giovedì 30 giugno 2022

IT

(di Andy Muschietti, 2017)

Per me, negli anni della gioventù e dell'adolescenza Stephen King è stato uno degli autori  (l'artefice principale senza ombra di dubbio) che ha fatto esplodere in maniera definitiva l'amore per la lettura che ancora oggi permane vivissimo e accompagna bene o male tutte le mie giornate. Avendo negli anni che vanno dalla seconda metà degli 80 ai primi 90 a disposizione più o meno tutte quelle che ancora oggi vengono unanimemente riconosciute come le opere migliori del re del brivido, è facile capire quanto King possa aver colpito l'immaginario di quel giovane lettore. Anche se ormai sbiadito nel ricordo e impolverato nei dettagli dalla mole cospicua di anni passati come l'acqua sotto i ponti, It è forse il libro che tra tutti più è rimasto nel cuore, non necessariamente il meglio riuscito (il finale, insomma...), forse nemmeno il più bello, ma quello che più di tutti ha mantenuto intatta la capacità di far riconoscere a questo lettore la grandezza di un'autore che troppo spesso è stato considerato in quanto scrittore di horror e non come grande scrittore tout court. Tra le mille e passa pagine di It King riusciva a creare pura magia, non tanto quella legata agli eventi sovrannaturali, sebbene stesse cesellando uno dei personaggi horror ancor oggi più riconoscibili, quanto quella universale e fortissima dell'amicizia in quell'età dove gli amici sono tutto, più della famiglia, istituzione qui spesso deleteria, ancora per un po' di tempo più dell'altro sesso; la descrizione dell'adolescenza e dei protagonisti trova qui una felicità di scrittura e di racconto forse pareggiata solo nel più breve Il corpo da cui venne poi tratto il bellissimo Stand by me - Ricordo di un'estate. La storia delle trasposizioni cinematografiche ci ha insegnato che spesso adattare King non è impresa facile, figuriamoci farlo con un libro monumentale come It pieno di suggestioni e che vede protagonisti un numero cospicuo di personaggi, adattamento tra l'altro già tentato senza suscitare troppi entusiasmi con un prodotto destinato alla televisione nel 1990 del quale quasi tutti ricordano più che altro l'interpretazione di Pennywise da parte di Tim Curry. Per questa nuova trasposizione dalla carta allo schermo la gatta da pelare se la prende il regista Andy Muschietti dopo l'abbandono del progetto da parte di Cary Fukunaga che rimane come sceneggiatore e al quale si deve l'idea di separare il film in due parti, una dedicata ai protagonisti adolescenti ambientata sul finire degli 80 e una contemporanea con i ragazzi ormai cresciuti e divenuti adulti.

Derry, Maine, sul finire degli anni 80. Il giovane Bill Denbrough (Jaeden Lieberher), costretto a casa con l'influenza, costruisce una barchetta di carta per il fratellino George (Jackson Robert Scott) che la porta fuori in un giorno di pioggia per farla correre sui rivoli d'acqua lungo i marciapiedi. Nel tentativo di recuperare la barchetta caduta in un'apertura di scarico, il piccolo George si imbatte in Pennywise (Bill Skarsgård), un clown capace di essere divertente ma anche molto spaventoso che vive nelle fogne, questi si rivelerà presto un orribile mostro che farà sparire il bambino. Nei mesi successivi le scomparse a Derry si moltiplicano, viene indetto il coprifuoco, Bill non si rassegna alla scomparsa dell'amato fratello convincendosi che possa essere ancora vivo da qualche parte. Intanto al gruppo di amici di Bill che comprende il malaticcio (in apparenza) Eddie (Jack Dylan Grazer), tormentato da una madre iperprotettiva, il timoroso e un po' egoista Stan (Wyatt Oleff) e il volgare ed esuberante Richie (Finn Wolfhard), si aggiungono il grassottello Ben (Jeremy Ray Taylor), un ragazzo gentile e timido appena arrivato in città, la bella e più matura Beverly (Sophia Lillis) proveniente da una situazione familiare molto difficile e il ragazzo di colore Mike (Chosen Jacobs). L'incontro con i nuovi amici non sarà del tutto indolore, tutti quanti questi ragazzi sono infatti perseguitati dai bulli della scuola, una vera banda di delinquenti senza scrupoli capeggiata dall'odioso Henry (Nicholas Hamilton). Le difficoltà cementificheranno l'amicizia tra questi giovani ragazzi che oltre alle violenze dei bulli e i problemi familiari dovranno affrontare la furia ricorrente di Pennywise fino a caricarsi sulle spalle la responsabilità di fermare questa entità sovrannaturale che gli adulti della cittadina fanno finta di non vedere.

Il grande problema di It, almeno di questo primo capitolo, è la mancanza di tempo e di spazio. Nonostante le due ore e quindici minuti di durata del film è quasi impossibile per Muschietti riuscire a portare la profondità e lo spessore di tutti i personaggi delineati in maniera esemplare da King in questa trasposizione per il cinema. Alcuni dei protagonisti sono appena appena abbozzati, Roger, Stan, anche Eddie sono tratteggiati in superficie in pochi passaggi, gli unici un poco più convincenti sono Beverly, Ben e Bill nonostante tutti i protagonisti godano del loro incontro con Pennywise con tanto di manifestazione delle loro peggiori paure. Anche nel contesto si rimane in superficie, si perde il fascino degli anni 50 nei quali era ambientata la prima parte del libro che passava poi agli 80 dei protagonisti adulti, non si scalfisce la superficie degli ambiti familiari se non per la situazione di Beverly, che ha il bellissimo volto di Sophia Lillis, scelta di casting molto indovinata. Detto di un'operazione che non scava più di tanto, c'è da dire che il risultato finale è comunque piacevole e che per gli aspetti più horror e tensivi Muschietti lavora bene, non si discosta dagli stilemi già noti di tanto horror classico ma sfrutta bene gli effetti speciali e i trucchi per spaventare lo spettatore, contando che il film magari ha attirato anche un pubblico adolescente, trova un ottimo Pennywise, molto inquietante grazie alla prova di un Bill Skarsgård molto, molto adatto. Ne esce un buon adattamento a cui manca qualcosa (parecchio in realtà) per ricordare i fasti del romanzo di King, il fatto è che probabilmente ricreare proprio quelle atmosfere lì facendo andare tutto al posto giusto non è possibile. Diciamo che i fan del re si possono accontentare sapendo che in fondo si può sempre tornare alla pagina stampata.

lunedì 27 giugno 2022

FUNNY GAMES

(Funny games U.S. di Michael Haneke, 2007)

Era il 1997 quando Michael Haneke girava per la prima volta il suo Funny games, lo faceva in Austria, sua patria adottiva (il regista nasce in realtà in Germania a Monaco di Baviera) con attori di lingua tedesca. Il film fu poi presentato al cinquantesimo Festival di Cannes dove passò inosservato senza riscuotere particolare successo. Dieci anni più tardi il regista decide (accetta?) di farne un remake statunitense per offrire alla sua opera la possibilità di arrivare a un pubblico più vasto, si passa quindi alla lingua inglese e si punta su un cast di grandi star all'interno del quale spiccano i nomi di Naomi Watts, Tim Roth e Michael Pitt. Haneke sceglie la via del rifacimento fotocopia, gira il suo remake scena per scena ricostruendo con precisione il film di dieci anni prima cambiandone ovviamente location e protagonisti, un po' la stessa operazione in cui si imbarcò Gus Van Sant con il rifacimento dello Psycho di Hitchcock, operazione indubbiamente coraggiosa con la quale Van Sant si prese una buona dose di rischio. Per Haneke la situazione era un poco diversa, non andava a scomodare nessun mostro sacro e metteva mano a materiale già di sua proprietà con il vantaggio di aumentarne la diffusione e se possibile aggiungere qualche chiave di lettura alla sua opera tutta da decifrare, Funny games ha infatti generato una serie di interpretazioni e la ricerca di chiavi di lettura da parte della critica e di quel pubblico più attento alle intenzioni degli autori e ai livelli di significato nascosti all'interno delle loro creazioni.

