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venerdì 23 settembre 2022

I QUARANTANOVE RACCONTI

(The first forty-nine stories di Ernest Hemingway, 1938)

I quarantanove racconti di Ernest Hemingway rimane, insieme ad alcune raccolte di Raymond Carver, una delle più celebri antologie di scritti brevi. I racconti contenuti nell'edizione pubblicata a partire dal 1938 risalgono a un periodo che spazia tra la seconda metà degli anni 20 a tutto il 1933 circa e sono opere, già pubblicate in precedenza in altre compilazioni, che vanno dalle poche pagine fino ad arrivare a esiti più corposi ma quantunque brevi. Ciò che in primis accomuna questi scritti, che trattano argomenti e temi disparati ma riconoscibili tra quelli cari a Hemingway, è fuor di dubbio lo stile di scrittura dell'autore: frasi brevi, secche, concise, pochi fronzoli, dialoghi nei quali l'uso della ripetizione diventa cifra di stile, ricerca dell'essenziale e una riuscita d'insieme che non si può definire che "potente", di sostanza, una prosa indicata a descrivere la vita, a mettere nero su bianco la difficoltà di ottenere un lieto fine, nel racconto come nella vita, l'impossibilità di opporsi alla marea di un'esistenza incontrollata e incontrollabile. Tornano a più riprese anche i temi cari all'autore, tra l'altro già esplorati (o poi ripresi) nelle sue opere lunghe, pensiamo alla guerra (Addio alle armi), alle battute di caccia (Verdi colline d'Africa) o al rapporto con l'acqua (Il vecchio e il mare) o con la Spagna (Fiesta). Inframezzati da brevissimi inserti numerati e inseriti nella raccolta come "capitoli", i quarantanove racconti vanno a creare un corpo d'opera compatto che vanta un'unità di stile e una coesione in termini di vedute e di temi che donano all'intera opera il pregio della coerenza interna e quello di serbare una qualità media molto alto, poco affetta dal saliscendi qualitativo che di norma si riscontra in ogni antologia.

È lo stesso Hemingway nell'introduzione al libro a selezionare alcuni racconti e indicarli come i meglio riusciti o quanto meno come quelli a cui Hemingway è rimasto più affezionato. Uno di questi è il racconto che apre l'antologia, Breve la vita felice di Francis Macomber, uno dei preferiti anche di chi scrive, per chi lo conosce è impossibile non andare con il pensiero al biografico Verdi colline d'Africa; in un impianto questa volta di finzione si torna alle stesse atmosfere, con un'Africa rigogliosa come scenario, le battute di caccia come motore dell'azione e il coraggio e la viltà, il successo e il fallimento, l'amore e il tradimento come gli aspetti messi in disamina dell'umana esistenza, destinata almeno per qualcuno a non elargire (più) il lato migliore di sé stessa, racconto che ispirò il film Passione selvaggia diretto da Zoltán Korda. Sono spesso il coraggio, l'onore, la determinazione a conseguire per una volta (o per l'ultima volta) una vittoria, i temi che ricorrono e che non sempre trovano la soddisfazione nei personaggi protagonisti, viene in mente il torero in fase calante Manuel Garcia de L'invitto o il pugile Jack Brennan in Cinquanta bigliettoni. Numerosi i racconti dove è presente quello che è una sorta di alter ego di un Hemingway giovane, Nick Adams, scritti nei quali emerge l'amore per la natura, per la pesca, la vita semplice e vagabonda. Tornano anche alcune sensazioni già suscitate dal romanzo lungo Addio alle armi, ad esempio con In paese straniero dove si riconosce l'esperienza della convalescenza a Milano durante la guerra. Hemingway cita inoltre tra i suoi preferiti ancora Colline come elefanti bianchi, Qualcosa che mai proverete, Le nevi del Kilimangiaro, Un posto pulito illuminato bene e Le luci del mondo che, per sua stessa ammissione, pare non sia mai piaciuto a nessuno.

