mercoledì 27 marzo 2019

JURASSIC WORLD - IL REGNO DISTRUTTO

(Jurassic World: fallen kingdom di Juan Antonio Bayona, 2018)

Un film come Jurassic World - Il regno distrutto si potrebbe facilmente liquidare con poche parole, con la sufficienza che spesso si riserva ai blockbuster, sentenziando che anche all'interno di questo segmento il film risulta parecchio noioso e non riesce ad assolvere per bene nemmeno al compito di far trascorrere piacevolmente un paio d'ore. In effetti è così, se quelle due ore le avete, personalmente vi consiglio di impiegarle facendo altro. Però. Però quando si parla di Cinema ogni idea che germina dalla mente di Spielberg, in questo caso ideatore della saga e ancora produttore, diventa teoria da studiare, materia su cui fare analisi e riflettere, ragion per cui non ci è permesso liquidare questo film in quattro e quattr'otto. E non lo faremo, nondimeno io continuerò a consigliarvi di fare altro piuttosto che dedicarvi alla visione di questo film, a meno che non siate dei completisti e non adoriate a prescindere tutto ciò che è legato a Spielberg o ai dinosauri.

Iniziamo con il dire che potremmo considerare Il regno distrutto sia come il primo sequel di Jurassic World, rilancio del franchise partito nel 2015 con ottimi risultati (il primo episodio era decisamente più divertente di questo), sia come quinto capitolo della saga nata nel 1993 per mano di Spielberg: il film è fruibile in entrambi i casi, si potrebbero addirittura ignorare i primi tre capitoli e godersi solo i due più moderni; altra industria, altro pubblico. Una prima riflessione che si può tirar fuori dal film, e che accomuna diversi dei capitoli della saga fin dai suoi esordi, è quella sull'etica e sulla morale, argomento qui trattato in maniera molto blanda ma pur sempre attuale. Quali sono per l'uomo i limiti da non oltrepassare? Dopo aver ricreato la vita come dei novelli Frankenstein ed aver fatto una mole di danni esagerata, non sarebbe ora di smettere di giocare con ciò che non ci compete? Questa è la posizione del dottor Malcolm (l'ormai storico Jeff Goldblum) che di fronte alla minaccia di una seconda estinzione dei dinosauri, data dall'eruzione del vulcano dell'isola Nublar sulla quale sono stati relegati i dinosauri ancora in vita, sostiene che l'uomo non dovrebbe intervenire in modo che la Natura rimetta a posto un ecosistema che l'umanità ha forzatamente corrotto. Clonazione e sue conseguenze, dilemma noto e meglio dibattuto altrove, non è il succo del film ma riserva almeno una buona sorpresa lungo il suo svolgimento; la decisione sul futuro dei dinosauri è invece il motore che permette ancora una volta all'uomo, nella fattispecie Eli Mills (Rafe Spall), di lucrare sulla situazione e mettere nuovamente in pericolo l'umanità e a Claire (Bryce Dallas Howard) e Owen (Chris Pratt) di entrare ancora una volta in azione per salvare i loro amici dai denti aguzzi.


Con la scusa di salvare i dinosauri dalla distruzione dell'isola e portarli in un ambiente isolato e protetto, in realtà col fine di rivendere i bestioni tramite un'asta a privati di discutibile moralità, Mills coinvolge nel progetto la coppia di ex amanti formata da Claire e Owen, pedine importanti per il trasferimento di diverse specie nella tenuta di Lockwood (James Cromnwell), uno dei soci del progetto iniziale. Apriamo qui la seconda parentesi. Cosa potrebbe avere di nuovo da raccontarci una saga come quella di Jurassic Park/World? All'apparenza poco o niente, allora su cosa andare a lavorare? Sull'aspetto nostalgico e sull'omaggio (che sembra non far mai male) e sullo scarto (inteso non come immondizia, ma come deviazione dal già noto). Qui interviene Juan Antonio Bayona, regista formatosi con atmosfere più tese e angoscianti, che qui si trova a dover mettere del suo in un film che tutto sommato arranca e che non presenta idee abbastanza originali da scongiurare i colpi di sonno (e giuro di essermi addormentato più volte durante la visione, un crimine imperdonabile per un blockbuster). In un ambiente chiuso, quello della tenuta Lockwood dove troneggia uno splendido maniero, assistiamo a sequenze di fuga dal dinosauro che richiamano molto alcune scene dei Jurassic Park di Spielberg, l'omaggio è palese in alcuni frame e riesce anche a farci valutare l'avanzamento della tecnologia legata al Cinema, sicuramente un aspetto piacevole per i fan della prima ora che Bayona maneggia con divertito rispetto. Può divertire ma può profumare anche di già visto, a seconda dei gusti che si sa, non sono tutti alla menta. L'altra idea è quella di creare la situazione ideale per un regista che maneggia anche l'orrore per creare quello scarto di cui parlavamo prima: un ambiente chiuso, claustrofobico, mostri in caccia (che altro sono i dinosauri?), corridoi, fughe, porte, buio, inseguimenti tesi... elementi degni di un horror che purtroppo, come sa benissimo lo spettatore, non possono portare a nulla e quindi non spaventano e non creano tensione. Perché questo non è Alien, è un blockbuster innocuo per famiglie dove non si versa una stilla di sangue e per il quale nessun adulto tratterrà il fiato, allora a che pro tentare di trasferire in un contesto angoscioso ciò che sappiamo che angoscia non può produrre?


Di tutta la vicenda l'aspetto più interessante (piccolo spoiler) è il finale, nel quale alcuni dinosauri riusciranno a fuggire dalla tenuta, e questa volta non siamo su un'isola, i mostri sono liberi di scorrazzare fino ad arrivare in città. Questo mi sembra un contesto potenzialmente più interessante che potrebbe scatenare almeno la furia distruttrice dei nostri simpatici amici. Capitolo soporifero e davvero poco entusiasmante che potrebbe però aprire la strada a qualcosa di più divertente. Attendiamo ma senza trattenere il fiato.

martedì 26 marzo 2019

HARRY POTTER E LA MALEDIZIONE DELL'EREDE

(Harry Potter and the cursed child, di J. K. Rowling, 2016)

Nel corso degli anni la saga di Harry Potter ideata da J. K. Rowling si è costruita un seguito di fan fedele e imponente, uno squadrone di piccoli e grandi estimatori che anelavano un nuovo capitolo delle avventure del giovane mago arrivate a conclusione con l'ultimo libro della serie, Harry Potter e i doni della morte, nel lontano 2007, con una coda dovuta all'attesa e all'uscita dei relativi film (l'ultimo libro è stato trasposto al Cinema da David Yates in ben due lungometraggi). Nel 2016 esce finalmente questo Harry Potter e la maledizione dell'erede, una storia che vede protagonista una nuova generazione di maghi, figli dei più celebri personaggi ideati dalla Rowling, purtroppo non si tratta di un romanzo vero e proprio, bensì di un'opera teatrale sceneggiata da Jack Thorne su soggetto della Rowling, di Thorne stesso e di John Tiffany. Diciamo purtroppo semplicemente perché non tutti i fan della saga avranno avuto modo di assistere all'opera in teatro, una rappresentazione che ha vinto numerosi premi di settore un po' ovunque, probabilmente un'esperienza appagante che arriva in seguito nelle case di tutti i fan sotto forma di scriptbook, quello che a tutti gli effetti diventa l'ottavo libro delle avventure di Harry Potter.

