mercoledì 30 ottobre 2019

LE TENTAZIONI DEL SIGNOR SMITH

(This happy feeling di Blake Edwards, 1958)

Anche all'interno delle filmografie più interessanti e luminose è quasi scontato che prima o poi appaia l'esito meno riuscito, l'inesperienza di gioventù, il momento di fatica, il calo d'ispirazione. A questa regola non scritta non fa eccezione nemmeno il re della commedia Blake Edwards, un autore che ha marchiato a fuoco diverse pagine della storia del Cinema. Questo Le tentazioni del signor Smith (si trova anche come La tentazione del Signor Smith) è una delle prime commedie dirette da Edwards, la sua vena comica esploderà veramente solo l'anno successivo con Operazione sottoveste, film emblema di un certo tipo di umorismo garbato che grazie anche all'accoppiata formata da Cary Grant e Tony Curtis porta Edwards su un altro livello di notorietà. Il regista non ha bisogno di presentazioni, lascerà il segno anche nel ramo più malinconico della commedia con il capolavoro Colazione da Tiffany, nel demenziale con la saga della Pantera Rosa che vede come mattatore l'Ispettore Clouseau dal volto di Peter Sellers, ancor meglio riuscito Hollywood party con lo stesso attore, si distingue nel dramma con I giorni del vino e delle rose e firma un altro capolavoro nell'ultima parte di carriera con quel Victor Victoria interpretato dalla moglie Julie Andrews.

A confronto di cotanto curriculum la commedia Le tentazioni del Signor Smith scompare, rivelandosi acerba, immatura e priva di quegli spunti interessanti e quella visione d'insieme alla quale Edwards ci abituerà qualche anno più avanti. Le battute argute e divertenti (contestualizzate ai tempi) non mancano, più d'una volta i personaggi ci strappano un sorriso, quello che però proprio non funziona è la scrittura che qui si rivela piatta nell'intreccio e nelle dinamiche tra i personaggi, dinamiche che concedono più sbadigli che picchi d'interesse. Anche la sceneggiatura è siglata dallo stesso Edwards che probabilmente era ancora in fase di messa a punto, un calibrarsi continuo che porterà più avanti a quei film indimenticabili ancora oggi considerati "da manuale" della commedia.


Preston Mitchell (Curd Jurgens) è un attore teatrale di grande fama ormai ritiratosi dalle scene per cercare una vita più tranquilla e forse anche perché vede intorno a lui nascere una nuova generazione d'attori, meno attempati, bellocci e che impersonano l'indole ribelle amata dal pubblico più giovane. L'attrice sbarazzina Nita Hollaway (Alexis Smith), infatuata di lui, tenta di convincerlo a tornare sulle scene, ma l'attore ormai è interessato solo alla sua tenuta in campagna e ai suoi cavalli. Qui Preston ha instaurato un buon rapporto con il figlio della vicina di casa, Bill Tremaine (un giovanissimo John Saxon) che in comune con l'uomo ha la passione per i cavalli. Per una serie di eventi fortuiti Bill conosce a una festa la bella Janet Blake (Debbie Reynolds) e a causa di alcuni equivoci, tutti si ritrovano in casa di Preston dove avrà luogo il più classico dei triangoli sentimentali con Bill interessato a Janet, Janet al maturo Preston (scatenando un po' di gelosia in Nita) e Preston combattuto tra l'avvenenza innocente di Janet e la sua età ormai avanzata.

La commedia è sempre garbata, fin troppo, manca un poco di brio e di sano contrasto tra i personaggi, la Reynolds è molto caruccia ma si dimentica facilmente, la parte più divertente è riservata alla domestica di Preston, gran bevitrice, e a un gabbiano ospite indesiderato, ma anche qui siamo lontani dalla verve di Susanna e del giaguaro, tanto per dirne una. Si sente l'assenza dell'attore di carisma, quello capace di riempire le scene, uno di quelli col senso dei tempi e della battuta, un Cary Grant, uno Spencer Tracy, una Hepburn (Katharine) o qualcuno di quel calibro lì. Poi qualche buon passaggio indubbiamente c'è, i semi sono stati piantati, è solo che ancora non hanno germinato.

martedì 29 ottobre 2019

LA NOTTE DEL GIUDIZIO

(The purge di James DeMonaco, 2013)

Bastano poco più di un'ora e venti minuti a James DeMonaco per mettere in scena gli istinti più bassi e primordiali del popolo americano, una stirpe bastarda (nel senso di melting pot) che ha costruito una nazione e un impero economico/politico soverchiante sulla violenza e sul sopruso (inutile nascondersi dietro un dito) e che ancor oggi su quegli assunti scatena miserie sia all'interno che all'esterno del proprio territorio. DeMonaco, anche sceneggiatore, offre agli spettatori la soluzione a tanta barbarie sul classico piatto d'argento.

Futuro prossimo. La società americana, governata da dei fantomatici "Nuovi Padri Fondatori", ha trovato la soluzione per arginare povertà, violenza e crisi economica. Una volta l'anno si celebra la notte dello sfogo, un periodo in cui dalla tarda serata fino all'alba successiva tutto è concesso: omicidi, torture, pestaggi con solo un paio di limitazioni; ovviamente rimangono intoccabili gli alti funzionari del Governo (quei fottuti bastardi la fanno sempre franca) e sono vietate le armi non convenzionali, insomma una regola tipo niente bazooka, carri armati, e cose che potrebbero fare danni troppo esagerati. Uccidere sì, ma con moderazione, siamo pur sempre un popolo nobile! Tutto ciò allo scopo di far sfogare gli istinti violenti dei cittadini in un sol giorno così da avere davanti un anno intero idilliaco e produttivo, scevro da violenza e brutture. In realtà la nottata in questione ha più lo scopo di eliminare i poveri, i rami secchi della società che non hanno i soldi per armarsi o procurarsi adeguati sistemi di difesa e quindi condannati in maniera quasi certa a perire. In questo scenario seguiamo la notte dello sfogo della famiglia Sandin, un nucleo alto borghese che vive in un quartiere di lusso e il cui capofamiglia James (Ethan Hawke) è il maggior piazzista di impianti domestici di sicurezza che rendono le case inespugnabili proprio in vista dell'annuale ricorrenza. La famiglia è di indole mite, crede nell'utilità dello sfogo ma non vi partecipa, considerando l'omicidio (almeno per ora) lontano dal loro modo di essere. Il più turbato dagli eventi in procinto di ripetersi ancora una volta è il giovane Charlie (Max Burkholder), mentre la madre Mary (Lena Headey) accetta con riserva la barbarie e l'adolescente Zoey (Adelaide Kane) è più interessata al suo ragazzo Henry (Tony Holler) che agli avvenimenti in arrivo. Quando arriva il momento dello sfogo i Sandlin si barricano in casa, accendo i televisori e si preparano a una nottata tranquilla in attesa di riprendere la loro vita normale il giorno successivo Ma le cose non andranno esattamente come previsto.


L'introduzione a questo "nuovo ordine" DeMonaco ce lo mostra in poche sequenze iniziali con una rapida carrellata di video che arrivano dalla televisione, dalle videocamere di sorveglianza e da device vari che ci fanno vedere le passate edizioni dello sfogo e le sue più brutali manifestazioni (riprese da una certa distanza, nulla di realmente disturbante se non nei concetti). Viene alla mente in maniera naturale il parallelo sociologico se non proprio antropologico con l'odierna società americana (e non solo) ancora ingabbiata da fenomeni di razzismo, disparità di classe sociale, sacche di povertà e violenza incontrollata. Come purtroppo sempre e da sempre accade, il povero paga a discapito dei ricchi, vero strato negativo, piaga inestirpabile che appesta e ammorba la società basata sul capitale. La riflessione sulla lotta di classe si accompagna a quella sulla brutalità insita nell'animo umano non mancando di sottolineare come, ancora una volta tra la borghesia convinta anche di ben pensare, sia un'ipocrisia inarginata a farla da padrone (ah, quanto ho parteggiato per quel povero nero...).