"La cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani". I quarantanove racconti sono lì a dimostrare come Hemingway sia riuscito nel suo intento e quanto il suo dubbio, il suo cruccio, non abbia ragion d'essere. Un racconto onesto sull'essere umano, sulla vita, sulle carte che questa serve e che spesso vanno a comporre una brutta mano, è proprio ciò che si trova in questi racconti e che li rende così affascinanti, presi uno a uno ma anche valutandoli nel complesso di una raccolta molto corposa (nell'edizione dei vecchi Oscar Mondadori ci avviciniamo alle 600 pagine). Non c'è dispersione durante la lettura, anche per chi, come chi scrive, ha un feeling migliore con il romanzo rispetto al racconto breve, il coinvolgimento in quello che è considerato un capo d'opera dell'autore risulta totale e pieno. Grandi eventi e piccoli momenti illuminano qui il mondo di Hemingway, riportando di riflesso le meraviglie e i dolori di una vita vissuta in maniera intensa, esperienze e testimonianze che si riversano su carta in episodi nei quali è nascosta la vita: dolore, sconfitta, amore, riscatto, guerra e forse, finalmente, pace.

giovedì 16 luglio 2020

PHILIP K. DICK - TUTTI I RACCONTI: 1955 - 1963

(Short stories collection Vol. 3 di Philip K. Dick, 1955 - 1963)

Il terzo dei quattro volumi editi da Fanucci che raccolgono l'intera produzione dei racconti brevi di Philip Kindred Dick si concentra sugli scritti editi tra il 1955 e il 1963. Proprio il '55 è un anno di svolta per Dick, la produzione di racconti brevi inizia a diradarsi e lo scrittore si concentra su narrazioni che troveranno la forma del romanzo, proprio di quest'anno è il suo primo esito lungo, Solar lottery, pubblicato in Italia come Lotteria dello spazio o anche sotto il nome di Il disco di fiamma. Se vogliamo fare un piccola proporzione, nei due anni immediatamente precedenti, il '53 e il '54, Dick pubblica una media di una trentina di racconti per anno, nel 1955 la sua produzione cala a una dozzina di racconti che andranno ancora a diradarsi negli anni successivi mentre prende un ritmo abbastanza costante la pubblicazione dei romanzi. Proprio nei racconti di questo volume si possono trovare diversi spunti che Dick amplierà poi nei suoi lunghi, non solo idee e tematiche ma anche qualche scenario come quello de The days of Perky Pat ripreso in seguito in uno dei suoi libri più celebri: Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Non è un periodo comunque facile per lo scrittore che sta cercando di affrancarsi dalla letteratura di genere per andare verso lo stile che identifica il "romanzo" vero e proprio, tutti i tentativi in questa direzione però falliscono e Dick si vede costretto ad ammettere che la sua via alla letteratura è quella della fantascienza o al limite del fantastico. Sono anche gli anni della Guerra Fredda e del dopo bomba, una delle tematiche ricorrenti e prevalenti in questa raccolta è quella della vita post cataclisma o della minaccia della guerra nucleare con i relativi strascichi di paura e terrore che questa riversa sulla popolazione americana (o terrestre). Pensiamo allo scenario del già citato I giorni di Perky Pat con i protagonisti costretti a vivere sotto il livello del suolo a causa delle radiazioni, o a Un'incursione in superficie (il titolo è un programma) o anche al terrore e al bisogno impellente del rifugio antiatomico di Foster, sei morto! che collega la paura per la bomba all'emergente e sempre più diffuso bisogno consumistico della società americana, ripreso in tantissimi racconti, da Nanny a Servizio assistenza a Diffidate delle imitazioni e da Dick aspramente criticato. Il malcostume americano è esportato da Dick su scala interplanetaria, quindi avremo minacce belliche tra razze diverse con conseguenti manifestazioni razziste (Veterano di guerra), l'escalation dell'avidità per il Dio denaro declinata tra le dimensioni (Commercio temporale), la crisi dell'istituzione matrimoniale così sacra nell'America puritana (Umano è) e così via. Nel corso di questo volume, più che nei precedenti, si nota una sorta di evoluzione se non nello stile di scrittura quantomeno nella struttura dei racconti, banco di prova per i romanzi a venire, si va ad affinare l'arte dell'intrigare di Dick, con l'inganno, con l'articolato che porta a situazioni un po' più complesse e apprezzate anche in altri ambiti come accadrà per Minority report portato al cinema da un certo signor Spielberg o come si può evincere dall'intersecarsi di più racconti come nel caso di Presidente di riserva e Cosa ne facciamo di Ragland Park? Con la chiusura di questa raccolta giunge il tempo per il lettore di iniziare a confrontarsi con le opere più strutturate scritte da Dick delle quali ci sono piccoli assaggi negli ultimi episodi di questo volume, un poco più corposi e complessi. La qualità media, seppur altalenante (è pur sempre un'antologia di racconti), rimane alta, l'unica pecca del volume, almeno in questa edizione, è attribuibile a Fanucci che, evidentemente per necessità di foliazione, omette all'interno dei racconti degli evidenti stacchi presenti nei racconti originari che avevano la funzione di "cambio di scena" creando una sensazione in molti casi davvero fastidiosa per il lettore al quale rimane la speranza che il malcostume non si ripeta nel quarto e ultimo tomo della raccolta.

