mercoledì 26 febbraio 2020

INTO DARKNESS - STAR TREK

(Star Trek into darkness di J. J. Abrams, 2013)

Diario del Capitano, data astrale -2202846.6704718415, quello che vi parla in questo momento non è il Capitano James Tiberius Kirk, in realtà chi vi parla non è nemmeno un trekker, giusto per mettere le cose in chiaro fin da subito e non partire con il piede sbagliato.

Devo ammettere che da spettatore occasionale dell'universo narrativo di Star Trek quale sono, il rilancio del franchise ad opera del regista J. J. Abrams mi ha divertito parecchio, sia con il film del 2009 grazie al quale Abrams opera una sorta di reboot della serie classica iniziando a narrare le vicissitudini del famoso equipaggio della USS Enterprise in un'epoca antecedente la serie televisiva originale ideata da Gene Roddenberry nel lontano 1966, sia con questo sequel uscito quattro anni più tardi. Into Darkness prosegue sulla scia di quanto costruito con l'episodio precedente riuscendo a mantenere a bada la vocazione di Abrams più spettacolare e action senza mai mettere da parte i personaggi, creando un giusto mix di azione, humor e ampliamento del mito grazie a una gestione della materia mai troppo superficiale e senza cadute di ritmo, cosa che per un film action di fantascienza è preziosa come la manna dal cielo.

Anche in questo capitolo vediamo crescere il rapporto tra un giovane indisciplinato Kirk (Chris Pine) e l'algido, ma non troppo, Spock (Zachary Quinto), qui addirittura lanciato in una relazione con il tenente Nyota Uhura (Zoe Saldana); l'impianto corale delle narrazione dentro il quale ognuno dei membri principali dell'equipaggio dell'Enterprise trova il suo spazio è il punto di forza di un film che offre qualcosa di più del classico sparatutto, anche se qualche sequenza dal sapore meramente videoludico rimane. Così, oltre ai protagonisti già citati, tornano il Dottor McCoy (Karl Urban), l'ingegnere Scott (Simon Pegg), il tenente Sulu (John Cho) e il navigatore Pavel Chekov (il compianto Anton Yelchin). Tutto il cast viene surclassato senza sforzo alcuno dalla presenza di un Bendict Cumberbatch (nei panni di Khan, personaggio storico per la serie) che stacca per bravura di diverse lunghezze tutti gli altri, si prende la scena costruendo il personaggio più interessante del lotto.


In seguito a un'infrazione del regolamento della Flotta Stellare al Capitano Kirk viene tolto il comando dell'Enterprise mentre Spock viene assegnato a un'altra nave, basterà però un attentato da parte di un terrorista che raderà al suolo diversi edifici di Londra per far tornare i due amici ai loro posti con il compito di intercettare l'attentatore che si rivelerà essere nientemeno che Khan Noonien Singh, elemento che i fan di Star Trek ben conoscono. Su questi presupposti J. J. Abrams può sbizzarrirsi con la sua propensione allo spettacolo, cucendo su misura alcune sequenze a uso e consumo del 3D (c'è ancora qualcuno che non si è stancato di questo 3D?), facendo uso smodato dei suo caratteristici bagliori lenticolari (e forse ci siamo stancati anche di questi) ma riuscendo a regalare ancora una volta una regia che asseconda il giusto dinamismo che un film come questo deve avere. In chiave di lettura abbiamo ancora una volta il terrorismo (questi grattacieli che continuano a crollare) e un'amore per l'avventura che guarda al passato, al Cinema di genere più genuino e a un'epoca che ad Abrams deve stare parecchio a cuore, da lui stesso rinverdita, suscitando anche diverse critiche, con il rilancio del brand di Star Wars. Per il resto ottimo intrattenimento, valido anche per chi non è propriamente un fan sfegatato del franchise. Alla fine questo Abrams è pure un caro ragazzo, certo che quel finale di Lost ancora non glielo si perdona...

lunedì 24 febbraio 2020

IO, DANIEL BLAKE

(I, Daniel Blake di Ken Loach, 2016)

I film di Ken Loach appartengono a quel Cinema necessario che dovremmo vedere più spesso, opere che allo stile e alla forma antepongono contenuto e messaggio, andando a toccare nervi scoperti con i quali è sacrosanto che il pubblico si confronti e prenda posizione; unico neo, non imputabile al regista, il fatto di trovare riscontro da parte di spettatori spesso di per sé già solidali alle cause e ai protagonisti che stanno a cuore al regista britannico, passando invece inascoltate (anche se in passato non è sempre stato così) presso chi su determinate situazioni potrebbe e dovrebbe intervenire. Quello di Loach è un discorso coerente e continuativo, più che mai attuale in tempi in cui ogni progresso fatto in direzione di un'eguaglianza sociale sembra irrimediabilmente perso o compromesso; Loach è quello che vorremmo fosse una sinistra politica vera, di quelle non decadute in un becero e impotente cialtronismo opportunistico, i suoi film sono cronaca, denuncia, ma anche esempio e inno alla dignità di ogni individuo, soprattutto quelli abusati e vessati da un sistema insensibile, disumanizzato e scollato irrimediabilmente dai bisogni delle persone reali, quelle che ancora devono dannarsi l'anima per pagare un affitto, un mutuo, crescere i bambini, mangiare e compiere tutte quelle azioni che chi è al potere adempie in maniera automatica senza avere un solo grattacapo che sia uno. Il Cinema di Ken Loach è anche emozione, compassione, trasporto e rabbia, e di buono mostra il conforto e la solidarietà del prossimo, capace del gesto dolce dove lo Stato che dovrebbe lavorare per noi è assente e disinteressato (o ancor peggio interessato in malafede a nostro discapito).


