giovedì 30 gennaio 2020

LADY BIRD

(di Greta Gerwig, 2017)

Il passaggio dall'adolescenza all'età adulta non è affatto facile, affannosa sembra in quegli anni la (dis)continua ricerca di sé, nei moti di ribellione, nei rapporti con gli altri, negli screzi familiari e nei trasporti amicali, nella scoperta del sesso, nei primi veri affetti che presto (o forse mai) verranno dimenticati. Nonostante siano in molti ad affrontare questo periodo di passaggio e costruzione in maniera sgraziata e goffa, come fa la Saoirse Ronan protagonista di questo film, la regista Greta Gerwig ci presenta questa sorta di autobiografia romanzata in maniera delicata ma allo stesso tempo sconnessa, affidando a una narrazione episodica e frammentata un percorso di formazione che trova nella somma delle sue parti un'armonia discreta e fluida. Il film è stralunato, dotato di un incedere sghembo e un di uno stile che riconduce alla produzione indie statunitense degli ultimi anni (decenni?), a suggellare questo approccio indubbiamente riuscito, una protagonista altrettanto fuori dai fogli, una giovane ragazza alla ricerca del suo posto nel mondo, determinata nell'affermazione del suo io fino ad assumere un nuovo nome, il Lady Bird del titolo, con la pretesa d'essere così chiamata anche dai suoi stessi familiari, una ciurma scombinata alla quale non ci si può non affezionare subito.

Lady Bird, in realtà il nome è Christine McPherson (Saoirse Ronan), vive a Sacramento, nella zona della città che sta "dalla parte sbagliata dei binari", sua madre (Laurie Metcalf) è un'infermiera spesso costretta ai doppi turni a causa della situazione economica della famiglia, il padre (Tracy Letts) è un uomo amorevole incline a depressioni dovute all'assenza di lavoro, a chiudere il quadro il fratello adottivo Miguel (Jordan Rodrigues) e la sua fidanzata (Marielle Scott), cacciata di casa dai genitori (roba di sesso prematrimoniale) e adottata anch'essa dalla famiglia McPherson. Lady Bird è in una fase di passaggio, frequenta una scuola d'impronta cattolica e ha il desiderio di iscriversi in un college sulla costa est, in modo da iniziare un percorso di formazione che spera trasformerà il bruco in una farfalla libera di volare. Questo suo approccio propositivo (e confusionario) è osteggiato però dalla madre che con la giovane ha un rapporto conflittuale, la donna ha la testa sempre rivolta ai conti di fine mese e non approva l'indole della figlia che vede come pregna d'ingratitudine verso una famiglia in difficoltà e in perenne condizione di sacrificio.


Lo sguardo della Gerwig è tenero e indulgente verso la sua protagonista, così come mostra affetto per i suoi luoghi, per quelle strade di Sacramento che saranno la scena di un cambio di prospettiva, ordinario, non così importante a posteriori, ma pur sempre tappa di un'evoluzione e di una crescita continua che appartiene a tutti quanti noi. A tratti divertente, in altri passaggi commovente, Lady Bird trova un centro nel rapporto madre/figlia a cui danno corpo due attrici in gran forma, un'incontro/scontro nel quale convivono amore, ricerca d'approvazione e distanze varie, come è naturale che sia, tutto intorno la vita di Lady Bird, le amicizie, le infatuazioni, le attività collaterali, le feste, il sesso, tutto raccontato con un tono sommesso ma intrigante. Un'ottimo esito per un'opera seconda da parte della Gerwig che proprio in questi giorni torna in sala con il suo Piccole donne, chissà come adatterà la sua sensibilità femminile a questo classico della letteratura di formazione.

martedì 28 gennaio 2020

THE BOURNE IDENTITY

(di Doug Liman, 2002)

A quasi vent'anni di distanza dall'uscita di questo primo capitolo delle peripezie dedicate al letale Jason Bourne, personaggio letterario creato dallo scrittore Robert Ludlum, si può constatare come The Bourne identity si confermi un film invecchiato decisamente bene. Riguardandolo oggi permane la sensazione di un prodotto ben confezionato, al passo coi tempi, immerso in una narrazione che ha più d'un punto di forza per emergere dal calderone dei film di genere simile. Se nella costruzione della vicenda era già evidente nel lontano 2002 come non vi fosse nulla di troppo originale, nello sviluppo come nei contenuti, di contro il film può contare su una regia competente capace di confezionare al meglio sia le sequenze più dinamiche come il fantastico quanto inverosimile inseguimento in auto, su una Mini scassata tra le strette strade di Parigi, con stacchi e montaggio che donano un ritmo pressante a tutto il passaggio, sia i momenti più riflessivi; ancor più importante lo script concede allo spettatore il raro piacere di godere di una spy-story finalmente comprensibile e per nulla cervellotica. È qui bandita quella spiacevole sensazione che spesso accompagna le storie di spionaggio che ci porta a credere di non aver capito nulla o quasi, o quantomeno di aver perso il filo dello sviluppo, di non aver compreso il ruolo di un personaggio nell'economia dell'intreccio o una serie di particolari necessari a comprendere quel tragitto che porta dal punto A al punto B, e dove nel mezzo solitamente troviamo il caos. In The Bourne identity tutto è felicemente lineare, l'intreccio procede un poco alla volta mettendo sempre in mano allo spettatore tutti gli elementi per apprezzarlo al meglio, alcuni sviluppi possono sembrare anche prevedibili ma anche in questi casi il film compensa con mestiere (quello di Liman ma anche quello di Damon, della Potente, del montatore Klein, etc...) e con il giusto ritmo.


Al largo delle coste di Marsiglia un peschereccio si imbatte in un naufrago privo di sensi;  un uomo con due pallottole nella schiena e un piccolo aggeggio metallico cucito sottopelle. L'uomo riprende in fretta le forze, purtroppo si trova affetto da un'amnesia che non gli permette di ricordare chi esso sia né cosa facesse prima del suo "incidente". La memoria istintiva rivela una conoscenza elevata in fatto di armi e tecniche di combattimento, una propensione a valutare e risolvere in fretta ogni situazione difficile; con il solo indizio dell'oggetto cucitogli sottopelle il giovane che scopriremo chiamarsi Jason Bourne (Matt Damon) dovrà ricostruire il puzzle di quella che è stata in passato la sua vita.

