mercoledì 29 aprile 2020

SNOWPIERCER

(설국열차 Seolgug-yeolcha di Bong Joon-ho, 2013)

Il treno come metafora della società, metafora sempre attuale e nemmeno troppo celata, anzi evidente, evidentissima, a denunciare l'incapacità umana di elevarsi oltre i propri egoismi al di là di dinamiche all'apparenza inscalfibili e che così sono solo grazie a una sconfinata indifferenza e un'illimitata mancanza di empatia e compassione di chi sta ai vertici (o in testa al treno), una classe dominante ottusamente accartocciata su se stessa. Una classe che, diciamocela tutta, almeno nella finzione, è bello veder crepare tra i dolori più atroci.

Siamo nel filone del catastrofico. Per prevenire gli enormi danni che il surriscaldamento globale sta provocando alla Terra, l'umanità è riuscita a sintetizzare una sostanza che dovrebbe essere in grado di abbassare le temperature e riportarle a un livello per il pianeta e per la razza umana più sostenibile. Purtroppo le conseguenze della sperimentazione vanno rapidamente fuori controllo e il pianeta vede arrivare una nuova era glaciale, i pochi sopravvissuti trovano rifugio nell'utopia di Wilford (Ed Harris), un treno autosostenibile capace di viaggiare su un sistema ferroviario che è stato unificato in tutto il mondo, un moto perenne attorno al globo condotto da una locomotiva capace di frangere qualsiasi ostacolo ghiacciato si ponga sul suo cammino. Ma quella che nella mente egoistica e autoassolutoria di Wilford è un'utopia capace di far sopravvivere la razza umana, per larga parte della stessa si rivela la solita vecchia solfa: lo sfruttamento indiscriminato della massa dei più deboli a favore dei pochi che possono godere di tutti i privilegi, una casta che ovviamente, come succede anche nella realtà, non manca di circondarsi di prepotenti e riottosi cani da guardia. Il treno di Wilford è diviso in carrozze come ogni treno, nelle carrozze di fondo, ammassati uno sull'altro, ci sono i poveri di questa società in viaggio perenne, vivono in vagoni sporchi, senza privacy, abbigliati in maniera straziata, costretti a cedere i loro figli in caso di bisogno, minacciati costantemente da soldati armati, nutriti con degli schifosissimi blocchi di proteine. Tra loro ci sono il vecchio Gilliam (John Hurt), privo di un braccio (condizione non rara tra gli abitanti dei vagoni di coda), un uomo che in passato guidò un tentativo di rivolta finito male, e i giovani Edgar (Jamie Bell) e Curtis (Chris Evans), promotori di una nuova rivolta, in particolar modo Curtis è visto suo malgrado dagli altri vessati del treno come una sorta di speranza, un leader potenziale in grado di migliorare la loro condizione. La situazione è calda, gli ultimi hanno fame, vogliono un po' di carne, la possibilità di lavarsi, un po' d'acqua, vogliono guardare il cielo. I tempi sono maturi per una nuova rivoluzione.


Bong Joon-ho è il regista che quest'anno ha riscritto la tradizione dell'Academy Awards vincendo con un film coreano, Parasite, gli Oscar come miglior film, miglior film straniero, miglior regia e miglior sceneggiatura, praticamente tutti i premi delle categorie principali. Già con questo Snowpiercer è possibile ammirare la maestria del regista con la macchina da presa. Facendo un parallelo con altri film ambientati su set simili, e mi viene in mente Assassinio sull'Orient Express di Lumet di cui abbiamo parlato da poco, Bong Joon-ho ha la stessa abilità nel destreggiarsi all'interno degli spazi ridotti, nello spezzare l'alone claustrofobico del film con sortite esterne al treno (peccato alcuni panorami digitali poco efficaci), ma in più al regista coreano bisogna dare atto di essere riuscito a gestire al meglio, con una camera quasi miracolosa, all'interno di questi spazi ristretti vere e proprie scene di massa, qui non siamo di fronte agli educatissimi indiziati presenti sul treno della Christie, siamo davanti a schieramenti indiavolati pronti a massacrarsi uno con l'altro negli strettissimi corridoi dello Snowpiercer, tantissimi personaggi da gestire simultaneamente in poco spazio, Bong Joon-ho ne esce a testa alta.


Nella presentazione del film passava l'idea che con l'avanzare verso la locomotiva, carrozza dopo carrozza, vagone dopo vagone, i rivoltosi avrebbero assistito a una sorta di scalata sociale verso la vetta, qui identificata nella motrice gestita da Wilford. In realtà non è proprio così, come nella realtà le classi di mezzo sono sparite, c'è giusto qualche lavoratore necessario al quale viene fatta qualche piccola concessione, ma superata la miseria degli ultimi quello a cui ci troviamo davanti sono semplicemente tutti i "servizi" a uso e consumo dei ricchi, dei privilegiati. Mentre i poveri mangiano letteralmente gli scarti (o peggio) per la classe privilegiata ci sono i ristoranti di lusso, i bei panorami, l'acqua corrente, le cabine eleganti, i vizi, il lusso, i divertimenti e l'immancabile indottrinamento dei più giovani, con tanto di revisionismo storico post glaciazione. La metafora alla base del film assume via via un aspetto sempre più crudele.

Nello svolgimento vero e proprio il film non pecca, bel ritmo per tutta la sua durata, un bel cast che oltre ai nomi già citati annovera anche Song Kang-ho e Go Ah-sung (personaggi fondamentali), Tilda Swinton nei panni di un'odiosa tirapiedi di Wilson e Octavia Spencer, un'altra dei rivoltosi, c'è anche un buon dosaggio di piccole rivelazioni che con l'incedere del film e della rivolta arricchiranno la trama di retroscena e particolari. Non mancano, purtroppo, riflessioni sull'ineluttabilità di alcune dinamiche capaci di non farci stare troppo tranquilli.

domenica 26 aprile 2020

ZOOLANDER

(di Ben Stiller, 2001)

Sembra che per Derek Zoolander (Ben Stiller) non ci sia altro oltre l'essere "bello bello in modo assurdo", cosa che purtroppo, nonostante la fama di culto che Zoolander è riuscito a costruirsi negli anni, non si può dire del film che più che altro si rivela "cretino cretino in modo assurdo"; ciò non vuol dire che il film non sia divertente, anzi, è proprio il suo essere "cretino" a portare lo spettatore più volte alla risata, considerata però la fama che il film si porta dietro in tutta sincerità mi aspettavo qualcosa di più. A sua discolpa c'è da dire che arrivo alla visione con un ventennio di ritardo e che la mia soglia di tolleranza verso le derive più demenziali raggiunge facilmente il livello di guardia. Collocandolo nella sua epoca Zoolander arriva poco dopo la tragedia dell'undici settembre, cosa che probabilmente un poco lo penalizzò a causa della sua frivolezza (il film era già pronto prima della caduta delle torri, cancellate da Stiller in fase di post-produzione dallo skyline di New York), d'altro canto potrebbe aver donato qualche momento più leggero a una popolazione molto segnata, la fama di cui oggi gode Zoolander comunque è arrivata dopo, nel corso degli anni. Il portato del film viene lievemente esagerato dai suoi sostenitori, i contenuti presenti, abbastanza superficiali e banali, vengono enunciati per dare maggior dignità a un prodotto che essenzialmente punta a divertire e tutto sommato è in questo aspetto che riesce, anche tutti gli altri elementi del film (i tantissimi camei famosi, le citazioni a "veri" film di culto, etc...) vanno giustamente nella stessa direzione, qui bisogna dare atto a Stiller di onestà e coerenza. Poi qualcuno cita in merito anche la denuncia allo sfruttamento del lavoro minorile da parte del mondo della moda, lo spostamento e la rielaborazione di diversi stili d'abbigliamento che qui raggiungono il limite del farsesco, la morale celata dietro al ravvedimento del personaggio, ma queste sembrano tutte giustificazioni pretestuose per assegnare sovrastrutture alle quali il film dubito fortemente mirasse (se non appunto in maniera del tutto superficiale), Zoolander è una pura e semplice commedia demenziale. Assodato questo punto, è qui che entra in gioco il gusto personale, il mio preferisce semplicemente altri rami della commedia (e in assoluto il dramma, ma questo è un altro paio di maniche).