Il limite maggiore dell'opera su carta sembra essere la mancanza di peso, di consistenza di una storia che il fan duro e puro avrà letto in pochissimo tempo. È vero che il libro conta poco meno di 350 pagine, ma essendo queste prive di descrizioni e caratterizzate come tutti gli script teatrali prevalentemente da dialoghi, il tempo di lettura risulta assai ridotto. L'aggravante maggiore sta nel fatto che il mondo potteriano, fatto di meraviglie affastellate l'una sull'altra, di ambienti fantastici, trovate fantasiose e descrizioni puntuali e immaginifiche, esce un poco mortificato da una storia che ovviamente perde l'aspetto visivo e sensoriale pensato per il teatro e difetta anche della bravura descrittiva della Rowling che tramite lo script non può restituire i fantastici mondi presenti nella sua testa, conditio sine qua non per rientrare a dovere nelle atmosfere di Hogwarts e dintorni. Peccato, perché se La maledizione dell'erede fosse stata sviluppata in un romanzo classico, con le dovute aggiunte e il giusto contorno, avrebbe potuto essere l'ennesimo tassello ben riuscito di una saga dall'enorme successo. Anche perché lo sviluppo di per sé non è affatto malvagio.


Sono passati diversi anni dall'ultima volta che vedemmo Harry Potter in azione, come anticipato nel finale de I doni della morte, Harry ha sposato Ginny dalla quale ha avuto tre figli: James, Albus Severus e Lily. Ron ed Hermione hanno messo al mondo la piccola Rose, ora è giunto il momento anche per questa nuova generazione di affrontare il binario 9 e 3/4, l'Espresso per Hogwarts e tutto quello che comporta l'ingresso nel mondo della magia, compresa l'assegnazione nelle casate da parte del Cappello Parlante e l'incontro con il figlio di Draco Malfoy, il giovane Scorpius. Esattamente come anni prima l'incontro tra i tre ragazzi ormai noti a tutti cementò un'amicizia inscindibile, anche questo primo viaggio per Hogwarts vedrà la nascita di un'unione fortissima: quella tra Albus Severus Potter, figlio del mito, e Scorpius Malfoy, discendente di una stirpe malevola di Serpeverde, figlio di Draco o forse, come si vocifera, direttamente del Signore Oscuro Voldemort. Quelli che sembravano due ragazzi destinati a essere nemici giurati o quantomeno a non provare simpatia l'uno per l'altro, trovano un legame d'amicizia profondissimo che servirà loro ad affrontare rapporti familiari non sempre facili e il possibile ritorno di VOI SAPETE CHI!

Al centro de La maledizione dell'erede ci sono i legami affettivi e familiari, Albus è intimidito dal confronto con un padre che è entrato nel mito e che forse non lo capisce in pieno, sempre preoccupato di proteggere il figlio a causa di un'amore sconfinato ma che non è capace di dimostrare, Scorpius invece paga gli errori del padre (e del nonno e di tutta la sua stirpe) e le voci messe in giro dalle malelilngue, ma in fin dei conti il ragazzo non è un cattivo soggetto, anzi. In questo capitolo vengono messe in dubbio alcune certezze, si scombinano un poco le carte in tavola, con un'operazione nostalgia si riprendono alcuni dei personaggi centrali della saga e si guarda al passato, con un'occhio di riguardo al quarto capitolo: Il calice di fuoco. Si torna volentieri nel mondo di Harry Potter, questo script ci dà la possibilità di sbirciare il futuro dei piccoli (ora grandi) eroi, ci permette di far la conoscenza della loro progenie tramite una lettura molto piacevole e altrettanto veloce... peccato quel senso di incompletezza, di evanescenza, che solo un romanzo con tutti i crismi avrebbe potuto dissipare.

Oppure... oppure bisognerebbe aver la fortuna di poter assistere allo spettacolo teatrale messo in scena da Jack Thorne, allora sì che le cose potrebbero assumere il giusto spessore... purtroppo non conosco nessuno che abbia avuto questa possibilità... o forse si? Aspettate un momento...


to be continued... ?

venerdì 22 marzo 2019

THE VVITCH

(The Witch di Robert Eggers, 2010)

Davvero un bell'esordio nel lungo per Robert Eggers che confeziona un horror d'atmosfera non privo di difetti ma con diverse frecce al suo arco, prima fra tutte una ricostruzione scenica molto ben realizzata e avvincente. Per alcuni aspetti The VVitch ricorda il The Village di M. Night Shyamalan, per la messa in scena, per il contesto da "comunità chiusa", per l'incombere minaccioso della foresta che cela pericoli e per il crescendo sul finale per il quale a Shyamalan possiamo riconoscere il guizzo, il colpo di genio (telefonato dirà qualcuno, io non sono d'accordo) del quale il regista è maestro, a Eggers una chiusura d'impatto appagante e che insieme a tutta l'ultima parte del film serve a far perdonare alcune lentezze e cali di ritmo che affliggono l'opera nella prima parte.

1630, New England. Una famiglia d'origine inglese viene cacciata dalla propria comunità a causa del loro eccessivo fervore religioso, una fede così densa del quale il capofamiglia William (Ralph Ineson) è convinto di detenere la giusta visione. Così William con la moglie Katherine (Kate Dickie), la primogenita Thomasin (Anya Taylor-Joy), il più piccolo Caleb (Harvey Scrimshaw), il neonato Sam e i gemellini Mercy (Ellie Grainger) e Jonas (Lucas Dawson) si trasferisce in una piccola fattoria isolata, in una radura ai margini della foresta. La famiglia vive in miseria tentando di far crescere un poco di grano e di ottenere del latte dalle loro capre. Tra tutti Thomasin è la più incerta della propria fede, si sente spesso in dovere di chiedere perdono per quelli che considera peccati, se non le manca la volontà di seguire quella che per l'educazione inculcatagli è la retta via, la ragazza mostra qualche segno di cedimento, difficoltà che tocca anche la madre Katherine che inizia a patire le continue avversità alle quali la famiglia viene sottoposta, avversità provocate dai loro stessi peccati secondo la visione di William. Per i due coniugi e per i bambini ci sono solo Dio da una parte e l'Avversario, il maligno, il demoniaco e la stregoneria dall'altra. Un giorno Thomasin si allontana con il fratellino nato da poco per una passeggiata, un secondo di distrazione e Sam è scomparso, come inghiottito dalla foresta, forse rapito dalla strega del titolo. Questo è solo il primo episodio di una serie di avvenimenti che mineranno l'unione della famiglia, la sua sicurezza e scalfiranno persino la fede in Dio.