Daniel Blake (Dave Johns) è un carpentiere non più giovanissimo che si è ammalato di cuore. Il suo medico di base, il cardiologo, il fisioterapista che lo segue, dicono tutti che al momento è escluso che Daniel possa tornare a fare il suo lavoro. All'uomo non resta che richiedere l'invalidità per avere un assegno mensile che gli permetta di tirare avanti. Purtroppo, nonostante i pareri dei medici che hanno seguito il caso, il professionista della sanità (o qualche altra idiozia del genere) non riconosce il diritto di Daniel ad avere una pensione d'indennità, negandogli quell'aiuto statale di cui ormai, suo malgrado, Daniel avrebbe bisogno. A questo punto non rimane che richiedere il sussidio di disoccupazione e per ottenerlo Daniel deve dimostrare di essere attivamente in cerca di un altro lavoro, lavoro che il suo medico gli impedisce di fare, trovandosi così in un paradosso kafkiano dal quale diventa quasi impossibile uscire. Lungo il suo percorso che assume sempre più la forma di una lotta contro i mulini a vento, Daniel incontrerà Katie (Hayley Squires), una giovane madre di due figli che ha dovuto trasferirsi da Londra a Newcastle per mancanza di soldi, senza lavoro e costretta a portare via i bambini dal loro ambiente, abbandonata da tutti, dal suo compagno ma soprattutto da uno Stato insensibile e spesso odioso nella figura dei suoi rappresentanti.


Quella di Daniel è un odissea di un cittadino onesto al quale vengono negati i suoi diritti e la possibilità di vivere con dignità, dopo un'esistenza di sacrifici subisce un attacco legato a logiche del capitale disumane e armate di una burocrazia idiota e incomprensibile, aggravata da un digital divide che penalizza le generazioni più anziane e quelle con meno mezzi culturali a disposizione, il carico da undici ce lo mette la mancanza di elasticità mentale di funzionari gretti e per nulla empatici (non tutti per fortuna), Loach lascia i pochi barlumi di speranza in carico alle persone, alla solidarietà tra Daniel e Katie, storia ancor più triste e amara la sua, alla gente della strada, ai volontari delle istituzioni di carità che sono il lato solare e umano di una società che trova in quello che dovrebbe essere un padre per i suoi cittadini uno spietato avversario. Quello che fa male del Cinema di Loach è che le storture mostrate possiamo toccarle con mano. Provate a chiedere aiuto allo Stato in un momento di difficoltà, magari siete disoccupati, avreste bisogno di qualche agevolazione,  vi chiederanno di esibire un Isee per dimostrare la situazione di difficoltà, vi chiederanno quello basato sui redditi dei due anni antecedenti. Provate a spiegare ai funzionari che due anni fa voi lavoravate regolarmente, che i vostri redditi erano a posto due anni fa e che è ora, oggi, in questo momento che non avete più stipendio, che avete bisogno, che vi servirebbe una mano... spero sinceramente che non ci dobbiate mai provare. Lo Stato non ascolta. Ed è questo che preme a Loach, i suoi personaggi sono uomini che hanno dato tanto e che nessuno ascolta più, abbandonati nel Paese che è la loro casa.


Io, Daniel Blake ha almeno una scena davvero straziante, protagonista Katie, una sequenza che arriva con la naturalezza dell'onestà, e proprio per questo è impossibile non sentirsi lacerati per la sorte di queste persone, così vicine, impossibile non piangere, non prendere posizione; il fatto è semplicemente che spesso quello che ci sta intorno non è giusto ma noi non ce ne curiamo, non siamo capaci, sotto nessuna forma, di dire no al sopruso, Loach ci mostra che si può partire dalla dignità, dalla rivendicazione del nostro essere persone, e che l'unica soluzione non è l'individualismo verso cui sempre più ci stanno spingendo. Con un gesto plateale Daniel rivendica la sua dignità, probabilmente dovremmo imparare a farlo anche noi ogni tanto.

giovedì 20 febbraio 2020

LA MOGLIE DI FRANKENSTEIN

(Bride of Frankenstein di James Whale, 1935)