Derek Zoolander, oltre a essere un perfetto imbecille, è il supermodello più famoso del mondo, inventore di varie pose (o espressioni) delle quali la "Blue Steel" è la più famosa, in via di perfezionamento la "Magnum" che potrebbe nuovamente far tremare le fondamenta del mondo della moda. Jacobim Mugatu (Will Ferrell) è un celebre stilista, l'unico con il quale Derek non è mai riuscito a lavorare, dietro al quale si celano i poteri forti e malvagi dell'industria della moda, un manipolo di farabutti che sfrutta il lavoro minorile dei bambini malesi e che ora si è messo in testa di eliminare il primo ministro di quel paese il quale ha deciso di porre fine a questo tipo di sfruttamento. Per riuscire nel piano Mugatu ricorre al lavaggio del cervello di Zoolander che, in seguito a un impulso di attivazione (la canzone Relax dei Frankie Goes to Hollywood), dovrà uccidere il primo ministro che sarà ospite della sfilata per la nuova collezione di Mugatu. In parallelo la rivalità con l'altro supermodello Hansel (Owen Wilson), una specie di hippy che in fondo è cresciuto nel mito di Zoolander, e le indagini della giornalista Matilda Jeffries (Christine Taylor, ex moglie di Stiller) che ha intuito il marcio dietro la figura di Mugatu.


Film demenziale per amanti del genere, indubbiamente divertente nel suo essere "cretino" e dallo sviluppo abbastanza scontato, si distinguono tra le varie gag diverse situazioni al limite dell'assurdo tra le quali un'orgia molto colorata (e ovviamente casta) e una sfilata/duello che definire sopra le righe sarebbe riduttivo. Ci si diverte anche nell'individuare le numerosissime star presenti nel film, oltre a personalità del mondo della moda si prestano al gioco gente come Fred Durst dei Limp Bizkit, Billy Zane, Lenny Kravitz fino ad arrivare a David Bowie (ma i cammei sono moltissimi). Uso ruffiano e riuscito della colonna sonora che contribuisce a dare un buon ritmo al film, finale palliduccio che nei piani di Stiller avrebbe dovuto essere un po' diverso. In fin dei conti Zoolander si rivela una buona commedia per tutti gli amanti del Frat Pack e del loro genere di comicità, qualcuno azzarda ad affibbiare al film il ruolo di satira sul mondo della moda, probabilmente più una grossa presa in giro e forse nemmeno quello, giusto un film buono per farsi due risate.

sabato 25 aprile 2020

TALES FROM THE LOOP

(Tales from the Loop di Nathaniel Halpern, 2020)

Simon Stålenhag è un artista svedese, un illustratore di grande talento che crea immagini che potrebbero essere accostate al filone del retrofuturismo, anche se nel caso delle opere di Stålenhag non saprei se è proprio questo il termine corretto da usare. Infatti più che al futuro che immaginavano gli scrittori di fantascienza degli anni 50/60 del secolo scorso, il disegnatore svedese guarda al presente delle lande poco abitate del suo paese, popolandole di una tecnologia che ha un sentore di vecchio, di usurato dal tempo, anche di sorpassato per taluni aspetti. Proprio queste illustrazioni, raccolte nel libro Tales from the loop, sono state utilizzate come spunto narrativo da Nathaniel Halpern per creare la serie omonima da poco disponibile su Prime Video. Tales from the Loop (o solo Loop) è una sorta di antologico in cui ogni singola puntata narra una storia diversa, i protagonisti variano anch'essi ma spesso tornano in altri episodi come coprotagonisti o semplici comparse, andando a creare un piccolo mondo che ruota intorno a una cittadina rurale dell'Ohio negli anni 60. Al centro della narrazione c'è il Loop, una sorta di centro di ricerche avanzate che custodisce un "oggetto" misterioso capace di sovvertire le leggi della fisica. Grazie agli studi portati avanti nel Loop tutta l'area circostante è soggetta a strani fenomeni fisici e non è raro imbattersi in costrutti tecnologici capaci di dar vita alle bizzarrie più inaudite. Il mondo di Tales from the Loop va preso così com'è, sono parecchi i dettagli fantastici presenti in questa realtà, non tutti troveranno spiegazione nel corso delle otto puntate della serie, taluni non solleveranno nemmeno domande, sono lì e basta, questa è la realtà e nella percezione della comunità locale questa non appare nemmeno troppo strana, perché in fondo, al centro di questa narrazione, non c'è la fantascienza, non ci sono derive distopiche, ci sono semplicemente degli strani eventi che mettono i protagonisti di fronte al loro essere uomini, donne, bambini, madri, padri, figli, nonni, amanti, mogli, mariti. Tales from the loop racconta dell'essere umano nel rapporto con sé stesso e con gli altri, per farlo si prende tutto lo spazio necessario, asseconda i ritmi di un'introspezione matura, spesso dolorosa, a volte sentita, altre più fredda, ma mai affrettata. Non siamo di fronte a una serie dove regnano l'azione e i colpi di scena, tutte le diavolerie fantastiche qui presenti servono a scatenare situazioni utili a esplorare i sentimenti, i rapporti, i dolori e spesso gli errori con cui i protagonisti devono convivere.


Il piglio è più vicino a quello del prodotto d'autore che non a quello del consumo "usa e getta", ci sono contenuti interessanti in tutte le otto puntate, ognuna delle quali affidata a un regista diverso, molti dei quali noti al grande pubblico, in ordine abbiamo Mark Romanek (One hour photo, Non lasciarmi), So Yong Kim, Dearbhla Wash, Andrew Stanton (Wall-E, Alla ricerca di Nemo, Stranger Things), Tim Mielants, Charlie McDowell (La scoperta), Ti West (The house of the Devil, V/H/S/) e Jodie Foster. Ognuno dei registi declina il rapporto tra fantastico e natura umana secondo il suo sentire, la narrazione risulta comunque ben amalgamata e coerente, in alcuni episodi, come in quello diretto da Ti West ad esempio, emerge in misura maggiore l'inclinazione personale dell'autore, il suo gusto, il suo tocco... passiamo così da episodi dove il contesto è molto virato al fantastico (Il Loop, Parallelo), ad altri in cui è il lato più personale a soverchiare il resto (La sfera dell'eco, Controllo) fermo restando la caratteristica comune a tutta l'opera, l'esplorazione dell'intimo dei protagonisti.


Nonostante alcune critica di lentezza e mancata innovazione mosse alla serie, Tales from the Loop a mio parere è un prodotto di alta qualità, certo pecca volutamente sul versante del ritmo, ma la scelta fatta è quella giusta per andare a sottolineare gli aspetti che premono allo sceneggiatore (gli episodi sono scritti dallo stesso Halpern), decisamente distanti dai temi della fantascienza d'azione o di quella distopica, qui si impara a essere genitori più presenti, migliori, letteralmente ritrovando sé stessi, si affronta il dolore della perdita, si narrano le pene d'amore e l'inadeguatezza, l'insicurezza degli uomini e altro ancora, questo è quello che realmente bisogna cercare in questa serie. Dal punto di vista tecnico i registi fanno tutti un bel lavoro, gli ambienti surreali ma allo stesso tempo tranquillizzanti ideati da Stålenhag donano alla serie un fascino nostalgico di valore, anche la struttura degli episodi riporta più ai vecchi episodi di serie come Ai confini della realtà che non a prodotti più moderni ai quali Tales from the Loop è stato erroneamente accostato. È un mondo questo al quale tornerei volentieri, il primo viaggio nel Loop è stato piacevole e in fondo Simon Stålenhag ha realizzato almeno un altro paio di libri illustrati, Things from the Flood (all'apparenza un poco più oscuro) e The elctric State. Non resta che aspettare per rimettersi in viaggio.

lunedì 20 aprile 2020

INTERVISTA AI [MONOTONOISE]

Oggi abbiamo l'opportunità di scambiare due parole con GiancarloDelavieCagliero ed Enrico UrzVaudet, i due componenti del progetto [MONOTONOISE] che da poco hanno rilasciato il nuovo video legato al loro pezzo “Lockdown”. Andando un po' in controtendenza a quella che è la classica scaletta di domande per un progetto emergente, questa volta non partiamo dalla presentazione del vostro duo ma vorrei partire proprio dal brano "Lockdown", confinamento, termine parecchio calato nella realtà del nostro tempo.