The Bourne identity ha tutte le carte in regola per assolvere al compito dell'intrattenimento senza sconfinare come spesso fanno le spy-story nella denuncia politica o nella ricostruzione storica, questo è un action moderno senza pretese d'autore in mano a gente che semplicemente sa cosa ci vuole per costruire un buon film, solido e senza fronzoli, per chi cerca l'ammiccamento c'è la scena finale che vede protagonisti Matt Damon e la sua partner, la convincente Franka Potente che molti ricorderanno nello straniante Lola corre. La coppia sembra affiatata è può contare sul lavoro di sponda di Brian Cox, Clive Owen e Chris Cooper, un cast esperto che chiude perfettamente il cerchio. Inutile cercare reconditi significati sull'uomo schiacciato dal potere, sulle macchinazioni di Stati implacabili e inaffidabili, più utile sicuramente spegnere la luce sistemare i cuscini sul divano e aprire una birra fresca.

giovedì 16 gennaio 2020

INDIANA JONES E IL REGNO DEL TESCHIO DI CRISTALLO

(Indiana Jones and the kingdom of the crystal skull di Steven Spielberg, 2008)

Ammetto di non aver mai avuto un feeling particolare con la saga di Indiana Jones né tanto meno con il lato più spettacolare di Spielberg, tra le cose che più mi hanno colpito del regista ci sono infatti Schindler's List, Munich, i primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan e via di questo passo. È fuor di dubbio che Spielberg sappia il fatto suo e che il Cinema debba moltissimo a questo autore, nella fattispecie non posso nascondere che con i primi tre film della saga di Indy qualche cedimento io l'abbia accusato (cosa che è accaduta anche sul finale di questo quarto capitolo). Curioso a pochi giorni dalla visione de L'ascesa di Skywalker ritrovare ancora una volta il buon Harrison Ford, ormai invecchiato, vestire i panni di uno dei suoi personaggi più iconici, in fin dei conti (anche se questo film è già di dieci anni fa) si può dire che il ragazzo ancora "tiene botta".

Fatto questo preambolo solo per chiarire che il film non l'ho guardato con gli occhi del fan adorante, si può facilmente affermare come Il regno del teschio di cristallo soddisfi tutte le caratteristiche per essere considerato un pezzo riuscito nella mitologia del professor Jones. Spielberg lavora con un mix di avventura, azione e umorismo che richiede da parte dello spettatore un livello di sospensione d'incredulità forse mai esatto in precedenza, in diversi momenti l'indole del film è quasi cartoonesca, caratteristica questa rafforzata dalla presenza della Dottoressa Irina Spalko interpretata da Cate Blanchett, una sorta di ricercatrice pazza sovietica ma con look da nazi e un piglio del tutto caricaturale, personaggio che sembra uscito da un fumettaccio pulp dei tempi andati. La continuità è garantita invece da Karen Allen nei panni di Marion Ravenwood, già partner di Ford ne I predatori dell'arca perduta, sicuramente un gradito ritorno per tutti i fan di Indiana Jones. Interessante il salto temporale in avanti, dall'ultimo film sono passati quasi vent'anni, gli attori sono invecchiati, la narrazione si sposta quindi negli anni 50. Proprio la ricostruzione d'ambiente dei 50, il college dove Jones insegna, il paese che c'è attorno, i costumi, le auto d'epoca, conferiscono un tocco di novità alla saga e offrono un piacere in più per gli occhi, così come intriganti sono tutte le ricostruzioni dei vari set che richiamano un modo artigianale di concepire la scena, sul versante scenografico personalmente ho molto apprezzato questo quarto capitolo della saga nel quale traspare un amore puro per un Cinema che sta tendendo a scomparire, stiamo sempre parlando di Spielberg e delle maestranze da lui scelte, in particolare lo scenografo Dyas che ha dimostrato talento anche in altre produzioni (Passengers, Inception). Scontata la riuscita della colonna sonora, il tema portante è bello che pronto, nelle mani di Williams il gioco è fatto.


Per i contenuti si guarda a diverse teorie note e argomentate dall'archeologia misteriosa, argomenti spesso trattati anche da Alfredo Castelli e che ben conoscono i fan di Martin Mystère, personaggio che si potrebbe considerare collega di Indiana Jones per più d'un motivo. Si fa cenno a come gli antichi egizi avessero conoscenze e credenze comuni con i popoli del Sud America (continente non ancora scoperto all'epoca degli Egizi), serpeggia la teoria della presenza extraterrestre a influenzare le antiche civiltà terrestri, ma soprattutto c'è la presenza dei teschi di cristallo, reperti realmente esistenti (non proprio come quelli del film) sulla cui origine persistono diversi dubbi. Con questi elementi si imbastisce una trama che schiera in campo i sovietici, eruditi fuori di senno (John Hurt), un potenziale successore per il nostro protagonista (Shia LaBeouf, ma Spielberg sul finale sembra dirci che di Indy ce ne potrà essere sempre e solo uno), teorie fantarcheologiche, l'Area 51, bombe nucleari e ovviamente uno staffile e un cappello.


