimonio fallito alle spalle, un rapporto difficile se non proprio inesistente con la figlia Sam (Emma Stone), ex tossicodipendente che tenta con scarso successo di rientrare in carreggiata, e una carriera in declino dalla quale vorrebbe eludere la pesante eredità di Birdman a favore di prestazioni d'attore più profonde e convincenti, proprio per questo Riggan, con l'aiuto del suo agente Jake (Zach Galifianakis), si sta giocando davvero tutto per realizzare la sua trasposizione da Carver. Quando si rende necessaria una sostituzione nel cast a causa di un infortunio, l'attrice Lesley (Naomi Watts) propone il suo amante Mike Shiner (Edward Norton), giovane attore dalle grandi doti capace di elevare il tono della rappresentazione e di permettere anche a Riggan di esprimersi al meglio. Ma nonostante tutto l'impegno profuso nel progetto l'eredità di Birdman non vuole scomparire e Riggan inizia a sentire la voce dell'eroe pennuto insistentemente dentro la testa, una voce che porta anche nel mondo reale qualcosa di sovrannaturale (o forse no?).

Il pianosequenza di Iñárritu si muove dietro le quinte del teatro, per le strade, in aria, con lo scopo principale di far seguire allo spettatore da vicino i personaggi, permettergli di viverli e di capirli, di stare vicino a Riggan e di riflesso donargli un po' di quella profondità che l'attore anela da tempo, ma è davvero questo che interessa a Riggan? Vuole scrollarsi di dosso il peso di quell'uccellaccio una volta per tutte o ciò che vuole è solo una nuova popolarità, di basso contenuto ma di ampie proporzioni, quella più vicina al sentire della generazione di sua figlia Sam che alla sua? I contenuti di interesse in Birdman sono tanti, abbiamo già detto del lavoro fantastico a livello tecnico ma c'è tutto un discorso sulla popolarità davvero accattivante. Abbastanza autoironico il parallelo tra Riggan/Keaton e Birdman/Batman, due situazioni molto simili tra finzione e reale, così come non è da sottovalutare la riflessione sul successo smodato dei popcorn movies rispetto a opere più impegnate nel veicolare contenuti e stili decisamente più ricercati; tutti questi spunti sono inseriti nella narrazione in maniera molto intelligente da Iñárritu, si torna a vedere un Edward Norton finalmente in una parte e in una prestazione degna delle sue capacità, vedere recitare lui e Keaton che si adattano alle capacità recitative dei loro personaggi, anch'essi attori, è qualcosa di eccezionale, senza dimenticare un ottimo Galifianakis in un ruolo più dimesso rispetto a quelli ai quali l'attore ci ha abituati e decisamente convincente. Sotto la coltre lasciata depositare da tutti gli aspetti di un film riuscitissimo, tra i quali un gran ritmo e un uso della musica d'accompagnamento persistente, originale e indovinata, c'è in ultima analisi una confusione di sentimenti, un'incapacità di provarli e gestirli che scava a un livello ancora più profondo. Birdman è un film straripante e allo stesso tempo equilibrato, Oscar meritatissimo per un'opera che può vantarsi di assomigliare a poche cose viste in precedenza.

domenica 16 maggio 2021

THE GREEN, GREEN GRASS OF HOME

(Tsai na ho-pang ching-tsao-ching di Hou Hsiao-hsien, 1982)

Come già si è detto qualche tempo fa in occasione del post su Cute girl, esordio alla regia di Hou Hsiao-hsien, il 1982, anno di uscita di questo terzo lavoro del regista, è anche l'anno che con il film collettivo In our time vede la nascita ufficiale della New Wave taiwanese e di conseguenza una decisa evoluzione nei contenuti per quel che concerne il cinema dell'isola finora obbligatoriamente privo di riferimenti politici e sociali e votato in maniera forzata al disimpegno e ai toni leggeri. Hou Hsiao-hsien, che sarà tra i maggiori esponenti della corrente, con questa sua opera non ha ancora cambiato completamente registro anche se si evince già una certa maturazione rispetto al suo film d'esordio. The green, green grass of home è ancora un film mascherato da commedia sentimentale con declinazione musicale, il rimando è sempre ai nostri musicarelli dei 60 per fare un paragone, ma se per Cute girl il parallelo era molto calzante qui lo è solo in senso lato in quanto l'impianto della commedia romantica è surclassato da una vena nostalgica che accompagna il film sia per quella che è l'età dell'infanzia (anche se a volte non così spensierata) sia per la vita semplice dei piccoli centri di campagna lontani dal caos di città come Taipei. Non mancano i primi accenni di un'impegno sociale veicolati tramite messaggi semplici e legati alla quotidianità degli abitanti di paese, un cinema minimo che è stato proprio per questo accostato ai temi del neorealismo italiano prima e più avanti alla Nouvelle Vague francese dalla quale l'ondata di rinnovamento culturale di Taiwan mutua il nome. In The green, green grass of home, già titolo nostalgico di per sé, c'è una maggiore coralità delle vicende, la lievissima storia d'amore tra i due protagonisti è spesso accantonata per seguire le vicende dei ragazzini del paese e delle loro famiglie, prende inoltre piede una vena ecologica che non si limita solo alle inquadrature sui paesaggi delle campagne, sul verde dei campi e sull'azzurro dei ruscelli ma intavola discorsi di impegno collettivo per preservare il patrimonio naturalistico dei propri luoghi di appartenenza.