La prima cosa che vorrei chiedervi è se il pezzo ha subito variazioni in seguito al confino obbligato causato da Covid-19, se in qualche modo l'atmosfera di questi giorni si è riversata sul mood del brano o questo era già bello e pronto in precedenza? Ma soprattutto come sta cambiando questa situazione il vostro modo di comporre e creare musica?
Delavie: Il brano è nato proprio all'inizio del periodo di quarantena, ma non è stato concepito pensando direttamente alla situazione che stiamo vivendo. Continuando poi a lavorare sulla traccia, abbiamo pensato che potesse diventare una soundtrack ideale per il momento importante che stiamo attraversando. Riguardo invece il nostro modo di comporre, possiamo dire che in realtà stava già cambiando da alcuni mesi. Il nostro progetto è nato circa un anno e mezzo fa e la nostra modalità produttiva è passata da una prima fase nella quale abbiamo realizzato brani utilizzando principalmente l'auto-sampling, per passare ad una seconda nella quale abbiamo lasciato un po' meno spazio all'improvvisazione, privilegiando la composizione e la ricerca timbrica. In quest'ultimo periodo, che ci ha costretti alla lontananza forzata, lavoriamo passandoci le tracce attraverso un continuo ping pong via Internet.


Rimanendo sul tema, la situazione attuale vi ha creato preoccupazioni dal punto di vista di promozione/pubblicazione del vostro materiale o state riuscendo a portare avanti i vostri progetti senza difficoltà? So che c'è in programma un Ep di prossima uscita con la Opilec Music, volete parlarcene e regalarci qualche dettaglio/anticipazione?
Urz: No, per fortuna non ci sta creando grossi problemi per il momento ma solo qualche piccolo rallentamento. Prossimamente, come dicevi, la Opilec Music di I-Robots pubblicherà il nostro primo EP che conterrà alcuni brani appartenenti alla prima fase del nostro lavoro. I brani sono al momento ancora in una fase di post produzione e ovviamente la situazione ha ritardato le ultime operazioni.


Ok, dai, ora direi che è venuto il tempo di presentarsi un pochino meglio ai nostri lettori, so che voi due avete dei trascorsi musicali, comuni e non, antecedenti al progetto [MONOTONOISE], volete raccontarci un po' come siete arrivati fino a qui?
Urz: Abbiamo alle spalle entrambi parecchi anni di lavoro nell'ambito della musica elettronica. Delavie è fondatore della band “Doctor Jazz's Universal Remedy” che dal 2003 ha prodotto tre album Nu-Jazz con vari brani pubblicati su più di 200 compilation di genere, colonne sonore, pubblicità. Io invece col precedente progetto neurz ho realizzato diversi remix  tra i quali alcuni per Irma La Douce (Irma Records) e ho lavorato su alcune soundtrack, per esempio quella del dvd internazionale del film documentario Vinylmania di Paolo Campana. Abbiamo poi iniziato a collaborare, insieme ad altri musicisti nel progetto Fenchurch Best Friends, fino ad arrivare all'attuale duo [MONOTONOISE].


Sappiamo che avete in ballo anche qualche remix per altri artisti e che altri ne avete fatto in passato, volete raccontarci un po' i vostri progetti anche su questo versante?
Delavie: Abbiamo realizzato lo scorso anno un remix del brano No Fear In Love dell''artista newyorkese Primitive Heart, pubblicato dalla Shore Dive Records, etichetta indipendente di Brighton (U.K.) e stiamo ultimando la produzione di due remix anche per Opilec Records che dovrebbero indicativamente uscire insieme all'EP.


Tornando a Lockdown è impossibile non parlare del video che insieme al vostro brano forma una combo che trovo davvero strepitosa, magnifiche le immagini che riportano alla situazione attuale con queste metropoli americane completamente deserte. Ormai siamo abituati alle strade delle nostre città vuote, a vedere i servizi al tg con situazioni quantomeno stranianti, il vostro video però acuisce queste sensazioni frastornanti portandoci un po' in quella che è la patria di tanta cultura che assorbiamo ogni giorno, è strano trovarsi di fronte immagini del reale che ricordano l'orizzonte dell'Atlanta colpita dal morbo in The Walking Dead, o vedere la scalinata della New York Public Library completamente deserta o ancora la città del Cavaliere Oscuro svuotata e potenzialmente silenziosa, illuminata solo dal vostro brano. Raccontateci qualcosa sulla realizzazione del video, chi lo ha realizzato, le vostre sensazioni quando lo avete visto per la prima volta.
Delavie: La situazione di assoluta diversità ambientale che si è venuta a creare ha generato dei landscapes fantascientifici che non avremmo mai pensato di vedere se non al cinema. Così, una sera, vedendo delle riprese di New York girate con l'utilizzo dei droni, siamo rimasti affascinati dalla forza di queste immagini di una delle metropoli più popolate d'America, svuotata completamente del suo traffico e dell'incessante flusso di persone sempre affaccendate. Un'immagine che ha continuato a girarci in testa fino a quando abbiamo condiviso questa emozione con il nostro amico Andrea Pierri (videomaker, regista e animatore, per chi vuole approfondire http://www.andreapierri.com) con il quale avevamo già fatto dei videoclip di brani nostri. Abbiamo quindi deciso insieme di fare il video al brano che stavamo ultimando, che non aveva ancora un nome e che ci sembrava perfetto per descrivere quello che alla fine volevamo raccontare, cioè che questa vicenda, che ha ovviamente degli aspetti terribili, a livello individuale e collettivo ha e avrà la sua bellezza riconoscibile, comunque da tutti, a più livelli.


Potete lasciare ai nostri lettori qualche riferimento su dove trovare la vostra musica?
Urz: Per ascoltare i brani dovranno attendere ancora un pochino ma nel frattempo possono seguirci sulla pagina Instagram https://www.instagram.com/monotonoise/

Bene, giunti al termine ringraziamo i [MONOTONOISE] facendogli i migliori auguri per il futuro e rinnovando i complimenti per Lockdown, un brano davvero molto suggestivo.


Per il video clicca QUI


sabato 18 aprile 2020

L'IMMORTALE

(di Marco D'Amore, 2019)

L'uscita nelle sale cinematografiche de L'Immortale con Marco D'Amore alla regia ha fatto parlare di sé per vari motivi: in riferimento al film si è parlato di crossmedialità, dell'ambizione che i prodotti di qualità italiani è giusto che abbiano (ambizione qui espressa con il relativo upgrade dal piccolo al grande schermo) e c'è stata ovviamente la grande curiosità dei fan della serie nel ritrovare al cinema quello che è il personaggio più carismatico di Gomorra: Ciro Di Marzio (interpretato dallo stesso Marco D'Amore). Questo passaggio che ha così incuriosito appassionati e stampa di settore nei fatti si rivela un'occasione sprecata, non tanto per demeriti qualitativi, il film lo si guarda con piacere, ma proprio perché non si evidenziano scarti significativi dalla serialità, dal punto di vista della regia, della scrittura, delle dinamiche e anche sotto il profilo della costruzione dei personaggi. L'Immortale avrebbe potuto essere inserito in un paio di puntate della serie madre, tra l'altro D'Amore si era già cimentato nella regia di alcuni episodi della quarta stagione di Gomorra, l'unico aspetto effettivamente nuovo è la narrazione sulla formazione criminale di un Ciro bambino (il bravissimo Giuseppe Aiello) che però non basta per dare dignità cinematografica all'opera che, ribadiamolo ancora una volta, rimane un buon film di genere ma che tutto sommato non necessitava del passaggio in sala, da questo punto di vista l'operazione appare semplicemente inutile.