I veri spaventi ai quali lo spettatore può andare incontro guardando The VVitch non sono più di un paio (caro vecchio jump scare); è l'atmosfera perturbante a tenerlo in tensione, le strane voci nei boschi, quella vecchia raggrinzita cosparsa di sangue e inquadrata solo di schiena, il confine tra i luoghi del vissuto e la minaccia potenziale rappresentata da una foresta che simboleggia l'ignoto e il pericolo, ciò che non si conosce e che non ci appartiene, il tutto reso più cupo da una fotografia che non illumina mai a pieno i personaggi e la minaccia incombente, sia questa incarnata dal bosco, da una vecchia, da una giovane conturbante o da un ben più classico caprone nero in odore di zolfo. In questo contesto, quando il male si insinua tra i protagonisti del racconto (dopo la scomparsa del neonato), nemmeno l'istituzione familiare può garantire protezione, anzi, è proprio al suo interno che si scatenano paure, rancori, disapprovazione, fallimenti e sensi di colpa. Il legame si sfalda: la madre accusa la figlia maggiore in età di fioritura, figura femminile prossima a sbocciare e in qualche modo minacciosa, quest'ultima con la maturità comprende i fallimenti del padre, innesca pensieri impuri nel fratello più piccolo, spaventa i gemelli e allo stesso tempo ne patisce l'indole burrascosa e in qualche misura anche cattiva. In Caleb la fede scatena per lo più paura dell'Inferno, del dolore, nella madre vacilla sempre più, Katherine si vede maledetta, ma tutto ciò è retaggio dell'educazione religiosa o veramente sta accadendo qualcosa di nefasto?


La famiglia, la fede, il fondamentalismo, l'isolazionismo e le minacce che arrivano dall'esterno... le chiavi di lettura in The VVitch sono molteplici, peccato che in tutta la prima parte del film si avverta un'eccessiva staticità, un senso di lungaggine che in parte ridimensiona l'esito di un film di per sé buono ma che avrebbe potuto colpire ancor più nel segno. Fortunatamente il crescendo finale riscatta tutte le incertezze, salgono i ritmi, le inquietudini e Eggers trova anche una chiusura giusta e d'effetto che non delude e che garantisce al film un'esito finale più che degno. Il demoniaco è sempre argomento delicato capace di turbare, anche in questo tutto sommato il film raggiunge il suo scopo. Bella la rivelazione Anna Taylor-Joy, giovane attrice capace di tenere la scena a dovere e che dopo questo film è stata scelta proprio da Shyamalan per i suoi Split e Glass.

Come dichiarato dal regista, lo spunto per The VVitch arriva dalle fiabe, da quelle favole per bambini che nelle loro versioni originali, ormai lo sappiamo, avevano il cuore terribilmente nero. In effetti tutti gli elementi combaciano.

martedì 19 marzo 2019

FROZEN RIVER - FIUME DI GHIACCIO

(Frozen river di Courtney Hunt, 2008)

Frozen river è un thriller immerso nel ghiaccio e nelle nevi dello Stato di New York, su al nord, al confine con il Canada, dove il fiume San Lorenzo separa le due nazioni, così vicine eppure così diverse tra loro. La regista Courtney Hunt, anche sceneggiatrice, pone al cuore della sua opera non tanto l'intreccio, di per sé abbastanza lineare, quanto la stratificazione dei due personaggi principali, due donne che dovranno adattarsi a situazioni estranee al vivere comune per far fronte a miseria e solitudine, prerogative in cui sono immerse le vite di Ray Eddy (Melissa Leo) e di Lila Littlewolf (Misty Upham).

Ray sta aspettando la nuova casa, una di quelle villette che negli Stati Uniti si consegnano su di un camion, un'abitazione acquistata con i soldi di tanti sacrifici, una speranza di togliere dalla condizione di vita miserevole in cui sono costretti a crescere i suoi due figli, il quindicenne T. J. (Charlie McDermott) e il figlio minore di soli cinque anni. Purtroppo il marito di Ray, che nel film non vediamo mai, sparisce con i soldi del saldo, motivo per cui la casa nuova se ne torna indietro sullo stesso camion con cui è arrivata. Il tempo stringe, Ray deve trovare i soldi per avere la casa e non perdere quanto versato d'anticipo, combattendo ogni giorno per mettere in tavola qualcosa di diverso da popcorn e aranciata per i suoi figli, per pagare la rata del televisore e per provvedere alle riparazioni immediate che la vecchia casa richiede. Natale sta arrivando e la soglia della dignità forse è già stata dimenticata. A versare benzina sul fuoco arriva il furto della sua auto ad opera di Lila, una nativa americana che vive in una roulotte nella vicina riserva Mohawk. A Lila hanno portato via il figlio di appena un anno, ottenere giustizia nella riserva non è facile, dopo un conflitto iniziale e diverse minacce, le due donne si troveranno in auto ad attraversare il fiume ghiacciato, un confine poco sorvegliato lungo il quale Lila traffica in clandestini, occupazione che le permette di accumulare soldi per il figlioletto che spia da lontano e che sarà la soluzione per Ray con cui far fronte ai suoi problemi. Quello che non può la società civile...


L'ambiente è gelido, in tutti i sensi, il fiume ghiacciato incombe minaccioso, soprattutto quando attraversato in notturna. Un gabbiotto, un contatto, il Canada, i clandestini nel bagagliaio, di nuovo il fiume, gli Stati Uniti. Un viavai che ci aspetteremmo di vedere nelle lande assolate ai confini con il Messico, verso sud, qui invece tutto è ribaltato, freddo, ghiaccio, buio; non ci sono uomini cattivi, solo due donne che in qualche modo devono continuare a vivere. Il rapporto di conoscenza tra le due donne assume toni tanto tragici quanto solidali, se è possibile intravedere una luce in fondo al tunnel, le possibilità, le prospettive che offre l'ambiente dei dimenticati, di chi è ai margini della società, si rivelano irrisorie e portano a cercare via alternative. Se nel corso del film non mancano momenti più tesi dove si tiene un po' il fiato per il destino delle due donne (e non solo), è proprio la crescita di un legame coltivato all'ombra della necessità e dell'illegalità a rendere Frozen river decisamente interessante. Dal punto di vista estetico la regista nulla concede al bello, lo squallore prevale, anche il paesaggio sicuramente magnifico se ripreso dalla giusta angolazione (basti guardare le foto del San Lorenzo sul web), sembra qui foriero unicamente di solitudine, asprezza e difficoltà da superare, il volto della Leo è segnato, affaticato, la definizione di white trash, almeno per quel che concerne la miseria materiale, non può non tornare alla mente. Ma tutto quel che l'ambiente e la condizione sociale negano si trova nella forza delle due donne, una forza diretta nell'unica direzione possibile.