Torna dall'esordio Cute girl il cantante hongkonghese Kenny Bee che qui interpreta Ta-nien, un insegnante di scuola elementare che giunge in un piccolo paese di campagna per sostituire sua sorella, anche lei insegnante trasferitasi altrove. Qui viene ospitato dalla famiglia di Chen Su-Yun, la giovane di cui si innamorerà, che lo sistemerà in una camera sopra il teatro del paese. In poco tempo il nuovo arrivato si affezionerà ai ragazzi della sua classe, alcuni provenienti da famiglie con qualche problema come quella del piccolo e ostinato Wen-chin, e si ambienterà tra la gente del villaggio tanto da divenire promotore di iniziative per proteggere il territorio circostante e i fiumi che scorrono vicino al villaggio stesso, intanto la storia romantica con la graziosa Chen Su-Yun viene scossa dall'arrivo da Taipei di una ex fiamma di Ta-nien.

Con The green, green grass of home è possibile recuperare sentimenti magari ingenui ma genuini che le rappresentazioni dettate dalla società moderna, più cinica e problematica, hanno ormai messo da parte, lo sguardo di Hou Hsiao-hsien ha una purezza lieve che rende questa commedia leggera, ancora non così pregna di contenuti ficcanti, comunque piacevole e rasserenante. Come si diceva non mancano alcuni momenti canori e di fondo è presente la storia romantica ma sono queste caratteristiche lasciate più che altro come legante per esplorare quella vena nostalgica che come ha dichiarato anche il regista in alcune interviste ha un tocco di autobiografia per quel che concerne i ricordi d'infanzia dello stesso Hou Hsiao-hsien, pensiamo al movimento circolare della sequenza dei bambini che rincorrono il treno, un gesto gioioso che apre e chiude il film e che assume una densità maggiore sul finale, dopo che lo spettatore ha avuto la possibilità di entrare un poco nel loro mondo, che poi è un po' quello che il regista riconduce ai ricordi del passato. Il film è fatto di piccoli gesti, piccoli episodi che si rincorrono, divertente l'approccio dei vari bambini all'espletamento dell'esame delle feci da fare per la scuola, tra episodi scatologici e qualche piccola gag dal sapore prettamente orientale la macchina da presa si concentra sul paesaggio, sui ritmi del villaggio e su un mondo che è (era?) più a misura d'uomo e capace di regalare ai protagonisti, anche quelli schiacciati da qualche difficoltà, quella serenità che oggi è fortuna di pochi in un mondo che non appartiene più alla solidarietà e alle moltitudini.

venerdì 14 maggio 2021

INTERSTATE 60

(Interstate 60: Episodes of the road di Bob Gale, 2002)

Sentite questa teoria: dati un universo infinito e un tempo infinito tutto accadrà. Significa che tutti gli eventi sono inevitabili, compresi quelli ritenuti impossibili. E questa è una valida spiegazione per la mia storia.

Bob Gale è un sodale del ben più noto Robert Zemeckis, il suo lavoro è facilmente riconducibile dalla nostra memoria agli anni 80 grazie soprattutto alle sceneggiature siglate proprio da Gale per quel gioiello che ancora oggi è la trilogia di Ritorno al futuro. Poi collaborazioni con Spielberg, un episodio della serie tv antologica Amazing stories (da noi Storie incredibili) e parecchio fumetto sia per Marvel che per DC Comics. Infine, a distanza di parecchi anni, la sua unica regia proprio con questo Interstate 60.

Già dalle prime battute il film di Gale vuole rinverdire la tradizione delle narrazioni fantastiche con toni comici tipiche degli anni 80, che poi sono state il vero cavallo di battaglia del Gale sceneggiatore; nella struttura il film riprende anche alcune caratteristiche delle serie antologiche a tema fantastico come potevano essere la già citata Storie incredibili o la più iconica Ai confini della realtà proprio nella sua versione eighties. Il film si apre con un preambolo che richiama proprio questi serial: in un bar della provincia americana due ragazzi discutono su come molte culture abbraccino la figura di "colui che realizza i desideri": gli arabi hanno i geni, gli irlandesi gli gnomi, i cinesi draghi e scimmie, gli europei hanno le fate e gli spiriti del bosco, solo gli americani non hanno nulla di simile. Scorretto, interviene un cliente al bancone, gli americani hanno O. W. Grant (dove O. e W. stanno per One Wish), personaggio a volte dispettoso con la peculiarità di esaudire un solo desiderio per ogni persona, un tipo strano con un farfallino rosso, una pipa magica a forma di testa di scimmia e che porta in giro il volto di Gary Oldman, non è impossibile incontrarlo lungo la Statale 60. Peccato che di questa strada non ci sia traccia sulle cartine ufficiali. Al prologo partecipa in una piccola scena anche Michael J. Fox e se questo non bastasse a titillare la vostra vena nostalgica vi aspettano anche Christopher Lloyd (e con Back to the future siamo a posto) e Kurt Russell.

Per il giovane Neil Oliver (James Mardsen) si avvicina il giorno del suo compleanno ma anche il momento in cui scegliere le sorti del suo futuro che potrebbe essere spianato dal padre facoltoso e influente verso una noiosissima e promettente carriera legale o finanziaria. Neil però vorrebbe dipingere, ha del talento ma non ha il coraggio di affrontare il padre, frequenta Sally (Melyssa Ade), la ragazza perfetta per la sua famiglia, ma sogna e disegna un'altra donna che non ha mai conosciuto (Amy Smart). Il giorno del suo compleanno Neil incontra O. W. Grant che si rende disponibile a esaudire un desiderio del giovane, vista la richiesta di Neil affatto materiale e parecchio originale, lo strambo essere magico prende in simpatia il ragazzo e lo indirizza verso un viaggio tanto enigmatico quanto incredibile alla ricerca di ciò che per Neil potrebbe significare la vera felicità. Ovviamente sarà un viaggio lungo l'inesistente Interstate 60.