Film politico quindi? In realtà no, o almeno non proprio. Quelli sopra elencati sono tutti validissimi spunti inseriti in un film che è fatto al 90% di tensione, un thriller claustrofobico ambientato nella casa dei Sandin, massacro in interno che impedisce la visione ampia del racconto in quanto non ci è dato sapere cosa accade realmente nel mondo durante la notte dello sfogo, e i Sandlin non necessariamente sono la parte per il tutto. La notte del giudizio è sostanzialmente un thriller che gioca con l'azione e con la suspense, così come DeMonaco gioca con le inquadrature, a partire da quelle del piccolo robottino con visore notturno costruito dal piccolo Charlie. Il succo è poi questo: chi rimarrà in piedi a fine nottata? La tensione è dosata ottimamente anche in virtù di una durata veramente esigua del film, nel cast spicca quella che era uno dei volti migliori de Il trono di spade, la bastardissima Cercei Lannister interpretata da Lena Headey, qui personaggio decisamente più positivo.

La notte del giudizio è un film divertente che sottolinea l'ipocrisia di una società che non ha nessuna intenzione di rinunciare a nulla per risolvere i propri problemi, in un ripetersi ciclico di abusi e soprusi.

domenica 27 ottobre 2019

NINA: IO NON SONO TE - INTERVISTA A ROBIN KARTWRITE

(di Robin Kartwrite, 2019)

Intervista realizzata per Loudd.

Robin Kartwrite è una giovane scrittrice ligure che ha recentemente pubblicato il suo primo romanzo scegliendo la via dell'autoproduzione. Abbiamo avuto la possibilità di scambiare due chiacchiere con Robin riguardo il suo esordio, ed ecco l'esito della nostra chiacchierata a disposizione dei lettori di Loudd

L: Ciao Robin, potremmo iniziare questa intervista raccontando in poche parole ai nostri lettori di cosa parla il tuo libro, senza svelarne punti salienti, giusto per farci un'idea su cosa ci si può aspettare leggendo Nina - Io non sono te.
RK: Ciao Dario, innanzitutto vi ringrazio per questa opportunità e per avermi regalato questo spazio. Mai me lo sarei immaginato, essere tra queste pagine mi lusinga e inorgoglisce. Volendo risponderti, questa è la storia di due giovanissime donne che si ritroveranno, chi per volontà, chi per obbligo, in un luogo cupo e pericoloso: un campo di addestramento per giovani reclute. La prima per mettersi alla prova, per crescere e migliorarsi, la seconda per un sincero moto di solidarietà verso i più deboli. Nel frattempo, impareranno a valutarsi l'un l'altra, ma anche a difendersi da quegli individui che per i più disparati motivi vorranno far loro del male. Mi piacerebbe definire Nina - Io non sono te un piccolo puzzle, un'opera il cui contenuto viene condiviso tramite brevi episodi narrati non sempre in modo cronologicamente lineare: uno stratagemma per dare informazioni utili senza mai divenire pesanti. È di fatto un dark action con sfumature storico-drammatiche. Mi preme però che il lettore sappia che non sta per approcciarsi a un fantasy, nonostante l'uso di alcune nomenclature scelte ad hoc possa far supporre qualcosa di simile. In parole spicciole? Se si vuol leggere di disciplina, amicizia, rabbia, sadismo e anche un po' di sana empatia, questo libro ne è buono spunto.

L: A naso direi che sei parecchio giovane, puoi raccontarci se hai avuto altre esperienze legate alla scrittura (libri, racconti, blog, scarabocchi sul banco di scuola, liste della spesa e cose simili...)?
RK: Ma grazie! Non sono poi così giovane, suvvia! Vero è che Google dice che rientro tra i Millennials, anche se tra i primissimi, quelli nati negli anni '80... e comunque se lo dice Google, io prendo e porto a casa! La scrittura fa parte di me, semplicemente, perché è la più sincera colonna sonora dell'intera mia esistenza: uno strumento per esprimere me stessa, prima di tutto, ma anche il modo più funzionale di comunicare al mondo tutto quanto a voce non sono forse mai stata in grado di esprimere. Sono partita dagli scarabocchi a scuola, è vero, ma poi mi sono resa conto che non potevo continuare a portarmi dietro pezzi di banco, e così ho deciso di prendere un quadernetto e continuare lì. Mai scelta fu più azzeccata, direi! Ho avuto (e ho) diversi blog, oltre a un sito che porta il mio nome (http://www.robinkartwrite.it), ho scritto storie a puntate, favole per i nipoti e racconti one shot per intrattenere un pubblico di animalisti coccolosi, ma anche articoli più o meno scientifici e più o meno Search Engine Optimized. Di liste ne faccio fin troppe, e guai a chi s'avvicina anche solo da lontano al mio "Favoloso libro di ricette appuntate negli anni che viene rimpinguato ogni volta che ne invento una nuova". Ecco, forse dovrei rivedere il titolo di quest'ultimo, che credo potrebbe darmi problemi in futuro, volessi mai pubblicarlo! Storielle e favolette a parte, Nina - Io non sono te è il primissimo lavoro importante che porto a termine. Una cosa seria, tanto che dentro ci sono personaggi, ambientazioni, colori e perfino cose-che-accadono-ai-personaggi, cioè, insomma, 'na roba di quelle che fanno tremare le gambe, che se sei abbastanza fortunato riesce a farti chiamare (lo dico a bassa voce, perché fa strano pure a me) scrittore!

L: Ogni libro vive all'interno di un suo contesto, quello presente in Nina - Io non sono te è molto particolare, puoi spiegarci come sei arrivata a scegliere proprio questo tipo di ambientazione?
RK: Beh, questa è una curiosità... e oltretutto nasce per serendipity, nel senso che cercavo qualcosa e ho trovato tutt'altro. L'ambientazione, la fredda Russia, è stata scelta perché alla mia protagonista è stato dato un nome russo. Beh, tu mi dirai, allora già sapevi di volere ambientare la storia in Russia, dato che hai chiamato il tuo personaggio Sveta! No, non lo sapevo. Sapevo solo che volevo "legare indissolubilmente il testo a me" cercando un significato nel nome del personaggio che richiamava l'origine del mio nome di nascita. Sembrerà stupido, ma Sveta ha radici simili a quelle del mio nome, il fatto che fosse di origine slava non aveva avuto rilevanza fino a quando poi non ho dovuto costruirci una storia attorno. E così è stato. Ho studiato, ho fatto ricerche e mi sono appassionata a una cultura così tanto lontana dalla nostra, ma con la quale ha anche tanti punti in comune. Ho avuto perfino la fortuna di conoscere una giovane madrelingua che un po' sapesse di italiano e mi raccontasse segreti succulenti di prima mano. Tipo quali sono i dolci che vanno per la maggiore durante la colazione, se fa davvero così freddo (risposta che non è giunta con soddisfacente entusiasmo, direi) e se le notti durano un'eternità proprio come raccontano le leggende da queste parti. Beh, lei è una russa che praticamente vive sullo stesso parallelo di Milano, e 'sta roba delle notti lunghissime non l'ha vista mai nemmeno lei. Ecco, diciamo che ho scoperto che la Russia è assai vasta... di una vastità che difficilmente si riesce a immaginare tutta in una sola nuvoletta di pensiero.