Una famigliola felice è in auto diretta verso la loro casa di villeggiatura in riva al lago, papà George (Tim Roth) e mamma Ann (Naomi Watts) giocano a indovinare gli autori di arie d'opera estratte dai loro cd, il piccolo Georgie (Devon Gearhart) dal sedile posteriore li guarda divertito. Una volta al lago i due George si dedicano alla manutenzione della loro piccola barca a vela, Ann inizia a sistemare delle cose in casa. Dopo qualche minuto alla porta si presenta il giovane e goffo Peter (Brady Corbet) in perfetta tenuta da golfista, il ragazzo è ospite dei vicini di casa ed è venuto a chiedere ad Ann delle uova per conto appunto della vicina. Dopo che Peter ha combinato qualche pasticcio con le uova ed è riuscito a far perdere la pazienza ad Ann sulla porta si presenta il suo compare Paul (Michael Pitt), anche lui in tenuta da golfista; per mezzo di quelle che sembrano delle provocazioni studiate ad arte i due ragazzi diventano sempre meno educati e la tensione in casa sale, nel frattempo rientrano anche il marito e il figlio di Ann. Dopo qualche alterco la situazione ben presto precipita, i due ragazzi si rivelano per quello che sono, due squilibrati ben disposti a usare violenza e a esercitare ogni tipo di crudeltà per ottenere un po' di quello che considerano una sorta di malato divertimento. I due coniugi e il loro bambino si troveranno in una situazione d'impotenza dalla quale sarà difficile uscire.

Funny games è un film a tema che ha come punto nodale la violenza, in questo caso gratuita, e ancor di più la violenza e il suo consumo nella cultura di massa e in particolare nelle visioni cinematografiche o domestiche, ne consegue tutto un discorso su quanto possa essere deleterio (o almeno punto su cui riflettere) il fatto che a questa violenza lo spettatore si sia ormai assuefatto e abituato, tanto da non provare più nessuna emozione di fronte a episodi come quelli mostrati nel film che, a dispetto di tutto, mantiene appunto un registro molto freddo e distaccato. Non è l'unico film in cui Haneke ci fa riflettere, senza mostrarcela apertamente, sulle conseguenze del rapporto che ognuno di noi ha con la violenza, ne è un esempio il pluripremiato Il nastro bianco, film di tutt'altro genere che arriverà un paio d'anni dopo questo Funny games ma che ha delle connotazioni che riverberano in armonia con il suo predecessore. Come accadeva con il film appena citato anche Funny games è un film che acquista valore a posteriori, quando la riflessione su ciò che il regista ha messo in scena è ormai in moto; in entrambi i casi per me è possibile affermare di aver apprezzato l'idea e le intenzione alla base dei film di Haneke, anche molto nel caso de Il nastro bianco, ma di non aver amato in modo particolare nessuna delle due opere. Haneke ci catapulta in quello che dovrebbe essere un film appartenente al filone dell'home invasion privando però lo spettatore del conflitto, la direzione degli eventi è qui a senso unico e anche quando arriva il momento del possibile tripudio per lo spettatore, tripudio ovviamente legato a un po' di (in)sana violenza, Haneke scombina le carte in tavola tornando alla sua struttura a tema, spezzando le regole della narrazione classica, ergendosi così a deus ex machina di una vicenda che già in precedenza aveva mostrato regole libere con la rottura della quarta parete. Film interessante su cui riflettere, ben girato ma che nonostante le ottime prove dei suoi interpreti, tutti in gran forma (anche se Roth ha dichiarato che girare Funny games è stata un'esperienza davvero dura), sembra infilarsi più nel cervello che non nel cuore o nella pancia, scelta con tutta probabilità cercata da Haneke. Personalmente continuo a preferire cuore e pancia alla testa, in base alle inclinazioni di ognuno Funny games potrà essere considerato un gran film o solo un buono spunto per riflessioni interessanti (che, per carità, non è poco), non resta che scegliere quale delle due opzioni sposare.

giovedì 23 giugno 2022

LA PROMESSA

(The pledge di Sean Penn, 2001)

Sean Penn nel corso della sua ormai lunga carriera, di tanto in tanto si è concesso il lusso di dedicarsi alla regia; poche cose, sei lungometraggi nell'arco di trent'anni dei quali il più celebre rimane Into the wild - Nelle terre selvagge, adattamento del libro di John Krakauer (Nelle terre estreme) graziato dalla splendida colonna sonora di un Eddie Vedder in forma strepitosa. Qualche anno prima l'attore aveva già siglato un buon film con questo La promessa, meno noto del successivo al quale abbiamo già accennato e anch'esso tratto da un libro, l'opera omonima di Friedrich Dürrenmatt dalla quale il film si discosta un poco per approccio e filosofia, sicuramente per ambientazione, nel libro europea (siamo in Svizzera) qui statunitense. La promessa è uno di quei film che non riescono a entrare nell'empireo dei memorabili, ben realizzato, "di mestiere" potremmo dire, impreziosito dalle partecipazioni di diversi bravi attori, ovviamente il protagonista Jack Nicholson sopra tutti, e come usava qualche tempo fa destinati a finire nel cestone dei dvd a un euro tra le corsie del Mediaworld o del Carrefour di turno o, come lo acquistò chi scrive, allegato a qualche rivista a tre o quattro euro. Non di meno, per gli amanti del poliziesco e del thriller, La promessa rimane ancora oggi una visione più che dignitosa, un film che si concentra più sull'ossessione del suo protagonista che non sul caso in sé, cosa che aiuta a far emergere il film dalla media, o dal cesto dei dvd a un euro se preferite.

Jerry Black (Jack Nicholson) è un poliziotto che si sta preparando per la meritata pensione, i suoi colleghi hanno organizzato una bella festa d'addio e gli hanno pagato un viaggetto come regalo, un'immersione totale nel mondo della pesca al marlin, grande passione di Jerry. Proprio durante i festeggiamenti al collega, a Stan Krolak (Aaron Eckhart) arriva la notizia dell'omicidio di una bambina di circa sette anni, il corpo abbandonato nel bosco; Jerry è ancora in turno nel suo ultimo giorno di lavoro, insiste così per dare una mano. Nel corso dei colloqui con i genitori della vittima Jerry si fa strappare dalla madre della bimba la promessa di trovare l'assassino della figlia. Convinto che il primo indiziato, il vagabondo minorato Toby Jay Wadenah (Benicio Del Toro), non sia il vero colpevole dell'omicidio, Jerry continuerà a indagare ottenendo con riluttanza anche l'aiuto degli ex colleghi. Le sue indagini lo porteranno ad acquistare una stazione di servizio in una zona dove Jerry crede che l'assassino, da lui ritenuto seriale, colpirà ancora. Qui fa la conoscenza della cameriera Lori (Robin Wright) e di sua figlia Chrissy (Pauline Roberts), una bambina che assomiglia molto alla prima vittima e alla quale Jerry si affeziona in maniera sincera; purtroppo l'ex poliziotto non riesce a togliersi dalla testa quel primo omicidio e come questa nuova bambina possa essere una perfetta esca per stanare l'assassino.