La Hunt supera il battesimo del fuoco dietro la macchina da presa in maniera brillante senza però suscitare grande clamore, peccato si sia dovuto aspettare quasi un decennio per la sua opera successiva, anche quella non proprio di primo piano. C'è tanto equilibrio in Frozen river, tutto è misurato, una misura che spesso manca anche al Cinema più blasonato.

sabato 16 marzo 2019

GREEN ZONE

(di Paul Greengrass, 2010)

Armi di distruzione di massa. Quante volte leggendo articoli sulla guerra in Iraq, ascoltandone le cronache ai telegiornali, abbiamo sentito nominare questo spauracchio che in seguito si è rivelato solo opportunistico fumo negli occhi? Paul Greengrass parte da questo spunto, tutt'altro che secondario, per darci la sua visione della guerra praticamente in tempo reale, il film esce nelle sale addirittura prima della chiusura ufficiale del conflitto che terminò con la deposizione di Saddam Hussein a favore di un nuovo governo iracheno fortemente voluto dagli Stati Uniti d'America. Quella di Paul Greengrass è una visione morale del conflitto, critica nei confronti del Governo U.S.A. e dei poteri forti, rispettosa del singolo individuo (perché è vero che non è tutto oro ciò che luccica ma è anche vero che nelle situazioni difficili non sempre tutto è marcio o corrotto), è solidale con le vittime, la popolazione irachena che della Guerra avrebbe volentieri fatto a meno, giusto per usare un eufemismo. Questa visione della Seconda Guerra del Golfo, analizzata (ma neanche troppo) dalla giusta distanza, è soprattutto l'occasione per realizzare in maniera impeccabile un film di guerra energico ed adrenalinico che, al di là di riflessioni e prese di posizione, trova nella formula action il suo nodo centrale e meglio riuscito. La trama è lineare, prevedibile, ricorda per alcuni versi lo sviluppo del Cinema d'inchiesta giornalistico, quello in cui il marcio affiora poco a poco fino a venire allo scoperto e a travolgere i suoi stessi artefici divenendo il caso del momento. Un caso molto grave nella fattispecie, dato il numero di morti che si contano da ambo le parti dovuti al solito tornaconto politico ed economico degli americani. Quello che impressiona maggiormente è invece lo stile registico dinamico e quasi ansiogeno con il quale il regista ammanta l'intera pellicola. Tantissime riprese a terra con camera a mano ad inseguire i protagonisti, immagine sempre mobile, stacchi continui e rapidi, sensazioni di caos e confusione nelle sequenze d'azione ma tenute sempre sotto controllo, un comparto audio di altissimo livello che dona realismo a riprese già di per sé molto credibili, il tutto senza mai togliere chiarezza di lettura agli eventi, un risultato di tutto rispetto, vero pregio di questo Green Zone.


L'esercito americano ha preso Baghdad, Roy Miller (Matt Damon) è a capo di un'unità dell'esercito incaricata di esplorare diversi siti indicati come possibili nascondigli delle armi di distruzione di massa delle quali il regime iracheno sembra essere in possesso. Dopo diverse missioni il gruppo è ancora fermo al palo, i siti indicati dall'intelligence si rivelano sempre vuoti e le informazioni un buco nell'acqua dopo l'altro. Miller inizia a sospettare che qualcosa di anomalo sia da ricercarsi nelle fonti delle informazioni, esterna i suoi dubbi durante una riunione con i vertici suscitando fastidio in Clark Poundstone (Greg Kinnear), rappresentante del Governo U.S.A. in Iraq, e interesse in Martin Brown (Brendan Gleeson), agente C.I.A. che ha lo stesso punto di vista del militare. Miller così inizia a lavorare e ad indagare sul campo, si avvale della collaborazione di un informatore del posto, Freddy (Khalid Abdalla), grazie al quale riuscirà ad arrivare al Generale Al-Rawi (Ygal Naor), uno dei principali ricercati del famoso mazzo di carte usato dai soldati americani, e a dipanare la matassa che si è creata dietro ai motivi dell'intervento in Iraq.


Il protagonista del film è un uomo che ancora crede nella giusta causa, che ad ogni reazione debba corrispondere una motivazione valida, indiscutibile e moralmente accettabile. Miller, interpretato al meglio da Matt Damon, attore versatile che con la sua faccia comune sembra adattarsi ad ogni ruolo, non è in Iraq per accettare ciecamente le bieche manovre del suo Governo, è un soldato pietoso rispettoso della popolazione locale dalla quale, tramite la figura di Freddy, attraverso pochissime frasi che colpiscono come dei diretti al volto fortissimi, capirà quanto la posizione del suo Paese sia sbagliata e prepotente, lezioni di morale e umanità che purtroppo nell'economia di una guerra internazionale non contano niente. In questi episodi, forse gli unici di contenuto vero, Damon è bravissimo a incassare i colpi, le parole sembra colpiscano davvero più delle pallottole, il resto è costruzione e messa in scena di Storia nota nella cornice di un film di genere molto ben realizzato.

mercoledì 13 marzo 2019

CAPTAIN MARVEL

(di Anna Boden e Ryan Flack, 2019)

Guardando i film della Casa delle Idee (come storicamente viene definita la Marvel) e soprattutto mettendoli a confronto con quelli della Distinta Concorrenza (la D.C. Comics), sembra quasi che ai Marvel Studios ogni cosa riesca al meglio con enorme facilità. Sicuramente questa è una mera semplificazione, dietro al Marvel Cinematic Universe c'è una pianificazione in corso ormai da più di un decennio che ha portato a risultati di ottimo livello (pur non esenti da difetti) nel campo dell'intrattenimento e addirittura alla vittoria di ben tre Oscar per il recente Black Panther. Il franchise Marvel non ha nemmeno bisogno di nomi di richiamo alla regia per andare a segno, i film come si dice in gergo ormai "si vendono da soli", portano carrettate di denaro sonante e fanno la felicità allo stesso tempo di produttori e consumatori. Sul finire della terza fase del progetto denominato Marvel Cinematic Universe, che si concluderà con l'imminente Avengers: Endgame, arriva finalmente il primo film dedicato in toto a una supereroina: Carol Danvers, alias Capitan Marvel (Brie Larson), personaggio storico e di un certo peso all'interno dell'universo a fumetti della Marvel Comics. Anche quando si ha l'impressione che la saturazione da cinecomics sia ormai alle porte (mi era capitato guardando Ant-Man and the Wasp ad esempio), bastano pochi mesi di digiuno e un film come Captain Marvel per far tornare la voglia di andare al Cinema e seguire le avventure di questi eroi in pigiama; il fatto che le avventure di tutti questi eroi siano collegate fra loro non fa che rendere la cosa più avvincente e intrigante (ah, la cara vecchia continuity...).


All'interno del segmento blockbuster supereroico Captain Marvel può considerarsi un ottimo film grazie alla costruzione di una trama molto solida seppur non sempre lineare, caratteristica che spiazza nei primi minuti (quelli ambientati nella galassia dei Kree e che si rivelano anche i più deboli) ma che raccoglie tutti i suoi frutti nella lunghissima sequenza sulla Terra che vede protagonisti oltre a Carol Danvers anche Nick Fury (Samuel L. Jackson) e l'agente Coulson (Clark Gregg). Ci vuole un attimo per arrivare al cuore del personaggio e nel vivo del film, la classica origin story da prima comparsa cinematografica ci viene offerta a piccole dosi, tassello dopo tassello per tutta la durata del film, andando a costruire un bel personaggio che non tradisce troppo le sue origini cartacee legate al Mar-Vell originale, qui completamente ignorato (o almeno molto, molto reinterpretato). Vers (Brie Larson) è un guerriero della razza dei Kree, un membro della Starforce comandata da Yon-Rogg (Jude Law), condottiero nella guerra contro la razza dei mutaforma Skrull. Priva di memoria, Vers ha dei lampi che la rimandano a un vita diversa alla quale non sa dare spiegazione, nemmeno la Suprema Intelligenza dei Kree sembra essere d'aiuto. I tasselli inizieranno pian piano a riemergere e a ricostruire il retaggio terrestre della donna solo in seguito a un rapimento da parte degli Skrull e al precipitare degli eventi che porteranno Vers sulla Terra, luogo dove la sua storia prenderà forma e la trasformazione in Capitan Marvel diverrà definitiva.