L: Domanda secca a tradimento. Tre autori che ti piacciono e che ci consiglieresti di leggere (se vuoi puoi citare qualche titolo e motivare la scelta).
RK: Alessando Baricco. Mi strugge l'anima ogni volta che leggo le sue storie psichedeliche. Credo che questo autore abbia in tasca qualcosa di stupefacente, così come credo mantenga costantemente un conto in sospeso con la realtà, visto che da quest'ultima rifugge, ma alla quale torna sempre con pungente rammarico. La verità è che i suoi testi stimolano in modo spontaneo e prepotente il mio inconscio, che quatto quatto spinge per venir fuori e dire la sua, e questa sensazione è talmente vivida e autentica che non posso non dargliene merito e farne menzione. Qualcuno dei suoi che consiglio? Castelli di rabbia e Tre volte all'alba su tutti. Il primo per la capacità che l'autore ha avuto di mettere in parole suoni, colori, gusti, odori e sensazioni, oltre a mostrare il potere invitto della mente umana. Il secondo perché è un paradosso dolceamaro.
Daniel Pennac. Colui che sa scrivere di purezza e crudeltà insieme senza strafare e cadere nel grottesco. Mai. Un autore coerente e perspicace, che dalla sua ha una sottile ironia che riesco a gustare ogni volta con gran soddisfazione. Da grande mi piacerebbe imparare a scrivere altrettanto bene. Banalmente consiglio la di lui Saga Malaussène, alla quale va data una possibilità solo per l'arguta sagacia con cui viene portata a compimento.
J. K. Rowling. Sì, lei. Una tra le pochissime donne che ha saputo magicamente restituirmi il sapore dell'infanzia, in un momento in cui ne avevo perso completamente il ricordo. E che riesce a farlo ancora adesso, ogni volta che apro uno dei suoi libri. Non ho molto da aggiungere, accenno a questa autrice solo per l'ascendente che ha avuto su di me, quando ancora mi sentivo una piccola e cinica giovinetta senza speranze. La dote più grande della saga di Harry Potter si intreccia indissolubilmente ai buoni sentimenti che troppo spesso dimentichiamo di possedere in origine: da bambini siamo perfetti nell'animo, nella mente e nel cuore. Poi qualcosa ci impensierisce, stendendo un velo di realtà troppo pesante e fitto perché si riesca ancora a respirare con leggerezza. Ecco, per qualche ora mi prendo una pausa dalla realtà e torno bambina. Può esistere regalo più grande che un autore possa farci?

L: Leggendo il libro è chiaro come nella tua testa ci siano già uno o più possibili sequel, puoi svelarci quali programmi hai per il futuro dei tuoi personaggi (a livello editoriale) e se hai idea dei tempi di realizzazione dei tuoi progetti?
RK: Eccoti un'altra curiosità: quest'opera è stata ideata come unica. La suddivisione in tre tomi (ho già accennato al fatto che la saga è composta da tre volumi?) è arrivata successivamente, quando ho potuto appurare che la mole dell'intera trama era troppo corposa perché il lettore potesse accettare un libro d'esordio di mille e più pagine. Così mi sono detta che suddividerla sarebbe stata la migliore strategia, sperando così di conquistare il lettore prima e proporgli a mano a mano il resto dopo. Sono attualmente in piena stesura, e mentirei se dicessi che mi sento sicura di poter proporre già il seguito (data la mia più che conclamata vena ossessiva di voler revisionare il resto più volte per evitare refusi), ma certamente per il nuovo anno andrà in pubblicazione, augurandomi che il terzo possa trovare completamento entro il 2020 e venire alla luce l'anno successivo. Romanticamente mi piacerebbe pubblicarne uno all'anno, sempre nella medesima data e farmi tre bei regali di compleanno di fila, ma vedremo poi in realtà come andranno le cose.

L: Sappiamo tutti che esordire nel mondo dell'editoria non è cosa facile, come mai hai optato per l'autoproduzione e quali sono secondo te le difficoltà maggiori che oggi si incontrano per chi vuole trovare una casa editrice seria disposta a credere davvero in un progetto?
RK: Mai come oggi posso dirti che è effettivamente dura. È dura anche quando si studia in modo approfondito, si opera d'impegno e perseveranza, e si sceglie umilmente di fare gavetta e prendersi critiche non sempre costruttive. È dura perché affinché si possa esser scelti è necessario lasciare che terze persone giudichino il tuo lavoro. E non parlo solo degli agenti letterari o degli individui preposti in vece delle case editrici alle quali con tanta speranza hai inviato il tuo manoscritto, ma anche del primo pubblico cui si concede di misurare la tua anima, il tuo "inside", al quale probabilmente assegneranno un'anonima stellina che lo definirà irrimediabilmente. E a te autore deve andare bene. In ogni caso ho scelto consapevolmente l'autopubblicazione perché le realtà "piccine" di case editrici appena avviate, e indubbiamente oneste, non avrebbero saputo offrirmi qualcosa che da sola non avrei potuto io stessa mettere in atto. E va bene la presentazione a Santa Margherita di Fossa Lupara, ma beh... ci siamo intesi, no? Così, se proprio voglio fare un tuffo nell'ignoto, che sia fatto con le mie forze, le mie energie, le mie "strategie", i miei errori e tante capocciate utili a permettermi una sana crescita. Poi, chissà, io sono ottimista, indiscusso giudice è solo il lettore, e sarà quest'ultimo a lasciare che il mio testo emerga se davvero lo merita. A volte fa più un passaparola che tante costosissime strategie di marketing.

LCome ci siamo già detti chiacchierando, la copertina scelta per il libro mi ricorda in maniera forte il "romanzo rosa", genere che posso affermare si trovi parecchio lontano dai tuoi contenuti, vuoi rassicurare i nostri lettori che penso siano anche loro su un'altra lunghezza d'onda rispetto al classico romanzo d'amore?
RK: Eccomi a rassicurarvi, cari lettori (e-spero-presto-fan-sfegatati-di-Nina)! Non c'è una, dico una, scena di puccettoso rosa in quest'opera... oddio, forse viene giusto accennato un bacetto, ma quello concedetemelo! Nella paura di diventare monotematica, ho tentato di spaziare per quanto possibile attraverso vari canali sensoriali ed emotivi, volendo che i miei personaggi sperimentassero situazioni autentiche. Sì, forse mi sono lasciata un po' andare in quanto a cupezza e termini duri (qualcuno una volta mi ha definito "virile", riferendosi al mio stile di scrittura), ma venendo al fulcro della domanda, la scelta di adoperare una copertina tanto luminosa è più che voluta. Ciò proprio a fronte non solo del nome dato alla protagonista (quello cui prima accennavo), ma anche della non così subliminale dicotomia "luce/buio" che permea l'intero testo. D'altro canto, volessimo badare solo alla quarta di copertina, sapremmo che i giovani impegnati in questo percorso vogliono diventare Ombre Oscure, quindi è sotteso partano da una certa "luminosità" d'animo. Non avrei potuto scegliere immagine migliore... e se è vero che non bisogna giudicare un libro dalla copertina, allora è giusto dare una possibilità anche al mio non convenzionale abbinamento.

LIl libro presenta una narrazione cronologica non lineare. La stesura del testo da parte tua ha seguito l'ordine cronologico degli avvenimenti o la versione finale che è andata in stampa rispecchia l'ordine in cui hai effettivamente scritto i capitoli? Quanto tempo fa è nato questo progetto?
RK: E veniamo al tasto dolente! Ho ricevuto critiche contrastanti a tale proposito. C'è chi ha apprezzato e chi ha detestato la scelta di andare "avanti e indietro" nel tempo senza motivazione apparente. Questi salti sono stati il mio più grande orgoglio e la mia dannazione. Chi non li ha capiti non ha voluto nemmeno fare il tentativo di mettere insieme i pezzi, chi invece ne è rimasto meravigliato in un caso mi ha addirittura dato la soddisfazione di leggere il testo per più di una volta ordinando gli episodi cronologicamente: un modo come un altro per carpire altri indizi. La stesura è tendenzialmente nata nell'ordine attuale, giusto il Prologo è venuto un po' dopo, assieme a un paio di capitoletti intermedi. Di fatto, però, in corso di scrittura mi sono resa conto che erano le idee a spuntare rigogliose e a trovare la corretta collocazione all'interno dell'arco temporale ogni volta che mi lasciavo andare all'ispirazione, tanto che al termine di un capitolo non dovevo fare altro che segnarmi qualche appunto e attendere il momento adatto per svilupparne successivamente il seguito. Nella mia mente però è nato quasi tutto nel modo proposto. Le primissime parole del libro appartengono al capitolo che ora è stato numerato come quarto della prima parte ("Libera la mente") e sono state messe su carta il primo settembre del 2017. Ricorderò per sempre questo giorno, perché è stato quello in cui ho conosciuto Sveta, la mia protagonista.