Cinema dello spettacolo duro e puro, chi ha amato Indy negli Ottanta avrà amato anche questo film che non sposta di una virgola il discorso intrapreso da Spielberg decenni orsono, un prodotto onesto che seppur non mi abbia entusiasmato sembra avere più cuore e calore di tanti Ready player one più moderni.

mercoledì 15 gennaio 2020

STAR WARS: L'ASCESA DI SKYWALKER

(Star Wars: The rise of Skywalker di J. J. Abrams, 2019)

L'impressione generale che si respira guardando questo terzo episodio della terza trilogia dedicata alla saga di Star Wars è che si sia arrivati a questo (temporaneo?) finale in forte debito d'ossigeno. Non che il film sia malvagio, intendiamoci, se si è amanti del brand e non si è fan oltranzisti alla continua ricerca del tradimento ideologico o spirituale da nerd all'ultimo stadio, allora il film di Abrams risulta godibile e raggiunge qualche picco verso l'alto in un paio di sequenze davvero ben riuscite. Di contro bisogna ammettere che di nuovo o anche solo di inaspettato c'è davvero poco, lo sviluppo del film si potrebbe definire "telefonato" come quei tiri fiacchi verso la porta avversaria che abbondano nei campetti di provincia. Eppure il dispiego di forze è colossale, Disney è ormai un impero dai mezzi spropositati, proprio come quello di Star Wars (forse altrettanto malvagio se lo vediamo in un'ottica di pluralità dell'entertainment), l'immaginario in campo è potente, star e regista di primo piano, effetti speciali e soldi come se piovessero... insomma, l'unico limite sembrano essere proprio le idee. Va sottolineato come chiunque si faccia carico di scrivere e dirigere un film di questa portata debba anche sottostare a una pressione inverosimile dovuta a un fandom scalmanato e mai completamente soddisfatto, la tentazione di guardare sempre al mito (la trilogia originale) è dunque forte, con la conseguenza di muoversi verso il passato più che come sarebbe auspicabile verso il futuro, riciclando idee vecchie e fallendo anche nel tentativo di creare sorprese che non scaldano più di tanto gli entusiasmi e in quello di dare dinamicità alla trama con dipartite plurime, alcune scontate e già messe in previsione dallo spettatore (che Carrie Fisher ci avesse lasciato purtroppo lo sapevamo tutti), altre solo apparenti e alle quali nessuno crede, difficile che in un momento in cui per forze di causa maggiore il brand si deve privare di molte sue pedine importanti ne vada ad eliminare anche altre ancora sfruttabili in futuro.


Ne L'ascesa di Skywalker viene portato a compimento il lavoro iniziato nei film precedenti sul tormentato personaggio di Kylo Ren (Adam Driver) che trova la sua giusta quadratura, mentre viene finalmente data una collocazione all'interno della mitologia di Star Wars anche alla giovane Rey (Daisy Ridley), troppo potente nella Forza per essere figlia di semplici rigattieri, di scarso interesse purtroppo i nuovi personaggi come Jannah (Naomi Ackie) e Zorii Bliss (Keri Russell sotto la maschera) con potenzialità che si vedrà se verranno sviluppate in futuro, più sentiti i momenti in cui compaiono Lando Carlissian (Billy Dee Williams), Leia (Carrie Fisher), Han (Harrison Ford) e Luke (Mark Hamill), quasi una passerella di vecchi amici che passano per l'ultimo saluto, il problema è che questi offuscano protagonisti come Finn (John Boyega) e Poe Dameron (Oscar Isaac) che ancora non hanno sviluppato il carisma necessario per tenere in piedi da soli la baracca (e per fortuna c'è Chewbe). In positivo da segnalare almeno il rapporto in crescendo tra Ray e Kylo Ren e la loro battaglia tra le tumultuose onde di un mare in tempesta, sequenza spettacolare con un paio di code toccanti e commoventi (almeno per chi ha un po' di affetto per questa saga).

L'ascesa di Skywalker è semplicemente un altro tassello del mito, non lo tradisce, nemmeno ne rinverdisce i fasti dei tempi migliori, ma per questo tipo di saghe un ulteriore tassello a volte basta. Basta per aprire a "una nuova speranza", dando ai fan consapevolezza che altro potrà arrivare, magari sarà migliore, forse no, nel frattempo si dice in giro che The Mandalorian sia il miglior prodotto targato Star Wars creato da un po' di tempo a questa parte, e quindi il mito non è morto, e quindi...

giovedì 9 gennaio 2020

PAGINE DAL LIBRO DI SATANA

(Blade af Satans bog di Carl Theodor Dreyer, 1920)

Un film muto del 1920 lo si guarda per diversi motivi: per studio, per passione o per grande curiosità. Tutte queste ragioni presuppongono un amore di un certo tipo nei confronti della settima arte; Pagine dal libro di Satana, pur risultando moderno se contestualizzato all'epoca in cui è stato girato, sta ovviamente agli antipodi del Cinema dei giorni nostri per tutta una serie di ovvi motivi. Immaginiamo ora uno spettatore d'oggi messo a sua insaputa (perché volontariamente mai) nella condizione di dover assistere alla visione di questo film (magari invitato da un amico cinefilo), ieri ha visto Tolo tolo di Zalone, o Avengers: Endgame, o anche The irishman, poco importa... si siede e si trova davanti a due ore e più di film in bianco e nero (ostacolo quasi insormontabile per una parte del pubblico più giovane), muto (inconcepibile), in 4:3 (e pare anche più stretto), senza nessuna battuta del cazzo né frasi ad effetto (peggio mi sento), in più deve tenere desta l'attenzione perché se no si rischia di perdere i fotogrammi con le descrizioni degli avvenimenti (qui ci viene incontro l'abitudine ai sottotitoli), il tema è mistico/religioso (pensieri di suicidio prendono forma), alcuni passaggi non sono chiarissimi. Perché questo preambolo? Solo per chiedersi quanto pubblico è davvero curioso di conoscere, anche solo in parte, cosa c'è stato prima del Cinema moderno, quanto pubblico è disposto ad affrontare qualcosa di ostico semplicemente per il piacere della conoscenza, per pura curiosità?