L'idea vincente del film è stata probabilmente quella di ambientare il tutto molto prima degli eventi narrati negli altri film del MCU; quando Vers atterra sulla Terra (scusate il gioco di parole) si schianta su un negozio della catena Blockbusters, alcuni film a noleggio, le auto per strada, l'estetica delle scenografie ma soprattutto la musica scelta come colonna sonora, ci riportano a metà degli anni 90 andando ad aggiornare quella vena retrò nostalgica imperante nella cultura pop moderna che per lo più finora si era concentrata sulla riscoperta del decennio precedente, i cosiddetti favolosi eighties. Da qui in avanti il film convince appieno rivelandosi uno dei migliori prodotti Marvel finora concepiti, Vers pian piano diverrà Carol Danvers e colmerà le lacune della sua vita precedente causate da un evento risalente ad ormai sei anni prima, scoprirà l'importanza che avevano per lei la sua amica Maria Rambeau (Eva Padoan) e sua figlia Monica, l'aviazione degli Stati Uniti e la dottoressa Lawson (Annette Bening), riconsidererà il ruolo di Yon-Rogg e della Starforce tutta e metterà in prospettiva persino la guerra Kree/Skrull. Ad aiutarla un Fury e un agente Coulson sui quali è stato fatto un lavoro di ringiovanimento digitale stratosferico, soprattutto per Samuel L. Jackson il risultato è pazzesco e naturale, quasi sulla soglia tra l'irreale e l'immorale (almeno l'attore in questione è ancora vivo). C'è un equilibrio perfetto tra costruzione della storia, omaggi al mondo Marvel (da lacrime quello per Stan Lee in apertura), sequenze ironiche e spiritose, uso della musica, incastri con gli altri film, scene action e letture morali positive sempre educative per i più piccoli. Capitan Marvel è un eroe positivo al 100%, dice no a razzismo, maschilismo e arrendevolezza, cosa si può chiedere di più a un modello femminile che anche dal punto di vista della bellezza risulta più vicino all'umano che non al divino? (vedi ad esempio Margot Robbie o Gal Gadot, vere dee scese in Terra). In più, in ottica futura, Capitan Marvel è uno dei pochi personaggi in grado di poter fare il culo anche a Thanos, e quindi...


Per i Marvel fan: interessante vedere da dove nasca l'idea del nome che Nick Fury sceglierà per il Progetto Avengers, come lo stesso si ritrovi senza un occhio e soprattutto muove un po' di aspettativa quel cognome, Rambeau, ancor più se a portarlo è una bambina di nome Monica.

Nel complesso anche nel portare sui grandi schermi la prima supereroina la Marvel batte la D.C. che con Wonder Woman aveva centrato il bersaglio solo in minima parte. Captain Marvel invece fa centro pieno e si candida come protagonista di primo piano per la chiusura della terza fase del MCU in Avengers: Endgame. Possiamo farcela, l'attesa sarà di un solo mese!

lunedì 11 marzo 2019

AI CONFINI DELLA REALTÀ

(Twilight zone: The movie di John Landis, Steven Spielberg, Joe Dante, George Miller, 1983)

Anche rivisto ora, a distanza di più di trentacinque anni dalla sua uscita, Ai confini della realtà si conferma un film che ha mantenuto molto meno di quello che era lecito aspettarsi dal progetto, almeno visti i nomi coinvolti nella realizzazione di questo film. Ai confini della realtà nasce come sentito omaggio alla serie tv omonima degli anni 60, The twilight zone, che in un bianco e nero d'epoca presentava episodi slegati l'uno dall'altro e accomunati solo dal tema del fantastico declinato nelle sue diverse accezioni, horror e fantascienza su tutte, con un occhio di riguardo alla creazione della suspense: un vero caposaldo di quegli anni.

Rod Serling e Richard Matheson per soggetto e sceneggiatura, alla regia quattro dei direttori più importanti del decennio (siamo negli anni 80), quattro uomini che con il fantastico sono andati a nozze più volte. Si alternano per i quattro episodi (più prologo) che compongono questo film antologico Steven Spielberg che non ha bisogno di alcuna presentazione, Joe Dante (Gremlins, Explorers) altro nome che ha lasciato il segno sulla cultura pop di quegli anni, il George Miller creatore della saga di Mad Max (e scusate se è poco) e John Landis (Un lupo mannaro americano a Londra tra le altre cose). A parte il prologo e il primo episodio, Time out, entrambi diretti da Landis, gli altri tre segmenti sono dei rifacimenti tratti dalla serie classica, per un prodotto destinato alle sale sarebbe stato lecito aspettarsi uno sforzo creativo maggiore, ad ogni modo l'occasione rimaneva comunque ghiotta. Proprio il prologo si rivela una delle cose migliori del film, l'introduzione è realizzata in puro stile Landis, un miscuglio di tensione horror stemperata da tantissima commedia: due viaggiatori (Dan Aykroyd e Albert Brooks) in auto, esterno notte, una strada solitaria... i due cantano sulle note di Midnight Special dei Creedence, cazzeggiano con i fari, con le storie che fanno paura, giocano a indovinare i motivi delle trasmissioni famose... una sequenza molto divertente che finirà con la classica sorpresa, nel frattempo c'è modo di citare e di discutere della vecchia The Twilight Zone, se ne citano gli episodi più celebri, sarà il modo per dare il via alla prima storia, sempre targata Landis, dove un americano razzista (Vic Morrow) che ce l'ha con i negri, gli ebrei e i musi gialli si troverà catapultato nelle Germania nazista proprio nei panni di un ebreo, poi in quelli di un nero braccato dal Ku Klux Klan e infine visto dai suoi stessi compatrioti come un muso giallo nella giungla vietnamita. Proverà in prima persona gli effetti del razzismo di cui lui stesso era promotore. Episodio molto classico, rientra bene nel mood dell'opera pur non garantendo particolari brividi né sussulti di sorta, richiama i classici degli anni 60 senza tener troppo conto che più di vent'anni sono comunque passati. Si poteva fare di meglio.