L'Immortale ricorda fin troppo l'episodio di Gomorra che vede Ciro espatriato in Bulgaria (attenzione, seguono spoiler per chi non avesse ancora visto la serie). Avevamo lasciato l'Immortale a bagno nelle acque del golfo di Napoli, con una pallottola in petto esplosa dal nemico/amico/fratello Genny Savastano (Salvatore Esposito) in chiusura della terza annata. Sulla stagione successiva, la più debole e meno riuscita, pesa come un macigno l'assenza di Ciro Di Marzio che, inutile nascondersi dietro un dito, era pedina fondamentale del buon esito della serie. L'Immortale è ormai morto, non c'è più niente da fare. Così D'Amore, che immagino molto legato al personaggio che gli ha donato notorietà, da quelle acque lo ripesca e lo mette in mano a Don Aniello (Nello Mascia), un boss che già abbiamo imparato a conoscere in precedenza, il quale si adopera per rimetterlo in sesto e donare nuovo senso al soprannome di "Immortale". Don Aniello regala a Ciro la possibilità di rifarsi una vita lontano da Napoli, a Riga, in Lettonia, a dirigere il canale che porta la cocaina da Napoli alla criminalità russa. Per far sì che la cosa funzioni però ci sono da tenere a bada i lettoni che nei confronti dei russi hanno il dente avvelenato. A dirigere la "paranza" di cui presto Ciro diverrà il capo effettivo c'è Bruno (Salvatore D'Onofrio/Giovanni Vastarella), un uomo di mezza età che per un Ciro bambino fu un modello e un apripista per la futura vita da criminale, un uomo al quale il bimbo era legato da un amore sincero.


Si salta quindi avanti e indietro nella storia di Ciro, tra Napoli e Riga, tra passato e presente ma soprattutto tra un bimbo che seppur instradato al crimine è ancora capace di amare a un uomo che ormai ha fatto troppo e quasi sempre male, completamente svuotato e privo di nuovi stimoli. Film per fan, indubbiamente fa piacere rivedere la camminata un po' strana di Ciro, quello sguardo profondo, le sue spalle un po' curve, quella di D'Amore è una presenza forte, nella vicenda in sé ci sono le solite cose, il nodo focale è l'apertura verso la serie, senza fare troppe anticipazioni quello che è chiaro è che Ciro è vivo, in fondo è pur sempre L'Immortale e presto potrebbe tornare tra le strade di Napoli, alla sua serie, che a conti fatti è il posto in cui avrebbe sempre dovuto rimanere.

giovedì 16 aprile 2020

MENOCCHIO

(di Alberto Fasulo, 2018)

A essere sinceri Menocchio è un film al quale difficilmente avrei dato una possibilità se non fosse per il fatto che qualche critico professionista, nella compilazione di una di quelle liste che ogni tanto spuntano qua e là, ebbe a inserirlo tra i film italiani degni di maggior nota dell'ultimo decennio. Ora, premesso che del film si è sentito parlare poco e che di opere italiane fuori dai soliti sentieri c'è sempre gran bisogno, ho deciso di guardare questa fatica del friulano Alberto Fasulo che qui narra una storia delle sue terre, vicenda reale accaduta nel tardo Sedicesimo Secolo. Quello che di convincente ho trovato in Menocchio è la messa in scena adottata da Fasulo, una realizzazione che tra riprese, fotografia e l'insolito lavoro di casting, crea un impianto visivo che ha qualcosa che sta a metà strada tra il naturalistico e il pittorico. Ciò che colpisce in misura maggiore sono le scelte adottate per l'illuminazione, soprattutto quella buia e notturna che fa ricorso molto spesso al fuoco, alle torce, ai lumi che donano un alone di veridicità al film molto convincente, l'illuminazione diurna invece, le cromie scelte per i costumi, persino le inquadrature sui volti, ricordano molto la pittura a soggetto d'epoca, a tal proposito c'è una scena molto bella dove Menocchio, convocato dalle istituzioni della Chiesa, si trova al cospetto di alcuni dipinti e il suo volto non sembra stonare affatto vicino a quelle raffigurazioni sacrali del tempo. Contribuisce a questa cifra stilistica la scelta degli attori, taluni con la sola recitazione, a tratti dilettantesca, riportano la storia a una dimensione molto naturale, povera, istintiva, proprio come se lo spettatore si trovasse dinnanzi a contadini e paesani poco avvezzi alle cose del mondo e intimoriti (non a torto) dalla Santa Inquisizione, rafforzando quell'alone di "vero" che accompagna tutto il film, assecondato spesso anche da movimenti di camera a mano che seguono il ritmo dei trasporti, dei sobbalzi dei carri trainati dal bestiame.


Per quel che riguarda il versante dei contenuti a dirla tutta in questo Menocchio non ho trovato nulla di così interessante, e ritornando al critico di cui sopra, con la sua scelta egli potrebbe aver reso un buon servigio all'opera ma anche uno un po' meno buono a questo spettatore (e ad alcuni altri suppongo). La storia di Menocchio (Marcello Martini) è quella nota di molti altri uomini che in tempi antichi avevano convinzioni fuori dal coro in tema di religione e quindi invisi alla Chiesa che a quei tempi appariva più come il braccio armato del Demonio che non il viatico per arrivare a Dio, a Cristo o a qualsiasi idea di fede che si potesse avere. Menocchio non era convinto della verginità della Madonna, la trovava una cosa innaturale, contestava la ricchezza della Chiesa a discapito del popolo e diceva che Dio era in tutto, che il vento era Dio, un albero era Dio, l'aria era Dio, tutte interpretazioni che catturavano l'attenzione dei paesani, poi pronti a rinnegare, ma che irritavano sommamente la Chiesa che non mancò di perseguitare, imprigionare, torturare e infine condannare a morte quello che in fin dei conti era solo un mugnaio, sveglio e alfabetizzato, cosa rara ai tempi, che aveva le sue idee libere, peraltro affatto dannose se non per i dogmi di una Chiesa pronta a difenderli in maniera ottusa e violenta.

Tralasciando il fatto che la vicenda narrata non ha nulla di originale (purtroppo storie come queste all'epoca abbondavano) la mancanza più grave del film è che non riesce mai a coinvolgere, non si empatizza in maniera particolare con questo protagonista, non si soffre con lui, pur stando dalla sua parte tutto rimane di una freddezza poco toccante, si arriva alla fine del film dove più o meno succede ciò che ci si aspetta e, a parte una perizia tecnica molto interessante, dello stesso rimane poco o niente, non c'è emozione, non c'è quasi nulla...

Rimangono ancora un paio di sequenze molto belle, oniriche, ben dirette e accattivanti, che ancora una volta rientrano nei meriti visivi, danno una sferzata al film che però nel complesso non si innalza da una soporifera mediocrità. Peccato, c'è del buono in questa opera di Fasulo, rimane ora da applicare tutti questi meriti a una narrazione degna di nota.

mercoledì 15 aprile 2020

CATTEDRALE

(Cathedral di Raymond Carver, 1983)

A più di trent'anni dalla sua scomparsa Raymond Carver viene ancora considerato il punto fermo per quel che concerne il racconto breve moderno. Cattedrale viene dato alle stampe a soli due anni di distanza da un'altra celebre raccolta di racconti - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore - andando così a cementare la reputazione dello scrittore dell'Oregon, già indicato dalla critica come il caposcuola di uno stile minimalista, definizione dentro la quale Carver sentiva di stare troppo stretto. Tralasciando la questione su quanto la forma definitiva di alcuni racconti di Carver fosse da imputare all'editore Gordon Lish, uno che pare avesse la forbice facile (anche perché l'approfondimento sul tema richiederebbe una discreta mole di tempo e spazio), all'uscita di Cattedrale venne sottolineato dalla stessa critica il raggiungimento da parte dello scrittore di una forma del racconto più ricca e compiuta, una narrazione che pur rimanendo essenziale, ma non per questo povera, incontrava in misura maggiore quella che era la reale intenzione di Carver nell'approccio alla scrittura, in quello che forse fu il suo periodo più sereno nell'economia di un'esistenza non sempre felice, che tra alcool e malattia portò alla prematura scomparsa dello scrittore nell'Agosto del 1988.