mercoledì 15 aprile 2020

CATTEDRALE

(Cathedral di Raymond Carver, 1983)

A più di trent'anni dalla sua scomparsa Raymond Carver viene ancora considerato il punto fermo per quel che concerne il racconto breve moderno. Cattedrale viene dato alle stampe a soli due anni di distanza da un'altra celebre raccolta di racconti - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore - andando così a cementare la reputazione dello scrittore dell'Oregon, già indicato dalla critica come il caposcuola di uno stile minimalista, definizione dentro la quale Carver sentiva di stare troppo stretto. Tralasciando la questione su quanto la forma definitiva di alcuni racconti di Carver fosse da imputare all'editore Gordon Lish, uno che pare avesse la forbice facile (anche perché l'approfondimento sul tema richiederebbe una discreta mole di tempo e spazio), all'uscita di Cattedrale venne sottolineato dalla stessa critica il raggiungimento da parte dello scrittore di una forma del racconto più ricca e compiuta, una narrazione che pur rimanendo essenziale, ma non per questo povera, incontrava in misura maggiore quella che era la reale intenzione di Carver nell'approccio alla scrittura, in quello che forse fu il suo periodo più sereno nell'economia di un'esistenza non sempre felice, che tra alcool e malattia portò alla prematura scomparsa dello scrittore nell'Agosto del 1988.

Dodici racconti, uno già anticipato nella precedente raccolta, dodici momenti nelle vite di qualcuno, momenti a volte significativi, altre volte meno, almeno uno una vera e propria epifania (il riferimento è a Cattedrale, il racconto che dà il titolo al libro), tutti sprazzi di vita in cui è necessario e allo stesso tempo bellissimo entrare dentro, racconti minimi come dicono in molti ma pregni di una ricchezza che richiede al lettore di cogliere il momento, l'attimo in cui qualcosa cambia, spesso si incrina, a volte si risolve, ma che in ogni caso dà il la per qualcosa di nuovo, qualcosa che spesso da lettore non vediamo, un qualcosa di fuori campo, di non detto, lasciato alla nostra immaginazione che però ha tutti gli elementi per fare ipotesi, perché con Carver si è sempre dentro al mistero della vita, non quella dell'eroe, del divo o quella del protagonista di un libro, siamo dentro la nostra vita, dentro quella del vicino di casa, della cassiera del supermercato, nella vita di nostro cugino o in quella della donna che ogni tanto vediamo affacciata alla finestra. È nell'ordinario che la narrazione di Carver diviene straordinaria.