Spiace constatare come l'episodio più fiacco sia quello di Spielberg che come in molte altre occasioni (ma non in tutte) si delinea come regista buonista e lontano da quel pizzico di cattiveria necessaria in un progetto come questo. È ancora una volta una fiaba magica che il regista sceglie di rappresentare: in un'ospizio per anziani il signor Bloom (Scatman Crothers), uno degli ospiti, ha la strana capacità di donare una seconda occasione ai suoi amici vecchietti di tornare a giocare, amare, divertirsi come accadeva da bambini. Per una notte soltanto, o per tutta la vita... non rimane che scegliere. Ma non per tutti gli ospiti la scelta sarà così scontata, non tutti vorranno rivivere la propria vita. Nostalgia, ritorno alla giovinezza, magia, sentori di quel Peter Pan che a Spielberg deve piacere davvero molto... il tutto in una costruzione prevedibile che non lascia spazio allo stupore, un po' un paradosso per il Cinema di Spielberg, il tratto meno interessante dell'intero progetto.


Poi arriva Dante con Prigionieri di Anthony, l'episodio non esalta, c'è un finale consolatorio di troppo ma almeno ha quel pizzico di cattiveria in più che serviva e offre soluzioni più interessanti sul piano visivo e della recitazione. In un piccolo paesotto la maestra di passaggio Helen Foley (Kathleen Quinlan) investe accidentalmente un bimbo in bicicletta. Anthony (Jeremy Licht), che fortunatamente non si è fatto nulla, invita la nuova conoscente a casa sua, serve qualcuno che lo riaccompagni, la bicicletta è rotta e così... Una volta a casa Helen troverà una famiglia ben strana, oltremodo ossequiosa nei confronti del ragazzo, quasi intimorita. La scenografia di questo terzo atto porta un po' di brio al film, colori più accesi, un tocco surreale e artigianato da serie B per quel che riguarda il comparto effetti speciali che riesce a donare una certa forza kitsch all'intero episodio nel quale Dante tratteggia un protagonista poco affabile, seppur involontariamente, e con un tocco sadico che non guasta.


Si chiude fortunatamente con l'episodio migliore, l'unico veramente degno di qualche interesse dell'intero lotto, arriva da Miller, il regista che tra tutti avrei detto più lontano per inclinazione a un'operazione del genere. John Valentine (John Litghow) dà l'impressione di essere un uomo a cui non piace volare, pur volando spesso per lavoro. Già in ansia, crede di aver visto qualcosa sull'ala dell'aereo che sta attualmente attraversando una tempesta di discreta violenza. Il personale di bordo ha il suo bel da fare per tenerlo tranquillo, ma Valentine continua a fissarsi su quella maledetta ala, questa volta vede chiaramente un piccolo mostro intento a sabotare i motori dell'aereo. È panico, ma sarà tutta follia quella di John o è realtà? Intanto uno dei motori dell'aereo si inceppa... L'episodio di Miller è l'unico a creare un po' di tensione, l'atmosfera è quella giusta, le immagini anche, forse per sensibilità più vicino ad alcuni episodi del revival della serie originale andato in onda a metà anni 80 anche se la sceneggiatura arriva da un soggetto dei 60. In chiusura ci si riallaccia in qualche modo al prologo e il cerchio si chiude.


Salvando a pieni voto un solo episodio e l'introduzione si può affermare che nel complesso il film non sia poi così riuscito, con l'aggravante di aver tirato in causa nomi non solo illustri ma delle vere colonne del genere (e non dimentichiamo il contributo di Richard Matheson). Ai confini della realtà, il film intendo, nulla aggiunge a quel che aveva da dire la serie originale, rimane giusto un omaggio, realizzato sicuramente con amore ma dagli esiti non troppo felici.

sabato 9 marzo 2019

PAUL

(di Greg Mottola, 2011)

Paul avrebbe potuto essere la chiusura perfetta della trilogia del cornetto diretta da Edgar Wright (serie di film anch'essi interpretati dalla coppia Nick Frost e Simon Pegg), un'opera composta da L'alba dei morti dementi, Hot Fuzz e La fine del mondo. La trilogia aveva alla base una bella idea, semplice ma divertente: in tre film andare a parodiare i maggiori generi cinematografici (horror, action e fantascientifico) e abbinare ognuno di questi a un colore che richiamasse oltre al genere di turno anche un classico gusto usato per i cornetti confezionati (rosso/fragola, blu/cornetto classico, verde e nero/menta e cioccolato). The Three Flavours Cornetto Trilogy è un progetto nel complesso molto riuscito e divertente che ha proprio nell'ultimo capitolo, quello dedicato alla fantascienza, il suo punto più debole, una lieve caduta di tono forse dovuta anche al fatto che la coppia Frost/Pegg non è più l'indiscussa protagonista all'interno di un film che presenta un cast allargato e più corale che rende La fine del mondo meno centrato e ficcante degli episodi precedenti. Ecco, pur non essendo all'altezza de L'alba dei morti dementi, non mi sarebbe dispiaciuto vedere questo Paul come punto di chiusura ideale della trilogia, Greg Mottola ha una mano diversa da quella di Edgar Wright ma le passioni comuni non mancano e il regista si difende bene girando un film leggero, divertente e sicuramente impregnato dell'amore per quel genere di fantascienza capace di creare prima di tutto tanta meraviglia. Poi con l'apporto di Wright le cose avrebbero potuto andare addirittura meglio.

Graeme (Simon Pegg) e Clive (Nick Frost) sono una coppia di nerd inglesi in trasferta americana, dopo una visita al San Diego Comic Con i due hanno pianificato un tour negli States che avrà come tappe le principali località di avvistamenti U.F.O. e quelle legate in qualche modo agli alieni: l'Extraterrestrial Route, Roswell, l'Area 51, la blackmail box e cose del genere. Così, dopo aver incontrato uno dei loro idoli al Comic con, lo scorbutico Adam Shadowchild (Jeffrey Tambor) i due amici noleggiano un camper e partono per la loro Grande Avventura durante la quale si imbattono niente meno che nel classico alieno dalla testa grossa e grigia, proprio quello che sta sopra agli adesivi e a tutta quell'altra roba aliena. Paul, questo il nome dell'alieno, è sulla Terra da qualche decennio, durante gli anni è stato ostaggio e consulente del governo USA ed ora è in fuga, braccato dall'agente Zoil (Jason Bateman) e da un paio di improbabili detective dell'F.B.I., gli agenti Haggard (Bill Hader) e O'Reilly (Joe Lo Truglio). La sua destinazione è un luogo dove, va da sé, dovrà ricongiungersi con la sua famiglia, tipico cliché da fantascienza per tutti.


Ed è proprio a quel tipo di fantascienza, quella ammantata di ignoto e meraviglia, buoni sentimenti ed animo familista che guarda il film di Mottola, è un omaggio spudorato e dichiarato ai film dell'infanzia, sporcato da un filo lieve di scorrettezze garantite da un protagonista un poco vizioso e sboccato e imbevuto di forti dosi di amicizia virile e buddy movie con un tocco sentimentale a corredo. Il debito nei confronti di Spielberg è non solo evidente ma in maniera onesta anche palesato, l'accoppiata Frost/Pegg è ormai più che rodata e anche questa volta non delude, tra amicizia di lungo corso e qualche scintilla di gelosia sembra di tornare su percorsi già battuti e largamente apprezzati in precedenti occasioni. Sospendo il giudizio sulla scelta di far doppiare il protagonista a Elio delle Storie Tese, voce a mio avviso troppo riconoscibile, un doppiatore di professione l'avrei forse preferito. Se non si leggono i credits in anticipo, Mottola si ritaglia per il finale anche una sorpresa piacevole per tutti i fan della fantascienza al Cinema, ennesimo atto d'amore verso un genere che con tutta probabilità deve aver allietato parecchie serate del regista newyorkese.