Mio Dio, ci si può ancora entusiasmare per un film del 1935! La moglie di Frankenstein è un piccolo capolavoro dell'horror che ai giorni nostri viene considerato un vero e proprio cult movie dagli amanti del genere e non solo. In realtà il film di James Whale di spaventoso non ha poi molto se non i rimandi a un mostro che più che terrore ispira compassione e pietà, per non parlare della sua presunta moglie che a conti fatti un buon numero di spettatori probabilmente non rifiuterebbe di sposare, creatura ben lontana dall'essere mostruosa. In questo seguito del precedente Frankenstein datato 1931 c'è un connubio tra l'immaginario gotico dell'epoca e una vena più scanzonata che mostra il fianco alle successive reinterpretazioni che hanno voluto puntare sul versante parodico della vicenda, su tutte il favoloso Frankenstein Junior di Mel Brooks che da questo film attinge a piene mani, a partire dal personaggio di Frau Blücher fino ad arrivare all'estetica del mostro e ad alcune celebri sequenze come quella del cieco interpretato nella parodia da Gene Hackman. Quello che spicca in maggior misura in questa sorta di sequel è la pregevole fattura dell'opera al di là dei contenuti che umanizzano il mostro andandone a sottolineare una volta ancora la natura dolorosa e dannosa di respinto ed emarginato, ponendo sotto i riflettori più di ogni altra cosa la condizione insopportabile di chi è solo suo malgrado, è la solitudine il vero male di questo mostro di Frankenstein. La pellicola gode dell'apporto di una fotografia magnifica, nitida e tagliente che delinea alla perfezione il bianco e nero dei luoghi e mette in risalto luci e ombre che passano su volti e corpi, dando risalto al terrore del mostro per il fuoco, elemento associato a pericolo e dolore che sarà trauma fino alla fine dei giorni. Boris Karloff è un mostro splendido, espressivo nonostante la mole di trucco indossato, magnifico anche quello, e con una fisicità che dona corpo a un essere che non può non incutere timore, solo per attenuarlo quando il mostro troverà poi la parola (e l'amicizia) grazie all'aiuto dell'eremita (O. P. Heggie), scelta che pare Karloff, che voleva un mostro incapace di comunicare, non abbia digerito proprio benissimo. Da sottolineare ancora la regia dinamica di Whale che si rivela maestro nel mettere in scena l'esperimento in cui viene creata la donna che dovrà essere compagna del mostro (Elsa Lanchester), un'alternanza sui volti straniti e spiritati del mostro, di Henry Frankenstein (Colin Clive) e del Dottor Pretorius (Ernest Thesiger) e su una serie di particolari e di totali dei macchinari impiegati, delle valvole, delle parti meccaniche adoperate per l'immondo esperimento. Ancora altra meraviglia quando la donna emerge nella sua imponenza, alta, in un saio bianco e con un look passato alla storia del Cinema, una capigliatura alta striata da ondine bianche rimasta impressa nell'immaginario collettivo e depredata in seguito, figura di rara eleganza interpretata al meglio dalla Lanchester che nella parte iniziale del film dà volto anche alla scrittrice Mary Shelley, madre letteraria del mostro più famoso di tutti i tempi. Il mix di ottimi artigiani del cinema e attori di razza ha dato vita a un film inattaccabile, che lo si guardi con l'occhio del fan del Cinema di genere o sotto una prospettiva più ampia poco importa.


La storia è nota, ripreso il finale del film precedente per riportare sulla scena alcuni protagonisti, il mostro riprende a mietere vittime a causa dell'odio cieco che gli uomini e le donne del villaggio mostrano nei suoi confronti, la creatura provocata diventa a tutti gli effetti mostro. Ma al mostro non mancano compassione e gentilezza, tratti che solo un eremita cieco dall'animo gentile saprà cogliere nella creatura. Intanto il Dottor Pretorius, anch'egli scienziato interessato alla creazione della vita, cerca di convincere il riluttante Dottor Frankenstein a riprendere gli esperimenti con lo scopo di donare una compagna al mostro in modo che esso possa superare la solitudine e magari dare vita a una nuova razza. Non tutto andrà come previsto e se l'idea non genererà una stirpe di piccole creature nate dalla morte, sicuramente apporrà un nuovo prezioso sigillo al mito dei mostri della Universal.

sabato 15 febbraio 2020

PARIS TRANCE

(di Geoff Dyer, 1998)

- "Perché scriverla una cosa quando puoi viverla?"
- "Perché non puoi viverla all'infinito."

"Autore sicuramente interessante questo Dyer", così chiudevo qualche anno fa il post su In cerca, libro del '93 dello scrittore britannico; la lettura di Paris trance, pur non arrivando a toccare le punte di sperimentalismo dell'opera precedente, conferma quanto meno la capacità di Dyer nel catturare l'attenzione del lettore. Se con In cerca ci si avventurava in un racconto in crescendo che diventava via via sempre più surreale e metafisico, qui l'impianto della storia è assolutamente classico. Geoff Dyer sceglie un registro in larga parte autobiografico trasferendo le sue esperienze di vita parigina sul personaggio di Luke, protagonista principale di Paris trance. Il motore da cui tutto inizia a muoversi in Paris trance è la volontà, in realtà debole e poco delineata, del giovane inglese Luke di passare un periodo di autoesilio nella capitale francese allo scopo di trovare tempo e tranquillità per scrivere il suo primo romanzo. L'impatto con la ville lumière non è facile, Luke ne apprezza alcuni aspetti, questo sì, alcuni luoghi, ma la solitudine, la mancanza di stimoli e lo spaesamento lo instradano verso momenti di depressione che gli impediscono di dare il via ai suoi propositi riguardo la scrittura. Poi Miles, un conoscente, gli indica nello scontroso Lazare la via per trovare un lavoretto e mettere da parte un po' di soldi. Al magazzino di Lazare finalmente Luke conoscerà una serie di nuovi compagni d'avventura che tra le urla del burbero ma di buon cuore Lazare, le partitelle a calcio per strada, le ore di lavoro a caricare e scaricare merci, riusciranno a ridare colore alla vita dell'inglese. Tra questi Luke trova Alex, una sorta di anima gemella che arriverà fino ad idealizzare quello spilungone inglese che ben presto diverrà il suo migliore amico, per Luke la vita cambia marcia, tutto diventa più sereno, l'idea di scrivere si allontana sempre più (perché che senso ha scrivere quando si può vivere?). E poi arriva Nicole, e poi per Alex arriva Sahra, e la vita non potrebbe essere più perfetta di così, tanto perfetta da far quasi male.