Ci sono temi che ricorrono in diversi racconti, su tutti quello dell'alcool che condiziona le vite di diversi protagonisti, tema caro all'autore, ma più in generale si assiste all'esclusione dal lauto banchetto della vita, spesso i protagonisti dei racconti di Carver sono sconfitti, almeno nel momento in cui sono ritratti dall'autore, hanno perso qualcosa, stanno per perderlo o si sono persi loro stessi, in qualche caso fortunatamente si ritrovano, molto più spesso sembra che la vita in qualche modo abbia voltato loro le spalle. Spesso il succo sta nel capire dove qualcosa si spezza o perché lo farà, raramente gli scritti di Carver sono fredda cronaca di fatti inventati, questi brevi racconti hanno sempre dentro qualcosa di vivo, un evento, un catalizzatore, qualcosa che sembra assumere il centro di un'esistenza, e questi elementi sempre così importanti non sono altro che atti banali, decisioni ordinarie che fanno parte della vita.

Nell'edizione Minum Fax, molto ben curata, chiude la raccolta un bel racconto con sorpresa di Riccardo Duranti, il traduttore dei racconti contenuti in Cattedrale.

domenica 15 novembre 2015

SAVOY TRUFFLE - UN RACCONTO

Qualche tempo fa un amico mi portò a conoscenza dell'iniziativa lanciata da Eataly e dalla Scuola Holden che prendeva il nome di Mangia, scrivi, Eataly!

In poche parole l'iniziativa era la seguente: scrivere un racconto di massimo 10.000 battute con l'unico vincolo della presenza di uno dei negozi Eataly all'interno dello stesso.

L'idea mi piacque, scrissi di getto la prima stesura di un racconto che fui poi costretto a tagliuzzare per rientrare nelle battute richieste. Il 30 settembre scorso, dopo una proroga dovuta al successo dell'iniziativa, il concorso si è concluso. Il 15 ottobre sono usciti i risultati. Tre premiati e 40 racconti selezionati per una futura raccolta tematica in un libro che verrà distribuito nei negozi della catena.

Il mio racconto non è stato selezionato, però ho piacere di proporvi qui sotto la sua prima stesura. Mi farebbe piacere avere qualche vostro parere, sapere se vi è piaciuto o se avete riscontrato difetti, in tutta onestà. E soprattutto se avete capito di chi si parla :)

Io son disposto a rivelare retroscena e riferimenti alla realtà inseriti in tutto il racconto.



Ed eccolo qui, il titolo è Savoy Truffle.

1
Il professore aveva un aspetto bizzarro, la lunga barba bianca mostrava segni di incuria e sporcizia. La sua mente geniale non era di certo messa in buona luce dal completo logoro da boy scout che indossava, quel fazzoletto al collo a striscie oblique bianche e marroni non faceva altro che conferirgli in via definitiva sembianze ridicole. Dopo essere rimasto malamente nascosto dietro il fusto di un ippocastano per una decina di minuti a fissare la proprietà privata dall'altra parte di Claremont Drive, il professore si decise ad attraversare la strada. Il traffico a Esher non era molto intenso, la strana figura riuscì quindi a scavalcare inosservata il basso recinto in legno bianco che dava sul giardino antistante una grande costruzione del tutto simile a un bungalow. Il professore si approcciò con un pizzico di timore alla porta dell'edificio. Dopo alcuni istanti di furtiva attesa l'uomo prese coraggio e bussò alla porta. Dall'interno si udirono alcuni rumori, una voce femminile e una maschile che il professore ormai conosceva bene. La porta si aprì, un uomo con indosso un paio di boxer con disegnati degli strumenti musicali occupava la soglia. Fissò il professore per quelli che sembrarono minuti interminabili, le labbra strette e dritte sotto i baffi curati, l'espressione accigliata. Nel più completo silenzio l'uomo fece un passo indietro e richiuse la porta sbattendola in faccia al professore. Ancora voci dall'interno; il volume si alzò, la porta si riaprì. Era una bella ragazza, un visino pulito incorniciato da capelli biondi, la frangetta un poco lunga, begli occhi azzurri.

"Ciao Pattie."

"Professore. George non ha molta voglia di vederla."

"Non ne comprendo il motivo, l'ultima volta in fondo ci siamo trovati bene a lavorare insieme."

"Non era un lavoro, è stata... beh, non saprei neanche come definirla. E George è ancora scombussolato dall'esperienza con quel pezzo da museo giallo."

"Pezzo da museo? Voi neanche vi rendete conto... ma... ma cos'è questo odore?"