Pur essendo datato 2002 Interstate 60 è un ritorno al cinema degli anni 80 richiamato più volte anche esteticamente, non mancano però strizzate d'occhio a film più moderni, pensiamo ad esempio alla presenza in alcune scene dei fumetti degli X-Men il cui leader Ciclope è stato interpretato al cinema proprio da James Mardsen. Il film riprende in parte la struttura episodica dei serial ai quali accennavamo prima, il protagonista infatti nel suo viaggio viene coinvolto o è testimone di diversi accadimenti all'apparenza uno slegato dall'altro e che faranno crescere nel protagonista la consapevolezza di cosa per la sua vita conti realmente, cosa è importante e invece cosa è inutile orpello da lasciarsi alle spalle, quasi una serie di prove da superare per raggiungere il premio: la ragazza dei suoi sogni e la vita che in segreto ha sempre desiderato. Interstate 60 è un road movie e insieme un coming of age dai toni leggeri e divertiti, non all'altezza dei più celebri film divenuti cult per la gioventù di quella generazione nata a cavallo tra i 70 e gli 80 ma che sulla scia della nostalgia si lascia guardare con piacere, anche un attore spesso insipido come Mardsen qui non disturba, i vari camei ripagano l'eccessivo essere strampalato del film che forse giunge fuori tempo massimo ma che in fondo trova un suo perché, passato abbastanza sotto silenzio e senza suscitare clamore lo si può scovare nel catalogo di Prime Video. Adatto a chi ha amato quella stagione del cinema fantastico, per noi ragazzi di quegli anni un tuffo piacevole nella nostra adolescenza e quindi da vedere, per chi non è interessato a quel periodo Interstate 60 è un film che indubbiamente presenta dei contenuti di fondo ma che con tutto il bene che gli si può volere rimane comunque trascurabile.

giovedì 13 maggio 2021

I MITCHELL CONTRO LE MACCHINE

(The Mitchells vs the machines di Mike Rianda e Jeff Rowe, 2021)

Il rapporto tra un padre e una figlia è un rapporto particolare, meraviglioso (senza nulla togliere ai figli maschi), un rapporto che con il tempo è destinato a mutare come quasi tutti gli aspetti della nostra vita. È con una punta di dolore che si affronta quel momento in cui ci si rende conto che la propria bambina non ha più bisogno di te come in passato (certo, ne ha ancora bisogno, ma in maniera diversa), inizia a far capolino quel senso di inutilità che la crescita della prole porta con sé, arriva il momento traumatico in cui non puoi più prendere in braccio tua figlia e anche se potresti ancora lei non vuole e tu comunque ti sentiresti un po' idiota a provarci, i coetanei iniziano ad avere più importanza di te, la porta della cameretta è sempre più spesso chiusa e diventa lampante agli occhi di lei come tu in fondo non capisca quasi nulla di qualsiasi argomento, evidente diventa la tua inadeguatezza nei confronti del mondo e nel capire le sue esigenze, i confronti vengono liquidati con un "lascia perdere" e via di questo passo... 

Nonostante l'apocalisse tecnologica da abuso di dispositivi, è di questo che parla I Mitchell contro le macchine, del rapporto difficile tra un padre e una figlia adolescente ormai per molti versi decisamente distanti tra loro, più in generale esplora le dinamiche familiari con un approccio nel quale non è difficile riconoscersi, la costruzione del racconto percorre strade battute e conosciute a menadito e pur così facendo riesce a garantire alla narrazione una freschezza capace di divertire e commuovere anche i cuori più duri, mettendo in campo anche un'animazione accattivante che segue quel lato sperimentale già mostrato da Sony Picture Animations con Spider Man - Un nuovo universo di qualche anno fa. L'insieme di elementi e il loro amalgama rendono questo recente film d'animazione un'ottima visione per tutta la famiglia nella quale ognuno potrà ritrovare un pezzetto della propria verità quotidiana.

Katie Mitchell ha una passione smodata per il cinema e per i video che ama realizzare con i suoi supporti portatili, spesso il protagonista è lo strambo cane di famiglia Monchi, un animale tanto imbranato quanto bruttino a vedersi. Katie è in procinto di partire per seguire i corsi della scuola di cinema della California, suo padre Rick invece non ama la tecnologia, è un patito della natura e delle escursioni all'aria aperta, nonostante l'amore tra i due sia forte il rapporto che c'era quando Katie era più piccina sembra ormai scomparso, così dopo numerose incomprensioni Rick, insieme a mamma Linda e al piccolo Aaron, decide di organizzare un viaggio di famiglia con lo scopo di rinsaldare i legami sfilacciati, si partirà con la vecchia auto scassata dal Michigan in direzione California per accompagnare Katie verso il suo futuro. Mentre succede tutto questo il genio di turno dell'innovazione tecnologica trasforma l'ultimo modello di cellulare e relativo sistema operativo in qualcosa di totalmente obsoleto trasportando tutte le funzioni del telefono all'interno di una serie di robot che dovranno essere il supporto definitivo all'umanità, probabilmente però il genio non ha mai letto Asimov e quindi...