Superato l'ostacolo mentale, un film come Pagine dal libro di Satana di Dreyer, considerato uno dei maggiori cineasti della storia del Cinema, si rivela meno respingente di quanto fosse lecito supporre. Intanto è un film diviso in quattro segmenti ambientati in epoche diverse e che raccontano altrettante storie, cosa che permette anche allo spettatore più riluttante di approcciare la materia prendendosi le giuste pause in caso di bisogno, se si guarda al film con la curiosità dello storico o semplicemente con quella di chi gode di qualcosa di diverso, anche il rischio di tedio è presto scongiurato. I quattro segmenti sono legati dalla presenza di Satana (Helge Nissen), angelo che ha tradito/deluso Dio e quindi da esso viene maledetto, condannato a operare il male, una condanna che si protrarrà nel tempo per ogni anima corrotta e traviata, diminuirà di entità per ogni uomo/donna che riuscirà a resistere alle tentazioni del maligno, ma si sa, la carne e l'animo sono deboli... la condanna sembra essere senza fine. La riflessione cardine sulla quale è interessante soffermarsi è quella sulla predestinazione del male, in alcuni passaggi si ha quasi pena di Satana, un personaggio che sembra sinceramente pentito e afflitto ma che trova in un Dio privo di misericordia una volontà inflessibile che giorno dopo giorno lo condanna, ancora e ancora, alla strada del male, così come lo stesso Satana, nel primo segmento, condanna Giuda (Jacob Texiere) al tradimento del Cristo (Halvard Hoff). I segmenti successivi sono ambientati all'epoca della feroce inquisizione spagnola dove Satana travierà un giovane frate portandolo a gesti atroci, ci si sposta poi in epoca post Rivoluzione Francese dove un nuovo tradimento porterà alla morte della Regina Maria Antonietta (Tenna Kraft), si chiude infine con la guerra civile finnica del 1918 legata alla guerra Franco-russa. In tutti gli episodi dietro il male si cela la mano di un Satana privo di libero arbitrio.


Esteticamente formidabile (siamo nel 1920), ogni singola inquadratura di Dreyer sembra essere costruita per fotografare un piccolo set, gli esterni che si percepiscono essere reali non sono molti, il lavoro di ricostruzione sugli ambienti, sui costumi e finanche sui caratteri somatici da utilizzare per i vari popoli attraverso la giusta scelta degli attori, appare minuzioso e studiato, mai casuale. Indovinata la scelta di Niessen che ha il volto giusto per portare sullo schermo un Satana perfido ma anche quello più sconsolato nella sua impotenza di fronte a Dio, curioso vedere come la canonica bellezza che oggi si ricerca in attori e attrici qui non trovi luogo. Interessante osservare come Dreyer focalizza l'attenzione dello spettatore su ciò che maggiormente gli interessa ampliando e restringendo il campo visivo di quest'ultimo attraverso un effetto di chiusura e allargamento circolare, così come almeno in una sequenza realizza la sparizione di Satana in una maniera che all'epoca non deve essere passata inosservata.

Può apparire strano pensare a come soluzioni ed effetti che a noi sembrano ormai vetusti all'epoca suscitavano meraviglia in un pubblico che godeva di un'arte che muoveva i suoi primi passi (rispetto ad altre lo sta ancora facendo), è proprio in quest'ottica che ogni espediente, ogni passaggio di opere come questo Pagine dal libro di Satana andrebbero ammirate, per mettere in prospettiva ciò che è venuto dopo e apprezzare al meglio film che nella loro epoca, amati o meno dal pubblico, in qualche maniera potevano considerarsi all'avanguardia o addirittura precursori di cose a venire.

mercoledì 8 gennaio 2020

ATTRAVERSO IL SEGRETO

(di Mario Barale, 2018)

Torna Nanni Baretti, l'ex Commissario di Polizia ormai in pensione creato da Mario Barale lungo le pagine del suo primo romanzo, All'ombra del salice; torna con una nuova avventura ambientata tra Torino e l'astigiano, approfondendo temi che nel primo libro dedicato a questo piemontese vecchio stampo avevamo solamente annusato nelle sequenze finali. Nonostante Attraverso il segreto sia leggibile tranquillamente come libro a sé stante, quello di Baretti è un vero e proprio ritorno, il consiglio è quello di approcciare le sue avventure leggendo i libri in ordine d'uscita, perché se in questo episodio non abbiamo particolari legami con il libro d'esordio, non di meno sono presenti riferimenti, battute che il lettore occasionale potrebbe non godersi appieno, così come si assiste al ritorno di alcuni comprimari come quello del Commissario Caruso o quello della sorella di Baretti, la paziente e affezionata Adelina, meglio presentati nel romanzo precedente.

Già da questa seconda prova l'autore cesella un lavoro d'evoluzione sui personaggi, almeno nei loro rapporti, Baretti pur mantenendo il suo carattere diretto appare meno burbero che in passato, soprattutto nei confronti di quel terún del Commissario Caruso al quale ormai lo lega un profondo legame d'amicizia e di stima reciproca, cementificato dalle passate esperienze condivise nell'avventura ai Tetti Grigi, un rapporto che rende il collega più giovane uno di famiglia, nonostante la sua deprecabile abitudine ai parcheggi azzardati e la sua origine lontana dai territori che furono dei Savoia. Lo stile di scrittura acquisisce maggior sicurezza e dinamismo donando a questo secondo romanzo una velocità di lettura incredibile (il libro si lascia leggere in due/tre giorni), ancora una volta è possibile ammirare tra le pagine alcune illustrazioni dello stesso Barale che cura in prima persona anche le realizzazioni delle copertine dei suoi romanzi.

Per la prima quarantina di pagine di Baretti non v'è traccia, la storia si apre nel quartiere Santa Rita di Torino con Gino Martini, un restauratore di mobili ormai in pensione che partecipa alla vendita all'asta di quel che rimane del patrimonio del suo ex datore di lavoro, da poco deceduto e in possesso di una discreta collezione di mobili d'epoca. Per un caso fortuito più che per abilità o disponibilità economica, il Martini si aggiudica una vecchia angoliera del 1700, forse non il pezzo più pregiato a disposizione ma indubbiamente quello più curioso, un pezzo che fa gola anche a gente poco raccomandabile. In seguito agli accadimenti occorsi al Martini, amico di vecchia data di Baretti, quest'ultimo viene coinvolto in un'indagine alla quale prenderà parte anche Caruso e che porterà il "dinamico duo" a confrontarsi con l'ambiente degli antiquari e con quello dell'esoterismo piemontese.