Il professore annusò per due o tre volte guardando Pattie con aria di rimprovero.

"Ancora non l'avete piantata con questa roba? Su, fammi entrare, portami da George."

Pattie fece entrare il professore e lo condusse al piano di sopra precedendolo sulla solida scala in legno di mogano. Nonostante l'avanzata età il professore non disdegnava il movimento ondulatorio che il fondoschiena della giovane disegnava nel salire le scale. Distrattosi inciampò nell'ultimo scalino e finì faccia a terra. Dopo pochi secondi un paio di ciabatte rosse comparirono davanti ai suoi occhi.

"Ciao George, credo che i tuoi piedi gradirebbero essere lavati. Belle le tue mutande comunque, chissà se hanno anche la mia taglia?"

"Professore, mi fa piacere che si interessi ai miei piedi nonostante lei sembri essere  appena uscito da un cassonetto dell'immondizia. Se vuole la doccia è da quella parte."

"No grazie. Non abbiamo tempo per la doccia."

"Abbiamo? AbbIAMO? ABBIAMO?"

A ogni abbiamo la voce di George si alzava di un'ottava incrinandosi sempre di più.

"Abbiamo? Non voglio più sentirla parlare al plurale quando io e lei ci troviamo... coinvolti o quello che le pare, all'interno della stessa frase. Non c'è nessun abbiamo. Ha capito questa semplice regola di sintassi?"

"Non abbiamo tempo per la sintassi George, tra l'altro mi sembra non sia mai stata un grosso problema per te, non è forse vero?"

"Ma io..."

Mentre con il volto paonazzo George tentava di aggredire il professore ancora steso sul pavimento, la dolce Pattie mise fine alla contesa con uno strillo degno della migliore banshee irlandese.

"Adesso basta! È mai possibile che con voi due debba sempre finire così?"

Entrò in una delle camere da letto sbattendosi dietro la porta talmente forte da far tremare il pavimento su cui il professore era ancora adagiato. I due uomini avevano assunto un aria mite e mortificata, potere incontrastato dell'ira femminina.

"Si tiri su, cosa ci fa piantato lì per terra? Mi dica che cosa è venuto a fare e tagliamo corto."

Con un po' di fatica il professore si tirò su, prima sulle ginocchia poi in piedi. I due uomini andarono a sedersi sul bordo del letto in un'altra camera, il primo nel suo sudicio costume da scout il secondo con le sue mutande musicali. Stettero così qualche minuto poi il professore parlò.

"Devo fare un viaggio, mi servirebbe una mano."

Il professore si voltò lentamente a guardare George il quale quasi con rassegnazione andò ad affacciarsi alla finestra.

"No professore, non ho più voglia di guanti viola e di esserini azzurri. Perché non chiama qualcuno degli altri? Non voglio più saltare da una dimensione all'altra."

"Ma qui non si tratta più di dimensioni" strillò il professore "Si tratta del tempo, del tempo, razza di zuccone in mutande!"

George si girò di scatto per guardare attentamente il professore.

"Ma il suo trabiccolo non si sposta nel tempo, di cosa diavolo stiamo parlando?"

"Vestiti e vieni con me e cerca di metterti addosso qualcosa di sobrio questa volta."
George ormai esasperato si avvicinò all'armadio aprendolo. "Il bianco va bene?"

2
I due attraversarono Claremont Drive in punta di piedi come se fossero appena usciti da un cartone animato. Proseguirono sul ciglio della strada per alcune centinaia di metri coperti dal buio della sera. Arrivati nei pressi di un folto salice piangente il professore si fermò intrufolandosi nell'intrico dei suoi rami cascanti. Riluttante George lo seguì andando immediatamente a sbattere la testa contro una dura superficie metallica. A George sembrò da subito una sorta di piccolo razzo, una navicella spaziale in miniatura come quelle che si vedevano nelle illustrazioni delle riviste di fantascienza degli anni '50. La testa del professore spuntò da un piccolo portello che si apriva sulla sommità della struttura.

"Cosa stai aspettando? Vieni dentro, non farmi perdere altro tempo!"