LMa tu ti senti più Nina o più Sveta? (questa i lettori la capiranno dopo aver letto il libro)
RK: Bella domanda, alla quale dare una risposta è poco meno che andare in crisi profonda. Io sono entrambe e nessuna. Vivo attraverso di loro e loro sanno di me, nel senso che possiedono il sapore della mia rabbia, conoscono il modo in cui mi relaziono con il mondo, hanno ben chiare le reazioni che potrei mettere in atto a fronte di determinati accadimenti. Come ho potuto in più di una circostanza appurare, riferendomi a Sveta, lei è tutto ciò che io sono e tutto quanto io mai sarò, in un senso di profonda soddisfazione e malinconia che mi rende consapevole di quanto io sia fallibile e semplice in quanto a essere umano, ma contemporaneamente di quanto sappia vivere appieno grazie alle parole che la mia protagonista mi ha suggerito. Perché sono loro che raccontano, io non sono che un mezzo. Con Nina sono in pieno conflitto, perché così tanta bontà mi fa spesso imbestialire ed è più lei che prenderei a schiaffi, che chiunque altro nel testo. Perciò se mi chiedi io chi mi senta di più, queste poche righe sono tutto quanto io sia stata in grado di condividere nel tentativo di mettere in piedi una risposta degna della domanda. Me la sono cavata male, vero? Eh, sì, me ne sono accorta!

L: No, tranquilla, non te la sei cavata male. Per chi fosse interessato al tuo lavoro dove può trovare una copia di Nina - Io non sono te?
RK: Beh, prima di tutto sarei onoratissima se qualcuno che ha avuto il fegato di legger fino a qui si sia perfino riscoperto interessato all'opera! Quindi presto, prima che cambi idea! Nina - Io non sono te è disponibile on line su Amazon, sia in versione cartacea che digitale a questo indirizzo https://www.amazon.it/Nina-Io-non-sono-te/dp/1688492984/

L: Loudd è una webzine a impronta prevalentemente musicale, cosa ci suggeriresti come colonna sonora del tuo libro? Invece solitamente io mi occupo di Cinema, se dovessero fare un film dal tuo libro che attrici sceglieresti per i ruoli di Nina e Sveta e da chi faresti dirigere il film?
RK: Una premessa è d'uopo: quando sono in compagnia delle parole, vorrei non ce ne fossero altre a far da distrazione, quindi se di musica si parla sceglierei un assolo di piano, lento, melanconico e dalle tonalità basse che scavano l'anima. Non dico la Sonata al chiar di Luna di Beethoven, ma quasi. In fin dei conti però ognuno ha uno stato d'animo da nutrire, un carattere da delineare e una personalità cui dar conto... e la musica è talmente personale che definire i tratti di un abbinamento farebbe torto a chiunque volesse cercare la propria colonna sonora! In quanto al film... oddio, qui mi hai messo in crisi, perché non ho mai pensato a un'eventualità simile, e mi sono resa conto di non essere nemmeno così preparata sulla questione. Vabbè che parliamo di assurdi, ma dovesse mai accadere che lo spazio tempo di ripieghi su se stesso, o che semplicemente una botta di... fortuna conceda alle mie protagoniste un volto, beh, probabilmente la giovanissima, e dai tratti delicati, Elle Fanning impersonerebbe la mia Nina, Sveta avrebbe il viso furbo, spigoloso e sbarazzino di Saoirse Ronan che credo le darebbe giustizia come nessun'altra. Bah, sognar non costa nulla e se non è Chistopher Nolan, che me lo diriga almeno Bryan Singer! :)

L: Bene, in bocca al lupo per questo e per i prossimi episodi della saga e grazie per aver passato un po' di tempo con noi.

martedì 22 ottobre 2019

IL FILO NASCOSTO

(Phantom thread di Paul Thomas Anderson, 2017)

Per un certo tipo di Cinema, quello realizzato da una serie di autori che ormai sono vere e proprie griffe, sembra ormai che più che della storia narrata in sé, della regia, della messa in scena, si faccia a gara per occuparsi dei "sottotesti", del filo nascosto che può portare il film su un altro piano di lettura, così da vedere dietro una storia d'amore (o dietro a qualsiasi altra cosa) una metafora della vita (e questo spesso può accadere) o sempre più di frequente si va a cercare un parallelo sullo stato del Cinema stesso, come se tutto fosse sempre e sempre debba essere un discorso sull'immagine, sul ruolo della finzione, sul futuro del Cinema, sulla sua morte, neanche questo fosse il rock 'n roll. Ovviamente quest'ultima affermazione vuole essere un po' una provocazione. E così si tracciano percorsi, si cercano significati ovunque. E se l'ultimo film che abbiamo visto fosse solo un film? Il girato di un regista che voleva semplicemente narrare una storia? No, impossibile, mica siamo rimasti all'età della pietra della riflessione sul Cinema (non ho volutamente usato la parola critica perché non nutro tale presunzione). Paul Thomas Anderson rientra tra gli autori sui quali piace tracciare rotte e cercare "sottotesti". E se tirassimo un bel filo nascosto tra la coralità dei suoi primi film e il punto focale sul protagonista (quasi) unico di quest'ultimo? E se mettessimo a paragone il gesto concreto, come può essere quello di cucire e confezionare un abito, con un'improvvisa e scrosciante pioggia di rane? E se il fil rouge fosse posto tra l'istrionismo di un Tom Cruise incontenibile e l'esercizio compito di un Daniel  Day Lewis immenso? E la potenza de Il petroliere come la inseriamo nel contesto? E se questi "sottotesti", così come l'indubbiamente splendida ricerca formale, alla fine facessero un poco male al cuore, alla pancia e magari anche a qualcos'altro? (come a dire che forse, a volte, questi "sottotesti" e chi li cerca ci hanno anche un po' rotto le palle).


Il filo nascosto, uno dei film più apprezzati degli ultimi anni, è un bel film che regala qualche emozione ma che non manca di alzare un velo tra sé stesso e l'animo dello spettatore, chiuso su un'estetica formale di altissimo livello, una regia preziosa, interpretazioni sublimi (Daniel Day Lewis davvero splendido) e sì, magari anche su questi cazzo di "sottotesti", non riesce ad annullare una distanza che impedisce a fine visione di provare un pieno senso di appagamento, rimane una certa freddezza, che forse rispecchia il carattere del protagonista, ma che non si riesce a scrollarsi di dosso. Indubbiamente i meriti ci sono tutti, impeccabile la ricostruzione d'epoca (siamo nei 50 del '900), ovviamente non poteva essere da meno il lavoro fatto sui costumi, ma lo stupore anche caotico di Magnolia, la potenza violenta de Il petroliere dove sono? Non vorrei si fossero perse in qualche "sottotesto".


Londra. Reynolds Woodcock (Daniel Day Lewis) è uno stilista e sarto di grande successo, crea abiti per le famiglie reali d'Europa assistito dal prezioso aiuto della sorella Cyril (Lesley Manville) e da uno stuolo di artigiani. Reynolds è completamente immerso nel suo lavoro e in sé stesso, uomo autoriferito ed egoista poco si cura di sentimenti e bisogni degli altri, sostenuto nel suo comportamento da una sorella ormai divenuta una seconda madre. Durante un periodo di riposo nella casa in campagna, l'uomo incontra la cameriera Alma (Vicky Krieps) e se ne invaghisce, rendendola ben presto la sua modella e fonte d'ispirazione per nuovi lavori. Con il passare del tempo il rapporto tra i due cementifica ma Alma dovrà fare i conti con un uomo incapace di vedere oltre sé stesso, dovendo così trovare un modo per riequilibrare il rapporto e rendersi per Reynolds indispensabile.