In Attraverso il segreto il thriller si tinge di sovrannaturale, aspetto che ne L'ombra del salice era solo lambito seppur con una certa rilevanza almeno in una sequenza del libro, qui Barale ci conduce in territori ancora inesplorati tratteggiando personaggi e situazioni proprie di una Torino, e in generale di un Piemonte, più oscura e nascosta, costruendo un finale, senza rivelare nulla, più vicino ai topoi narrativi dell'horror che a quelli del giallo. Seconda prova superata, non ci resta che vedere come se la caverà Nanni Baretti ne Il borgo dei pazzi.

lunedì 6 gennaio 2020

NEMICO PUBBLICO

(Public enemies di Michael Mann, 2009)

Michael Mann con Nemico pubblico ricostruisce l'epica del gangster movie ambientato negli anni della Grande Depressione, lo fa scegliendo di raccontare le vicende di John Dillinger, figura più volte narrata al Cinema anche da registi di peso, vedi il Dillinger di John Milius del 1973 ad esempio. È proprio l'afflato epico a caratterizzare il film di Mann che ammanta di romanticismo la figura del bandito, a partire dalla scelta di Johnny Depp per interpretare il protagonista, attore notoriamente incline a suscitare il fascino del pubblico non solo femminile. Sotto i riflettori anche l'intensa storia d'amore di Dillinger con la bellissima (almeno nell'interpretazione della Cotillard) Billie Frechette, ragazza di umili origini disposta a correre più di un rischio per quello che diverrà fuor d'ogni ombra di dubbio il "suo" uomo. E ancora, la figura del rapinatore di banche viene resa mitica agli occhi dell'opinione pubblica anche dalla stampa, la gente dell'epoca vedeva in Dillinger una sorta di simpatico e affascinante Robin Hood che rapinava solo i ricchi (le banche) pur senza avere lo scopo di donare ai poveri, che perlomeno non erano l'obiettivo delle sue mire (il vero Dillinger pare bruciasse i registri dove erano conservati i debiti dei poveracci liberandoli dai loro obblighi). Il confronto tra la banda di rapinatori e la task force creata per metter loro il sale sulla coda, la nemesi avvincente personificata nell'agente speciale Melvin Purvis (Christian Bale), sono il tocco finale per la costruzione del perfetto film hollywoodiano, graziato anche da un lavoro su costumi, fotografia e scenografie da mozzare il fiato. Ciliegina sulla torta, dietro la camera c'è Michael Mann e non servirebbe aggiungere altro.


Esteticamente perfetto, anche dal punto di vista della narrazione il film di Mann inquadra John Dillinger come effettivamente era percepito all'epoca dei fatti messi in scena, la visione romantica ed epica della vicenda rispecchia l'indole non violenta del bandito, vanificata in parte dall'alleanza con il privo di scrupoli Baby Face Nelson (Stephen Graham), e quella motivata da esigenze opportunistiche di un giovane J. Edgar Hoover (Billy Crudrup) di farsi un nome e di ottenere fondi e credito per la sua organizzazione: il Federal Bureau of Investigation. A questo scopo sulla tracce di Dillinger, eletto nemico pubblico n. 1, metterà il suo agente migliore, Melvin Purvis, al quale affiancherà su precisa richiesta dello stesso agente un paio di mastini davvero tosti tra i quali il fondamentale Charles Winstead (Stephen Lang). Sono proprio questi personaggi di contorno a donare vivacità e profondità a una storia nota, trattata già da Milius con maggiore durezza e senza ricorrere all'epica criminale, resta da vedere quale delle due versioni sia la più adesa alla realtà, indubbiamente il film di Mann è capace di conciliarsi meglio con il grande pubblico, offrendo quella narrazione coinvolgente e spedita, capace di catturare l'attenzione di chiunque, che il film di Milius non aveva.

Interessante assistere all'ascesa dei G-men del Bureau, ai loro metodi violenti almeno quanto quelli dei banditi, vedere l'utilizzo della stampa al fine di montare il caso e procurare pubblicità all'operato dei federali, così come è interessante capire il ruolo che già allora era dominante della malavita organizzata che non voleva fastidi dalle operazioni di un singolo cane sciolto come poteva essere Dillinger, ancor più se capace di catalizzare le attenzioni di stampa e autorità. A conti fatti Nemico pubblico è quello che ci si aspetterebbe da un film di Hollywood di alto profilo che può contare su maestranze di livello e un cast di primo piano, più facile centrare il bersaglio che sbagliare con determinati nomi coinvolti in un progetto.

domenica 5 gennaio 2020

CRONACA NERA

(Buzz M for murder e Clash by night di James Ellroy, 2017/2018)

Seguendo James Ellroy da tanti anni e avendo letto tutti i suoi romanzi e le sue raccolte di racconti ho imparato cosa aspettarmi da ogni sua nuova uscita, soprattutto nell'ultima fase della sua carriera, e a dividere le sue opere tra alimentari e monumentali, spesso risapute e a volte quasi superflue le prime (tranne alcune eccezioni, vedi Caccia alle donne per esempio), quanto avvincenti e dirompenti le seconde. Negli ultimi anni Ellroy è sempre stato impegnato in qualche grosso progetto, di quelli che per ovvie ragioni richiedono tempo e dedizione, attualmente ha in ballo la seconda Quadrilogia di Los Angeles di cui il Perfidia del 2014 è stato il primo fondamentale tassello (e un secondo dovrebbe uscire proprio quest'anno). Nel frattempo l'autore losangelino si dedica a progetti minori che a mio avviso hanno principalmente lo scopo di far cassa nei periodi che intercorrono tra la pubblicazione delle sue opere monumentali, veri e propri tomi dalla mole capace di intimorire e dalla qualità innegabile. Questo Cronaca nera risulta essere proprio uno di quei riempitivi, indubbiamente piacevoli da leggere, ma che nulla aggiungono allo stile che Ellroy ha affinato negli anni né a quella che è diventata a tutti gli effetti la sua storia americana segreta e sotterranea, un'epopea in cui fatti e personaggi reali sono interconnessi alle vicende degli uomini e delle donne creati da Ellroy stesso, in un impasto avvolgente e dal fascino incredibile che ha pochi eguali nelle letteratura americana moderna.