Il grosso del corpo di questo libro è dato dalle storie di Luke, quella d'amore intensissima con Nicole e quella d'amicizia sincera e profonda con Alex che è anche osservatore e narratore di questo protagonista capace di regalargli in egual misura gioie e dolori, nonostante Dyer si soffermi decisamente più sulle prime, relegando i dolori a un paio di brevissimi flashforward capaci però di un'amarezza realmente tagliente. L'XI arrondissement, Le Tuileries, le strade di Parigi sono la cornice per tutta una serie di episodi che uno dopo l'altro formano un pezzo delle esistenze dei quattro protagonisti che instaureranno un legame all'apparenza indissolubile, dentro c'è l'amicizia più vera, quella piena di belle giornate, serate spensierate, cazzate e passioni comuni, come quella di Alex e Luke per il Cinema, una vera ossessione probabilmente anche per lo scrittore britannico che almeno nell'edizione di Instar Libri è testimoniata da diversi fotogrammi di celebri film stampati all'inizio di vari capitoli, e poi le citazioni continue, i giochini a tema su un genere o un filone cinematografico, le sfide su chi conosce meglio la pagina della programmazione dei film di Pariscope e via di questo passo. C'è tanto sesso, quello più appagante, tra le pagine di Paris trance, piccoli momenti belli e delicati, altri più ordinari, passaggi spiritosi e un aleggiare di fine imminente che solo ogni tanto trova concretezza nelle parole messe nero su bianco da Dyer. È come se Luke, una volta raggiunta la sua agognata felicità, la sua pienezza nella vita, non riuscisse a fermarsi per apprezzarla, come se dovesse riempire le sue giornate sempre fino all'orlo, senza mai guardare al domani, ai bisogni concreti, all'effetto saturazione che su un personaggio come lui potrebbe rivelarsi decisamente deleterio.

Libro scorrevole, decisamente più abbordabile rispetto a In cerca ma comunque difficile da inquadrare, uno di quei libri dove tutto sembra alla luce del giorno ma che a lettura finita rimane lì, a scavare per qualche tempo. E forse il succo sta tutto lì, proprio nel fatto che le cose non puoi viverle per sempre.

mercoledì 12 febbraio 2020

IL GRANDE GATSBY

(The great Gatsby di Baz Luhrmann, 2013)

Chi conosce il cinema di Baz Luhrmann sa cosa piace al regista australiano e quindi non sarà rimasto sorpreso nel trovarsi dinnanzi a una trasposizione magniloquente del romanzo di Francis Scott Fitzgerald, assecondato nello sviluppo, tradito nei risvolti più intimi e reconditi dell'animo di un protagonista, il Gatsby del titolo, che qui vive prima di tutto nella sua esteriorità. Luhrmann crea un contorno ai protagonisti che è un tripudio di colori accesi, scenografie lussuose, minuzie di dettagli, veicoli scintillanti, riprese improbabili, feste immense senza fine, balli e musica, una scelta di brani che vanno a comporre una colonna sonora anacronistica e volutamente irrispettosa dei tempi in cui il racconto si svolge, i ruggenti anni venti, qui accompagnati da artisti come Lana Del Rey, Jay-Z, Florence and the Machine, Beyoncé, The xx, Sia, Jack White e altri ancora. D'altronde il regista non è nuovo a questo tipo di approccio, basti guardare due delle sue opere più famose, quel Romeo + Giulietta con protagonista lo stesso Leonardo Di Caprio ma anche il Moulin Rouge con Nicole Kidman ed Edward McGregor. Il grande Gatsby è un film per gli occhi, come il coprotagonista interpretato da Tobey Maguire assiste alla storia di Gatsby (Leo Di Caprio), e a quella di sua cugina Daisy Buchanan (Carey Mulligan), lo spettatore attraverso i suoi occhi assiste a un turbinio di feste, corse in auto e lusso che ben rispecchiano la prima parte del Gatsby romanzo e il modo in cui questo grande personaggio appare agli occhi della gente. Ciò che più si fa fatica a estrarre dal testo originale è la lacerazione dell'animo di Gatsby, la profonda solitudine, l'essere ancorato a un passato non più possibile da richiamare nel presente, lo struggimento e l'inadeguatezza che in Fizgerald rappresenta la fine del sogno, tutto questo, seppur scandito dagli sviluppi della trama, a volte addirittura chiarificatrice in misura maggiore rispetto al libro, nel film un poco si perde, lasciando la poesia a quella luce verde sul molo e restituendo i sentimenti attraverso una semplice scansione di eventi.


Nick Carraway (Tobey Maguire) è un giovane che dagli stati del centro degli U.S.A. si trasferisce per lavoro nei pressi di New York, prende casa sull'isola di West Egg, a poca distanza dalla villa dove vive sua cugina Daisy, dalla parte opposta della baia. Come vicino di casa Nick ha il mitico Jay Gatsby, uomo ricchissimo delle cui origini si sa poco o nulla che organizza le più mastodontiche feste che New York abbia mai visto, occasioni per incontrare conoscenti e gente famosa, feste in cui l'unico personaggio sfuggente sembra essere proprio il padrone di casa. Un giorno Gatsby invita a una delle sue feste proprio il suo nuovo vicino di casa con il quale intesserà una sincera seppur in qualche modo interessata amicizia. Gatsby è infatti da anni innamorato di Daisy, ogni sera osserva la luce verde proveniente dal molo della villa dei Buchanan con malinconia e trasporto, vede in Nick l'occasione per riavvicinarsi alla sua giovane cugina.