Dodici racconti, uno già anticipato nella precedente raccolta, dodici momenti nelle vite di qualcuno, momenti a volte significativi, altre volte meno, almeno uno una vera e propria epifania (il riferimento è a Cattedrale, il racconto che dà il titolo al libro), tutti sprazzi di vita in cui è necessario e allo stesso tempo bellissimo entrare dentro, racconti minimi come dicono in molti ma pregni di una ricchezza che richiede al lettore di cogliere il momento, l'attimo in cui qualcosa cambia, spesso si incrina, a volte si risolve, ma che in ogni caso dà il la per qualcosa di nuovo, qualcosa che spesso da lettore non vediamo, un qualcosa di fuori campo, di non detto, lasciato alla nostra immaginazione che però ha tutti gli elementi per fare ipotesi, perché con Carver si è sempre dentro al mistero della vita, non quella dell'eroe, del divo o quella del protagonista di un libro, siamo dentro la nostra vita, dentro quella del vicino di casa, della cassiera del supermercato, nella vita di nostro cugino o in quella della donna che ogni tanto vediamo affacciata alla finestra. È nell'ordinario che la narrazione di Carver diviene straordinaria.

Ci sono temi che ricorrono in diversi racconti, su tutti quello dell'alcool che condiziona le vite di diversi protagonisti, tema caro all'autore, ma più in generale si assiste all'esclusione dal lauto banchetto della vita, spesso i protagonisti dei racconti di Carver sono sconfitti, almeno nel momento in cui sono ritratti dall'autore, hanno perso qualcosa, stanno per perderlo o si sono persi loro stessi, in qualche caso fortunatamente si ritrovano, molto più spesso sembra che la vita in qualche modo abbia voltato loro le spalle. Spesso il succo sta nel capire dove qualcosa si spezza o perché lo farà, raramente gli scritti di Carver sono fredda cronaca di fatti inventati, questi brevi racconti hanno sempre dentro qualcosa di vivo, un evento, un catalizzatore, qualcosa che sembra assumere il centro di un'esistenza, e questi elementi sempre così importanti non sono altro che atti banali, decisioni ordinarie che fanno parte della vita.

Nell'edizione Minum Fax, molto ben curata, chiude la raccolta un bel racconto con sorpresa di Riccardo Duranti, il traduttore dei racconti contenuti in Cattedrale.

domenica 12 aprile 2020

BUONA PASQUA COSÌ

Vi auguro buone feste con il nuovo video dei Monotonoise nei quali militano gli amici Urz e Delavie. Guardate il video, ascoltate il pezzo in cuffia, ne vale la pena! Ispirato alla situazione surreale che stiamo tutti vivendo in questi giorni. Ancora buone feste a tutti, vi lascio con Lockdown. (Cliccare su "guarda questo video su YouTube").

Per maggiori informazioni potete curiosare qui: https://www.instagram.com/monotonoise/



sabato 11 aprile 2020

EX LIBRIS: THE NEW YORK PUBLIC LIBRARY

(di Frederick Wiseman, 2017)

Frederick Wiseman (classe 1930) è un professore universitario statunitense che fin dai primi anni 60 decide di dedicarsi alla regia (e alla sceneggiatura, al montaggio...) improntando la sua produzione al format del documentario. Regista molto apprezzato, viene citato come fonte d'ispirazione tra gli altri anche da Gus Van Sant che si rifà allo stile di Wiseman per girare il suo Elephant adottando i dettami del maestro, Wiseman persegue infatti una struttura che esclude del tutto la forma romanzata, cerca nei suoi lavori di non esprimere giudizi personali, di non inserire sequenze a effetto ma di catapultare lo spettatore dentro l'argomento trattato, come se fosse testimone diretto di ciò che è ritratto in video, è soprattutto quest'ultimo aspetto a funzionare molto bene in Ex Libris: The New York Public Library, al momento l'ultima opera firmata dal regista ormai novantenne.

Quello delle biblioteche pubbliche newyorkesi è un sistema che abbraccia più di una novantina di sedi sparse per i diversi quartieri della città con un centro nevralgico facilmente identificabile per tutti, la celebre New York Public Library all'incrocio tra la 5th Avenue e la 42esima strada, quella con i leoni e la scalinata sul davanti che abbiamo visto in numerosi film (Ghostbusters per citarne uno), in prossimità dello splendido scorcio su Bryant Park ripreso più volte anche in questo documentario. Questo sistema è sostenuto da un mix di fondi pubblici e privati, i primi arrivano in larga parte dal comune di New York, i secondi dalla buona volontà di imprese e donatori. Lungo le tre ore e più del documentario, che vanno giù in un solo sorso, Wiseman, senza mai intervenire in prima persona, con una regia volutamente invisibile, ci mostra alcuni di quelli che sono i servizi messi a disposizione della comunità da questo sistema, ce ne mostra parti del funzionamento, alcuni archivi, ci fa partecipare alle riunioni dove si prendono le decisioni sugli investimenti, sui fondi, sui progetti, sulle nuove acquisizioni, ma soprattutto ci mostra le persone che contribuiscono a far vivere questa splendida macchina, quelle che la gestiscono ma anche quelle che ne traggono benefici, e ancora, tra le cose più importanti, ci mostra la mission della New york Public Library che è probabilmente una tra le più inclusive, solidali e democratiche proposte oggi dalla Grande Mela, soprattutto in tempi di parrucconi biondo platino.


Ex libris è un grande montaggio di spezzoni filtrati da ore e ore di girato, abbiamo così la possibilità di assistere a conferenze tenute da personalità varie (Elvis Costello ad esempio), presentazioni di libri (Patty Smith), interessanti estrapolati da discorsi di artisti sui temi più disparati, dalla cultura ebraica alla condizione delle minoranze nere, ma tutto questo è solo la punta dell'iceberg, quello che può catturare più facilmente l'attenzione dello spettatore, ma se ci soffermiamo su ciò che Wiseman ci mostra lontano dalle celebrità, intuiamo il valore assoluto di un progetto immenso, e non parliamo solo di libri, anzi, sembra quasi assurdo ma di libri si parla molto meno di quello che ci potremmo aspettare. Quello che qui più conta è il lavoro enorme che la NYPL svolge per dare a più persone possibili l'accesso alla conoscenza, non solo prestando libri, musica o quant'altro ma mettendo a disposizione spazi da utilizzare nei quartieri più difficili, corsi per aiutare i bambini con difficoltà scolastiche, momenti di intrattenimento per la fascia d'età più anziana, in alcuni passaggi si può assistere alle riunioni durante le quali lo staff si adopera con trasporto per capire quali soluzioni mettere in atto per abbattere un digital divide che affligge ancora una gran parte della popolazione di New York, in merito a questo gli utenti più svantaggiati hanno la possibilità di usufruire per un semestre di una connessione domestica a spese della biblioteca, i ragionamenti si spingono fino alla condizione degli homeless e su come la biblioteca possa trovare soluzioni inclusive anche per loro. Anche le attività più canoniche organizzate dalla NYPL destano interesse, dai gruppi di lettura (molto toccante la discussione su L'amore ai tempi del colera di Marquez) alle varie conferenze dove si discute ad esempio sull'architettura e sulle funzioni delle biblioteche in generale, momenti in cui vediamo gente appassionata e interessata ma anche parte dell'auditorio che sonnecchia, proprio come accade nella realtà, non ci sono troppi filtri nell'approccio di Wiseman e questo contribuisce a dare quell'alone di realtà che fa sì che si possa apprezzare il documentario in misura maggiore.