George riuscì a malapena a infilarsi nell'apertura facendovi prima passare il capo e scivolandoci poi dentro con il resto del corpo. Lo spazio angusto era sufficiente per un paio di persone, la plancia dei comandi era zeppa di levette, tasti, piccole lampadine e un congruo numero di ammaccature.

"Vedo che questa volta ha apparecchiato per due, perché proprio io mi domando?"

"Oh, taci per favore. La macchina non è facile da pilotare da solo, durante l'ultimo viaggio ho avuto qualche problema e non vorrei ripetere l'esperienza."

George si soffermò a osservare le ammaccature e i pannelli danneggiati sulla plancia di comando chiedendosi in che cosa il professore lo stesse trascinando questa volta.

"Scusi professore, potrei sapere dove stiamo andando?"

"Torino. Nord-ovest dell'Italia. Torniamo indietro di quarantasette anni, ho bisogno di studiare i fenomeni industriali, in quell'anno c'è stata una nascita che vorrei tenere d'occhio e mi piacerebbe fare un sopralluogo della zona Lingotto di quell'epoca. Capirai quando saremo lì. Ora sta zitto e non distrarmi, tieni sotto controllo la plancia a destra, tira su le leve delle spie che si illuminano di rosso e giù quelle delle spie che si illuminano di verde ma soprattutto taci. Quando entriamo nel vortice gira a destra il maniglione blu."

George, offeso e concentrato, si girò verso la plancia di sua competenza, il professore prese ad armeggiare con i comandi e dopo pochi secondi il veicolo cominciò a vibrare in modo deciso, i colori all'interno dell'abitacolo si fecero più vividi, le spie si illuminarono e George iniziò a manovrare le leve, veloci lampi lineari di luci multicolori cominciarono a sfrecciare davanti agli occhi di quelli che ora potremmo definire i due crononauti. Il veicolo iniziò a ruotare su se stesso creando la sensazione di vortice ormai nota ai due, il professore gridò "ora!" e George girò il maniglione blu.

3
La navicella si schiantò contro un alto palo metallico. "Eppure qui non avrebbe dovuto esserci nulla, almeno secondo i miei calcoli" affermò perplesso il professore. La gente che passeggiava nei pressi dell'ingresso di Eataly voltò la testa in direzione dell'assordante rumore senza che nessuno riuscisse a individuarne l'origine.

"Fortunatamente ho inserito un sistema di schermamento sulla navicella" disse il professore andando a infilare il veicolo tra le siepi in modo che nessuno vi sbattesse contro, poi la strana coppia uscì all'esterno al riparo degli arbusti e senza farsi notare si portò sul piazzale antistante a Eataly.

"Strano, pensavo che Italy si scrivesse con la I" osservò George dubbioso.

Il professore gli diede un'occhiataccia, poi inizio a guardarsi intorno perplesso.

"Però... questo non mi sembra affatto il 1921" Poco alla volta, dal volto del professore iniziò a trasparire una collera senza limiti.

"Cosa?" chiese George spiazzato allargando le braccia. "Cosa?"

"A destra, imbecille, ti avevo detto a destra! Ci hai spediti quarantasette anni nel futuro!"

"Beh... è lei che mi ha trascinato, ancora una volta mi preme dirlo, in una delle sue folli trovate. Torniamo indietro e finiamola qui!"

"Non possiamo tornare indietro, la navicella non sarà in grado di effettuare un altro viaggio prima di due ore, i sistemi sono surriscaldati adesso."

George sostenne lo sguardo del professore per alcuni secondi poi fece spallucce si voltò e varcò l'ingresso di Eataly. Nella speranza che non combinasse guai, il professore lo seguì. All'interno del negozio alcune persone strabuzzarono gli occhi al passaggio dell'eccentrica coppia. Un uomo si avvicinò all'orecchio della moglie "Paola, ma quello non è..." - "Ma sta zitto, che dici? Gli assomiglia però".