Leonardo Di Caprio è un grande Gatsby, pur non apportando al film la sua prova migliore tratteggia il personaggio in maniera coerente a quello che la sua controparte letteraria richiede, fermo restando le carenze nell'aspetto introspettivo non adducibili all'attore, Maguire è un Carraway credibile, dimesso al punto giusto, pur non apprezzando particolarmente questo attore non stona nei panni del "vecchio mio" amico di Gatsby. Luhrmann bilancia bene il ritmo del film che non lascia pesare la lunga durata, trova anche diverse idee registiche che infondono un guizzo irreale ad alcune sequenze che amplificano l'impianto già volutamente eccessivo del film all'interno del quale ci si potrebbe perdere per ore utilizzando il tasto pausa. Ne vien fuori un film che non raggiunge le corde più profonde toccate dal libro ma che non manca di intrigare e divertire nella maniera più vivace possibile. Il grande Gatsby non sempre è stato accolto benissimo dalla critica, giudizi freddi sui quali mi permetto di dissentire, una variazione rispetto alla pagina scritta rispettosa, magari non altrettanto efficace, comunque degna di nota. Il Grande Gatsby è un film che si discosta dalla media, produzione originale che gli è valsa anche due Oscar (costumi e scenografie), il giusto merito per un'opera che ha un suo valore specifico.

martedì 11 febbraio 2020

AQUAMAN

(di James Wan, 2018)

Dopo aver visto Shazam! e il Joker di Todd Phillips, che non rientra nel progetto del DC Extended Universe, speravo di trovare in Aquaman almeno un film divertente, mi sono trovato invece di fronte a un vero e proprio buco nell'acqua, tanto per rimanere in tema, il film di una pochezza disarmante riporta lo spettatore a quella che è la gestione mediocre dei personaggi alla quale la DC Comics al cinema ci aveva già abituati (Nolan escluso). Che durante un film che è fatto principalmente e quasi solo d'azione (noiosissima per altro) ci si riesca ad addormentare almeno sei o sette volte nell'arco di due ore e venti è un delitto che richiederebbe l'espulsione dall'industria cinematografica degli sceneggiatori che si sono imbarcati in questo progetto che non può far altro che affondare sotto ogni punto di vista. E ancora, è possibile che non si riesca a prendere in considerazione il fatto che, avendo in mano un film che dentro non ha mezzo contenuto né spunto di interesse alcuno, sarebbe meglio tagliare, tagliare e ancora tagliare invece di confezionare supplizi da due ore e venti più provanti di un arco temporale equivalente passato con un cilicio indosso? Davanti a film come questo non si può che invocare la morte del cinecomics (e vai a dare torto a Scorsese).

Aquaman è un personaggio secondario nel Pantheon dei supereroi DC, non di meno è noto ai fan dei comics e negli anni più volte si è guadagnato una certa posizione all'interno della Justice League, chi come me è più vecchierello lo ricorderà anche nei cartoni animati dedicati ai Superamici nella sua versione classica e pulita, molto distante da quella portata al cinema da Jason Momoa. Considerato spesso un personaggio un po' "sfigato" (è uno che come potere "parla con i pesci"), di recente lo scrittore Geoff Johns, inspiegabilmente coinvolto nella stesura di questo brutto soggetto, ha dimostrato come anche con Aquaman si possano ideare storie avvincenti e soprattutto divertenti, prendendosi un po' in giro e mettendo in campo quello che non dovrebbe mai mancare quando si racconta una storia: la capacità di narrare qualcosa di interessante. Qui dentro invece non c'è niente, se proprio dobbiamo trovare un pregio al film lo si può ricercare in alcune trovate visive realizzate usando una palette di colori molto vivaci e fluorescenti per ricreare il mondo sottomarino di Atlantide, il resto è da buttare senza riserve.


Jason Momoa, per quanto sia un bel figliolo, oltre a non rispecchiare l'immagine di Aquaman (ma questo ha poca importanza), non rientra nemmeno nell'immagine che si ha di un attore, magari accettabile per grugnire nei panni di Khal Drogo ne Il trono di spade ma poco interessante come protagonista principale di un film. Nessuna originalità nello sviluppo, personaggi secondari poco delineati, mere figurine con funzioni stilizzate (il cattivo, la compagna, la mamma lontana, etc... senza nessun approfondimento), non un singolo personaggio con un pizzico di carisma, attori come Willem Dafoe completamente sprecati, eppure non dovrebbe essere così difficile, anche in casa Marvel i cinecomics non sono dei capolavori, ma mediamente da quelle parti si sfornano film quantomeno godibili. Per quel che riguarda la Distinta Concorrenza, visto che su 7/8 film prodotti per il loro universo condiviso se ne salva al momento giusto uno (Shazam!), forse è lecito non attendersi più nulla dalle prossime uscite, chissà se questo pressapochismo porterà allo sgonfiarsi di un genere cinematografico che almeno da queste parti, in termini qualitativi, sembra mostrare abbondantemente la corda.

domenica 9 febbraio 2020

CHI NASCE TONDO...

(di Alessandro Valori, 2007)

Commedia stramba, genuina e grottesca che si affida alla romanità più divertente per mettere in scena una storia semplice con la quale si ride di gusto in più occasioni, soprattutto grazie alla verve molto radicata nel mood della capitale di Valerio Mastandrea e Raffaele Vannoli. Progetto particolare per il quale sono stati coinvolti diversi Istituti d'istruzione superiore di Roma, il film dal budget ridottissimo riesce a far convivere, oltre a quella dei due protagonisti, la presenza di attori d'esperienza come Sandra Milo e il grande Tiberio Murgia (il Ferribotte de I soliti ignoti per dirne una) a volti più giovani come quello di Corrado Fortuna, alle spalle già diversi titoli tra i quali il My name is Tanino di Paolo Virzì, e quello di Virginia Orioli. L'impianto tecnico è molto scolastico, regia ordinaria del recentemente scomparso Alessandro Valori, fotografia quasi amatoriale, anche la recitazione porta tutto a una dimensione molto locale e casereccia decisamente comica.