Tralasciando il fatto che lungo il loro viaggio i Mitchell si trovino a dover salvare il mondo da un'invasioni di robot impazziti, tutti gli elementi che costituiscono I Mitchell contro le macchine rendono questo film d'animazione decisamente divertente e in perfetto equilibrio tra momenti citazionisti, passaggi introspettivi e commoventi, uscite divertenti e tanta animazione davvero spassosa che unisce la cgi con l'animazione più classica a due dimensioni, anche gli inserti di puro gusto pop che invadono di tanto in tanto lo schermo aiutano a movimentare in maniera originale la visione. Se la denuncia alla società ipertecnologica sembra facilona (e probabilmente lo è) non manca però di andare a segno più volte, alcune trovate sono nostalgicamente geniali (l'utilizzo del Furby per esempio), la tecnica molto interessante ma soprattutto centra in pieno il bersaglio il lavoro fatto sulla caratterizzazione dei personaggi e sui sentimenti per uno sviluppo delle relazioni che ha tanto il sapore del vero. Peccato che il comparto animazione della Sony alterni cose molto valide come questa o il primo Hotel Transylvania, il già citato Spider Man e altre cose ancora a prodotti quasi inguardabili o mediocri (i film dei Puffi, Angry Birds e una serie di film di una scialba medietà), non sarebbe male nel campo dell'animazione trovare un altro punto di riferimento a cui guardare oltre i pochi e soliti noti.

lunedì 10 maggio 2021

FANTERIA DELLO SPAZIO

(Starship troopers di Robert A. Heinlein, 1959)

Robert A. Heinlein, uno dei nomi più importanti della fantascienza classica, gode della fama di reazionario incallito, tesi questa smentita almeno in parte da taluni esperti (Giuseppe Lippi di Urania per esempio) e parzialmente anche da altre opere dello stesso autore, ciò non toglie che Fanteria dello spazio possa definirsi a tutti gli effetti un'apologia della vita militare, pur con tutti i dovuti distinguo rispetto alle visioni oltranziste degne delle più bieche dittature militari. La simpatia dell'autore per la disciplina e la formazione impartita ai giovani dall'esercito è lampante, bisogna però mettere in prospettiva questo elemento con tutti gli altri che contribuiscono a creare la società e il mondo che Heinlein ha pensato di costruire per Fanteria dello spazio, romanzo che in origine avrebbe dovuto rientrare nelle juveniles, le opere per ragazzi scritte dall'autore e che invece decretò la fine del suo lungo sodalizio con la casa editrice Scribner's. Se pare indiscutibile la simpatia dell'autore per la scuola di formazione, anche durissima e umiliante, che può essere la vita militare, Heinlein tratteggia nel romanzo una società futuristica dove la libertà è assoluta pur se condizionata dall'appartenenza all'esercito per quelli che sono alcuni diritti fondamentali della società civile, uno su tutti il diritto di voto. Heinlein ipotizza una società dove solo i cittadini che hanno portato a termine il fermo di leva hanno diritto di partecipare alla vita politica, ricoprendo delle cariche o anche solo esercitando il diritto di voto che è negato a tutti gli altri. Una scelta che può sembrare appunto reazionaria ma che è pur sempre libera: il servizio militare è durissimo ma non obbligatorio, chiunque può lasciare l'esercito in qualunque momento senza nessuna ripercussione se non quella di non aver parte nella vita politica della società, tutti possono avere un ruolo nell'esercito che è aperto da tempo anche alle donne le quali si rivelano spesso tra i migliori piloti di astronavi militari, rispettate quanto e più degli uomini per le proprie capacità, a chi non aderisce alla vita militare non è affatto preclusa un'esistenza di successo e piena di soddisfazioni. L'idea è semplicemente quella che solo chi sa assumersi la responsabilità di affrontare almeno un paio di anni duri al servizio della collettività possa maturare il grado di responsabilità necessario per prendere le giuste decisioni per una politica che guardi al bene comune e non a quello personale. A ogni lettore spetterà giudicare se l'impianto della società imbastita da Heinlein possa piacere o meno, qualunque sia il giudizio questo non inficerà la leggibilità di un'opera che rimane sempre una lettura molto piacevole.

Per chi ha negli occhi l'immaginario veicolato dal film (o dai soli trailer come nel mio caso) ci si aspetterebbe dal libro una sequela di combattimenti tra le truppe spaziali della Terra, appunto la Fanteria spaziale del titolo, e i ragni, razza aliena con la quale gli umani si contendono nuovi territori per una futura espansione interplanetaria. Gli scontri ci sono ma vengono limitati più che altro alla fase pre-finale del libro e a qualche accenno d'azione nel primo capitolo, il grosso del corpo d'opera si concentra proprio sulla vita militare, sul durissimo addestramento del soldato Johnnie Rico e dei suoi compagni, i rapporti con i superiori, le difficoltà, le umiliazioni ma anche i valori e la tempra fornite dall'esercito, lo spirito di corpo, l'amicizia, l'onore e il rispetto. Questo è ciò che si trova nella maggior parte delle pagine di Fanteria dello spazio e fortunatamente questo è anche l'aspetto più interessante e coinvolgente del romanzo, è la vicenda personale di Rico, la sua crescita e il suo processo nel diventare un adulto responsabile ad avvincere, Heinlein è bravo a tratteggiare con poche righe i personaggi così come lo è nelle descrizioni delle rare sequenze action, ma sono indubbiamente i rapporti tra i commilitoni, i pensieri e le sensazioni del protagonista a tenere sempre vivo l'interesse all'interno di un romanzo che si legge in pochi giorni. Non abbondano gli aspetti tecnici, limitati alla presentazione delle tute tecnologiche della Fanteria, alle operazioni di lancio dalle astronavi e all'utilizzo di qualche arma, anche questa caratteristica contribuisce a non appesantire il testo. Lettura quindi molto piacevole e scorrevole, fantascienza molto classica in un libro dove, come spesso accade, la fantascienza è veicolo per raccontare altri aspetti dell'indole e della società umana.

sabato 8 maggio 2021

NOMADLAND

(di Chloé Zhao, 2020)