Nella prima parte del film, lungo l'incontro tra i due protagonisti, il personaggio di Reynolds si cuce addosso un'aura di fascino raramente vista nel Cinema degli ultimi anni, Anderson asseconda al meglio questa caratteristica con riprese su oggetti, luoghi e persone con un'intensa propensione alla bellezza, quadri sublimi da rimirare, il tutto sostenuto da un décor e da una partitura per piano (Jonny Greenwood dei Radiohead) onnipresente e mai invasiva che donano ancor maggior armonia alle riprese del regista. Le prove di Lewis e della Krieps fanno il resto, in una storia d'amore, di rapporti e d'umanità che solo in pochi momenti riesce a toccare il cuore. Troppa distanza tra autore e spettatore, ottimo saggio per chi vuole imparare come guardare le cose, dove piazzare una camera, come costruire un'ambiente. Il calore, il cuore però stanno da un'altra parte.

mercoledì 16 ottobre 2019

ARRIVAL

(di Denis Villeneuve, 2016)

Se un giorno la nostra razza dovesse avere un contatto con qualcosa di altro, a noi completamente estraneo, alieno, cosa sarebbe più importante per poter interagire con l'altra forma di vita, la tecnologia, la scienza o il linguaggio? La domanda potrebbe sembrare retorica, pur non essendo così scontata se posta nel campo di qualcosa di completamente ignoto, senza dubbio il regista Denis Villeneuve propende per l'ultima ipotesi, centrando sulla (in)capacità di comunicazione l'intero Arrival, un film che ancora una volta dimostra come la fantascienza moderna abbia trovato casa in una traccia più intima e riflessiva, scevra da azioni roboanti e grossi conflitti.

Protagonista una Amy Adams sempre più brava sulla quale il film si apre: scene domestiche, familiari, intime, un dolore, la solitudine. Qualche tempo dopo, comunque in un altro momento, Louise Banks (proprio la Adams) è impegnata nel suo lavoro, insegna lingue all'università, quando giunge la notizia che in diversi paesi del mondo, scelti in maniera apparentemente casuale, sono comparsi dodici enormi oggetti non identificati fluttuanti a pochi metri da terra. Di questi visitatori non si conoscono le intenzioni, la tensione sale, i dubbi aumentano, gli oggetti sono lì, nessun segnale ostile, nessuna minaccia. Poi la possibilità di un contatto, per gli americani ma allo stesso tempo anche per i cinesi, per i russi, i venezuelani, etc... Il Colonnello Weber (Forest Whitaker) prenderà in mano la gestione delle operazioni del sito in Montana per favorire il contatto con gli alieni, per far questo si avvarrà proprio dell'aiuto della Banks, linguista abilitata per lavorare su documenti top secret, e di quello del fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner). Dopo un infruttuoso tentativo di decifrare i versi gutturali emessi dalle creature, una sorta di poliponi eptopodi, si rivela necessario un vero e proprio incontro con gli alieni, evento che diverrà solo il primo dei molti durante i quali Louise e Ian tenteranno di decifrare il linguaggio (la scrittura) dei due interlocutori (?) spaziali. Ma in tutto il mondo altre potenze stanno facendo lo stesso tentativo con metodi e approcci diversi.


Quello che affascina in Arrival è la serie di riflessioni che nascono sul tema della comunicazione. Perché una razza aliena dovrebbe scegliere di manifestarsi in più punti della Terra? Forse proprio per avere più possibilità di farsi capire, non tanto per la varietà di lingue in sé presenti sul nostro pianeta (tutte ovviamente differenti da quella aliena), quanto per le forme mentali presenti dietro a ogni lingua. È un discorso complesso ma molto affascinante. Come ragiona un popolo abituato a comunicare con una lingua basata su ideogrammi, su idee, su associazioni? Come lo fa uno che usa un linguaggio più letterale? Cosa cambia nella testa di un popolo che parla e scrive nella stessa maniera rispetto a uno che non ha una scrittura speculare alla pronuncia? Questo è un tema, insieme a uno ancora più grande, e se esistesse un modo di comunicare più istintuale, completamente incomprensibile per noi, un linguaggio nel quale, ad esempio, non esiste il concetto di domanda? Tutti dubbi, quesiti che nel film vengono sollevati e ne diventano il cuore su cui ragionare e al quale appassionarsi, più che alla trama o alla rivelazione finale. Per ultimo, se il cambio di linguaggio potesse influenzare non solo i nostri schemi mentali ma anche il modo in cui percepiamo la realtà attorno a noi facendocela vedere in maniera più profonda?


Oltre al lato "filosofico" della vicenda, di Arrival si lascia apprezzare anche la regia di un Villeneuve che lavora benissimo sugli spazi, sulla maestosità degli oggetti, sulle luci e sulle prospettive, creando con soluzioni apparentemente semplici un contesto visivo che crea il giusto connubio con i contenuti proposti dalla storia. Si passa dagli spazi aperti del Montana all'inquietante cunicolo d'accesso alla "nave" aliena con perizia visiva e tensione notevoli, nulla è concesso all'eccesso, l'impianto visivo si accorda agli umori della narrazione. Villeneuve ci propone una fantascienza ferma, lontana da guerre stellari e scontri tra galassie, una visione più umana di ciò che va oltre l'uomo, un'alternativa che non fa rimpiangere i rami più dinamici del genere.

lunedì 14 ottobre 2019

SHAZAM!

(di David F. Sandberg, 2019)

Pochi giorni dopo aver visto il Joker di Todd Phillips recupero anche il recente Shazam!, film di tutt'altra pasta e con ambizioni decisamente differenti rispetto alla pellicola interpretata da Joaquin Phoenix, e mi viene in mente che l'idea di abbandonare definitivamente il progetto di un universo condiviso nel quale far agire i propri personaggi non sarebbe poi così malsana per DC Comics e Warner Bros. Shazam! è un prodotto molto slegato dalle vicende di Superman, Batman e compagnia bella, giusto qualche strizzata d'occhio ai più noti compari e poi si va per la propria strada, quel che ne esce è un film sicuramente non eccezionale né memorabile, anche troppo lungo, ma almeno ben confezionato e in diversi passaggi sinceramente divertente, cosa che per un film del DC Extended Universe è già un grandissimo traguardo. Forse lasciare da parte i legami e le zavorre per abbracciare uno sguardo laterale non è proprio una cattiva idea, la strada sembra quella giusta (magari ne avrò conferma non appena riuscirò a recuperare anche Aquaman), speriamo che in casa DC continuino con questo passo.

Un po' di storia: Shazam in origine si chiamava Capitan Marvel. Il personaggio venne ideato lo stesso anno in cui nacque Batman (1939) per la Fawcett Comics, una casa editrice che chiuse i battenti nel 1953. In quegli anni gloriosi Capitan Marvel era un personaggio notissimo, i suoi fumetti vendevano più di Batman e Superman, forse perché per i ragazzini era più facile immedesimarsi nel suo alter ego Billy Batson, un orfano quindicenne. Con la chiusura della casa editrice Capitan Marvel cadde in un limbo editoriale; gli anni successivi videro l'ascesa della Marvel Comics che nel frattempo creò un nuovo supereroe che portava il nome di Capitan Marvel (non la bionda Carol Danvers del film ma l'alieno Mar-Vell dell'impero Kree), un nome allora svincolato da diritti di proprietà. Quando la DC Comics acquistò il catalogo personaggi della Fawcett si vide costretta a cambiare il nome del supereroe onde evitare confusione e beghe legali nei confronti della concorrenza, da qui il nome Shazam che è anche un acronimo molto interessante, infatti quando Billy Batson, pronunciando la parola Shazam si trasforma nell'eroe, acquisisce la saggezza di Salomone, la forza di Hercules, la resistenza di Atlantide, il potere del fulmine da Zeus, il coraggio di Achille e la velocità di Mercurio, mica male. Ok, ora chiudiamo l'angolo del nerd e torniamo al film.