Mario (Valerio Mastandrea) è un orfano ormai adulto cresciuto con la nonna ladra, spesso ospite delle carceri romane e attualmente ricoverata in un'ospizio per anziani. Mario è fidanzato con Flaminia (Regina Orioli) figlia di un imprenditore che si è fatto un nome nel campo degli antifurto, una famiglia che punta a una rispettabilità d'accatto e che è all'oscuro della discendenza poco nobile alla quale è legato Mario. Un bel giorno la nonna decide di scappare dall'istituto portandosi via il contenuto della cassaforte della casa di riposo che la ospita; Mario per evitare che la sua parentela finisca sulla bocca di tutti e alle orecchie del suocero, è costretto a trovare in breve tempo sua nonna, per farlo chiede aiuto al cugino Righetto (Raffaele Vannoli), uno spiantato che vive insieme a un'umanità variegata in un edificio fatiscente occupato. Anzi, ocupato.


La narrazione è intervallata da immagini di repertorio che ritraggono con una vena malinconica la Roma che non c'è più, anche nelle sequenze contemporanee sotto i riflettori c'è la Roma meno battuta all'interno della quale Mario e Righetto si muovono in un susseguirsi di incontri con i personaggi più disparati, dal parroco di quartiere che gestisce traffici poco chiari (Glauco Onorato) alla tenutaria di un bordello, fino ai vecchi conoscenti della nonna ladra, tutti volti al ritrovamento della stessa che solo sul finale concederà  una seppur minima e parziale presenza di sé.

Il film vive principalmente degli sprazzi comici garantiti dalla perfetta armonia tra Mastandrea e Vannoli, il dipanarsi della vicenda è puramente accessorio salvo alcune dinamiche nei rapporti frusti e poco sentiti tra i due fidanzati e con la famiglia di lei, nel complesso il film non sempre risulta centrato, il ritmo avrebbe beneficiato di momenti comici ancor più frequenti, considerando però che si tratta di una piccola produzione, realizzata con pochi mezzi, sarebbe ingiusto non sottolineare che guardando Chi nasce tondo (quadrato 'n ce more) ci si diverte, inoltre immergersi ogni tanto in film realizzati più di getto, meno strutturati, può essere interessante per confrontarsi con prospettive diverse e meno usuali.

venerdì 7 febbraio 2020

LUCY

(di Luc Besson, 2014)

Quello delle donne "toste" è divenuto al Cinema un vero e proprio filone e anche Luc Besson, uno che di donne toste se ne intende, è salito sul carrozzone realizzando un film di puro intrattenimento, meno permeante del suo Nikita ma che stimola la curiosità su alcune teorie (fanta)scientifiche qui usate per far baldoria ma in ogni caso potenzialmente interessanti da approfondire. Quindi, insieme all'atomica bionda della Theron, alla Red Sparrow della Lawrence, alla Vedova nera a breve nelle sale della stessa Johansson protagonista anche di questo film, alla nutrita combriccola si unisce la bella Lucy, giovane ragazza di stanza a Taipei lanciatasi in una recente storia con un tipo non proprio raccomandabile (il Pilou Asbæk de Il trono di spade).

Proprio a causa di quest'ultimo, Lucy (Scarlet Johansson) è costretta a consegnare una valigetta dal contenuto sconosciuto al malavitoso coreano Jang (Choi Min-sik), si troverà ben presto catapultata in un traffico internazionale di una nuovissima sostanza stupefacente la quale, se assunta in dosi massicce, amplia la capacità dell'utilizzatore di sfruttare tutta quella parte di potenzialità del cervello che la razza umana solitamente non sfrutta (per quanto intelligenti, ne adoperiamo solo il 10% circa). Ovviamente l'accesso progressivo al restante 90% innesca tutta una serie di comportamenti che sconfinano in maniera decisa nel paranormale rendendo Lucy un action a metà strada tra il film d'azione classico e il fantastico.


Il film presenta molte delle caratteristiche del Cinema di Besson, l'unico in Europa in grado di rivaleggiare anche per mezzi impiegati con i più accreditati blockbuster statunitensi, l'impianto è volto al just for fun, inutile ricercare anche nella base più fondata delle teorie esposte dal professor Samuel Norman (Morgan Freeman) la seppur minima profondità, il tutto viene utilizzato per mettere in scena una storia adrenalinica in cui la Johansson ha ancora una volta la possibilità di mettere in mostra la sua bravura, soprattutto nella parte iniziale del film dove interpreta una ragazza un po' sdrucita catapultata dopo pochi minuti in situazioni dove devono emergere il terrore e la paura provati a causa di una situazione inaspettata, la Johansson interpreta alla perfezione questi stati d'animo, Besson tra l'altro non gioca nemmeno sull'innegabile bellezza di Scarlett, ce la mostra in primi piani con look sciatto e moccio al naso, quasi sgradevole, anche se alcuni suoi tratti non possono non piacere (ah, quella bocca...), via via poi la protagonista tornerà la solita Scarlett che tutti conosciamo nei suoi ruoli più dinamici. Ci si diverte guardando Lucy, Besson sa come creare inquadrature a effetto e sa come usare gli effetti speciali, quella di Lucy diventa in breve una corsa contro il tempo per salvare il salvabile da una situazione che si rivela fuori controllo nel giro di pochissimo tempo. Ritmi serrati, durata contenuta, impossibile annoiarsi, se è questo che cercate Besson può sempre venirvi incontro, magari prima o poi ci stupirà con qualcosa di completamente diverso.

lunedì 3 febbraio 2020

PICCOLE DONNE

(Little women di Greta Gerwig, 2019)