In questo libro di un centinaio di pagine che Einaudi pubblica al prezzo di 12 euro (sinceramente troppi per quel che offre) Ellroy ci racconta in modo cronachistico due celebri casi di nera che afflissero i dipartimenti di polizia delle due città più imponenti d'America: New York e Los Angeles. I casi sono quello del doppio omicidio di Janice Wylie e Emily Hoffert, due giovani rampolle della New York per bene, avvenuto il 28 agosto 1963, lo stesso giorno in cui Martin Luther King tenne il suo famoso discorso a Washington in occasione della marcia per il lavoro e la libertà, e quello dell'uccisione di Sal Mineo, attore di Hollywood che recitò al fianco di James Dean in Gioventù bruciata e in altre pellicole del periodo. Entrambi i casi sono narrati dal punto di vista di un componente del corpo di polizia, un narratore impersonale che rappresenta qui tutto il dipartimento di polizia competente, mettendone in evidenza le procedure, le mancanze, gli errori, gli abusi e i sensi di colpa per le scelte sbagliate prese nella gestione dei due casi. Lo stile di Ellroy è quello secco che abbiamo già imparato a conoscere quando si occupa di ricostruzione dei fatti: incalzante, stringente, diretto. Il lettore uso alla prosa dell'autore ci riconoscerà tutte le sue ossessioni, prima su tutte quella dell'amore quasi viscerale degli agenti per le giovani vittime del caso Wylie/Hoffert, approccio che deriva dai tragici fatti che Ellroy visse in prima persona all'epoca dell'omicidio della madre e che ricorrono in diversi suoi romanzi e personaggi, da Dalia nera in avanti. Torna inevitabilmente per il secondo caso l'ambiente delle celebrità di Hollywood con tutti gli altarini segreti che queste si portano dietro nei racconti dello scrittore, tra uso di stupefacenti, omosessualità, relazioni illecite, etc...

Indubbiamente quando ci si immerge nella relazione dei casi la lettura prende la mano, Cronaca nera è un libro che si legge in uno/due giorni, Ellroy sa come scrivere e come catturare l'attenzione del lettore, assistere per un'altra volta ancora ai metodi illeciti della polizia, all'ossessione degli ispettori per le vittime, al lato poco chiaro di Hollywood sono tutte cose che riportano i fan di Ellroy a casa, non di meno, soprattutto se si considera il prezzo del libro, c'è da dire che non c'è davvero nulla di nuovo in quest'opera che rimane valida principalmente per il fan completista. Chi segue l'autore da tempo sarà ormai scafato e da queste uscite, come capita a me, più o meno ha imparato cosa aspettarsi e ovviamente non potrà fare a meno di acquistare comunque l'ultima opera del suo scrittore preferito. Così vanno le cose.

sabato 4 gennaio 2020

IO SONO LI

(di Andrea Segre, 2011)

Andrea Segre giunge all'esordio di finzione dopo una comprovata esperienza nel documentario del quale anche Io sono Li riprende un poco il passo, i temi sono quelli naturali per una terra di confine come l'Est Italia del quale Segre è originario: immigrazione, lavoro, accoglienza, integrazione, rapporti umani. Attivo già da più di dieci anni al momento dell'uscita di questo film, il regista sceglie per la sua prima prova a soggetto un tono discreto, un andamento placido come lo sciabordio delle acque della laguna chioggese, paesaggio nel quale è ambientata la gran parte di questo film. Io sono Li ha un rapporto strettissimo con gente e territorio, in termini più ampi con i territori, anche quelli più lontani, caratteristica che si percepisce da subito nella scelta di una recitazione che rispetta gli idiomi, i dialetti cinesi della protagonista Li e dei suoi colleghi, ma anche il veneto degli abitanti di Chioggia così come le espressioni cariche di inflessione di Bepi, immigrato ormai da trent'anni dalla ex Jugoslavia. Segre lavora bene con i suoni (necessari i sottotitoli), ancor meglio, grazie anche all'apporto della bella fotografia di Luca Bigazzi, sul paesaggio, sul territorio e prevalentemente sull'acqua, per la conformazione fisica di Chioggia, per il mestiere dei protagonisti maschili che sono pescatori, per un rapporto stretto con la laguna che per Li è occasione di ricordi, di collegamento con il mare della sua terra lontana (anche il padre in Cina è pescatore).

Shun Li (Zhao Tao) lavora sotto padrone nella periferia di Roma in attesa di ripagare il suo debito con l'organizzazione che le ha permesso di arrivare in Italia, con i proventi del suo lavoro attende anche di poter portare il suo bambino di otto anni a stare con lei, quando questo avverrà solo i suoi "padroni" possono deciderlo. Proprio loro comunicano a Li che il suo lavoro dovrà proseguire in veste di barista in una piccola osteria di Chioggia, città dove la donna cinese avrà una stanza e imparerà poco a poco mestiere e lingua. Con il passare del tempo Li si ambienterà a Chioggia e inizierà a prendere confidenza con i frequentatori più abituali dell'osteria, in prevalenza pescatori, tra i quali ci sono il prossimo alla pensione Coppe (Marco Paolini), il vecchio Baffo, l'Avvocato (Roberto Citran), il poco di buono Devis (Giuseppe Battiston) e il poeta Bepi (Rade Šerbedžija), anche lui pescatore, ex jugoslavo residente da trent'anni in Veneto, con il quale Li intesserà un rapporto che andrà oltre il mero sentimento di rispetto e amicizia. Proprio il rapporto con Bepi e le voci che in paese iniziano a circolare in merito metteranno i bastoni tra le ruote ai programmi di ricongiungimento di Li con il suo bambino.