Il punto di forza di Shazam! sta nel suo protagonista e nel fatto che questo sia un ragazzino che, una volta ottenuti i poteri e dopo aver capito come usarli, li adopera proprio come farebbe un ragazzino, facendo quindi idiozie, casini vari, non rispettando le regole e prendendo la rara occasione come una festa goliardica priva di limiti. Ovviamente questa condizione genera una serie di situazioni spassose che rendono il film molto appetibile anche al pubblico adolescente: l'eroe è sboccato, irriverente ma con dei limiti che rendono Shazam! adatto a un pubblico di famiglie (non siamo dalle parti di Deadpool tanto per intenderci) e non mancherà di intrattenere anche noi adulti, riportandoci nella parte iniziale alla nostra giovinezza con palesi riferimenti al Big di Tom Hanks (o di Pozzetto se preferite). Carino anche l'ambiente familiare, Billy Batson (Asher Angel) è un orfano recalcitrante agli affidi che finisce in una strana famiglia con due genitori di larghe vedute e una serie di fratellastri tutti da studiare: la piccola Darla (Faithe Herman) che non sta zitta un attimo, il claudicante Freddy (Jack Dylan Glazer) suo coetaneo che diverrà il compagno di mattane, la sorella più grande Mary (Grace Fulton), l'introverso Pedro (Jovan Armand) e il secchione Eugene (Ian Chen). Ovviamente questa nuova avventura sarà il romanzo di formazione del giovane Billy, una vicenda che andrà nelle situazioni un po' fuori dai classici canoni supereroici (comunque rispettati) garantendo quel pizzico di novità che non guasta. Si potevano sforbiciare una ventina di minuti e il film sarebbe risultato decisamente più gradevole, accontentiamoci di questo film che presenta delle buone dinamiche e che indubbiamente diventa uno dei tasselli più riusciti del DCEU (proprio perché con questo ha veramente poco a che fare).

THE BEATLES: EIGHT DAYS A WEEK - THE TOURING YEARS

(di Ron Howard, 2016)

I Beatles visti come unica entità, un mostro a quattro teste come scherzosamente gli stessi Fab Four si definiscono, in quelli che forse furono gli anni più felici e faticosi della loro carriera, quelli che vanno dagli inizi fino al 1966, anno in cui i quattro di Liverpool misero fine alla loro estenuante vita on tour. In quegli anni il regista Ron Howard era ancora un bambino che avrà vissuto la beatlemania ascoltando i suoi beniamini alla radio o sui vinili, quella passione di bambino si riflette nell'amore che il regista riversa in questo documentario, una bella ricostruzione che può contare su parecchio materiale inedito messo a disposizione da Paul McCartney e Ringo Starr, da Yoko Ono e dalla famiglia Harrison. Il corpo centrale del documentario, preceduto dal racconto dei primi passi mossi dalla band e dell'incontro con il quinto Beatle Brian Epstein, manager del gruppo, e seguito da un breve resoconto degli anni post Revolver, si concentra sui concerti nei piccoli club europei (Amburgo in particolare) per arrivare alla spropositata marea di pubblico gestita negli U.S.A., una folla delirante che porterà i Beatles a esibirsi in grossi stadi prima che le stesse organizzazioni fossero pronte per eventi di portata simile.


Quella che vediamo nel documentario ha l'aria di una famiglia più che quella di una band, non c'è privato per il singolo, Paul, John, George e Ringo dividono tutto, tra loro sembra esserci un'intesa e un'amicizia sincera che li porta a decidere ogni passo all'unisono, consigliati da Epstein e dal produttore George Martin. Via via che la fama del gruppo cresce aumentano gli impegni in giro per l'Europa e poi in America, è incredibile vedere come le composizioni dei Beatles prendessero forma nei ritagli di tempo con uno sforzo minimo, concentrato per risparmiare su energie, tempi di sala e sul tempo vero e proprio che non era mai troppo. Eight days a week è anche testimonianza dello scoppio della beatlesmania, un fenomeno d'isteria di massa che portò il gruppo a dover suonare in maniera sempre più intensa e continuativa, in posti sempre più grandi e in eventi logisticamente quasi impossibili da gestire per poca preparazione e perché fenomeni della portata dei Beatles ancora non se ne erano visti. È molto divertente assistere alle testimonianze di note star che in gioventù furono fan del gruppo o che addirittura ebbero la possibilità di assistere a un loro concerto, tra di essi una giovanissima Sigourney Weaver, Whoopy Goldberg, Elvis Costello e altri ancora.


Con il trascorrere degli anni Howard ci mostra come il gruppo passi da un'atmosfera rilassata, quasi goliardica, genuinamente irriverente nei rapporti con pubblico e stampa, un approccio divertito e complice con chiunque, a una situazione più tesa e logora, cambiamento avvenuto proprio a causa degli infiniti tour, sempre più impegnativi e  stressanti, organizzati in mancanza di sicurezza (vedi l'episodio "I Beatles sono più famosi di Gesù Cristo") e con mezzi inadeguati. Emblematico della situazione il concerto allo Shea Stadium di New York (casa dei Mets) nell'agosto del 1965 con il gruppo scortato in un'auto blindata costretto a suonare con un'impianto indecoroso, musica diffusa tramite gli altoparlanti dello stadio e una folla oceanica che sovrastava il suono degli strumenti. Anno dopo anno, album dopo album, assistiamo allo sviluppo della carriera della band dal punto di vista del rapporto con il pubblico e con gli show, The touring years non è tanto un documentario alla scoperta della musica dei Beatles quanto la cronaca di come questi divennero un fenomeno culturale di massa e di come questa situazione portò al logorio di alcune dinamiche.

Quello che di più bello emerge dal film è il rapporto tra quattro amici che si ritrovano a essere il più grande successo commerciale di sempre, prima ancora che il loro vero e innegabile talento venisse fuori del tutto (le loro cose migliori in fondo da questo documentario rimangono fuori). Ron Howard ha il merito di presentarci qualcosa di un pochino diverso su una band di cui si è già detto tutto e sulla quale sembrava si fosse già visto tutto quello che c'era da vedere, un'oretta e mezza piacevole non solo per i fan.

sabato 12 ottobre 2019

JOKER

(di Todd Phillips, 2019)

È quantomeno singolare il fatto che nei giorni in cui scoppia la (piccola) polemica lanciata da un Martin Scorsese che taccia i cinecomics di essere prodotti di consumo estranei all'arte del Cinema, arrivi nelle sale nostrane un film tratto dai fumetti decisamente scorsesiano e che guarda al lavoro del regista con reverenza e rispetto. Lungi dal voler entrare nel merito della diatriba (per me Scorsese può dire a pieno diritto tutto quello che vuole sul Cinema) diciamo subito che Joker è un film molto distante dal classico film di supereroi, quasi un film d'autore che cerca, anche forzando la mano, di dare un tono più adulto a ciò che di norma viene considerato intrattenimento per ragazzi. L'altra cosa singolare è che questo trattamento del Joker, personaggio che sicuramente si presta a una lettura stratificata, arriva da un regista che finora si è sempre occupato di film cialtroni, a volte anche con ottimi esiti (vedi Una notte da leoni ad esempio), un cambio di rotta estremamente riuscito e che da Todd Phillips non ci aspettavamo, a dimostrazione che non necessariamente serve un "autore" affermato per girare un buon film su un personaggio di fantasia. Anche se, e qui torniamo alla definizione di Cinema scorsesiano, questo personaggio di fantasia, questo Joker, non ha davvero nulla di super, è semplicemente una persona che cede, dentro alla quale qualcosa si incrina, è una vittima, un malato, un uomo che cade pian piano nella follia, un clown triste che volta l'angolo (per dirla con Alan Moore, grande autore di fumetti) e nel farlo sfoga tutta la sua frustrazione e il suo disagio con atti violenti. In questo senso i riferimenti, palesati ormai da chiunque abbia parlato del film, sono più a Taxi driver o a Re per una notte (entrambi diretti da Scorsese) che non alla saga di Batman che nel film è presente solo con qualche breve accenno e nell'ambientazione a Gotham City. Forse non tutti sanno che, ben prima della nascita di Batman (datata 1939), New York City veniva soprannominata proprio Gotham, nella scelta di Todd Phillips di riprendere una New York veritiera, non snaturata per farla somigliare alla Gotham dei fumetti, c'è uno dei motivi di riuscita del film, probabilmente la scelta che più di tutte, ancora una volta, ci riporta al Cinema di Scorsese, l'ambientazione nei primi anni 80 in una New York lurida e grigia, attanagliata dai rifiuti e dai ratti giganti, non può non ricordare alcuni dei passaggi più iconici del regista newyorkese. Così, protagonista di uno strano cortocircuito, questo cinecomics anomalo si trova a essere vero Cinema, e anche di quello ben riuscito.