L'interno di Eataly era adattato in maniera armoniosa ai locali storici della vecchia Carpano, la fabbrica dove si produceva il Punt e Mes, gli spazi nati già nei primi decenni del Novecento contribuirono a non far sentire troppo fuori posto i due crononauti che immediatamente furono attratti da un concentrato entusiasmante di odori e colori. Avevano due ore da far passare prima di poter ritornare a casa, George non ci mise molto ad adocchiare l'area dedicata ai dolciumi e senza indugio vi si recò mentre il professore si dedicava all'ampia selezione di ortaggi esposta sui banchi del corridoio centrale. George non era stupido, sapeva benissimo di non poter spendere le sue sterline in Italia, men che meno poteva arrischiarsi a farlo in un'Italia del futuro. Curiosò così tra gli scaffali indeciso su cosa assaggiare, tra le tante proposte fu attratto da una confezione di cioccolatini assortiti che subito infilò sotto la larga camicia bianca. I suoi soldi non erano validi, non poteva pagare e non voleva rubare. Però desiderava assaggiare. Dopo aver esplorato il negozio in cerca di un angolo appartato, decise di assaggiare i cioccolatini in uno dei locali del piano superiore che ospitava le sale meno affollate dedicate al museo Carpano. La sala solitamente usata per le conferenze era vuota, George tirò fuori la confezione di cioccolatini da sotto la camicia, si sedette a terra a gambe incociate e svuotò il contenuto del pacchetto tra le sue gambe. Scelse con cura quale cioccolatino assaggiare per primo, lo scartò, si gettò la carta alle spalle e lo addentò. Un aroma misto di cacao e zenzero riempì la sua bocca, ne assaporò il gusto contro il palato e aspettò qualche istante. Mangiò poi il secondo, piacere mistico al sapor di mandarino. Fu con il terzo cioccolatino però che George provò la vera estasi, il tartufo al cioccolato gli provocò una sorta di mancamento, trovò un sapore talmente pieno che per alcuni istanti George riuscì a vedere solo un'intensa luce bianca. Dopo pochi secondi dovette chiudere gli occhi per gustare al meglio quel sapore unico.

Non ci volle molto tempo a George per decidere di scriverci una canzone, una canzone su un cioccolatino, o magari su più cioccolatini, perché no? In fondo la sua era la band più famosa del mondo, arrivati a questo punto poteva permettersi di scrivere di quel che più gli piaceva. E poi al suo amico Eric sarebbe piaciuta. Aveva già il titolo pronto, Savoy truffle, un omaggio anche alla storia della città. Decise che quel bagliore bianco intenso scaturito dal cioccolato sarebbe diventato una buona idea per la copertina del prossimo disco, avrebbe convinto anche gli altri una volta tornato a casa, ne era più che certo.

Da quel momento, o meglio, da quando George tornò nel suo tempo e incise insieme ai suoi compagni canzone e disco, sono passati ben quarantasette anni. Ancora oggi quella copertina completamente bianca rimane una delle cover più iconiche mai realizzate nella storia della musica e quello che avete appena letto è semplicemente l'episodio che ne ispirò la nascita.

mercoledì 22 settembre 2010

ORA DEL DECESSO: 22.25


Mi sento un po' in colpa, forse non ci ho messo impegno. Non tutto quello che avrei potuto. La sua agonia non è stata lunga ma la fine è giunta inevitabile.
Eravamo preparati. Alle 22.25 del 22/09/2010 il progetto "Il collettivo" è stato dichiarato morto.
Il creatore sentitamente ringrazia chi ha voluto partecipare ;)

Trattandosi di finzione non è escluso, come succede spesso nei fumetti ad esempio, che qualcuno riporti in vita il progetto (si usi pure questo post).

Nel frattempo affranti salutiamo.

domenica 12 settembre 2010

LA STRISCIA

L'anno scorso ebbi l'occasione di stare alcuni giorni da solo. Mia moglie e mia figlia erano in vacanza e avevo tempo per far quel che mi pareva. Tra le altre cose buttai giù un racconto da presentare al concorso della GTT, cosa che poi non feci. Su consiglio dello Zio misi il racconto da parte con l'intenzione di partecipare quest'anno. Bene, pare che quest'anno il concorso non ci sarà e così il racconto troverà spazio su questo blog nella speranza che a qualcuno possa piacere.