Potremmo andare avanti per ore. Quello che ci viene mostrato è un mondo che trasuda valore, un mondo del quale chiunque abbia a cuore la cultura amerebbe far parte. Il silenzio della NYPL, il colore delle sedi decentrate, gli sprazzi caotici di una New York in movimento fanno da contrappunto a un progetto che essenzialmente vive dell'amore per le persone, limitato dal budget, certo, da quello che si può e quello che non si può fare, ma sempre in cerca di nuove soluzioni e nuove strade da percorrere. Proprio come accade quando si esce da una biblioteca, anche dalla visione di questo splendido documentario si esce un poco più ricchi, e non è cosa da poco.

giovedì 9 aprile 2020

UNA NOTTE DA LEONI 2

(The hangover part II di Todd Phillips, 2011)

Dopo il grandissimo successo di Una notte da leoni, una delle commedie meglio riuscite del suo decennio, Todd Phillips e il suo team di sceneggiatori non devono arrovellarsi troppo le meningi per confezionare un sequel divertente e riuscito al fine di bissare gli esiti del capostipite (la saga conta già tre capitoli), semplicemente prendono pari pari la trama del primo capitolo, cambiano un paio di fattori (tipo che questa volta deve sposarsi Stu e non Doug), inseriscono nuove situazioni comiche e il gioco è fatto, massimo risultato con il minimo sforzo, perché se manca la novità e la freschezza del primo capitolo questo Una notte da leoni 2 funziona comunque dannatamente bene e continua a far ridere senza tregua per tutta la sua durata. Quindi, seguendo l'esempio del regista, vi rifilerò lo stesso post imbastito per il film precedente con qualche piccola variazione (andate pure a controllare se non mi credete).

Thailandia. Lauren (Jamie Chung) si sta preparando per il suo matrimonio con Stu (Ed Helms), è quasi tutto pronto, l'ora si avvicina e la sposa mostra un filo di preoccupazione, il futuro sposo e i suoi compari con i quali è uscito per passare la sua ultima notte da single, sembrano irreperibili da parecchie ore ormai, i loro cellulari restituiscono solo le voci delle segreterie telefoniche, i ragazzi  sembrano essere scomparsi nel nulla. Il padre della sposa non nasconde il disprezzo per il futuro genero da lui considerato un debole, infine squilla il telefono di Tracy (Sasha Barrese), la moglie di Doug, al telefono c'è Phil (Bradley Cooper), uno dei compari...

- Phil
- Tracy... mi dispiace.
- Dove diavolo siete finiti?
- È... è successo di nuovo.
- ... non me lo dire, ti prego.
- Abbiamo fatto un vero casino stavolta.
- Si può sapere che problema avete voi tre?
- Più di uno, non so nemmeno da dove cominciare.
- Oddio, è una cosa grave? Tipo... niente matrimonio?
- Sì... anche un pochino peggio.

La faccia da schiaffi di Bradley Cooper, inquadrato sul tetto di un grattacielo di un'enorme città asiatica, è antipasto ormai tipico di quello che andremo a vedere: sporco, ferito, sicuramente piacente... sullo sfondo altre due figure, sedute con scarsa eleganza sui gradini di una scalinata, affrante, sconsolate, probabilmente intente a ripensare ai casini appena combinati. La metropoli è immensa, capace di rapirti, parte Black hell di Danzig, un pezzo splendido che incornicia alla perfezione l'orizzonte, la vastità della città, per calare poi nelle sue strade, bel contrasto tra le liriche poco allegre del testo e quella che sarà una delle commedie più divertenti che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni.


Todd Phillips è un regista molto furbo, pur senza mettere in scena nulla di nuovo (questa volta a maggior ragione) realizza un film dove tutto è al posto giusto, la canzone giusta sull'immagine adeguata, il cambio di ritmo calibrato al secondo, il ralenty ruffiano e stravisto inserito però in maniera inappuntabile e capace quindi di farti sorridere, una serie di belle panoramiche, tutti elementi che vanno a costruire una regia dinamica e molto piacevole da guardare. La sceneggiatura gioca su più livelli, quello della commedia sguaiata ma mai troppo volgare, il livello prevalente, ma si muove molto bene anche sul filo del thrilling cazzaro, in fondo Teddy (Mason Lee), il fratello della sposa e figlio prediletto del futuro suocero di Stu, è scomparso davvero e nessuno dei suoi compari, dopo una notte selvaggia a Bangkok, è in grado di ricordare nulla delle ore precedenti, nessun indizio su dove possa essere finito il ragazzo.

Il film si muove molto bene anche a livello temporale, saltando avanti e indietro negli eventi e usando lo stratagemma con giusta e dosata parsimonia, coccolando così molto bene sia l'aspetto più divertente (e Una notte da leoni 2 lo è veramente tantissimo) che quello del mistero sul dito di Teddy. Ma torniamo anche noi indietro per un attimo.

Insieme allo sposo, rispettabile dentista con un demone interiore, partono per la Thailandia il fratello di Tracy, Alan (Zach Galifianakis), una sorta di scemo del villaggio bisognoso d'affetto e dai comportamenti imprevedibili, il più serio Doug (Justin Bartha), ormai felicemente sposato con Tracy, e il caro Phil, insegnante elementare, sposato con un figlio, quello che dovrebbe essere il più maturo e che invece è il più incline al cazzeggio. Per loro la notte precedente il matrimonio di Stu sarà devastante, il risveglio sarà impietoso e porterà con sé una serie di problemi da risolvere, non ultimo il dover ritrovare Teddy in tempo per il matrimonio, e un numero imprecisato di incontri grotteschi ai quali far fronte.

Insomma, ci si ritrova a ridere veramente di gusto praticamente di continuo guardando questo film furbescamente calibrato alla perfezione. Mi dicono il successivo non sia inferiore, mi frego le mani e pregusto.

martedì 7 aprile 2020

STALKER

(Сталкер di Andrej Arsen'evič Tarkovskij, 1979)

Stalker è un viaggio, concreto e misterioso per i tre protagonisti del film, un percorso che diviene in larga parte introspettivo per ognuno di loro così come per lo spettatore, chiamato a compiere un excursus metafisico all'interno di quest'opera ostica ma anche di altissimo valore del regista russo Andrej Tarkovskij. A più riprese considerato come uno dei grandi esiti dell'arte cinematografica, Stalker è uno di quei film che richiedono un impegno non indifferente, un'attenzione immersiva e totalizzante che sembra venir ripagata fino in fondo soltanto a visione conclusa, o ancor meglio il giorno dopo o quello dopo ancora, dopo un paio di notti di sonno e diverse riflessioni su immagini, suoni e dialoghi. Tarkovskij riesce nel compito di creare un film di fantascienza con tanto di accumuli di tensione, suspense e mistero senza far ricorso a un solo effetto speciale, lavorando con inquadrature altamente suggestive, giocando con i colori e il bianco e nero, con la fotografia ficcante di Aleksandr Kniažinskij, con i suoni e con paesaggi post industriali che sembrano arrivare da una realtà del dopo bomba (quella atomica), ambienti scovati in alcune location sovietiche e che pare abbiano lasciato più d'un segno di malattia in diversi membri della troupe a causa dell'inquinamento chimico dei luoghi scelti per le riprese.


Da qualche parte in Russia c'è un luogo dove si dice sia caduto un meteorite o dove si è verificato un qualcosa di inspiegabile, le voci si rincorrono ma sempre più si diffonde la credenza che al centro della Zona, così viene chiamata quest'area inavvicinabile, si trovi una stanza dove le persone possono esprimere il loro desiderio più intimo e vederlo realizzato. L'area è ovviamente sorvegliata da guardie armate dello Stato, gli stalker sono delle persone che conoscono la Zona e si offrono di fare da guida e di introdurre illegalmente nell'area chi volesse mettersi alla ricerca della famosa stanza. Uno di questi stalker (Aleksandr Kajdanovskij), contro il parere della moglie (Alisa Frejndlich) organizza una nuova spedizione nella Zona per accompagnare un professore (Mykola Hrin'ko) interessato a scoprire e studiare i segreti della Zona e uno scrittore (Anatolij Solonicyn) alla ricerca di una nuova fonte di ispirazione. Ma sebbene una volta penetrati nella Zona la meta da raggiungere apparentemente non sembri lontana, la strada da percorrere non è mai diretta, lo stalker sa che la via non è mai la stessa e quella che sembra una distanza facilmente colmabile potrebbe rivelarsi piena di insidie ma soprattutto colma di dubbi, riflessioni e domande. La Zona non accetta ciò che è facile, non accetta una retta che unisca i punti A e B, non accetta armi, non accetta colpi di testa, questo uno stalker lo sa... ma chi sa cosa sa davvero uno stalker? Quali pericoli sono reali? Qual è lo scopo del viaggio? Cosa è dettato solo dalla paura? Quale la strada da seguire? Come trovare le risposte? In cosa credere? Che cosa ha veramente importanza?