Caratteristica apprezzabile in questo film è l'indovinata scelta del cast, un gruppo d'attori d'esperienza che si adatta all'andamento della storia e al territorio narrato con una naturalezza magistrale, fa piacere vedere Rade Šerbedžija utilizzato in un ruolo toccante e profondo in cui l'attore croato si trova a meraviglia, per una volta lontano dallo stereotipo del malavitoso russo o dell'est, ruolo nel quale mi è capitato di vederlo più volte impiegato. Fondamentale la visione di Segre sui luoghi, le riprese in mare aperto, l'acqua alta sulla terraferma, gli interni poveri, la routine dell'osteria, tutto riporta a un reale capace però di far correre anche l'immaginazione. Con tocco delicato il regista affronta temi come quello dell'integrazione ma soprattutto quello della limitazione delle libertà di chi, straniero in un paese non suo, è costretto a sottostare al gioco di sfruttatori disonesti, lo fa attraverso i sentimenti, la vicinanza con il prossimo, i gesti piccoli, le parole gentili e uno sguardo aperto e orientato a colmare le distanze.

giovedì 2 gennaio 2020

FIRMA AWARDS 2019 - I FILM

Chiudiamo questa tornata di classifiche con la categoria più corposa, quella dei FILM del nuovo millennio, tutti lungometraggi che ho visto per la prima volta nel corso di questo 2019; difficile scegliere le varie posizioni in classifica (prendetele un po' così...), inoltre sono rimaste fuori dalla selezione molte opere degne di interesse, ma che ci possiamo fare... non si può mica premiare proprio tutti. La selezione è stata fatta su un totale di film visionati di poco inferiore al centinaio di unità, nelle scelte ha influito un pochino anche la visione in sala delle uscite più interessanti di quest'anno andando a favorire un pochino i film più recenti. Comunque, bando agli indugi, andiamo ad incominciare, magari ci si riserva la possibilità di segnalare più avanti qualche fumetto ma senza classifiche, giusto così, tanto per...

Bene, categoria con ben quindici posizioni da scalare, vi chiedo un poco di pazienza, scelte filtrate ovviamente dal gusto personale, alcune decisioni difficili da prendere, ed eccoli qui i magnifici quindici... (ricordo un'ultima volta, film dal 2000 in avanti che io ho visto quest'anno).

Quindicesimo classificato:
BlackKklansman di Spike Lee (2018)
Torna Spike Lee ad alti livelli nel suo caratteristico miscuglio di grottesco, ironia e denuncia sociale per una storia non solo di orgoglio black. Da queste parti il vecchio Spike lo si ama.



Quattordicesimo classificato:
La la land di Damien Chazelle (2016)
Produzione sfarzosa per il rilancio del musical hollywoodiano vecchio stile, operazione riuscita, attori in parte (anche se il musical forse non è il loro genere d'elezione) per un film romantico e decisamente piacevole.



Tredicesimo classificato:
In ordine di sparizione di Hans Petter Moland (2014)
Film innervato nelle nevi norvegesi, parte come un revenge movie ma assume presto i toni grotteschi della commedia postmoderna con malavitosi, sopra le righe e irresistibili, alcune scene (come quella finale) rimangono nella memoria.



Dodicesimo classificato:
Il corriere - The mule di Clint Eastwood (2018)
Il grande vecchio non tradisce, Clint confeziona un'altra opera pregevole abbandonando però i suoi toni oltremodo drammatici per spruzzare d'ironia il suo Cinema classico di qualità. Irresistibile e ancora al lavoro.



Undicesimo classificato:
Baby driver - Il genio della fuga di Edgar Wright (2017)
Uno di quei film adrenalinici e originale che danno soddisfazione e ti stampano un bel sorriso da ebete in faccia. Uso magistrale della musica, non una semplice colonna sonora, ad avercene...



Decimo classificato:
Dogman di Matteo Garrone (2018)
La storia del canaro della Magliana ritratto da un regista che si prende le sue libertà ma sa come descrivere uomini e soprattutto luoghi. Bellissima fotografia del disfacimento, il Cinema italiano che vorremmo vedere più spesso.



Nono classificato:
Lebanon di Samuel Maoz (2009)
Grande regia per un film ambientato e ripreso interamente dall'interno dell'abitacolo di un carro armato israeliano. L'orrore della guerra e le paure e le emozioni di quattro giovani ragazzi. Spietato e necessario.



Ottavo classificato:
Youth - La giovinezza di Paolo Sorrentino (2015)
Film che unisce le accortezze barocche della regia di Sorrentino a sentimenti ed emozioni comuni a tutti, nonostante si racconti la vita di due anziani privilegiati interpretati da due grandissimi: Keitel e Caine. Se non ai livelli de La grande bellezza poco ci manca.



Settimo classificato:
Animali notturni di Tom Ford (2016)
Altro esteta dell'inquadratura, non per nulla Tom Ford arriva dal mondo della moda. Ma oltre all'aspetto esteriore c'è una storia dura e dolorosa che non mancherà di serbare colpi fino allo struggente finale. Denso e profondo.



Sesto classificato:
Arrival di Denis Villeneuve (2016)
Ottimo film sulla comunicazione (travestita solo da fantascienza) che apre spunti di riflessione interessantissimi. Ancora la Adams nel 2016 in un anno di grazia pura.



Quinto classificato:
Nebraska di Alexander Payne (2015)
Un Bruce Dern da conservare per sempre incorniciato in un bianco e nero magnifico. Il viaggio di un vecchio alla ricerca di una fantomatica vincita in denaro. Il rapporto coi figli, la vecchiaia, la vita. Grande film.



Quarto classificato:
Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck (2006)
Bellissimo spaccato nella vita della Germania divisa, prima del crollo del muro quando il popolo dell'Est doveva vedersela con la Stasi e con la mancanza di libertà. Sprazzi d'umanità in un contesto dittatoriale. Quest'anno è caduto a fagiolo.