Ci sono film costruiti su una sceneggiatura molto forte, storie dove azioni, dialoghi, eventi sono calibrati al millimetro e dove la scrittura traina l'intero film offrendo al pubblico una narrazione molto classica, ben strutturata, facile da seguire e con rari momenti di pausa, film pensati con la testa in primis che però non mancano di momenti capaci di colpire altrove (mi viene in mente tra i recenti Il processo ai Chicago 7 ), è un cinema questo di facile fruizione capace di avvincere platee decisamente ampie, almeno sulla carta. Ci sono film invece che passano direttamente dal cuore e dall'anima, dove il contenuto non trova valore nell'azione, in una sequenza di eventi che pure è presente (magari in forma rarefatta) e che richiede allo spettatore più pazienza, più impegno e forse sì, anche una dose di allenamento a un narrare slegato dalla fitta successione di accadimenti. Nomadland appartiene indubbiamente a questa seconda categoria, è un film dal quale bisogna lasciarsi trasportare, entrare in empatia con la condizione tutt'altro che semplice della protagonista e carpirne anche i lati positivi nonostante quella condizione possa sembrare inaccettabile a molti. Rimanendo sui due titoli citati sopra, è un po' come se si presentasse una dicotomia esterno/interno, in entrambi i film i personaggi affrontano un percorso dettato in parte da altri, ne Il processo ai Chicago 7 è il sistema giudiziario americano a mettere in croce i protagonisti allestendo un processo politico e trovando in loro dei perfetti capri espiatori per condannare tutto un movimento. Certo, ci sono anche moti interiori in ballo, ma ciò che è al centro della narrazione sono principalmente i fatti, l'istituzione malata e deviata. Anche in Nomadland la protagonista affronta le conseguenze di un sistema malato, qui è quello del lavoro e del capitale, ma al centro della vicenda c'è l'essere umano non il sistema che l'ha portato a vivere ai margini, tutto diventa quindi più incorporeo, fluido, oscillante, anche spirituale se vogliamo, sono due modi di fare cinema diversi, non uno migliore dell'altro, in un eventuale confronto saranno le singole opere a fare la differenza insieme alle predilezioni di ogni spettatore.

Nomadland è il vincitore dell'Oscar per la categoria miglior film di quest'anno, probabilmente il livello medio rispetto ad altri anni non si è rivelato altissimo, complice anche la pandemia da Covid 19 che ha bloccato diversi progetti, tra i film che è stato possibile per me visionare la mia preferenza andava al Mank di David Fincher ma devo ammettere che dopo aver visto il film della Zhao questa vittoria non mi dispiace affatto. La regista di origine cinese porta un po' della sensibilità del cinema asiatico in questo film, soprattutto nel rapporto tra protagonisti, paesaggi (magnifici) e sguardo della camera, anche la statuetta per la miglior regia sembra meritata, il lavoro fatto dalla Zhao è eccezionale anche se qualche critico la taccia di didascalismo e di scelte di regia scontate, proprio queste scelte portano Nomadland a crescere sequenza dopo sequenza entrando sempre un po' di più in contatto con lo spettatore, in maniera quasi progressiva, questo nonostante il film manchi di una trama forte e non presenti nemmeno una vera denuncia sociale rispetto alle problematiche legate al lavoro che la crisi del 2008 americana, caduta a cascata sui lavoratori a partire dallo sfacelo dei famosi mutui subprime, ha provocato. Nomadland è la storia di un singolo, della sua reazione alle difficoltà della vita, del suo rapportarsi agli altri, spesso anch'essi invischiati nelle stesse difficoltà, non è una denuncia al sistema, non tutto deve esserlo, come si accennava prima... interno e non esterno.

Fran (Frances McDormand), rimasta vedova, è una donna già avanti con l'età che perde casa e lavoro durante la crisi del 2008, adatta così il suo Van in modo da trasformarlo in una casa mobile, questa scelta le consente di potersi spostare di stato in stato, dal Nevada all'Arizona e oltre, in base ai lavori saltuari e precari che il mercato offre, Amazon a dicembre, una catena di ristoranti in un'altra stagione e via di questo passo, per una vita fatta di cose essenziali, povertà, assenza di garanzie ma anche libertà di movimento, nuovi incontri.

Nomadland nasce da un'inchiesta della giornalista Jessica Bruder, il tema è lo stile di vita delle persone che sono state costrette dalla crisi a lasciare le loro abitazioni per intraprendere un'esistenza errante, nomade, con un costo della vita vicino alla zero e in costante inseguimento di un'occasione per lavorare, anche nello stile della Zaho si intravede l'origine documentaria del testo di partenza, soprattutto nelle testimonianze di vita delle persone che Fran incontra nel suo peregrinare, la protagonista si trascina in un'esistenza sottotono dove traspare costantemente il dolore mai sopito del lutto, le difficoltà della vita sono stemperate dalla bellezza di alcuni paesaggi e dalla collettività, anche se composta da emarginati tra i quali ancora vive un'idea di solidarietà che ormai istituzioni e società (in)civile hanno abbandonato. La McDormand, attrice di cui è inutile sottolineare la bravura, qui offre una buona prova anche se questo Oscar in particolare, quello per l'attrice protagonista, l'avrei visto meglio altrove (Vanessa Kirby per dirne una), con poche espressioni racconta un'esistenza fatta in parte di caparbietà nel raccogliere quel che ancora è possibile raccogliere, di accettazione per ciò che la vita ha tolto, di dolore, ma anche di orgoglio e libertà. Lo stile della Zaho coglie bene il punto, il film sedimenta e cresce, un'opera che nonostante le critiche non andrebbe sottovalutata, a breve da parte della regista cinese ormai adottata dagli U.S.A. un completo detour (forse) con la direzione di Eternals, uno dei prossimi film in distribuzione dei Marvel Studios.

giovedì 6 maggio 2021

THE NEW MUTANTS

(di Josh Boone, 2020)