L'altro motivo di successo del film è riconducibile alla superba interpretazione di Joaquin Phoenix che per interpretare la parte ha dovuto perdere circa venticinque chili, la sua è una prova in bilico tra sofferenza e follia, il protagonista Arthur Fleck (vero nome del Joker) soffre di un disturbo provocato da un trauma che lo porta a una risata scomposta anche nelle situazioni più delicate e meno appropriate al riso, questa patologia, unita a un pizzico di sociopatia, rende Arthur un sognatore reietto, un uomo triste che vive in una sua realtà abbruttita dall'indifferenza della gente comune e dai soprusi dei prepotenti che in una Gotham/New York malata di certo non mancano. La risata agghiacciante di Phoenix, le sue espressioni non solo folli ma completamente dissociate, le contorsioni di un corpo provato, insieme a una serie di sequenze memorabili (magnifica quella sulla scala) probabilmente porteranno l'attore verso l'Oscar e verso la definizione del miglior Joker di sempre (c'è da dire che è anche l'unico ad aver avuto un film tutto suo). La costruzione graduale del personaggio aiuta a rendere credibile la parabola di un uomo che in nuce porta i semi della follia che non mancano di esplodere di fronte all'ennesimo torto subito. Da quel momento il Joker diventa un simbolo per tutti gli esclusi, per chi come lui è vittima di una società indifferente e schifosamente classista (come la nostra), da qui il sottotesto politico che rimanda all'uomo da seguire, ai fenomeni "populisti" (definizione che personalmente disprezzo) e anche a movimenti come Occupy Wall Street, con tutta la questione delle maschere, e ancora una volta torniamo ad Alan Moore e al suo Guy Fawkes (autore tra l'altro anche del seminale The killing joke).


Capolavoro? Probabilmente no, solo un bellissimo film che sottolinea come già hanno fatto i Bats di Nolan o il Logan di Mangold, che è possibile costruire opere di altissimo valore partendo da dei personaggi a fumetti per i quali la deriva più dark e dura, pur non essendo l'unica possibile, rimane indubbiamente tra le più affascinanti. Ultimo plauso proprio per Phillips che, messe da parte le tendenze cazzare, offre una regia molto interessante che contribuisce bene, in quanto Phoenixcentrica, a creare il personaggio e a farcelo amare nel suo ruolo di vittima ma anche un poco, ammettiamolo, in quello di carnefice.

giovedì 10 ottobre 2019

VINYL

Probabilmente il rock è morto davvero, altrimenti come si spiegherebbe la chiusura prematura di una serie come Vinyl?

Da tempo sappiamo della passione di Martin Scorsese per la musica. Il regista newyorkese, qui ideatore e produttore nonché direttore del pilot, un vero e proprio film di quasi due ore di durata, dà vita a questo progetto insieme a Mick Jagger degli Stones e allo sceneggiatore Terence Winter (I Soprano, The wolf of wall street, Boardwalk Empire) avvalendosi di una produzione di lusso che l'emittente HBO non ha avuto le spalle abbastanza larghe da sostenere. Vinyl è una bellissima serie, per alcuni versi non perfetta, sicuramente incompiuta in alcune sottotrame essendo stata pensata come progetto più ampio che avrebbe dovuto contare almeno su una seconda stagione, sempre viva però nel tratteggiare un periodo storico, quello dei primi 70, e l'ambiente musicale in pieno fermento di quegli anni, una sarabanda sregolata di artisti, musica, affari, eccessi, idee, spaccato sociale e culturale come solo alcune delle serie più riuscite sono state capaci di offrire al loro pubblico. Eppure è andata male. Probabilmente Vinyl intercettava un pubblico di grandi appassionati di musica, magari già di una certa età, risultando meno accattivante per i giovani che rimangono i maggiori fruitori di serie tv (e nei giovani ci mettiamo anche i trentenni, mica solo gli adolescenti), un pubblico poco interessato al declino del rock, all'avvento dei primi vagiti del punk, al fenomeno della disco music o a tutto ciò che poteva essere l'industria discografica all'epoca del vinile. A una visione più approfondita però la serie avrebbe potuto coinvolgere chiunque, perché dentro ci sono un contesto affascinante, le continue cadute di un uomo debole incline agli eccessi e alle trasgressioni e che fatica a farsi carico delle sue responsabilità, ci sono i conseguenti problemi familiari, i tradimenti, l'aspetto criminoso che spesso si ritrova nella narrazione scorsesiana, la New York viva e allo stesso tempo minacciosa dei Seventies... insomma, i motivi d'interesse oltre la musica del tempo erano molti. E poi... colonna sonora da urlo e ovviamente sesso, droga e rock 'n roll!


L'episodio pilota è Cinema scorsesiano allo stato puro, Scorsese sembra tornare nelle sue mean streets per raccontarci la storia di Richie Finestra (Bobby Cannavale) e della sua American Century Records. Ma questa volta le strade buie e sporche di una Manhattan in subbuglio non sono la scena del crimine, anzi, l'unico crimine qui si perpetra in una villa di lusso, sono invece il luogo dove ci sono i club, anche quelli più infimi, dove è possibile scovare la musica più vitale, cosa di fondamentale importanza per un discografico a capo di una compagnia che sta affondando e che ha fame di nuovi talenti, gente che va scovata per strada, perché i nomi nel rooster sono ormai bolliti e no, gli Zeppelin non sono così facili da mettere sotto contratto. Nonostante alcune aperture (gli Zeppelin, la Polygram) le cose non girano al meglio per Richie e i suoi soci, Zak Yankovich (Ray Romano), l'avvocato Scott Leavitt (P. J. Byrne) e Skip Fontaine (J. C. MacKenzie); pur potendo contare sulla bellissima moglie Devon (Olivia Wilde) e sull'amore per i suoi figli, Richie nasconde i problemi e lo stress sotto una coltre di alcool e droghe che non aiuteranno a migliorare la situazione. Per fortuna la giovane Jamie (Juno Temple), una sorta di segretaria spacciatrice, scova la band dei Nasty Bits che potrebbe ridare un po' di fiato all'etichetta.


Vinyl sfoggia un'estetica e una ricostruzione d'epoca sontuose, un gran lavoro sui costumi e un occhio molto attento alle scelte di casting, oltre ai protagonisti principali tra i quali troviamo un Bobby Cannavale finora sempre caratterista di lusso e qui valorizzato con il ruolo della vita, sono davvero indovinate tutte quelle comparse che vanno a impersonare gli artisti di primo e secondo piano che hanno caratterizzato un'epoca, una delle cose più sfiziose in Vinyl è proprio andare a scoprire puntata dopo puntata con quali artisti avranno a che fare i nostri eroi (?). Menzione anche per Ray Romano (il Ray di Tutti amano Raymond) e per un'Olivia Wilde splendida nelle sue mise seventies. Per chi ama la musica la serie è semplicemente imperdibile, probabilmente distrae un poco da ciò che rende Vinyl così appassionante quello che è l'aspetto criminale, forse non così necessario nell'economia di un prodotto che avrebbe potuto tenersi in piedi grazie alle vicende personali e lavorative di Finestra e soci, ad ogni modo visto il ritorno di pubblico questo aspetto ha fatto ben poca differenza. Peccato, poteva essere una delle serie da ricordare di questo decennio, per la ricostruzione storica, per il punto sulla condizione delle minoranze e delle donne e per la montagna di ottima musica presentata, purtroppo è finita troppo presto, il recupero però è d'obbligo almeno per chi ha sempre masticato musica e per chi come me è invaghito della New York degli anni 70.

domenica 6 ottobre 2019

LIVE! - ASCOLTI RECORD AL PRIMO COLPO

(Live! di Bill Guttentag, 2007)