Paul è un gioco divertente, una commedia d'amore (per la fantascienza) che ha il merito di trovare nella parte finale del film anche un buon ritmo che permette di terminare la visione con un bel senso d'appagamento che non si avverte proprio dalle prime battute. Il risultato finale è di peso lievissimo ma sicuramente ben calibrato, questo strano incontro con Paul alla fine ha portato buoni frutti.

mercoledì 6 marzo 2019

SHUT UP AND SING

(Dixie Chicks: Shut up and sing di Barbara Kopple e Cecilia Peck, 2006)

Le Dixie Chicks sono un trio country di origini texane composto dalle sorelle Martie Maguire ed Emily Robinson (i cognomi sono quelli dei rispettivi mariti) e dalla cantante solista Natalie Maines, un combo affiatato che calca insieme i palchi d'America (e non solo) fin dalla metà degli anni 90. Il gruppo in realtà nasce già nel 1989 come proposta bluegrass, insieme alle sorelle Martie ed Emily militavano nella band altre due componenti, ma ai fini della presentazione di questo Shut up and sing quella parte della storia al momento non ci interessa (ma voi approfonditela, potrebbe valerne la pena). Barbara Kopple, premio Oscar per Harlan County, e Cecilia Peck seguono il gruppo nel corso del triennio che va dal 2003 al 2006, anni in cui la vita della band diventa difficile: al successo di proporzioni vastissime incontrato fino a quel momento subentra un periodo molto difficile scaturito da una dichiarazione esternata con leggerezza (tra l'altro più che condivisibile) che porterà a conseguenze difficili da prevedere.

Siamo nel Marzo del 2003 allo Sheperd's Bush Theatre di Londra, una delle date del Top of the world tour delle Dixie Chicks; gli U.S.A. sono in procinto di dichiarare guerra all'Iraq di Saddam Hussein sulla base del ritrovamento di armi di distruzioni di massa, informazione che ormai sappiamo tutti di lì a poco si rivelerà essere una bufala colossale. Tra un brano e l'altro, in maniera molto diretta la cantante del gruppo Natalie Maines afferma di essere contraria alla politica del suo Paese e di provare vergogna per il fatto che il Presidente degli Stati uniti sia un texano come loro. Il documentario Shut up and sing si apre proprio sulle conseguenze più immediate scatenate da quella dichiarazione: l'odio di un pubblico livido e rancoroso nascosto dietro l'anonimato del web al quale le Dixie Chicks fanno fronte grazie al legame che le unisce, molto simile a quello di una vera e propria famiglia allargata. Stacco all'indietro, si torna a qualche tempo prima di quella serata a Londra, le Dixie sono un fenomeno da record per il settore country, uno dei gruppi femminili ad aver venduto più dischi nella storia della musica, si esibiscono al Super Bowl, cantano l'inno americano, firmano un contratto di sponsorizzazione molto remunerativo con la Lipton per il loro tour, è il ritratto di un gruppo al vertice. Si torna alla serata incriminata: il montaggio alterna scene del pubblico in attesa dello show, quelle della band nel backstage con le proprie famiglie, le manifestazioni a Londra contro la guerra e l'esecuzione del brano Travellin soldier delle Dixie ai filmati di repertorio con le dichiarazioni dei politici, da George W. Bush a Colin Powell, sull'imminente avvio della guerra. Poi la frase incriminata. Poi il diluvio.


La frase riportata dalla stampa britannica arriva in America con grande disappunto di tutta una parte di popolazione di stampo repubblicano, si susseguono le dichiarazioni di biasimo nei confronti delle Dixie Chicks che vanno dal semplice fastidio all'insulto fino ad arrivare alla minaccia; le radio di matrice country vengono invitate dal loro pubblico (a forte maggioranza repubblicana) a non trasmettere i brani della band, prendono il via delle vere e proprie campagne di boicottaggio nei confronti del gruppo con tanto di distruzione in pubblico dei loro Cd, si azzerano i passaggi in radio, sorgono problemi con lo sponsor, tutto in un battage mediatico di grandissime proporzioni. Sembra incredibile quanto la scarsa lucidità delle masse possa mettere in discussione una carriera costruita con anni di dedizione.


Shut up and sing segue le vicende del gruppo nei tre anni successivi a quella famosa serata, mettendo in luce la difficoltà di portare avanti un discorso musicale nel bel mezzo di una tempesta mediatica avversa, la determinazione di Natalie mista a qualche senso di colpa verso gli altri membri della band e del team di supporto, la paura determinata da minacce di morte in alcune occasioni molto serie e preoccupanti, il tutto intervallato dalla stesura delle nuove canzoni, ovviamente influenzate dai recenti accadimenti, dalla vita familiare, gravidanze comprese, e dalle mosse da attuare per continuare a navigare in un business che in parte sta voltando le spalle alla band. La presa diretta dona un gusto molto casalingo al documentario, quello che viene fuori maggiormente è il senso di famiglia e di unione che si respira nell'entourage delle Dixie Chicks, la resa visiva quasi spartana è però valorizzata da un contesto musicale di sicuro valore, le ragazze sanno come si scrive una canzone e come la si debba presentare al pubblico. Kopple e Peck (figlia di Gregory) ci presentano un pezzo di storia moderna della musica che vale la pena di essere conosciuto, alla fine la voglia di procurarsi qualche album delle Dixie non tarderà a farsi sentire.

domenica 3 marzo 2019

BARRY SEAL - UNA STORIA AMERICANA

(American made di Doug Liman, 2017)

Barry Seal aveva tutte le caratteristiche in regola per diventare uno di quei film capaci di trasformarsi in un piccolo cult personale per moltissimi spettatori; il film si rivela piacevole ma l'occasione purtroppo è andata sprecata, rimane un bel vedere per i fan di Tom Cruise che qui offre un'ottima prova d'attore e da guascone nonostante l'età che avanza e una faccia sempre meno mobile a causa (credo) di qualche ritocchino artificiale di troppo. Personalmente adoro le storie criminose, quelle con i gangster ma anche tutte quelle legate al narcotraffico, all'acquisizione di potere e ricchezza che allacciano in maniera torbida bel mondo e delinquenza, meglio ancora se a muovere la vicenda, come qui accade, ci sono alla base personaggi realmente esistenti e fatti storici più o meno riportati fedelmente. Come dicevo le premesse erano ottime, almeno per me.