Gestazione non facile per il film The New Mutants di Josh Boone, quello che doveva essere un nuovo principio per il mondo mutante al cinema è presto diventato il canto del cigno del brand X per i 20th Century Studios, non che questo in prospettiva sia necessariamente un male, anzi, il passaggio dei diritti del sottobosco mutante dalla Fox alla Marvel/Disney non potrà che portare un futuro più interessante e luminoso ai personaggi legati al franchise degli X-Men (e sono centinaia), resta solo da organizzare per bene il loro ingresso all'interno del Marvel Cinematic Universe, cosa che in casa Disney saranno senz'altro in grado di pianificare al meglio. Indecisioni, riprese aggiuntive, ripensamenti, slittamenti sulla data di uscita nelle sale, poi l'acquisizione dei diritti dei personaggi da parte della Disney e ancora la pandemia da Covid-19 e ulteriori rimandi; dopo una produzione parecchio travagliata il film riesce finalmente a ritagliarsi una finestra per approdare nelle sale, ma i "problemi" non finiscono qui perché sulla pellicola si abbatte la scure della critica che cala il carico da undici sulle vicende sfortunate di quelli che in Italia sono noti (a pochissimi) come I Nuovi Mutanti demolendo severamente il lavoro fatto da Boone. Con queste premesse un po' di diffidenza nell'approcciare la visione era più che giustificata, complici probabilmente le aspettative decisamente basse alla fine The New Mutants si rivela un prodotto meno terribile di come è stato dipinto, un film a target adolescenziale, pieno di difetti di realizzazione, ma a mio parere più interessante dell'ultimo capitolo dedicato agli X-Men, il trascurabile (a esser buoni) Dark Phoenix di Simon Kinberg.

Non a caso utilizzo la parola "interessante" per definire il film e non "bello", The New Mutants ha indubbiamente molti difetti e questi si vedono tutti, sembrano quasi rimbombare nei vuoti che il film presenta. Iniziamo con il dire che per essere un prodotto che avrebbe dovuto inserirsi in un contesto più grande, e lo dimostrano alcuni riferimenti agli X-Men di Xavier, The New Mutants non potrebbe sembrarlo meno. Il film di Boone dà proprio l'impressione di essere un elemento avulso dal contesto, difetto magari perdonabile per chi non è un amante sfegatato della continuity cinematografica, ciò non toglie che su questo aspetto si sarebbe dovuto lavorare molto meglio. Emerge inoltre una povertà di mezzi probabilmente dovuta al budget investito, non mi vengono in mente altre motivazioni valide, il riferimento non è tanto agli effetti visivi che pure sembrano più adatti a una serie tv che non a un'uscita in sala (se pensiamo al lavoro fatto da Disney con The Falcon and the Winter Soldier il confronto è impietoso) quanto proprio a quella sensazione di "vuoto" che pervade tutto il film. Cinque ragazzi rinchiusi in questa struttura opprimente insieme alla Dottoressa Reyes che deve prendersi cura di loro, i mutanti sono una realtà ormai consolidata ma in questa specie di clinica ci sono solo cinque mutanti e una dottoressa, e basta. Niente personale, nessun altro ragazzo, niente medici, la dottoressa Reyes in turno h24 sette su sette, insomma... anche qui si poteva trovare una soluzione migliore, tutta la costruzione dell'ambiente stride e non poco. Altre scelte invece possono essere più condivisibili, partendo dal casting che, eccezion fatta per il personaggio di Dani Moonstar la cui interprete Blu Hunt non mi è sembrata troppo adatta, mette in scena due o tre soluzioni molto indovinate, una su tutte la scelta di Anya Taylor-Joy nel ruolo di Illyana ma anche quella di Maisie Williams per Rahne Sinclair, non male nemmeno Charlie Heaton (da Stranger Things) nei panni di Sam, più anonimo Henry Zaga nel ruolo di Roberto ma anche lui non stona. Come accennavamo poc'anzi il target è adolescenziale, gli adulti possono tranquillamente tenersi alla larga, discreto quindi lo sviluppo che opera in questo senso ponendo l'accento sulle difficoltà di un'età di passaggio, ben esplorate attraverso la metafora del cambiamento, fisico ma non solo, dovuta all'esplosione dei poteri mutanti, evoluzione traumatica non sempre facile da controllare e con cui imparare a convivere per entrare in un'età nuova, molto naturale anche la gestione dello sbocciare di un'attrazione tra la ferina Rahne e la nuova arrivata Dani, un rapporto costruito da Boone con la giusta attenzione ai due personaggi, buona anche l'idea, sempre in ottica del target di riferimento, di dare a tutta la vicenda una connotazione horror, senza mai eccedere, un genere che di solito solletica la curiosità dei ragazzi, e proprio in questa direzione va la costruzione di tutta la vicenda. Sprecata e caratterizzata in maniera erronea la figura della Reyes, personaggio snaturato per come qui si è scelto di utilizzarlo.

The New Mutants non è un buon film, soprattutto ora che il livello medio in casa Marvel si è alzato non poco, ma ha un paio di idee da salvare che la Disney potrebbe riproporre meglio e con più convinzione, immagino tra un paio d'anni una Anya Taylor-Joy più matura che potrebbe essere una Illyana Rasputin fantastica, stessa cosa per Maisie Williams, attrice che solitamente non apprezzo particolarmente ma che qui trova una giusta collocazione, anche l'idea di pensare dei personaggi per un pubblico prettamente adolescente all'interno del MCU non è malvagia, che poi siano i New Mutants o qualcun'altro poco importa, il materiale non manca (qualcuno ha detto Young Avengers?), come già fatto in parte qui da Boone sarà possibile così navigare tra i generi come qui con l'horror strizzando l'occhio anche al film teen per eccellenza, quelli di Hughes per esempio tra l'altro coetanei della serie a fumetti New Mutants nata proprio nei primi anni Ottanta. Film sfortunato che lascia l'amaro in bocca per l'occasione sprecata, speriamo di rivedere il Demone Orso in futuro in un film che sia almeno degno del materiale di partenza.