Un caso che diventa una promessa che diventa un'ossessione che diventa follia. Il film di Penn, come il libro, gira intorno al suo protagonista, un uomo che si prende troppo a cuore un caso di cui non avrebbe dovuto nemmeno occuparsi fino a farsi lacerare animo e mente nel venirne a capo e donare giustizia a queste bambine seviziate. I buoni propositi del protagonista diventano ambigui con il passare dei giorni (dei minuti), Jack Nicholson offre una prova come al solito strepitosa contenendo anche tutto il suo istrionismo che trova sfogo in piccola parte solamente nella scena finale, il film è inoltre costellato di ottimi nomi anche in ruoli minori, oltre ai già citati abbiamo anche Patricia Clarckson, Mickey Rourke, Harry Dean Stanton, Vanessa Redgrave, Helen Mirren e Sam Shepard, non si è quindi risparmiato sul talento. Ottimo il rapporto che il regista instaura con i luoghi e con le location che donano un certo fascino alla vicenda alla quale manca forse quel qualcosa per fare quello scatto in più e farsi ricordare. Poi c'è una parte di fatalità, di caso, che nel libro era forse più rimarcata (ricordi persi nel tempo, come lacrime nella pioggia...) e che qui si concretizza in una solo inquadratura, elemento di interesse che nel film di Penn non è mai preminente e non esplode. Così ne rimane un buon film, dolente, un po' dimenticato ma che una volta rispolverato non si vergogna di dire la sua, in fondo non capita mica a tutti.

martedì 21 giugno 2022

DRIVE MY CAR

(Doraibu mai kā di Ryūsuke Hamaguchi, 2021)

Che meraviglia entrare con la dovuta calma in cinematografie così distanti dalla nostra e da quelle alle quali siamo più abituati, prendersi tutto il tempo per arrivare al cuore di una storia, attendere con pazienza quaranta minuti per vedere i titoli di testa e innamorarsi per circa tre ore di personaggi fino al momento della visione completamente sconosciuti. È un po', almeno per chi scrive, la sensazione che si prova di fronte ai migliori esiti del cinema asiatico di cui Drive my car di Ryūsuke Hamaguchi è senza dubbio una delle opere più recenti e meritorie. Drive my car è il film che quest'anno ha vinto l'Oscar come miglior film internazionale "soffiando" la statuetta al nostro Paolo Sorrentino che concorreva con il suo È stata la mano di Dio; difficile dire quale delle due opere meritasse il premio in misura maggiore (l'avrebbero meritato entrambe) tanto lontani sono gli approcci al cinema e alla vita dei due film, entrambi intrisi di una viscerale sofferenza, sublimata in maniera diversa nei due racconti, uno autobiografico, l'altro ispirato a un racconto dello scrittore giapponese Haruki Murakami. Entrambi i film hanno come motore una dolorosa elaborazione di un lutto, di quello dei genitori del protagonista nel film di Sorrentino, di quello di una moglie e compagna di vita in questo Drive my car. È una delle tante magie del cinema, stessa intensità di sentimenti a latitudini differenti ma con metodologie e sensibilità, anche di racconto, molto diverse.

Yūsuke (Hidetoshi Nishijima) e Oto (Reika Kirishima) sono sposati: lui è un regista e interprete teatrale da tempo impegnato nella trasposizione dello Zio Vanja' di Checov, Oto è una sceneggiatrice che scrive storie per la televisione. I due hanno un rapporto pieno e caratterizzato da una bellissima complicità, nella gioia dell'atto sessuale Oto concepisce le sue storie migliori e le racconta a Yūsuke il quale la mattina dopo le ricorda alla moglie e la aiuta a trascriverle. Poi inizia la routine lavorativa, in auto Yūsuke ripassa le battute delle opere teatrali che interpreta tramite delle cassette registrate proprio da Oto, tra i due c'è uno splendido connubio fatto di arte e amore. Poi, un giorno, Yūsuke scopre (o ha la conferma) che questo idillio non è forse così perfetto, Oto lo tradisce con un giovane attore, Kōji Takatsuki (Masaki Okada), innamorato delle sceneggiature della donna. Quando Oto morirà per cause naturali Yūsuke si troverà con un vuoto da elaborare, con un amore che ha lasciato un buco incolmabile, un amore che nemmeno il tradimento aveva scalfito in profondità. Tempo dopo, l'attore e regista, ormai incapace di continuare a interpretare la parte dello Zio Vanja, accetta di dirigerne una rappresentazione a Hiroshima, qui un paio di avvenimenti segneranno i suoi giorni futuri: il regista sceglierà per interpretare Zio Vanja proprio Kōji Takatsuki protagonista di un bel provino, inoltre la produzione, per motivi assicurativi, gli impedirà di guidare la sua Saab 900 Turbo rossa affidandogli i servigi della giovane autista Misaki Watari (Tôko Miura), una ragazza rispettosa e riservata che arricchirà la vita di Yūsuke portando in dote un bagaglio di sofferenze e traumi non indifferente.

Drive my car è una lunga elaborazione del lutto da parte di Yūsuke che il regista Ryūsuke Hamaguchi riesce a farci avvertire con grande profondità senza bisogno di ricorrere a troppe parole, attraverso una serie di innumerevoli silenzi, di atti quotidiani, di ripetizioni e di imprescindibili contatti con gli altri. I silenzi del protagonista si scontrano con quelli della giovane Misaki, una ragazza di ventitré anni che per sua stessa ammissione è capace solo di guidare, unico lascito di una madre assente anche quando era in vita. In Drive my car le parole importanti sono contate, escono con garbo e pudicizia e pesano, e donano valore assoluto a quei silenzi che ne prendono il posto, silenzi che non azzerano significati e vicinanze, anzi, rafforzano nel rispetto e nella comprensione tutti i rapporti nascenti impossibilitati a colmare il vuoto di quello da cui tutto muove. Così Yūsuke troverà significato nei silenzi dell'attrice muta Lee Yoon-a (Yoo-rim Park), nel suo linguaggio dei segni, nel parlato in altre lingue dei membri del suo cast, in quelli della sua giovane autista e infine, anche in quelli di Oto, in maniera inaspettata sciolti proprio nel rapporto con il giovane Kōji il quale sarà per Yūsuke portatore di rivelazioni. Le parole trovano invece posto sulle assi del palcoscenico, nella sala prove di quel melting-pot culturale assemblato dal regista per la sua prossima rappresentazione durante la quale sarà costretto a rimettersi in gioco ben oltre quello che avrebbe pensato. Hamaguchi riesce a riprendere al meglio un racconto non facile da trasporre: silenzi, parole recitate, segni, l'abitacolo di un auto, gli attorni attorno a un tavolo; nel gestire le riprese il regista giapponese riesce a creare la giusta armonia tra gli elementi rendendo queste tre ore di film una passeggiata davvero molto piacevole, lo fa senza strafare, adottando la stessa misura propria dei suoi ponderati personaggi. Tutto sommato i vari premi vinti da Drive my car possono dirsi più che giustificati.

domenica 19 giugno 2022

GALVESTON

(di Nic Pizzolatto, 2010)

Di Nic Pizzolatto abbiamo parlato a più riprese nelle scorse settimane a proposito delle tre stagioni di True Detective, serie della quale l'autore originario di New Orleans è stato ideatore, produttore e per qualche episodio anche regista. Il suo primo romanzo, Galveston, arriva qualche anno prima rispetto alla serie tv; siamo sempre nel campo del noir, quello più crudele e senza speranze, dove le debolezze umane condizionano le vite ben al di là della possibilità di aggrapparsi alla seppur minima virtù; le forze dell'ordine, i "detective", sono banditi dalle pagine di Galveston, qui albergano, ed è proprio il termine esatto, solo perdenti, piccoli e piccolissimi criminali, protagonisti ai quali la vita e gli uomini hanno solo presentato cattivi giri di carte, la mano giusta sembra purtroppo essere finita altrove. Il libro di Pizzolatto ha un piglio diverso dalle sue narrazioni messe in scena per la televisione pur presentando aspetti a esse comuni: innanzi tutto i luoghi. Siamo nel Sud degli Stati Uniti, le vicende del protagonista Roy Cady prendono piede da New Orleans per spostarsi poi via via verso il Texas e giù lungo il Golfo del Messico fino ad arrivare alla zona costiera prospicente Galveston, capoluogo dell'omonima contea. Lungo il suo percorso avremo modo di attraversare zone rurali, paesaggi industriali dove svettano le ciminiere delle raffinerie, isolati motel da quattro soldi e finalmente la spiaggia e il Golfo. È in parte un noir sulla strada questo Galveston, ma più che un viaggio è una fuga, una fuga dei protagonisti dal loro passato, dalla loro vita e dal loro presente, verso un futuro incerto che difficilmente potrà prospettarsi roseo e offrire se non proprio felicità almeno la speranza di un'esistenza serena. A ogni modo, di fronte ad alcune situazioni, in fondo non resta che andare.