Domande. Riflessioni. Alte, altissime, sull'uomo, sulla vita. Tutto nella Zona sembra fermo, i ritmi di Tarkovskij sono dilatati, rifuggono la rapidità, l'incedere è avvolgente, riflessivo, le inquadrature sono quadri su un panorama devastato, su una natura che pezzo dopo pezzo tenta di riprendersi ciò che l'uomo ha corrotto, emblematica la visione sulle rovine degli armamenti inghiottiti dal verde. Si rincorrono gli specchi d'acqua, putrida, contaminata, che spesso cela l'umana bruttura che nel corso del film diventa tutta interiore, di un'umanità che incarna desideri piccoli, meschini, che ha smesso di credere nei valori più puri dell'uomo ma anche e soprattutto in qualcosa di oltre l'umano e di più grande. L'approccio dell'uomo alla Zona, alla vita, è di totale nichilismo, una disillusione ben rappresentata in più momenti dalle parole dello scrittore che non riesce più nemmeno a trovare motivi validi per tornare alla sua arte, perché l'ispirazione è perduta, perché lui, in quanto esponente della razza umana è ormai irrimediabilmente inaridito. E anche chi come il professore è in cerca di qualche verità la troverà mutevole, incerta, finanche temibile e pericolosa tanto da volerla distruggere per una sfiducia diffusa nei confronti dei propri simili; solo lo stalker sa qual è il suo posto nella Zona, qual è la sua importanza, perché fuori da lì non è rimasto nulla. È la stanza cos'è? Un dono? Un messaggio? Da parte di chi? Per chi? Forse per i deboli, perché "la debolezza è potenza, la forza e la rigidità appartengono al campo della morte".

Si rimane di fronte al mistero della stanza, dopo questo lungo viaggio, a farsi domande, a cercare risposte. Chi di noi avrà il coraggio di andare fino in fondo?

domenica 5 aprile 2020

SPIDER-MAN: UN NUOVO UNIVERSO

(Spider-Man: Into the Spider-Verse di Bob Persichetti, Peter Ramsey, Rodney Rothman, 2018)

Per chi ha un po' di confidenza con i comics americani e con il mondo a fumetti dei supereroi sa bene che la trama di Spider-Man: Un nuovo universo non ha poi nulla di davvero nuovo e originale, nella sua concezione come nello sviluppo, quello che rende il film diverso dai suoi simili in live action, oltre alle tecniche di realizzazione che, quelle sì, risultano davvero originali, fresche e hanno il sapore di una gradita ventata di nuovo, è proprio la volontà di mantenere un legame molto forte con il suo medium d'origine, il fumetto, quello che ancor oggi la maggior parte degli spettatori dei vari cinecomics snobba e guarda con sufficienza. In questo senso il film di Persichetti e soci sarà una vera gioia per i Marvel fan e in generale per gli amanti della Nona Arte, l'impianto visivo infatti unisce il dinamismo e i ritmi dei film di supereroi a un'estetica modernissima ma che recupera numerose delle caratteristiche proprie della carta stampata in un'amalgama altamente funzionale e a tutti gli effetti sorprendente.

Miles Morales vive a Brooklyn, suo padre fa il poliziotto e vuole che il figlio frequenti un college prestigioso, ma Miles vorrebbe rimanere nel quartiere, dedicarsi all'arte dei graffiti, seguire i suoi desideri senza dover essere forzato dalle aspettative del genitore, magari passando un po' di tempo con il suo adorato zio Aaron. Miles è anche un fan di Spider-Man, ovviamente inviso al padre per via del suo essere un vigilante. Durante una sortita nelle gallerie della metro in cerca di uno spazio per realizzare dei graffiti Miles viene punto da una ragno geneticamente modificato, acquisisce così poteri simili (ma non uguali) a quelli di Spider-Man compresi una sorta di tocco velenoso e la capacità di diventare invisibile in determinate situazioni. Nello stesso luogo qualche tempo dopo il ragazzo si imbatterà nelle macchinazioni di Kingpin che tramite un acceleratore di particelle sta cercando di accedere a un universo parallelo nella speranza di poter incontrare ancora una volta la sua defunta moglie Vanessa e suo figlio Richard. Nello scontro che ne seguirà, al quale prenderà parte anche Spider-Man/Peter Parker, l'acceleratore di particelle aprirà un ponte verso nuovi universi dai quali confluiranno diverse versioni di Spider-Man: Lo Spider-Man/Peter Parker di un altro universo (quello degli storici fumetti), un uomo sconfitto e sfiduciato, divorziato da MJ e con l'autostima distrutta, Spider-Gwen, uno Spider-Man Noir uscito da una sorta di realtà hard boiled, Peni Parker che sembra arrivare da un manga con tanto di mecha al seguito e Peter Porker, Spider-Ham, lo Spider-Man maiale. Questi strani elementi dovranno collaborare e farsi forza l'un l'altro ognuno per trovare il suo posto nel mondo e tutti per sconfiggere la minaccia messa in moto da Kingpin e dai suoi alleati (Lapide, lo Scorpione, Goblin, Octopus).


Sorvolando sulla trama che comunque gode di una buona dose di ironia, meccaniche proprie delle serie a fumetti, personaggi indovinati e il giusto messaggio educativo e di fiducia rivolto agli spettatori più giovani, quello che realmente funziona alla grande in Spider-Man: Un nuovo universo è la realizzazione tecnica. Si mescolano le tecniche d'animazione più moderne, senza mai dare l'impressione di trovarsi di fronte ad effetti invadenti da CGI, anzi avvicinandosi in maniera predominante al disegno più classico che viene qui ripreso con numerose strizzate d'occhio agli amanti della carta e di quell'esplosione di pop-art nata dai comics dei '60/'70, a partire dalla colorazione dei personaggi che richiama i retini e i riempimenti "a pallini" dei vecchi comics, così come sono riprese durante la narrazione le didascalie esplicative che compaiono sullo schermo, i rumori onomatopeici integrati perfettamente all'animazione più moderna e fluidissima, e poi i numerosi richiami agli Spider-Man di Sam Raimi, ai cartoni animati che abbiamo visto da bambini su Supergulp, alla famosissima sigla del cartone animato e ovviamente alla storia a fumetti dell'Uomo Ragno. I creatori di quest'opera capace di aggiudicarsi l'Oscar 2019 per il miglior film d'animazione sono riusciti a creare un connubio perfetto tra classico e moderno, unico neo la sensazione ogni tot di star guardando un'immagine 3D ma senza occhialini, sensazione comunque che fa capolino ogni tanto e che non inficia la visione del film. Spider-Man: Un nuovo universo potrebbe aprire una strada nuova per l'animazione, non è poco e non è cosa da tutti.

PS: non perdetevi la scena dopo i titoli di coda!

venerdì 3 aprile 2020

GUNS AKIMBO

(di Jason Lei Howden, 2019)

Avvertenza! Prima di accingersi alla visione scollegare il cervello.

Sembra proprio che Daniel Radcliffe stia tentando in tutti i modi di lasciarsi Harry Potter alle spalle, in questo caso perlomeno si adopera per farlo con esiti parecchio divertenti. Carte in tavola, con Guns Akimbo si va giù d'ignoranza, ci si butta nella visione di un film tarantolato per la sua interezza o quasi, a scavare ci si può trovare anche uno specchio esagerato e distorto di alcuni aspetti della società social del giorno d'oggi, ma quel che qui interessa sono il sangue, le sparatorie, la musica, il ritmo, i personaggi chilometri sopra le righe, la comicità demente e le situazioni più assurde, il modo ideale di passare un'oretta e mezza (tanto dura il film) lontano dai pensieri da recluso e dalla pesantezza della situazione che c'è fuori dalla porta di casa.