Alle soglie del 2020 arriva una nuova trasposizione del romanzo per ragazzi Piccole donne della scrittrice statunitense Louisa May Alcott, a dirigere il film Greta Gerwig che qui porta avanti il suo discorso femminista aggiornando al sentire moderno quello già costruito dalla Alcott più di cent'anni fa. Si potrebbe pensare che non ci fosse bisogno di una nuova versione cinematografica di Piccole donne, invece la Gerwig, pur tramite un lavoro non del tutto perfetto, riesce a trovare la sua strada e a restituirci delle piccole donne al passo con i tempi e un film che si lascia apprezzare con grande trasporto sul piano emotivo. La regista di Sacramento ha attinto dai vari romanzi della Alcott per costruire il "suo" film, andando a montare insieme vari segmenti delle vite delle quattro protagoniste in maniera cronologicamente non lineare. In questa scelta sta forse l'unico elemento poco convincente del film che paga una narrazione un po' troppo frammentaria e almeno nella parte iniziale anche un poco confusa, soprattutto per chi non ha mai letto (come il sottoscritto) Piccole donne crescono. Il limite di questo modo di concepire il film, oltre a un'iniziale fase di assestamento necessaria allo spettatore, è dato da diversi segmenti fin troppo concisi e da alcuni personaggi, il Friedrich Bhaer di Louis Garrel ad esempio, poco più che abbozzati. Poco a poco si entra però nel mondo di queste quattro giovani donne, almeno due delle quali tratteggiate in maniera davvero coinvolgente (Jo e Amy), una ben scritta (Meg) e un'altra un pochino trascurata (Beth).


Jo March (Saoirse Ronan) è la vera protagonista di questo film, una sorta di alter ego della stessa Alcott, donna alla quale ogni appartenente al sesso femminile dotato di forza e di progetti che non includano i maschi (almeno non in un aspetto dominante e impari) potrà sentirsi affine, come con ogni probabilità è capitato anche alla Gerwig leggendo i libri dedicati alle sorelle March. È lei più delle altre il simbolo della donna indipendente, alla ricerca di un posto nel mondo che non necessiti di aiuti esterni di nessun tipo, promotrice di una figura femminile diversa da quella che la società patriarcale impone e vorrebbe, immagine più che mai attuale, bella e portatrice di speranze che ancora faticano troppo a trovare riscontro. Intorno a questo centro si muovono le altre sorelle, Meg (Emma Watson) più tradizionalista, disposta pur con sofferenza al sacrificio al fine di coronare un sincero sogno d'amore, Beth (Eliza Scanlen), la minore, è la più pura di cuore e la meno delineata nel film della Gerwig, Amy (Florence Pugh) invece è la più viziata, con punte di cattiveria che si trasformeranno in età adulta in un pragmatismo forse triste ma dettato dalla società in cui si trova a vivere, da lei arriva l'assunto più duro sulla condizione della donna in quegli anni. Due aspetti affascinano nella narrazione della Gerwig, il primo è proprio il rapporto tra le sorelle, da piccole prima e poi da adulte, che riflette i loro caratteri e di rimando la costruzione dei singoli personaggi, il secondo è il rapporto delle stesse con il mondo che gira loro intorno, questioni sentimentali comprese, dove trovano spazio i personaggi maschili del film che tutto sommato non escono male dal confronto con queste splendide donne. Uno dei punti di forza della storia è forse proprio questa speranza d'armonia, tra i sessi, con il prossimo, nonostante le incomprensioni, le differenze di indole, di visione, nonostante le piccole o grandi cattiverie, in una storia che alla fine cattura e appassiona senza la necessità di mettere in campo un vero cattivo, nemmeno la Zia March (Meryl streep) lo è poi così tanto in fondo.


Ammetto di aver visto un film che è andato ben oltre le mie aspettative, sicuramente per un approccio giusto, onesto e da promuovere ma soprattutto grazie a una scelta delle protagoniste decisamente indovinata: la Ronan è un vero terremoto che nella parte di Jo sta giusta giusta, un talento ormai lanciato verso l'alto, anche la Watson mi è sembrata più che indicata per il ruolo, ottima anche la Florence Pugh, vera rivelazione del film, non mi esprimo sulla Scanlen in quanto colpevolmente sottoutilizzata a mio avviso. Sulla Dern (la mamma) e la Streep (la zia) sappiamo che non necessita pronunciarsi. Interessante anche il giovane Chalamet (nella parte di Laurie) che con la regista aveva già lavorato in Lady Bird insieme alla Ronan, e che qui trova un ruolo decisamente corposo grazie al quale si rivela attore interessante. Alla base c'è già una bella storia che forse poteva essere assemblata meglio dalla Gerwig che però mi ha convinto molto sul piano emotivo, questo Piccole donne lascia il segno e alla fine più che altri aspetti questo è quello che conta.

domenica 2 febbraio 2020

B.P.R.D. - LA FIAMMA NERA

(B.P.R.D. The Black Flame di Mike Mignola, John Arcudi e Guy Davis, 2005)

Secondo volume consecutivo dedicato ai membri del B.P.R.D. (Bureau for Paranormal Research and Defense) a essere orchestrato dalla coppia formata da Mike Mignola e John Arcudi ai testi con l'ausilio delle matite di un Guy Davis ormai di casa nell'universo narrativo di Hellboy. Anche in questo quinto volume dedicato all'agenzia sui generis che si occupa di paranormale troviamo rane, rane e ancora rane. La minaccia che incombe sul mondo ormai da tempo si fa sempre più pressante, il Bureau con il nuovo assetto che vede al comando della squadra operativa il Capitano Benjamin Daimio, si trova ad affrontare un avversario che cresce in spavalderia e potenza, gli esseri raniformi si muovono ormai in gruppi numerosissimi, non si nascondono più e si riversano sulle città e sui loro abitanti con furia devastante, provocando ondate di panico, terrore e follia. Al Bureau non rimane che utilizzare un approccio altrettanto diretto al problema, cosa che al Capitano Daimio riesce particolarmente bene, la sua soluzione consta in un mare di pallottole e gittate di fuoco su quella che a tutti gli effetti è ancora una piaga di rane (titolo di uno dei precedenti volumi della saga). A dargli manforte sul campo Roger l'omuncolo, un essere che è difficile capire in che termini possa considerarsi vivo, un animo puro e ingenuo che in Daimio trova un punto di riferimento e al quale tende ad assomigliare sempre di più, quasi come se l'essenza del Comandante stesse plasmando quella del suo soldato. Insieme a loro, meno entusiasti degli scontri continui con questi esseri che non presagiscono nulla di buono, ci sono la pirocineta Liz Sherman e il medium incorporeo Johann Krauss.