Roy Cady è un criminale di basso rango, un tirapiedi, un picchiatore al soldo di Stan Ptitko, un tipo decisamente più pericoloso del pur abile Roy. Quando Stan chiede a Roy e al suo socio Angelo di andare a recuperare certi documenti compromettenti da un certo Frank Sienckiewicz e di andarci senza pistole al seguito per evitare casini, Roy mangia la foglia e inizia a sentire puzza di bruciato da tutte le parti. Forse c'entra il fatto che ora Stan se la fa con la ex di Roy, Carmen, e Stan è un tipo geloso che non ama pettegolezzi, forse è altro, sia come sia Roy non è per nulla tranquillo, questo proprio nel giorno in cui gli viene diagnosticato un cancro ai polmoni che con tutta probabilità non gli lascia una prospettiva di vita a lungo termine. Quando si dice una giornata storta. Così, dopo che l'operazione rivelerà tutti i suoi risvolti, Roy si troverà a essere il classico uomo in fuga costretto a nascondersi dai suoi inseguitori, con se porterà una piccola assicurazione, un'esiguo gruzzolo e un piccolo inaspettato bagaglio: la giovane Rocky, anch'essa in fuga da una situazione complicata e la sua piccola sorellina Tiffany, una bambina di pochi anni bisognosa di qualcuno che si prenda cura di lei e di tanto affetto.

È un bel noir Galveston, linguaggio diretto, non troppo ricercato, con una prosa però capace di lasciare qua e là frasi che colpiscono nel segno. Pizzolatto costruisce un romanzo breve che si legge in poco tempo e che delinea personaggi molto sofferenti, un po' come quelli della sua serie tv, qui nel romanzo meno complessi e stratificati ma egualmente avvincenti. Sono i perdenti, quegli uomini e quelle donne destinati ai margini e a mostrare alla fine, anche a dispetto della loro forza e della loro scaltrezza, i loro lati più deboli e quella vigliaccheria di fondo che impedisce a tantissime persone di interpretare il ruolo dell'eroe nel momento del bisogno; sono personaggi veri questi, anche se fatti di carta, inchiostro e parole, perché è facile riempirsi la bocca di belle intenzioni ma nel momento della prova del nove, una di quelle pericolose, in quanti riuscirebbero a fare davvero la cosa giusta? C'è tanto ambiente di contorno nel romanzo, il micromondo del motel scalcagnato dove Roy e Rocky tenteranno di far perdere le loro tracce e dove orbitano una serie di personaggi altrettanto marginali, Pizzolatto, proprio come farà in True Detective, costruisce la storia su piani temporali diversi, uno ambientato nel 1987 e dove si sviluppano i fatti sopra descritti, uno in epoca più moderna con un Roy più anziano ancora intento a guardarsi le spalle. È una storia dura, con un finale nerissimo e dove non vedremo cavalieri di spalle cavalcare verso il tramonto, Pizzolatto ci racconta più che altro la debolezza umana e la sconfitta, l'umiliazione e nel mezzo qualche raro sprazzo di luce, il tutto in un romanzo che si fa difficoltà a posare sul comodino. Un bel rodaggio per le sceneggiature a venire.

sabato 18 giugno 2022

PASOLINI

(di Abel Ferrara, 2014)

Non è così semplice riuscire a capire quali potessero essere le intenzioni di Abel Ferrara nell'intraprendere la realizzazione del suo progetto su Pasolini; il film che ne esce seppur interessante e meritorio, è poco illustrativo dello scrittore, poeta, regista, pensatore e altro ancora; chi fosse a digiuno della figura di Pier Paolo Pasolini qui non troverebbe molto per aumentarne la conoscenza nonostante Ferrara inquadri molto bene le caratteristiche e gli interessi principali, le urgenze di questo protagonista della nostra storia culturale che nei suoi anni (e poi dopo) è stato così importante e ingombrante per il suo discorso sulla situazione. Pasolini è un film che vive di frammenti, di spunti, alcuni avviati dallo stesso Pasolini e che Ferrara con il coraggio che lo contraddistingue da sempre, in piccola parte e con umile rispetto, cerca di interpretare dando vita a sequenze di quel film in nuce che non vide mai la luce (Porno-Teo-Kolossal) e che nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto coinvolgere anche Eduardo De Filippo, qui interpretato da Ninetto Davoli, volto pasoliniano per eccellenza, a sua volta in Pasolini interpretato da Riccardo Scamarcio. Non resta che pensare a un'operazione concepita per rispetto, per stima profonda e anche per l'affinità che un regista come Ferrara, con un passato difficile alle spalle, può aver provato verso la figura di Pasolini, con i dovuti distinguo siamo di fronte ad autori di grande spessore, dominati in parte dai propri demoni, per Pasolini quella sorta di ricerca ossessiva di vita vera (degrado?) che, forse, lo portò a morire su quella spiaggia di Ostia, per Ferrara quel difficilissimo rapporto di dipendenza dall'eroina sublimato in quel capolavoro che è The addiction - Vampiri a New York, entrambi accomunati da quella propensione a scandalizzare e a far discutere, per Pasolini più che nota (pensiamo a Salò o le 120 giornate di Sodoma per esempio) ma anche Ferrara in questo senso non scherza, esordisce nel porno con 9 lives of a wet pussy ma si pensi anche al grandissimo Il cattivo tenente con un Harvey Keitel meraviglioso come protagonista. È un incontro a tre che da vita a questo lavoro, il terzo è un immancabile nella recente vita artistica di Ferrara, l'amico Willem Dafoe che qui diventa un Pasolini molto rassomigliante, decisamente credibile, sempre grandissimo interprete.

Si narrano le ultime ore di un Pier Paolo Pasolini inconsapevole di star andando incontro alla sua morte improvvisa, prematura e ingiusta. Scene di vita casalinga di ritorno da un viaggio in Svezia: mamma Susanna (Adriana Asti) che lo chiama in maniera affettuosa Pieruti, la visione degli impegni con la collaboratrice Graziella (Giada Colagrande), la lettura del giornale, il caffè, gli incontri con gli amici, l'attrice Laura Betti (Maria De Medeiros), il poeta e cugino Nico Naldini (Valerio Mastandrea). Entrando un po' più nel pensiero di Pasolini c'è l'intervista con Furio Colombo (Francesco Siciliano).