Siamo in un futuro prossimo praticamente identico al nostro presente, Skizm è un'applicazione illegale che organizza incontri all'ultimo sangue tra pretendenti pronti a tutto, gli scontri che si tengono nelle strade della città sono ripresi tramite droni e vanno in diretta web, lo streaming di Skizm è seguito da centinaia di migliaia di persone, la star indiscussa dello show è Nix (Samara Weaving), una giovane donna dalla mira infallibile e vero asso della guida. Miles (Daniel Radcliffe) è invece un povero sfigato di indole debole, è un bravo programmatore che lavora nel campo dei videogiochi, aborre la violenza e non riesce a riconquistare la sua ex. Ah, odia i troll da tastiera e appena può ama trollarli a sua volta senza pietà. Dopo una giornata di ordinarie umiliazioni Miles torna a casa e, collegatosi su Skizm, inizia la sua pratica di trollaggio, peccato che qualcuno dei vertici della app lo intercetti e decida di fargliela pagare. Poco dopo a casa di Miles si presenta Riktor (Ned Dennehy), uno psicopatico dal volto completamente tatuato che tramortisce il ragazzo. Quando Miles si sveglia si ritrova tumefatto e con due pistole imbullonate alle mani che gli impediscono di fare qualsiasi cosa tranne sparare, come presto imparerà a sue spese. Sotto minaccia Miles è costretto a partecipare agli scontri di Skizm, per liberarsi da quest'incubo dovrà affrontare nientemeno che la campionessa indiscussa Nix, praticamente una killer professionista fuori di zucca.


Guns Akimbo è uno di quei film che non si possono prendere sul serio nemmeno per un secondo, dove tutto è grottesco e anche la più volenterosa sospensione d'incredulità non servirà ad attenuare la sensazione di esagerazione che si respira lungo tutta la durata del film, cosa di cui il regista è ovviamente più che consapevole (almeno spero). Detto questo, bisogna ammettere che ci si diverte a vedere uno spaesato Radcliffe (molto in parte) vagare per una città lercissima con le pistole imbullonate alle mani, in vestaglia, senza pantaloni, con un paio di ciabattone a zampa d'orso e la faccia impaurita. Anche le scelte estetiche di Jason Lei Howden sono molto marcate, scene d'azione violentissime con schizzi di sangue ed esplosioni corporee che attingono a piene mani dall'immaginario videoludico, mai disturbanti in quanto mai riconducibili alla sfera del reale, e poi sprazzi di colore, regia mobilissima, colonna sonora sparata e ottundente e sviluppi di trama, scene madri comprese, che lasciano il tempo che trovano in una narrazione che punta sulle battute, sull'azione e sulle situazioni più assurde (provate voi a fare pipì usando solo la punta di due canne di pistola con il rischio di spararvi nelle palle!). Alla fine lo strano amalgama funziona bene, Guns Akimbo non ha grande valore artistico, ciò nonostante mi sembra un film consapevole del suo posto nel mondo (lo scaffale delle opere tamarre ma divertenti) e in fin dei conti proprio per questo anche riuscito. Probabilmente l'idea era quella di distribuirlo nelle sale, vista la situazione di serrata totale arriva direttamente su Prime Video.

mercoledì 1 aprile 2020

DOWNTON ABBEY - STAGIONI 1 - 6

Period drama di grandissimo successo, lungo le sue sei stagioni la serie Downton Abbey è riuscita a crearsi un pubblico affezionato e fedele grazie al quale le vicissitudini della famiglia Crawley, Conti di Grantham, sono approdate anche sui grandi schermi delle sale cinematografiche con Downton Abbey - Il Film che di fatto riprende e prosegue la narrazione degli eventi legati ai personaggi che abbiamo imparato a conoscere e amare lungo l'arco delle sei annate precedenti.

La serie creata da Julian Fellowes poggia su un'ottima scrittura, l'ideatore è anche sceneggiatore di tutti gli episodi della serie, compreso il film, cosa che dona un'unità di struttura e una coerenza allo show che sul lungo periodo ripaga il suo creatore di tutti gli sforzi, qualità molto alta nello sviluppo dei personaggi lungo il corso degli anni e una costanza di tenuta qualitativa anche negli sviluppi narrativi, sebbene le prime stagioni avessero quel qualcosa in più capace di attrarre maggiormente lo spettatore verso la serie, non che le ultime stagioni siano meno efficaci, tutt'altro, pagano però la mancanza di alcuni personaggi che durante il viaggio, per un motivo o per l'altro, abbandonano le verdi terre dello Yorkshire. Proprio qui è ambientata tutta la vicenda (anche se in realtà Highclere Castle, la location principale, si trova nell'Hampshire), all'interno e nei pressi della dimora nobiliare di Downton Abbey di proprietà della famiglia Crawley, una tenuta a pochi chilometri da York (nella finzione) e centro delle vite di tutti i protagonisti.


La serie è molto legata agli eventi storici del periodo, si apre con la tragedia del Titanic, siamo quindi nel 1912, il Conte di Grantham (Hugh Bonneville) e la sua famiglia apprendono della morte sulla nave di un cugino, quello che avrebbe dovuto essere l'erede naturale del titolo di Conte e della futura gestione di Downton, essendo il titolo a discendenza maschile sorge il problema della successione in quanto "Sua Signoria" ha solo tre figlie: l'altezzosa Mary (Michelle Dockery), la bistrattata Edith (Laura Carmichael) e la giovane Sybil (Jessica Brown-Findlay), la più emancipata delle tre. Tutto il primo arco narrativo verte sul destino della tenuta che rischia di finire in mano a parenti lontanissimi e sconosciuti alla famiglia, in linea di successione il titolo dovrebbe andare infatti a Matthew Crawley (Dan Stevens), un avvocato di provincia del tutto disinteressato al titolo e alla vita sfarzosa che conduce la nobiltà inglese, in un'epoca che inizia a vedere il declino della classe sociale nobiliare.


Oltre alle vicende della famiglia Crawley sempre appassionanti, quello che funziona sopra a tutto il resto in Downton Abbey è l'accuratissima ricostruzione storica, una minuziosità che sfocia in costumi splendidi, una location mozzafiato, un'attenzione superba per arredi, eventi e soprattutto usi e costumi. È divertente vedere le reazioni della tradizionalista e conservatrice Violet Crawley (Maggie Smith), la Contessa Madre, a tutte le diavolerie moderne che raggiungono Downton nel corso della serie, dalla luce elettrica in casa, fino all'installazione del telefono (una moda passeggera, si dice) o alla commercializzazione dei primi grammofoni, per non parlare poi delle automobili e dello sradicamento di convenzioni sociali ormai vetuste. Larga parte della riuscita della serie è data dal contrasto dello stile di vita del piano di sopra (quello della famiglia) e quello più austero (ma comunque dignitoso per l'epoca) della servitù tra la quale vige una gerarchia rigidissima, all'apparenza ancor più rigida di quella che si instaura tra nobili, dove il capo supremo è il maggiordomo Charles Carson (Jim Carter, che si imparerà ad amare in un attimo proprio grazie alla sua inscalfibile rigidità) coadiuvato per quel che riguarda le cameriere dall'impeccabile Signora Hughes (Phyllis Logan). Tra il personale uno stuolo di caratteri tra i più disparati alcuni dei quali saranno una costante per tutta la serie, altri invece andranno e verranno.


Cast di prim'ordine, si può dire che nella miriade di personaggi presentati lungo le sei stagioni non ce ne sia uno fuori posto, interpreti magnifici a partire dal Conte di Grantham fino ad arrivare al cane dello stesso. Ognuno degli interpreti riesce a dare corpo e carattere a una serie di personaggi ai quali si finisce per affezionarsi, a tutti, anche ai più meschini che in quanto umani hanno sempre una nota triste, slanci d'altruismo o qualche debolezza per cui alla fine gli si perdona quasi tutto. Si chiude (per ora) con un film che per forza di cose presenta una struttura più chiusa (ma neanche troppo, consigliato solo ai fan della serie), si opta quindi per una visita da parte del Re Giorgio V (Simon Jones) e della Regina Mary (Geraldine James) a Downton, con conseguente fervore per i preparativi di un evento che porta oneri e onori. Ora Julian Fellowes sta lavorando a un altro period drama, Belgravia, si spera però che il film del 2019 non sia l'ultimo capitolo dell'avventura, pare che nuove notizie a riguardo siano in arrivo.

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