Terzo classificato:
Carnage di Roman Polanski (2011)
Unità di luogo e di tempo, sembra teatro ma è grandissimo Cinema. Attori e regia perfetti per un gioco al massacro verbale irresistibile, materia non facile da gestire, ne esce un capolavoro in interno.



Secondo classificato:
Joker di Todd Phillips (2019)
Grandissimo film su solitudine, malattia, emarginazione e disagio in una società sempre più indifferente e in ginocchio. È Gotham ma è il mondo, il protagonista è un pazzo ma alla fine si parteggia per lui in più d'una occasione. Phoenix verso l'Oscar? Grandissimo film.



Primo classificato:
C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino (2019)
Apprezzatissimo ma forse meno di quanto avrebbe dovuto, se non è proprio Il Cinema, è almeno tutto l'amore per esso, tornano il revisionismo storico e la cifra stilistica di Tarantino. Il suo giocattolo definitivo ma anche la sua definitiva maturazione probabilmente.

mercoledì 1 gennaio 2020

IL LIBRO DEI MORTI VIVENTI

(Book of the dead a cura di John Skipp e Craig Spector, 1989)

Visto il continuo calo qualitativo del serial The Walking Dead, che oscilla ormai tra il soporifero e l'irritante, e la dipartita da qualche annetto di George Romero, i fan dei morti viventi sono costretti a orientarsi verso altri lidi per la loro dose periodica di carne putrefatta. Un'ottima alternativa potrebbe essere il recupero di questa antologia datata 1989 e curata da Skipp e Spector che raccoglie una serie di racconti a tema realizzati da noti (più che altro oltreoceano) scrittori d'horror e fantascienza. I nomi coinvolti in questa interessante iniziativa saranno magari familiari ai fan del genere ma, salvo alcune eccezioni, parliamo di autori le cui opere sono per la maggior parte inedite nel nostro paese, eccezion fatta per un paio di pezzi da novanta di fama universale. Sulla copertina del libro campeggia enorme il nome di Stephen King, traino commerciale infallibile, non compare invece quello di Joe R. Lansdale che probabilmente all'epoca della pubblicazione del libro da parte di Bompiani ancora non godeva qui da noi della fama che oggi accompagna lo scrittore texano. C'è da dire che la qualità media si rivela più che soddisfacente, davvero poche le cadute di tono per una serie di racconti che va a comporre una lettura davvero piacevole. Nelle intenzioni dei curatori del libro c'era quella di spostare un poco l'asticella per quel che riguardava il racconto di zombie sul finire degli anni 80, non necessariamente verso l'alto avendo come modello e predecessore George Romero, uno difficile da scavalcare, ma andando a spostare l'asticella almeno lateralmente, spesso virando al truce e sconfinando nel genere definito splatterpunk, roba da cruda macelleria. Questo scarto non è presente in tutti i racconti ma le sequenze forti non mancano, fermo restando che gli autori più noti non si discostano (fortunatamente) dal loro solito modo di narrare. Ma vediamo in concreto cosa offre questa raccolta.

Dopo una prefazione a opera dello stesso Romero e un'introduzione dei due curatori, l'apertura è affidata al breve racconto Fioritura di Chan McConnell, autore forse tra i meno noti del lotto. Come in altri racconti il morto vivente qui gode ancora di un minimo di coscienza e di autonomia nelle azioni, l'impianto del racconto non offre nulla di realmente eccezionale ma è una buona presentazione, breve e truce al punto giusto per mettere il lettore nella giusta predisposizione d'animo per affrontare il resto della lettura. Richard Laymon con La mensa ci presenta una sorta di thriller con serial killer che coglie nel segno, un racconto buono per una trasposizione su pellicola. Meno interessante il racconto di Ramsey Campbell che ci traghetta verso Parto in casa di Stephen King, racconto più corposo dove emerge lo stile del re e dove una debole donna dovrà fare i conti con la sua indecisione in un mondo ormai finito sottosopra. Non stona vicino al racconto del re quello di Edward Bryant Un triste ultimo amore allo snack dei dannati, provincia americana e atmosfere kinghiane per un racconto molto classicheggiante. Scelte di Glen Vasey offre una narrazione più introspettiva che mette il protagonista di fronte a quello che un uomo scopre di essere nel momento del pericolo e dell'emergenza, uno dei fondamenti che aveva reso così interessanti le prime stagioni di The Walking Dead. Segnalazione particolare per Meno di Zombi (Less than zombie) di Douglas E. Winter che riprende in chiave non morta il celebre romanzo di Bret Easton Ellis Meno di zero, con una compagnia di amici senza valori apatici anche nei confronti di un mondo andato in malora, esperimento decisamente sfizioso. Parecchio riuscito anche il più lungo Come cani di Pavlov di Steven R. Boyett dove un'ecosfera autosufficiente nata per scopi scientifici si trova a essere uno dei baluardi della civiltà come la conoscevamo prima dell'avvento dei morti. Sassofono di Nicholas Royle vede uno dei morti più coscienti e consapevoli del lotto muoversi in uno scenario post bellico dell'est Europa. Lansdale non delude, fin dal titolo, Nel deserto Cadillac con i morti: un cacciatore di taglie e un farabutto nel mondo posteriore alla guerra tra Cadillac e Chevrolet devono affrontarsi e affrontare un nuovo culto, fatto di suore arrapanti, zombie ammaestrati a lodare il Signore e il loro capo, fratello Lazzaro, in cerca di una cura per il problema dei non-morti. Interessante Rischiamorto di Brian Hodge che trasporta gli zombi nel mondo dei quiz a premi televisivi; si chiude con il più "romantico" Mangiami di Robert McCammon, bel finale per una raccolta davvero riuscita.

Il libro dei morti viventi è un'antologia imperdibile per i fan degli zombi ma in generale una lettura piacevole per tutti gli amanti dell'horror e un modo per conoscere autori meno noti, purtroppo poco reperibili in italiano.

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