PPP: Le poche persone che hanno cambiato la Storia sono quelle che hanno saputo dire no. Il rifiuto è un gesto essenziale, ma deve essere grande, assoluto e assurdo. Il buonsenso non ha mai fermato "la situazione". Allora ci sono tre discorsi da fare: Qual è la situazione? Perché si dovrebbe fermarla? E in che modo?
FC: Descrivi allora "la situazione". I tuoi interventi, il tuo linguaggio, hanno l'effetto del sole tra la polvere. Un'immagine bella, ma difficile da capire.
PPP: Grazie per l'immagine del sole, ma io pretendo molto meno. Pretendo solo che tu ti guardi intorno e che ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani ma solo strane macchine che si scontrano tra loro. Una tragedia che è iniziata con l'istruzione universale e obbligatoria la quale forma tutti noi, ricchi o poveri. Essa ci spinge tutti dentro l'arena dell'avere tutto a tutti i costi. In tal modo tutti vogliono le stesse cose. Se dispongo di mezzi politici o di mezzi finanziari, uso quelli. Oppure uso una spranga. e quando uso una spranga, la uso per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che volerlo è una virtù. Esercito il mio diritto, la mia virtù. Sono un assassino e sono buono. Ma oggi... non ci si fa scrupolo ad uccidere. Il panorama è mutato, la voglia di uccidere ci lega tutti come tetri fratelli di una società fallita che fabbrica gladiatori educati a possedere e distruggere.
FC: Tu ci vorresti tutti pastorelli non istruiti, ignoranti e felici?
PPP: Messa così sarebbe una stupidaggine. Te lo dico chiaramente. Io scendo all'Inferno, e so cose che non disturbano la pace degli altri. Ma attenti, l'Inferno sta salendo da voi. È vero, indossa diverse uniformi, e porta diverse maschere. Siamo tutti vittime e tutti colpevoli. La voglia di dare la sprangata, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà a lungo l'esperienza privata di chi ha, come dire, toccato "la vita violenta". Non vi illudete. Voi, con la scuola, la tv, i vostri giornali, siete i conservatori di quest'ordine orrendo basato sull'idea di possedere e distruggere.

Ferrara spezza, immagina, apre squarci visionari, ricostruisce, riporta, nel fare tutto questo gira un film lontano dal biopic, anche da quello delle poche ultime ore, riesce comunque a risultare compatto, favorito dalla durata brevissima del film, non più di un'ora e venti minuti, forse troppo pochi per dare anche solo un'idea di chi e cosa fu Pier Paolo Pasolini, costruisce cortocircuiti interessanti: il girato esplicito delle 120 giornate e il viaggio onirico tra le sequenze di un film mai realizzato (il Porno-Teo-Kolossal già citato), affianca Ninetto Davoli in carne e ossa al Ninetto Davoli personaggio (interpretato da Scamarcio), ci mostra il pensatore fino e l'uomo in cerca di emozioni basiche tra quei ragazzi di borgata, anche questi ritratti tra gioia (il gioco del calcio) e squallore (i rapporti sessuali clandestini), l'alto e il basso, l'amore per il cinema di un regista che ha dato tanto a questa arte già dai suoi esordi (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, tre capolavori). Accenni, frammenti a creare un ritratto con almeno una sequenza struggente, perché cosa può esserci al mondo di più straziante del dover comunicare a una mamma la morte prematura del proprio figlio?

Il Pasolini di Ferrara non è un film saggio, non è il mezzo adatto per conoscere a fondo il pilastro di cultura che è stato Pier Paolo Pasolini, è un film da leggere come gesto affettuoso, sentito, da parte di un autore che con tutta probabilità sente forte qualche connessione, qualche vicinanza, qualche affinità soprattutto verso l'uomo che è stato Pasolini, in questo il film può dirsi pienamente riuscito, per altro ci sono i saggi, gli scritti e l'opera tutta dello stesso autore.

giovedì 16 giugno 2022

BANG BANG BABY

Italians do it better! Beh, non proprio ma comunque bene, almeno in questo caso. Con Bang Bang Baby l'ideatore Andrea Di Stefano e la produzione di The Apartment e Wildside confezionano una serie che ha tutte le potenzialità per funzionare bene anche all'estero, distribuisce Prime Video e quindi il gioco è praticamente fatto. Nulla di nuovo sotto il sole, siamo ancora nei nostrani territori criminali, questa volta è la Santa calabrese a essere protagonista, la 'ndrangheta trapiantata a Milano con le mani in pasta in affari redditizi, nella fattispecie un grosso affare riguardante Malpensa che dovrebbe venire oliato e favorito da Salvatore Ferraù (Giuseppe Cutrullà), detto 'u damerino, personaggio che ahinoi viene accidentalmente ucciso impedendo all'affare di andare in (aero)porto. Con queste premesse è facile pensare a nostri prodotti seriali come Gomorra, Romanzo Criminale o Suburra, in realtà Bang Bang Baby è qualcosa di un pochino diverso, ha un approccio che gioca molto con il grottesco con una manciata di personaggi di molto sopra le righe, si concentra sul percorso di crescita e formazione della protagonista (a voi decidere quanto credibile, spoiler... non tantissimo), trova nell'estetica il suo punto di forza e ci ripropone (ancora una volta, sì) un immersione nel decennio degli 80 che nonostante sia ormai una scelta classificabile quasi come "abuso edilizio" alla fine non stona e permette di fare un po' di italico amarcord per scenografie e cultura d'epoca (e per cultura si intende ovviamente cultura molto pop, dalla pubblicità dei Big Babol ai telefilm che passavano nella televisione italiana dell'epoca, alla musica leggera, etc...). Ma si diceva di quel Salvatore Ferraù...

Hinterland milanese, anni 80. Alice Giammatteo (Arianna Becheroni) è un'adolescente orfana di padre, cresciuta dalla madre Gabriella (Lucia Mascino), una donna che in gioventù sposò Santo Barone (Adriano Giannini), esponente della malavita calabrese freddato in un agguato mentre era in gita al Luna Park con la famiglia. Un giorno Alice legge la notizia dell'avvenuto arresto proprio di Santo Barone, suo padre, una notizia che fa crollare l'intero mondo della ragazza che prima inveisce contro la madre per averla privata della possibilità di vivere con il padre (la madre sapeva e per proteggere la figlia...), poi, aiutata dall'amico molto gay Jimbo (Pietro Paschini) tenta di riavvicinarsi alla famiglia paterna, a partire dalla figura di nonna Lina (Dora Romano), vedova e attuale capo della famiglia Barone, donna che mira a essere la prima fimmina a comandare la Santa, in affari con la famiglia Ferraù, di stanza in Calabria (o Calafrica, come la chiamano i corrotti politici milanesi) e pronta a mettere le mani su Malpensa. Ora accade che Santo, papà di Alice, viene arrestato, nudo, sotto casa del damerino il quale, coincidenza, è sparito facendo saltare l'affare Malpensa, cosa che fa arrabbiare molto nonna Lina e i Ferraù tutti; tra questi il fratello del damerino, Nereo Ferraù (Antonio Gerardi) che salirà a Milano per vendicare la presunta morte del consanguineo; Nereo è un personaggio molto particolare, mezzo matto, tenuto a bada dai farmaci e dalla cugina Assunta (Giorgia Arena), un specie di medium che si affida al bastone di San Giuseppe e al mantra di "cornuto di Dio, cornuto di Dio, vedimi tu!". Ovviamente con il coinvolgimento delle due famiglie la situazione si complicherà parecchio e Alice non si troverà solo a dover rintracciare suo padre ma anche a destreggiarsi nel mondo della malavita per salvargli la pelle.