martedì 4 maggio 2021

L'ALLIEVO

(Apt pupil di Bryan Singer, 1998)

L'allievo si inserisce nella filmografia di Bryan Singer tra due film decisamente più importanti di questo, sia per la carriera del regista ma anche per tutto il cinema di quegli anni, uno dei due con ripercussioni che caratterizzano in maniera forte ancora oggi l'industria della Settima Arte. Stiamo parlando de I soliti sospetti e del primo film dedicato agli X-Men. Il primo con il tempo si è guadagnato un'alone di culto che ha accompagnato I soliti sospetti per molti anni, oggi forse meno citato che nei Novanta o nei primi anni del nuovo millennio, contribuì ad accrescere la statura artistica di Kevin Spacey (ormai eclissatosi dopo le accuse di molestie) che per il ruolo mitico di Verbal Kint vinse anche un'Oscar, il film venne premiato dall'Academy, ai BAFTA, ai César e il nome di Bryan Singer si gonfia forse ben oltre i meriti effettivi del regista che comunque si farà apprezzare in seguito anche per altro. Il secondo titolo in esame è X-Men, il film che a conti fatti con la sua buona resa, nonostante i difetti che pure sono presenti, lancia in maniera degnissima a tutti gli effetti quella che ancora oggi è l'era moderna dei cinecomics, in seguito ancora perfezionata con l'avvento dei Marvel Studios e oggi nuovamente in ridefinizione grazie all'acquisto della Marvel da parte di Disney. Due film per motivi molto diversi egualmente importanti, soprattutto per Singer, non era quindi difficile per un film come L'allievo perdersi tra un predecessore e un successore decisamente più illustri, nonostante il soggetto guardi all'incontrastato re del brivido, Stephen King, dal quale il film è tratto. È noto come  l'attingere a King non sempre garantisca la riuscita col buco della ciambella, anzi, moltissimi sono i prodotti scadenti tratti dalle sue opere, per L'allievo si adatta il racconto Un ragazzo sveglio, storia che non presenta risvolti horror e che è stata pubblicata all'interno della raccolta Stagioni diverse dalla quale sono stati tratti altri due film, questi sì realmente riusciti: l'indimenticabile Stand by me - Ricordo di un'estate di Rob Reiner e Le ali della libertà di Frank Darabont, entrambi superiori all'adattamento di Singer.

Con L'allievo Singer, come faceva anche King, indaga la fascinazione del male, quell'attrazione inspiegabile per il lato oscuro dell'animo umano. Todd Bowden (Brad Renfro, scomparso nel 2008 a soli 25 anni) è un liceale che durante i suoi studi di storia rimane affascinato dal tema dell'Olocausto tanto da iniziare ad approfondirlo con meticolose ricerche per conto suo, Todd è uno dei migliori studenti della sua classe, un tipo sveglio e attento, un po' timido con il gentil sesso. Un giorno, tornando a casa, è convinto di riconoscere nel signor Denker (Ian McKellen), un anziano che abita nel quartiere, un ex gerarca nazista di nome Kurt Dussander. Dopo varie ricerche la sua tesi viene confermata, Todd si presenta così a Denker/Dussander intimandogli sotto ricatto di raccontargli le più atroci delle azioni compiute in guerra con la minaccia di denunciare la vera identità dell'anziano alle autorità. Con il passare del tempo Todd sottoporrà Denker a pressioni psicologiche sempre più dure finché nel vecchio non si risveglierà l'indole da nazista forse mai sopita del tutto. Nello stesso tempo la resa scolastica di Todd peggiorerà sempre più, l'ingarbugliarsi degli eventi porterà i due protagonisti a essere sempre più legati uno all'altro in maniera poco sana per entrambi.

Formalmente L'allievo è un film non troppo interessante, inoltre lo scavo sul fascino esercitato dal male non riesce ad arrivare mai in profondità e viene presentato come un'attrazione morbosa che però, aspetto questo più affascinante, porterà dei cambiamenti duraturi nel giovane Todd che non riuscirà più a tornare il ragazzo pulito e ingenuo che era prima del suo incontro con Denker (se lo era poi veramente). Singer alterna momenti più tesi (quello crudele della marcia di Denker) ad altri in cui affiora un po' di noia, sul finale emerge un lato prettamente thriller, le ultime azioni dei protagonisti vengono parzialmente edulcorate rispetto alla versione pensata da King. Non mancano gli aspetti positivi, uno su tutti la prestazione di Ian McKellen, vero maestro al quale Singer affiderà anche il ruolo di Magneto, la figura più drammatica dell'intera saga degli X-Men, convincente anche il giovane Renfro. La regia di Singer non lascia purtroppo momenti memorabili, al film manca ancora quel pizzico di profondità in più che avrebbe reso una materia molto interessante degna di essere ricordata. Forse si poteva tirar fuori di meglio da questo racconto ma sono tanti i registi che hanno fallito al cospetto del Re, tutto sommato Singer sigla un lavoro più che dignitoso.

lunedì 3 maggio 2021

LOVE AND MONSTERS

(di Michael Matthews, 2020)

Quello che di certo si può dire è che l'originalità non stia dalle parti di Love and monsters, eppure. Abbiamo sentito tutti le storie sull'algoritmo che costruisce a tavolino prodotti da propinare agli abbonati Netflix mettendo insieme una mole spropositata di dati per tirare fuori tutte le caratteristiche che sembrino piacere ai clienti della piattaforma al fine di creare nuovi film e nuove serie tv da proporre agli spettatori; ecco, Love and monsters ha proprio l'aria di un prodotto che potrebbe essere stato costruito in questa maniera. Il target di riferimento è quello degli adolescenti, a dimostrarlo anche la scelta del protagonista, quel Dylan O'Brien formatosi su Teen wolf e New girl, ma l'impianto della vicenda che guarda al cinema apocalittico potrebbe facilmente catturare pubblico più adulto sia tra gli amanti della fantascienza che tra quelli dell'horror leggero e ovviamente anche tra gli appassionati di cinema da fine del mondo. Bel lavoro sugli effetti speciali tanto da far guadagnare al film anche una nomination agli Oscar, dentro ci si trova la storia d'amore ingenua e sognante, tanta ironia, il cane compagno di viaggio e un sacco di mostri, il tutto agitato (e non mescolato) per dare vita a un risultato che ha il sapore di derivativo e potenzialmente inclusivo per ogni tipo di spettatore, detta così sembra una soluzione facilona per un prodotto di consumo usa e getta, eppure.