Su un altro fronte destinato a convergere con il primo, si muove l'azienda multimilionaria Zinco, all'interno della quale il dirigente Pope e il dottor Marsten stanno conducendo diversi esperimenti sulle creature che il B.P.R.D. sta tentando di fermare. Questi esperimenti porteranno alla nascita di un nuovo nemico da tenere d'occhio, La Fiamma Nera, un personaggio che lo stesso Mignola definisce una sorta di Teschio Rosso dell'universo di Hellboy. Le macchinazioni della Zinco porteranno al male finale, alla rinascita di una di quelle creature ataviche e malvagie che uno come Lovecraft avrebbe definito Antichi, il demone Katha-Hem.

Forse un filo meno appassionante di Una piaga di rane, questo quinto volume di B.P.R.D. lavora sui personaggi, ci permette di osservare (ma non di comprendere) la portata delle capacità della Sherman, costringe uno dei protagonisti della serie, Abe Sapiens, a tornare in servizio attivo e il Capitano Daimio, in seguito a una tragedia, ad affrontare le conseguenze dei suoi metodi operativi. Lo scenario offre un'escalation e una parziale risoluzione di una minaccia ormai nota, con la speranza che si inizi a guardare anche altrove. Davis ha fatto i personaggi completamente suoi, affinando uno stile diverso e complementare a quello di Mignola che con Arcudi pare aver trovato il giusto affiatamento. Indubbiamente questa serie, insieme a quella dedicata a Hellboy e ai vari speciali di Lobster Johnson e compagnia bella, costituisce uno degli universi narrativi a fumetti più interessanti da seguire, meno vario di quelli dei colossi Marvel e DC ma con una qualità media decisamente superiore.

sabato 1 febbraio 2020

CHÉRI

(di Stephen Frears, 2009)

Stephen Frears, ormai avvezzo al Cinema in costume (Le relazioni pericolose, Mary Reilly, Lady Henderson presenta, The Queen), affronta con leggerezza la Belle époque francese di inizio Novecento, imbastendo una storia godibile che manca forse di quel tocco di brillantezza in più che avrebbe potuto trasformare un film piacevole ma che non lascia grandi tracce in qualcosa di decisamente più frizzante. Per sua fortuna si imbatte in una Michelle Pfeiffer che regge il film da sola, incantevole sia come donna che come attrice. Altro pregio del film è la durata esigua che permette a questa storia lieve e di poca consistenza di aggirare l'ostacolo della noia, indubbiamente aiutato in questo da un bel lavoro fatto su costumi e scenografie che rendono personaggi e décor molto attraenti.

Al centro della vicenda ci sono le cortigiane, prostitute che si accompagnavano con la società bene dell'epoca, una serie di donne di gran fascino disposte a concedersi in cambio di denaro, molto, sufficiente a garantir loro una ricchezza tale che gli consente di condurre un'esistenza più che agiata. Tra le più note in quegli anni c'è la bellissima Lea de Lonval (Michelle Pfeiffer), non più giovane ma ancora piacente, e la sua conoscente di lunga data Madame Peloux (Kathy Bates) invece ormai sfiorita. Il figlio di quest'ultima, noto solo come Chéri (Rupert Friend), è un giovane ombroso, dedito ai più sfrenati piaceri e alla conoscenza di svariate fanciulle; per rimetterlo in riga la madre lo affiderà proprio a Lea per la quale il giovanotto inizierà a nutrire una passione corrisposta che porterà a una relazione che durerà più d'un lustro. Evidentemente anche tra le prostitute la società impone altro, l'ex allegra Madame Peloux si industria per cercare al figlio un partito più rispettabile, lo troverà nell'immacolata e graziosissima Edmee (Felicity Jones), consorte perfetta per un matrimonio rispettabilmente infelice.


La storia è tratta dal romanzo del 1920 di Sidonie-Gabrielle Colette, racconto popolare di un amore corrisposto ma impossibile per la società dell'epoca, l'approccio alla materia è per lo più spensierato, i pochissimi elementi tragici sono presentati allo spettatore dalla voce fuoricampo dello stesso Stephen Frears (Carlo Reali in italiano), la ricostruzione d'ambiente è minuziosa e appagante, così come lo sono tutti i vestiti indossati dalle protagoniste che riportano a quelli che furono gli ultimi anni spensierati prima dell'avvento delle grandi tragedie del secolo, la Grande Guerra era lì da venire. Interessante il rapporto tra i due protagonisti e l'evolversi dello stesso lungo gli anni, questo grazie all'interpretazione della Pfeiffer e di Friend (soprattutto lei) più che per l'incedere degli eventi in qualche modo prevedibile, Frears adotta una regia diligente al servizio di una storia alla quale manca il guizzo giusto per lasciare il segno.

Peccato, perché nella realizzazione Chéri è un film molto curato, finanche piacevole da guardare se vogliamo, purtroppo lascia addosso quella sensazione che fa pensare che tra una decina di giorni questo film ce lo saremo completamente dimenticato.

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