Per quanto non perfetto Bang Bang Baby si dimostra un prodotto molto piacevole che riesce nell'arco delle dieci puntate a costruire una manciata di personaggi parecchio accattivanti, a prescindere dall'implausibilità del rapido percorso di crescita (criminale) della protagonista Alice, una brava Arianna Becheroni. Si punta tantissimo, troppo forse, su un'estetica estremizzata da foschie illuminate al neon, il reiterarsi di soluzioni visive caratteristiche donano all'opera una cifra di stile molto riconoscibile, tecnicamente davvero ben realizzata, magari appunto un po' abusata, dopo qualche puntata effettivamente alcune soluzioni sanno di eccesso (te le buco queste luci al neon, viene da pensare) ma nel complesso la scelta paga e permette al prodotto di tirarsi fuori dalla piatta media destinata ad altre decine di produzioni. Sebbene il ritorno agli eighties sia ormai visto e stravisto lo stratagemma continua a far piacere, tanto più che qui siamo, almeno come ambientazione, negli anni 80 italiani, con le cabine del telefono dell'epoca, gli abiti, le automobili (la Ritmo), etc... mentre in sottofondo spopola la cultura d'importazione, dagli onnipresenti Wham!, vero pallino di Nereo, emulo sfigato del più prestante George Michael, alle Charlie's Angels, dall'Incredibile Hulk di Lou Ferrigno ai cartoni animati giapponesi che si guardavano all'epoca (mica si chiamavano anime). Il vero punto di forza in una storia tutto sommato prevedibile nel finale sta nella caratterizzazione riuscita di alcuni personaggi sostenuti dalla bravura degli attori, su tutti la nonna Lina interpretata da una superba Dora Romano, vista di recente in È stata la mano di Dio e forse troppo poco conosciuta dal grande pubblico, impareggiabile l'accoppiata Nereo (il personaggio migliore a parere di chi scrive) e Assuntina, uno in fissa con George Michael l'altra con il sogno di fare la maga in tv. Alla fine ne esce una storia criminale diversa dal solito, più ingenua nella struttura, meno violenta, molto femminista, con diversi passaggi grotteschi e divertenti; il prodotto è adatto anche per un pubblico adolescente, richiamato dal pezzo indovinato di Madame in colonna sonora (L'eccezione), la serie cresce con il passare delle puntate e senza creare nulla di rivoluzionario offre un ottimo intrattenimento che ha tutte le carte in regola per avere un buon successo. Per ora si chiude qui, con una cascata di smarties, in attesa di una seconda stagione data per certa.

domenica 12 giugno 2022

MALCOLM & MARIE

(di Sam Levinson, 2021)

Malcolm & Marie è un film della pandemia ma non sulla pandemia; girato in pieno lockdown con una troupe ridotta all'osso, il film di Sam Levinson (figlio di Barry) per forza di cose si è dovuto strutturare in interni con due soli protagonisti: Zendaya, che con Levinson stava già lavorando a Euphoria, e John David Washington, figlio di papà Denzel. Nonostante tutte le limitazioni forzate che la produzione ha dovuto rispettare in tempi di Covid, il film di Levinson non da per nulla l'impressione di una realizzazione in povertà di mezzi: il bianco e nero elegante, la casa ammantata di un lusso moderno in cui tutto il film si sviluppa, la regia ben studiata, l'uso della pellicola in 35mm con caratteristica resa visiva, sono tutti elementi che donano a Malcolm & Marie un senso di ricercatezza che diventa un punto nodale della pellicola, fatta per altro solo di dialoghi (o meglio dialoghi e soliloqui) e scontri verbali ai quali si accompagna il (buon) gusto per l'estetica del regista statunitense. Per apprezzare questo film, che ha diviso parecchio la critica, è necessario essere amanti del mumblecore, quel genere di pellicole incentrate sulle chiacchiere, sui dialoghi, è un genere codificato nel quale Malcolm & Marie non si incastra proprio perfettamente, ma l'idea di base è quella, se non amate i film fatti di parole, parole, parole, qui potreste trovarvi un pochino in difficoltà, almeno in alcuni frangenti.

Malcolm (John David Washington) e Marie (Zendaya) tornano nella loro bella casa al termine di una serata trionfale durante la quale è stato presentato l'ultimo film di Malcolm, regista in ascesa e di belle speranze, almeno a quanto dicono le prime reazioni della critica. Malcolm è alle stelle, entra in casa, mette su della buona musica, balla, si muove e ripercorre le fasi salienti della serata rivivendole con la sua Marie. Lei nel frattempo va in bagno, prepara per il suo uomo i maccheroni al formaggio, esce nel giardino a fumare; Marie in realtà non sembra così entusiasta della serata trascorsa, ascolta finanche con una punta di fastidio il parlarsi addosso di Malcolm; certo, per lui è un momento importante, i contatti con quella critica del Times così spocchiosa e che ora sembra ben disposta verso la sua opera, il bel rapporto di lavoro con la protagonista del film, eppure sembra che per Marie di tutta quella serata ci sia qualcosa di sgradito a tormentarla, a impedirle di essere felice per il successo di Malcolm. Dopo lo scoperchiarsi dei primi malumori viene fuori il motivo del malessere di Marie: il suo compagno, grato e cordiale verso tutti, dopo ben centoventisei ringraziamenti, si è scordato proprio di lei, nemmeno una piccola nota a margine all'interno di un lungo discorso nel quale la donna con cui divide la vita è stata completamente ignorata. Da qui una serie di giustificazioni, attacchi e contrattacchi, allontanamenti e avvicinamenti che palesano tutti i problemi non detti di un rapporto intenso, nato e complicato dalla brutta esperienza di lei con la droga, esperienza che è alla base del film di Malcolm e altro motivo di delusione per Marie, ex attrice non scelta per la parte della protagonista dal suo stesso compagno che ora non vuole ammettere che proprio Marie è stata la sua primaria fonte d'ispirazione per la sua storia.

Kammerspiel al massacro (o al chiarimento?) tra due persone che si amano ma che in un momento importante della loro relazione si vomitano addosso di tutto. Quanto è possibile sopportare i giudizi negativi e crudeli dell'altro, della persona che dovrebbe amarci? quanto è possibile fare i conti con sé stessi dopo l'umiliazione del sentire dalla nostra metà verità che magari si cercava di tenere nascoste, anche a sé stessi, e provare a digerire quell'umiliazione e andare avanti con il rapporto? Perché questi sono i tormenti che tornano, le debolezze scoperte, gli egoismi messi sulla piazza (privata) con la consapevolezza che il pensiero dell'altro è tutt'altro che limpido e positivo nei nostri confronti, sono bordate dure da schivare e con le quali convivere. Malcolm e Marie non si risparmiano nulla, i loro scambi di vedute e i loro assoli sono lame taglienti che esplorano gli anfratti bui e tortuosi del loro rapporto e anche argomenti più generali: la critica cinematografica, il ruolo dei registi (artisti in generale) di colore e come questi vengono visti dalla società che gira loro intorno, il punto tra cinema politico e cinema commerciale e altro ancora, prima di tutto resta però lo sviscerarsi di un rapporto tra due persone che, nonostante i difetti e gli errori commessi, a loro modo si amano ancora. John David Washington è un attore molto fisico, riempie bene la scena con la sua prestanza e gestisce al meglio alcune sequenze, pecca un po' sotto il punto di vista espressivo con quel suo broncio rigido, meglio nei fraseggi più esaltati (la tirata, troppo lunga, sulla recensione del film) che in quelli più personali, Zendaya è più misurata, elegante, più in parte. Curiose appunto le divagazioni dal rapporto, con l'accusa a una critica conformista che non distingue una ripresa in steadycam da un carrello, che non è più in grado di giudicare la forma di un'opera limitandosi a facili stereotipi dettati dalla provenienza razziale del regista. Sam Levinson gestisce in maniera ottima gli spazi, segue i protagonisti nel loro allontanarsi e riavvicinarsi ed esalta la fotografia di Marcell Rév di un bianco e nero affascinante e lussuoso. Chiusi in casa, destinati al confronto, il momento storico è lampante; Malcolm & Marie è un ottimo film della pandemia che ci riporta a quel momento senza mai nominarlo e senza catapultarci all'interno delle dinamiche più deprimenti di una delle nostre più nere pagine recenti.

mercoledì 8 giugno 2022

DOCTOR STRANGE NEL MULTIVERSO DELLA FOLLIA

(Doctor Strange in the multiverse of madness di Sam Raimi, 2022)