Eppure Love and monsters lo si guarda molto volentieri nonostante non presenti elementi innovativi e quindi, in maniera quasi naturale, ci si interroga: "siamo noi a esserci troppo in fretta abituati alla medietà che caratterizza gran parte della produzione Netflix (ma non tutta) o davvero si è trovata la formula matematica capace di portare un'ampia fetta di pubblico a considerare prodotti come questo sufficientemente piacevoli e appaganti da volerne ancora e ancora, con buona pace di chi si butta cuore, talento e anima nella realizzazione di film d'autore dove dentro si trovano contenuti di un altro livello (che in Love and monsters latitano)? Chi ha un minimo di passione per il cinema e un po' di conoscenza storica sull'argomento non avrà difficoltà a darsi una risposta e a mettere in prospettiva il reale valore di ogni proposta che si troverà davanti, ciò non toglie che alla fine questo Love and monsters si riceva come un ottimo film per passare una serata piacevole in puro relax, magari accompagnati anche dai più giovani nelle visioni familiari.

Un'asteroide minaccia di impattare sulla Terra con devastanti conseguenze, la razza umana studia una soluzione e bombarda con ogni tipo di arma disponibile il corpo celeste. Missione compiuta, minaccia scongiurata; peccato che la ricaduta di sostanze nocive provenienti dalle armi utilizzate e quelle che arrivano direttamente dai residui dell'asteroide inneschino sul nostro pianeta mostruose mutazioni sugli insetti e su altri piccoli animali che, divenuti giganteschi, balzano all'improvviso in cima alla catena alimentare. Tutto ciò è riassunto in tono scanzonato dal protagonista sui titoli di testa, e tutto questo accadeva qualche anno fa. Ora l'umanità, la parte superstite almeno, è costretta a vivere in piccole comunità nascoste in bunker sotterranei, legata a rapide sortite in superficie per procurarsi cibo e altri beni di prima necessità. In una di queste comunità vive Joel Dawson (Dylan O'Brien), ragazzo non proprio coraggioso, unico della sua comunità a non avere una compagna, una sorta di mascotte che fa un buon minestrone, se la cava con la manutenzione della radio e che i compagni cercano di tenere al sicuro. Joel inizia a patire questa situazione, si sente inadatto, messo da parte, questo finché un giorno riesce a contattare un altro bunker distante circa 130 miglia dal suo e nel quale vive attualmente Aimee (Jessica Henwick), la sua ragazza pre-apocalisse che lui continua ad amare con tutto il cuore. Forte di questa novità Joel, contro il parere di tutti i suoi compagni, prende il coraggio a due mani e si avventura tra i pericoli del mondo di superficie per affrontare quello che diverrà come da programma un viaggio di crescita personale all'inseguimento del suo sogno d'amore. Dopo poco tempo Joel troverà un fedele compagno di viaggio nell'intelligentissimo cane Boy.

Love and monsters è un film per ragazzi con tanto di morale che sul finale viene palesemente esplicitata e che acquista un'ulteriore chiave di lettura in ottica pandemica. Il messaggio è quello di non accontentarsi, di non stare rintanati nel proprio bunker (leggi comfort zone) e rischiarsela per ottenere qualcosa di meglio dalla vita, anche a costo di essere divorati da qualche mostro gigante, i quali però non necessariamente si riveleranno tutti cattivi come ci si potrebbe aspettare. Il percorso di crescita di Joel è in parte dovuto alla semplice esperienza del viaggio, del muoversi, del fare qualcosa di nuovo e inaspettato, in parte è agevolato da incontri esterni che in una sorta di scambio aumentano il valore dell'esperienza, il cane Boy ma anche la strana coppia formata dal non più giovanissimo Clyde (Michael Rooker) e dalla piccola Minnow (Ariana Greenblatt), una ragazzina che sarà motivo di imbarazzo per l'imbranato Joel, decisamente meno adatto alla sopravvivenza di questa sveglia bimba di otto anni la quale però non potrà fare a meno di affezionarsi profondamente al ragazzo. Il grosso del lavoro è stato fatto sulle creature, insettoni giganti che richiamano molto la tradizione dell'effetto speciale artigianale pur essendo create in digitale, la resa è ottima, si riesce anche a evitare l'effetto fastidio/schifo che molto pubblico potrebbe provare di fronte ad insetti giganti e con furbizia si evitano i ragni che piacciono ad ancor meno gente, il tutto porta il viaggio di Joel più vicino all'avventura pura che non all'horror, non dimenticando mai quel filone sentimentale che riserverà qualche sorpresa sul finale. Chissà cosa potrà accadere quando l'algoritmo riuscirà a inserire tra i suoi parametri anche una maggior profondità di contenuti e uno sguardo più autoriale, sempre che queste siano caratteristiche ancora richieste in futuro da un pubblico che si sta tentando in ogni modo di addomesticare. Non ci resta che attendere per vedere gli sviluppi di questo sistema, ricordandoci sempre che anche all'interno delle piattaforme rimane sempre possibile scegliere.

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