Live! - Ascolti record al primo colpo è uno di quei film costruiti con l'intenzione di provocare lo spettatore in maniera intelligente e spronarlo a riflettere sui temi proposti, qui legati ai mass media, alla televisione e alla nostra voyeuristica morbosità di spettatori. Purtroppo l'opera di Bill Guttentag delude le aspettative sia dal punto di vista formale, ammazzato da un pretesa di realtà molto poco interessante, sia sul versante dei contenuti, poco credibili per taluni versi, ancor meno coinvolgenti per altri, tutto questo nonostante l'idea di base potesse produrre esiti decisamente avvincenti. Il regista è principalmente un documentarista, Guttentag trasla in questo film la sua indole andando a costruire una sorta di mockumentary che segue passo dopo passo lo sviluppo di un'idea di Katy (Eva Mendes), ideatrice di format televisivi per l'emittente ABN. Con l'idea di raccogliere materiale potenzialmente interessante Katy viene seguita costantemente da un cameraman e da un giovane regista, Rex (David Krumholtz) al quale la donna dovrebbe produrre il primo film. Questo è solo il pretesto per girare Live! - Ascolti record al primo colpo con la forma del "finto documentario", assistiamo così alla giornata lavorativa di Katy, ai brainstorming con gli autori televisivi della sua squadra, agli incontri al vertice per portare avanti l'idea di un programma innovativo e via discorrendo. Forse in maniera anche voluta ci viene proposta da Guttentag una regia molto basica, quasi televisiva, che crea un cortocircuito che potrebbe anche affascinare qualche spettatore ma che a conti fatti si rivela parecchio involuto e noioso per gli occhi, in questo anche le scelte di cast non aiutano, a parte la presenza sensuale di una Eva Mendes tosta e aggressiva si lascia notare solo Jeffrey Dean Morgan, uno dei concorrenti del programma che verrà messo in scena dal network e che comunque ha una parte minima nell'economia del film.


La ABN soffre da tempo la concorrenza dei network televisivi più importanti, siamo nell'epoca dei reality e la rete non ha in mano davvero nulla che possa catturare l'attenzione degli spettatori. Katy, affamata di successo e di punti di share, cerca in maniera forte e decisa di tirar fuori l'idea vincente dal suo team di sceneggiatori. Durante una riunione, del tutto casualmente, viene fuori nel discorso la roulette russa. Katy si illumina, per lei quella è la strada da seguire, uno show dove su sei concorrenti uno muore in diretta e gli altri vanno a casa con cinque milioni di dollari ciascuno; non serve molto per realizzare lo show: sei persone disposte a correre il rischio, una pistola, un proiettile vero, cinque a salve. Gli spettatori lo ameranno, il lato sadico e morboso di ognuno di noi non tarderà a venir fuori. Ovviamente per realizzare la trasmissione (dal titolo Live!) Katy dovrà convincere il suo team che inizialmente la prende per pazza, la legge, l'opinione pubblica, il network e la commissione di censura, tutti ostacoli non facili da superare, ma Katy è un treno in corsa inarrestabile.

Tralasciando il fatto che essendo ambientato nel nostro presente il film non ha (fortunatamente) nessuna credibilità e richiede una sospensione d'incredulità fin troppo elevata, e soprassedendo sul fatto che anche nella meccanica una trasmissione del genere non starebbe in piedi se non pilotata ad arte, quello che difetta al film è un sano coinvolgimento emotivo. Tutto nel suo essere incredibile risulta freddo, la costruzione segue quella della classica trasmissione televisiva, con le schede di presentazione dei concorrenti, da quella strappalacrime (per la quale anche chi darà il via libera al programma si commuove, roba da pazzi) a quella più accattivante, ma non si crea mai empatia con i futuri concorrenti né tanto meno con la protagonista, anche arrivati al climax dell'evento gli unici spettatori a trattenere il fiato sono quelli finti presenti nel film. Sul tema abbiamo visto cose decisamente migliori, non vorrei essere noioso e tornare sempre al solito Black Mirror (Messaggio al Primo Ministro, Orso bianco) ma con Live! - Ascolti record al primo colpo il pugno allo stomaco non arriva e non ci sono grossi motivi per promuovere il film. Peccato, avrebbe potuto venirne fuori sicuramente qualcosa di meglio.

mercoledì 2 ottobre 2019

IN ORDINE DI SPARIZIONE

(Kraftidioten di Hans Petter Moland, 2014)

Norvegia, un piccolo paesino fuori Oslo, paesaggio completamente bianco: ghiaccio, neve, una fotografia del gelo così nitida da far arrivare folate di freddo dallo schermo del televisore. In questo niente spaventosamente magnifico vive "un uomo tranquillo" (titolo del remake americano), Nils Dickman, un immigrato che è appena stato eletto cittadino dell'anno per l'impegno costante profuso nel tenere pulite con il suo spazzaneve le vie di comunicazione del paese, in barba a un clima che taglierebbe le gambe a qualsiasi forestiero. Purtroppo le gambe le tagliano (metaforicamente) al figlio di Dickman, un bravo ragazzo che si trova coinvolto per caso in un grosso traffico di stupefacenti, il giovane viene fatto trovare morto con in corpo una dose massiccia di droga. La polizia archivia il caso in pochi minuti come morte per overdose, ignorando le proteste di un padre che sa bene che il figlio non ha mai fatto uso di droghe. Venuto a conoscenza di parte della verità da un amico del figlio, Nils Dickman (Stellan Skarsgård) reagisce decidendo di farsi giustizia da solo. La sua prima vittima sarà Jappe (Jan Gunnar Røise), uno dei due uomini esecutori materiali dell'omicidio del ragazzo.


In ordine di sparizione ha l'impianto del classico revenge movie (a sparire sono uno a uno gli sgangherati malviventi implicati nella morte del figlio di Nils) ma lo stile del racconto di Hans Petter Moland guarda a un certo Cinema postmoderno e si rifà a una serie di trovate che hanno fatto la fortuna di registi ben più quotati di lui (i nomi ve li risparmio tanto li conoscete già). Se nelle prime sequenze si può pensare di trovarsi di fronte a un film di vendetta tutto sommato canonico se non per l'ambientazione, dopo la prima morte e il conseguente cartello lapidario che ci presenta con nome e soprannome il caro estinto appena trapassato a miglior vita, capiamo di essere finiti in una landa desolata dalle caratteristiche ben più frizzanti. Il côté di personaggi che contornano la figura del Conte (Pål Sverre Hagen), l'uomo che tira le fila del malaffare, è una baraonda di strani figuri, surreali, sempre in bilico tra il compìto tirapiedi e l'assortimento di varia umanità sui generis, imperdibili alcuni dei dialoghi tra criminali che ci spiegano con parole semplici perché nei paesi scandinavi funzioni così bene il welfare (in sostanza da noi non funziona per colpa del sole) o il perché i norvegesi, gli svedesi, senza eccezione alcuna, raccolgano sistematicamente la merda dei loro cani. lo stesso Conte, un ricchissimo salutista vegano che non esita a picchiare l'ex moglie (Birgitte Hjort Sørensen) e che ha molto a cuore il figlio adolescente, non manca di fornire comportamenti fuori dalle righe, soprattutto dal momento in cui i suoi uomini cominciano a sparire e i suoi sospetti si indirizzano verso la criminalità serba (o albanese) agli ordini del vecchio Papa (il compianto Bruno Ganz).


Scoppi di violenza, situazioni assurde, trovate divertenti (bellissima la scena finale), dialoghi surreali e una messa in scena da applausi sono le caratteristiche di un film indipendente molto brillante, una bella sorpresa immersa nel bianco nel quale spiccano pochi volti noti (oltre ai già citati Skarsgård e Ganz anche il Kristofer Hivju de Il Trono di spade) e una bella selezione di attori scandinavi. Il film è un crescendo armonioso capace di sorprendere positivamente, nonostante i numi tutelari evidenti ha il pregio di ritagliarsi una sua personalità tutta da apprezzare.

- Che paese del cazzo, nevica sempre, è incredibile che riusciamo a resistere.
-  È per via del welfare.
- Welfare?
- Se ci fai caso nei paesi caldi non c'è il welfare. Dimmene uno dove ci sia il welfare. In un posto dove c'è sempre il sole non hai bisogno del welfare, raccogli una banana e sei a posto. Per esempio a Bali, in Thailandia, in Vietnam... le persone si arrangiano. In Spagna sono nei guai, in Portogallo sono nei guai, non parliamo dell'Italia o della Grecia poi... tutti paesi caldi. Gli ospedali non hanno abbastanza personale per curarti e se la famiglia non ti aiuta puoi morire di fame, Il Sud America fa schifo, l'Africa anche, la California è quasi in bancarotta. O il sole o il welfare.


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