Ammettiamolo pure, più che il ritorno del Doctor Strange o di Wanda Maximoff, più che l'uscita dell'ennesimo film del Marvel Cinematic Universe, erano in molti tra i fan della Casa delle idee e più in generale di un certo tipo di cinema ad attendere con una certa impazienza il ritorno dietro la macchina da presa di Sam Raimi, il regista della prima trilogia di Spider-Man, quella con Tobey Maguire, insieme a Bryan Singer una delle chiavi di volta che hanno innescato il motore che ha dato il via a un vero e proprio "rinascimento" dei cinecomics. In fondo, a pensarci bene, siamo arrivati a quasi trenta film del MCU usciti nell'arco degli ultimi quindici anni e quanti autori possiamo dire abbiano messo le mani sul materiale Marvel? Forse accadeva più spesso prima del lancio del MCU (Raimi e Singer appunto, Ang Lee), ora abbiamo un Kenneth Branagh, un film diretto da Chloe Zhao, forse potremmo considerare un autore anche James Gunn, comunque legato all'ambito dei cinecomics, e ora di nuovo Raimi. Sono pochi purtroppo i segni di stile riconoscibili all'interno dell'universo Marvel cinematografico, e non è detto che i film diretti da questi registi siano poi i migliori, anzi, sicuramente non lo sono, però, come accade in questo Doctor Strange nel multiverso della follia, le loro visioni permettono di poter ammirare almeno in parte (Disney comanda) un approccio alla materia meno omologato che non può che risultare una boccata d'aria fresca in un panorama sempre più affollato e spesso sempre più uguale a sé stesso. Questo è quel che succede con Doctor Strange nel multiverso della follia, l'appassionato di cinema non potrà non notare quanto Sam Raimi ci sia in questo film, che magari a conti fatti non è nemmeno il film che Raimi avrebbe voluto, questo non lo sappiamo, quel che sappiamo è che con questi brand la libertà di un autore non è mai totale, anzi, così se l'appassionato di solo MCU potrà non notare il tocco del regista per molti altri questo sarà chiaro ed evidente e diverrà uno degli elementi più sfiziosi di un film condotto per la sua quasi intera durata a rotta di collo.

Stephen Strange (Benedict Cumberbatch) si imbuca al matrimonio dell'amata Christine Palmer (Rachel McAdams) che sta per sposare un altro uomo. Durante il ricevimento da un portale da un'altra dimensione appare un gigantesco demone che sembra uscito da un racconto di H. P. Lovecraft, questi è a caccia della giovane America Chavez (Xochitl Gomez), un'adolescente proveniente da un altro universo il cui potere è proprio quello di poter aprire dei portali tra una dimensione e l'altra. Sconfitto il demone con l'aiuto del fido Wong (Benedict Wong) Strange capisce che dietro l'attacco del demone si cela un pericolo di dimensioni ben più vaste, decide così di chiedere aiuto a Wanda Maximoff (Elizabeth Olsen), la "strega" degli Avengers impegnata nel frattempo nello studio del Darkhold (ma Raimi pensa Necronimicon), un libro maledetto, alla ricerca di un incantesimo per mantenere in vita i suoi figli, due bambini creati dalla stessa immaginazione di Wanda (vedere WandaVision). Dato lo scarso equilibrio che contraddistingue Wanda fin da quando ha perso l'amato Visione, invece di essere d'aiuto a Strange la donna vira sempre più verso la sua identità di Scarlet Witch vedendo nella possibilità di viaggiare tra gli universi l'occasione per trovarne uno in cui vivere felice con i suoi figli immaginari. Ne nascerà un peregrinare tra i mondi alla ricerca del libro del Vishanti, un antico testo di magia bianca in grado di contrastare la malvagità del Darkhold. Durante il viaggio, oltre che con Scarlet Witch, Mordo (Chiwetel Ejiofor) e tutta una serie di ghiotti personaggi Marvel, Strange avrà modo di fare i conti anche con il suo complicato rapporto con Christine.

Più che i vari sviluppi della storia in sé, almeno per chi scrive ciò che rimane di questo Doctor Strange nel multiverso della follia è proprio la mano di un regista capace di imprimere al film un tocco personale nonostante gli impedimenti dati dal maneggiare una materia ormai sempre più vincolata ai dettami della produzione. Il film è brioso, molto action, interessante anche perché sulle spalle di Raimi ricade la responsabilità di introdurre nell'universo Marvel (in realtà nel multiverso in questo caso) i due grandi brand che ancora mancavano all'appello per questioni di diritti cinematografici, non facciamo di certo un grosso spoiler dicendo che con la presenza di Patrick Stewart nei panni del Professor Xavier, leader degli X-Men, e quella di John Krasinski in quelli di Reed Richards dei Fantastici Quattro la Disney ha fatto la gioia di molti Marvel fan. Raimi va in continuità con quanto fatto sotto il punto di vista visivo da Scott Derrickson con il film precedente, mettendoci del suo e accumulando una ricchezza visiva che, seppur in chiave moderna, fa pensare allo Strange di Steve Ditko e alle sue derive psichedeliche, curioso il fatto che Sam Raimi abbia portato sullo schermo entrambi i personaggi più iconici creati da Ditko, Stephen Strange appunto e Spider-Man. Il tocco horror/umoristico di Raimi si vede da subito, dalla comparsa sullo schermo del demone Gargantos, imperdibile (e autocelebrativo) il cameo di Bruce Campbell, attore feticcio di Raimi, e poi i movimenti di camera tipici, una sequenza magnifica tra note musicali e magia, lo Strange "zombi", le uccisioni illustri, l'aspetto molto orrorifico di Wanda e di alcuni avversari, insomma, in questo multiverso della follia la firma del regista c'è e se amate Raimi la vedrete tutta. Da tutto ciò ne esce una visione divertente che spalanca definitivamente le porte a qualsiasi operazione i Marvel Studios vogliano realizzare (c'è anche un rimando alla serie d'animazione What If?), il film in sé, preso per la storia che racconta, sembra ormai semplicemente un anello di una catena narrativa infinita dove sempre più tutto è collegato, personalmente sono convinto che per avere prodotti interessanti in futuro ci vorrà sempre più Sam Raimi (nome da sostituire con quello di qualsiasi autore capace di donare tocchi personali ai personaggi) e meno Disney, altrimenti il rischio diventerà l'abitudine o ancor peggio la noia. Per ora gli incassi danno comunque ragione ai Marvel Studios, bene così quindi.

lunedì 6 giugno 2022

THE TENDER BAR

(di George Clooney, 2021)

È molto probabile che in The tender bar non troverete nulla che non abbiate già trovato altrove, durante altre visioni, nelle scorribande tra i prodotti di tanto cinema americano, nelle spedizioni tra le corsie delle vhs già ai tempi dei Blockbuster (la catena), nell'approccio alle narrazioni da coming of age che siano queste cartacee o filmiche poco importa; insomma, in questo The tender bar non c'è nulla di nuovo, eppure dall'approccio alla materia e al libro dal quale il film è tratto, George Clooney tira fuori un film molto partecipato, lieve, capace di toccare lo spettatore senza ricorrere a trucchetti, ricatti emotivi o facili sottolineature viste e riviste nelle biografie di protagonisti provenienti da situazioni svantaggiate o di disagio sociale. Clooney si gioca la carta della normalità mischiata a quella della tenerezza, dell'empatia, dei sentimenti delicati capaci di accompagnare la crescita di un ragazzo che potrebbe essere in contesti diversi uno qualsiasi dei nostri conoscenti, partito magari con qualche difficoltà e al quale il destino ha poi deciso di arridere in qualche misura, in fondo è possibile, magari ad altre latitudini più che dalle nostre parti, ma quella che Clooney mette in scena è una progressione di eventi tutto sommato non troppo comune ma assolutamente credibile.