LA STRISCIA
Uno. E ancora uno e un altro ancora. I giorni passavano e il foglio continuava a essere bianco. Eppure non era difficile: un cane che annusava in giro nella prima vignetta.
Un topo gli si avvicinava nella seconda: “Hai perso qualcosa?”.
Nella terza il cane si gira e lo guarda: “La felicità”.
Blocco. La matita tracciava solo righe sconnesse. Non mi convinceva, non ci riuscivo. Qualcosa non mi tornava. Andai fuori senza salutare. I soliti due passi per rilassarmi, un giro in edicola, un gelato. C’era qualcosa che non girava nel verso giusto. Che cosa? Non lo sapevo.
Ci pensavo e leccavo il gelato, leccavo il gelato e ci pensavo. Il gelato era fresco il mio modo di pensare stantio.
Camminando lanciai un saluto ad un conoscente ed il cono ormai vuoto in un cestino. Una sosta al toro verde e uno sguardo al caos del mercato mattutino. La gente sembrava decisa, sicura, sapeva dove andare e cosa comprare. Io non sapevo più un cazzo.
Costavano di più le zucchine o i pomodori? Quali erano verdi e quali rossi?
Cercai di ricordarne il sapore e ritrovai un po’ di lucidità. Il semaforo era rosso come i pomodori, un autobus giallo peperone mi passò davanti.
Lo guardai distrattamente e allora la vidi.
Neanche, la intuii. Un ricordo dal passato, un’emozione dimenticata. D’improvviso sentii il bisogno di prendere quel peperone ma il semaforo mi frenava. Mi sfidava. Senza pensarci troppo, cominciai a correre lungo la strada cercando di evitare il traffico. L’autobus si avvicinava alla fermata. Forse sarebbe scattato il rosso nell’altro senso di marcia e l’avrei raggiunto. Rosso, olè! Non mi restava che attraversare. In quel momento uno stronzo ne tamponò un altro. Strada bloccata e poi il verde. Il peperone ripartì: ero fregato. Non volevo arrendermi. Attraversai la strada e saltai la staccionata che delimitava il grosso parcheggio della piazza come neanche nella pubblicità dell’olio. Nel parcheggio non c’era traffico, la mia corsa ne guadagnò. L’autobus non aveva questo vantaggio. Ce la stavamo giocando quasi alla pari, la prossima fermata era vicina, la mia testa sgombra come non lo era da tempo. Urtai una signora che portava un sacchetto di carta. Mandarini in tutte le direzioni.
Con il fiato corto uscii dal parcheggio, l’autobus era imbottigliato nel traffico. Raggiunsi la fermata per primo stanco e accaldato. Le porte del bus si aprirono mostrandomi una folla accalcata e sudata. Salii e mi feci largo avanzando lentamente verso di lei. Quanto tempo era passato. Chiedendo permesso e ignorando le imprecazioni degli anziani infastiditi dai miei movimenti arrivai al centro dell’autobus. Solo un donnone con le borse della spesa mi separava da lei. Riuscivo a vedere i suoi capelli. Oltrepassai il donnone e finalmente la guardai da vicino. La fissai per un tempo indefinibile.
Ma chi cazzo era questa? Non l’avevo mai vista prima. Rimasi spiazzato.
Chi avevo visto, o meglio intuito, dal finestrino? Scesi alla fermata successiva e mi fermai a pensare. Non avevo neanche la minima idea di quel che fosse successo. Forse inconsciamente stavo cercando solo qualcosa da raccontare. Uno spunto. Tornando a casa pensai molto alla cosa. Forse avevano ragione i Therapy? quando cantavano “Happy people have no stories”. La gente felice non ha storie. Ed in fondo io ero felice. Rientrai in casa consapevole che il mio testo non funzionava. In pochi minuti, matita alla mano, la striscia era pronta. In fondo non era difficile.
Un cane che annusava in giro nella prima vignetta.
Un topo gli si avvicinava nella seconda: “Hai perso qualcosa?”.
Nella terza il cane si gira e lo guarda: “Fatti i cazzi tuoi”.

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