La storia è ispirata, senza seguirla proprio passo per passo, a quella del vero Barry Seal (qui interpretato da Tom Cruise) uno dei più giovani e talentuosi piloti di linea in forza alla compagnia TWA negli anni 60. Grazie al suo talento il pilota viene contattato da una fantomatica agenzia dietro la quale si cela niente meno che la C.I.A. la quale, tramite il contatto Schafer (Domhnall Gleeson), offre a Seal un lavoro molto ben retribuito e un piccolo aereo davvero moderno per sorvolare i campi dei ribelli sandinisti in Nicaragua e fotografarli, così da documentarne attività e potenziale allo Zio Sam. Seal inizierà così ad alternare i voli ufficiali della TWA a quelli clandestini, trascurerà un poco la famiglia, la bella moglie Lucy soprattutto (Sarah Wright) ma inizierà ad accumulare una ricchezza molto consistente. La sua vita si incasinerà ancor di più quando in uno dei suoi viaggi verrà preso da parte da Carlos Lehder (Fredy Yate Escobar) che insieme a Jorge Ochoa (Alejandro Edda) e a Pablo Escobar (Mauricio Mejía) "costringeranno" Barry a diventare il miglior corriere del cartello di Medellin. Con il traffico di droga la ricchezza di Barry diviene esponenziale, i rischi aumentano, la famiglia Seal sarà costretta a trasferirsi in fretta e furia ma col tempo arriverà ad avere un tenore di vita altissimo, forse troppo, il giro d'affari di Barry diverrà un piccolo impero con una tenuta sua a disposizione, un hangar, cinque o sei aerei e dei collaboratori fidati... e poi arriverà anche il traffico d'armi per il governo. L'unico problema sembra quello di trovare un posto dove stipare i soldi... ma si sa, in certi ambienti la pacchia non dura mai troppo a lungo...


Doug Liman sceglie uno stile parecchio glamour per narrare la vicenda di Seal che come personaggio attira da subito le simpatie delle spettatore e col suo fare molto leggero e divertito ricorda un po', seppur in altro contesto, il Jordan Belfort di Di Caprio in The wolf of wall street. L'accumulo di ricchezza fa un po' perdere il senso della misura al protagonista, spavaldo già di suo, e per delineare al meglio il personaggio Liman trova un Tom Cruise ancora in ottima forma e perfetto per la parte. L'estetica della fotografia ricorda molto il Cinema dei 70, un bel lavoro è stato fatto sulla scelta dei colori e sui costumi anche se il tutto ha un sapore di già visto, ma questo non sarebbe nemmeno un grosso problema. Barry Seal - Una storia americana è un film tutto sommato divertente, manca però di vero mordente e di quell'afflato epico che ha spesso caratterizzato le storie di questo tipo. L'andirivieni ripetuto di Seal a causa dei voli di linea, delle missioni per la C.I.A., delle consegne di droga si mangia una buona parte del film nel quale l'aspetto cronachistico prende un po' il sopravvento sui personaggi, mancano i momenti, quelli memorabili e quindi si perde il confronto con altre pellicole di genere simile ma di caratura ben superiore. A fine visione si rimane con l'amaro in bocca per un film piacevole ma che avrebbe potuto essere qualcosa di decisamente migliore. Rimane comunque apprezzabile lo spaccato storico che mette in luce le manovre poco pulite del governo U.S.A. (la vicenda dei Contras ad esempio) e una gestione degli affari di Stato quantomeno scriteriata all'interno della quale Seal è solo una delle tante pedine, anche questo aspetto è sempre trattato con leggerezza all'interno di un film che come unico scopo sembra si sia dato quello di intrattenere.

venerdì 1 marzo 2019

LA FISICA DEI SUPEREROI

(The physics of superheroes di James Kakalios, 2005)

James Kakalios è un docente di fisica dell'Università del Minnesota; appassionato di fumetti ebbe anni addietro la brillante idea di movimentare le sue lezioni unendo i principi della fisica, il cui insegnamento era parte del programma didattico, alle dinamiche che spesso si presentano tra le pagine dei comics di casa Marvel e Dc. Ma facciamo un passo indietro. Forte della sua esperienza in qualità di insegnante, Kakalios sviluppò la consapevolezza che gran parte degli esempi teorici presentati agli studenti durante i corsi di fisica, anche quelli più basilari, finivano per annoiare i ragazzi senza mai coinvolgerli sul serio. Cosa volete che possa importare a un post adolescente di carrucole, molle e pesi in scivolata su piani inclinati? Un bel niente! Non gliene importava nulla e in più la materia veniva presentata in maniera barbosa. Perché allora non rendere tutto più vivace usando un argomento che se proprio non appassionava tutti almeno era capace di catturare l'attenzione e divertire gran parte della platea? Come prevedibile il sistema portò buoni risultati, La fisica dei supereroi è un po' il coronamento di questa idea indovinata, un manuale di fisica alla portata più o meno di tutti (non servono grosse conoscenze pregresse per affrontarne la lettura), capace di trattare temi di fisica basilare fino ad arrivare a nozioni di fisica quantistica senza mai annoiare il lettore, nemmeno quello più lontano dai temi scientifici trattati.

La prosa è sempre scorrevole, discorsiva, solo in pochissimi casi si addentra in modo specifico nel linguaggio tecnico, il lettore a digiuno di nozioni in materia potrà seguire questo mini corso senza particolari problemi, facendosi anche due risate proprio grazie agli esempi riportati e al piglio molto divertito dell'autore. L'assunto di base è che, nonostante la fantasia delle situazioni proposte, molto spesso i comportamenti dei supereroi nei fumetti, anche quelli più incredibili, risultano coerenti con le leggi della fisica e si dimostrano ottimi spunti di partenza per iniziare a spiegare i diversi aspetti della materia che regola il funzionamento dell'Universo stesso. Accettato il fatto, ad esempio, che un ragazzo adolescente morso da un ragno altamente radioattivo, invece di crepare o agonizzare tra atroci dolori, acquisisca poteri e forza proporzionali di un ragno diventando Spider-Man, beh... il resto dei comportamenti e delle imprese dell'Uomo Ragno (magari non proprio tutte) si rivela più che plausibile agli occhi della fisica.

Il libro è diviso in quattro sezioni: la prima esplora la meccanica toccando argomenti come la gravità, le leggi della dinamica di Newton, l'accelerazione, l'attrito e cose meno note come la relatività speciale, il momento torcente o il moto armonico semplice; il secondo capitolo si occupa di energia con i principi della termodinamica, convezione e conduzione, elettricità, magnetismo e simili; si passa poi a concetti di fisica moderna: fisica atomica, meccanica quantistica, teoria dei molti mondi, teoria delle stringhe, etc... per chiudere poi con il classico che cosa abbiamo imparato? dove vengono sottolineati invece alcuni macroscopici errori che si trovano nei fumetti di supereroi. Alla fine della lettura, oltre ad aver goduto di pagine tutto sommato divertenti, il lettore avrà sicuramente acquisito qualche concetto di fisica, ne saprà più di prima sull'argomento e inoltre avrà imparato anche qualcosa sulla storia del fumetto di supereroi che magari non si conosceva. La fisica dei supereroi è la dimostrazione che per appassionarsi anche agli argomenti che possono sembrare più ostici basta trovare il professore giusto!

James Kakalios
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