Dopo essere stata scaricata dal suo compagno e dopo l'ennesima delusione lavorativa, con suo grande rammarico Dorothy (Lily Rabe) si vede costretta a tornare a rifugiarsi nell'affollata casa paterna insieme al figlio J.R. (Daniel Ranieri); la donna vede questa situazione come un fallimento personale, inoltre la casa paterna, che è la casa di una famiglia tutto sommato povera di mezzi, è davvero troppo piena di gente, una ridda di zii e cugini che però per il piccolo J.R., abbandonato dal padre (Max Martini), un dj soprannominato "la voce", è un vero toccasana, soprattutto per la presenza di quello zio Charlie (Ben Affleck) proprietario del bar The Dickens e amante della letteratura che diventerà insieme alla madre la vera figura di riferimento per un bambino che ha passato troppo tempo ad aspettare inutilmente di poter ricostruire un rapporto con quel padre assente. Inoltre Dorothy prova un astio malcelato verso suo padre (Christopher Lloyd), un capostipite a suo modo di vedere le cose incapace di mostrare affetto per chicchessia, una convinzione della quale Dorothy dovrà ricredersi proprio grazie alla presenza di suo figlio J.R. al quale tutti i parenti, nessuno escluso, si affezioneranno molto, compreso i membri di quella famiglia allargata composta dagli avventori abituali del bar di zio Charlie, una seconda famiglia che molto avrà da donare a J.R. lungo tutto il corso della sua giovinezza, anche quando più grande (Tye Sheridan) tenterà di coronare il sogno di mamma Dorothy e di entrare a Yale per costruirsi una carriera sicura.

The tender bar è uno di quei film capaci a fine visione di farti sentire bene, appagato, potrebbe in effetti rientrare in quella categoria oggi nota proprio come feel good movies. Lo fa però con grande sincerità e senza pedanterie o ruffianerie di sorta, Clooney sceglie un approccio stilistico molto classico e lineare potendo contare su un comparto estetico e sonoro favoloso (bellissima la scelta dei pezzi in soundtrack). La ricostruzione dei seventies è impeccabile, gli abiti, le scenografie, tutto riporta indietro nel tempo e ammanta l'intero film di un gustoso sapore nostalgico accentuato dalla figura dello zio Charlie, qui interpretato da un Ben Affleck in una delle sue prove migliori (si ok, non è un grande sforzo, ma qui è stato bravo davvero), un gestore di bar che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più e che coglie l'occasione per evitare all'amato nipote di avere rimpianti in futuro. Il succo è provarci, mettere da parte i timori, le probabilità avverse e provarci. L'amore per la letteratura dello zio si trasferisce al nipote e diventerà la possibilità concreta di intraprendere una carriera nella scrittura, in fondo "l'editoria si sta muovendo verso l'autobiografia", un settore nel quale il protagonista J.R., privo anche di un vero nome, si può spendere senza timore di rimanere senza argomenti. Sono i buoni sentimenti, i legami sinceri, il vero motore di The tender bar, impossibile non commuoversi vedendo quel nonno (falsamente) arcigno, solitamente scalcagnato, scendere le scale vestito di tutto punto per accompagnare il nipote alla colazione con i papà, un nipote impossibilitato altrimenti a partecipare vista l'infame figura paterna che (non) si ritrova. Un grandissimo Christopher Lloyd per la scena in assoluto più bella dell'intero film. Molto indovinata l'atmosfera che si respira nel bar con uno gruppo compatto di clienti sui generis sempre disposti ad aiutare il giovane J.R., un Tye Sheridan molto in parte, e a dargli le dritte per seguire la rotta della vita che porterà il ragazzo a diventare un uomo, in questo aiutato dalle poche regole fondamentali di zio Charlie. Alla fine il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette...

giovedì 2 giugno 2022

STAZIONE TERMINI

(di Vittorio De Sica, 1953)

Agli inizi degli anni 50 Vittorio De Sica è nel pieno della sua epoca d'oro, il regista campano (nato nel frusinate in una Sora all'epoca campana) inanellava capolavori su capolavori; tra la fine del decennio precedente e la metà dei 50 De Sica contribuisce ad accrescere la stima per il cinema italiano in tutto il mondo con titoli come Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D. (1952), L'oro di Napoli (1953) e a fine decennio con La ciociara (1960) confermandosi uno degli autori di punta del Neorealismo italiano; nel 1953, anno d'uscita di questo Stazione Termini, infila un altro grandissimo successo nel ruolo d'attore interpretando la parte del maresciallo Antonio Carotenuto in Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini che avrà poi diversi seguiti. Proprio grazie a questa vena d'ispirazione all'apparenza irrefrenabile De Sica viene contattato per una produzione internazionale: ampio budget garantito dal produttore David O. Selznick (È nata una stella, Via col vento, Notorius e altri Hitchcock notissimi), attori internazionali come Montgomery Clift e Jennifer Jones (spinta da Selznick di cui era la compagna) e italiani già noti (Gino Cervi, Paolo Stoppa, Gigi Reder), un'esperienza diversa che porterà il regista su strade meno abituali di quelle finora percorse per un film dove solo sul finale si potrà ammirare un po' di quel tocco neorealista così apprezzato di De Sica qui stemperato in un melodramma ad ambientazione unica (la stazione Termini appunto) che non rende piena giustizia al vero talento affabulatorio di uno dei nostri massimi autori cinematografici.

Mary Forbes (Jennifer Jones) è una bella donna statunitense a Roma per far visita alla sorella e al nipote Paul (Richard Beymer); durante il soggiorno in Italia la donna ha conosciuto l'insegnante Giovanni Doria (Montgomery Clift) innamorandosene e iniziando con lui una relazione extraconiugale, la donna a Filadelfia ha infatti un marito ad attenderla ed è madre di una piccola bambina. Presa dal rimorso Mary prenota in fretta e furia un treno per Parigi da dove potrà prendere un aereo per tornare a casa, la donna però viene raggiunta alla stazione Termini dall'amato Giovanni che tenta in tutti i modi di convincerla a non partire facendo leva sui sentimenti reciproci e su quell'amore travolgente che c'è stato tra i due. Alla stazione c'è anche per caso il nipote Paul che assisterà a questo strano e inconfessabile rapporto tra i due, compresa una scena madre che rischierà di portare il tutto alla luce del sole. Purtroppo la verità verrà fuori in maniera decisamente più rischiosa, in un paese e in un'epoca in cui alcuni comportamenti non erano ancora tollerati dalla società.

Nel 1953 in Italia l'adulterio era ancora reato perseguibile dalla legge con tutte le conseguenze del caso, soprattutto per le donne, giudicate da una società maschilista più di quella odierna e sbugiardate agli occhi di mariti e figli, bollate come donnacce e magari rovinate per gli anni a seguire. Da questo assunto il punto più interessante del film che a dire il vero è qui solo accennato nella parte finale di Stazione Termini, il film per altri versi si perde in una storia su un rapporto sentimentale illecito e di scarso interesse, purtroppo, dispiace sempre dirlo, qui la mano di De Sica si perde in un approccio che probabilmente il regista non ha sentito suo fino in fondo, costretto nelle gabbie di una produzione internazionale che non gli ha permesso di esprimersi in totale libertà e vincolato anche dalla presenza di star internazionali che non erano certo il piccolo Bruno (Enzo Staiola) di Ladri di biciclette o il Carlo Battisti di Umberto D., tutta un'altra musica da gestire. Nonostante il connubio con Zavattini alla sceneggiatura con il quale De Sica aveva siglato praticamente tutti i successi di cui sopra, Stazione Termini rimane un episodio poco sapido nella filmografia del regista, anche le prove di Montgomery Clift e della Jones non possono dirsi memorabili contribuendo a far affievolire la curiosità per questo De Sica "hollywoodiano" nonostante l'ambientazione romana. La bravura del regista si vede nella gestione delle scene in una location dove non dev'essere stato semplice girare, nell'impossibilità di bloccare la stazione si sono sfruttate le ore serali riuscendo sempre e comunque a dare quel senso caotico di via vai che la stazione richiedeva; il film in sé si può guardare ma con in mente i grandi successi del Nostro un pizzico di delusione è inevitabile. Per chi non conosce i lavori di De Sica diciamo che non si consiglia di  avvicinare l'opera di quello che è stato un vero maestro con Stazione Termini, magari dopo aver visto altro o per mero completismo allora si potrà approcciare anche questo film, l'importante è non aspettarsi un capo d'opera che qui non si troverà.

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