domenica 28 agosto 2022

JAPÓN

(di Carlos Reygadas, 2002)

Film difficilissimo questo esordio di Reygadas che al suo debutto nel lungo viene già riconosciuto come un talento naturale con la menzione speciale Camera d'Or a Cannes, premio assegnato ai migliori registi esordienti; difficile non tanto nella comprensione dello sviluppo, molto lineare se non addirittura al limite dell'inesistente, quanto nella reale possibilità di assorbire il cinema di Reygadas e per la necessaria propensione a entrare in contatto stretto con un'opera che richiede un coinvolgimento profondo e una visione oltremodo assorbita e partecipe. Il regista dichiara a più riprese una sorta di devozione per autori di altissimo livello, anche loro artefici di un cinema non proprio di facile intrattenimento: Ozu, Antonioni, Eizenstein, Rossellini, Kiarostami, etc... Questo Japón è stato accostato fin dall'epoca della sua uscita (2002) ad alcune opere di Tarkovskij, film metafisici, avvolgenti e ostici allo stesso tempo. Con questa premessa è facile comprendere come Japón non sia proprio il film adatto da guardare il sabato sera in famiglia con i popcorn in mano, non si può però non ammirare registi relativamente giovani (Reygadas gira Japón all'età di circa trent'anni) capaci di andare contro ogni logica che il buon senso potrebbe dettare a chiunque ambisse a un minimo di ritorno commerciale dalle proprie opere.

Un uomo abbandona la città e si dirige verso una zona interna e scarsamente popolata del Messico, lungo il suo viaggio incontrerà un gruppo di cacciatori ai quali chiede indicazioni per raggiungere un piccolo paesino sperduto. Questi accettano di dare un passaggio all'uomo; alla domanda sul motivo per cui l'uomo si stesse dirigendo in una zona così impervia il protagonista senza nome risponde semplicemente di star recandosi in quel luogo per porre fine alla sua vita. Senza fare ulteriori domande i cacciatori lo accompagnano. Giunto sul posto, dopo aver parlato con una sorta di sindaco locale, l'uomo trova ospitalità per qualche giorno nel fienile di una donna anziana, qui si dovrà preparare per il suo ultimo gesto. La vita tranquilla della montagna, i vasti panorami, una ritrovata conoscenza di sé stesso, la gentilezza della donna, le pietre circostanti, fanno ritrovare una certa serenità all'uomo che non riesce da subito a compire l'estremo gesto. Con il passare del tempo tornano anche certi appetiti da appagare, viatico per ritrovare senso in un'esistenza ormai fiaccata, da cosa non è dato sapere e forse non è così importante.

Film enigmatico fin dal titolo che, come si può desumere dalla scarna trama riportata più sopra, non ha nessuna attinenza con il suo contenuto. Fin dalle prime immagini si ha la sensazione di venire trasportati nel passato, nonostante l'esordio di Reygadas sia relativamente moderno (certo, sono passati già vent'anni) il regista gira in Cinemascope creando un senso di straniamento nello spettatore (il film andrebbe visto in sala nonostante i moderni schermi domestici) che ha la sensazione di essere trasportato negli anni 60 del secolo scorso. Il film è strutturato tra piani sequenza e camera a mano con un'attenzione sui luoghi e sul paesaggio che assume un'importanza preponderante all'interno dell'economia dell'intero film. Come si accennava prima, Japón richiede pazienza e impegno, mette in scena un moto interiore del protagonista spesso molto difficile da percepire se non con un atto di fede verso il cinema (che per carità, facciamo più che volentieri), un ritorno alla vita da una situazione che supponiamo di disperazione a quella di una serenità ritrovata che passa anche dalla pulsione sessuale per una donna anziana che matura con naturalezza e dolcezza nel protagonista. Reygadas non manca di mostrare una situazione che altri registi non avrebbero mai avuto il coraggio di prendere nemmeno in considerazione, ne esce una scena tenera per alcuni aspetti (la cura dell'uomo), geriatrica per altri, indubbiamente originale. Con film come Japón sta tutto nell'entrare in sintonia con il sentire dell'autore, devo ammettere che per chi scrive questo non è avvenuto completamente e se penso a esiti come lo Stalker di Tarkovskij, film chiamato in causa da alcuni critici, pur comprendendone le analogie, mi sembra comunque si parli di film che stanno su due mondi diversi, almeno nella capacità di precipitare lo spettatore in un mondo altro, in un'esistenza altra. Il voto è un 6.5 dato per il coraggio di Reygadas, uno sterile numero che potrebbe facilmente diventare un 5 (o anche meno) per lo spettatore che ha difficoltà a rapportarsi con questo genere di pellicole, come un 8 per chi riuscirà a farsi tirare dentro, nell'animo del protagonista. A voi la scelta se togliervi o meno la curiosità di sapere quale rapporto possiate avere con opere decisamente fuori dai soliti canoni.

venerdì 26 agosto 2022

NEUROMANTE

(Neuromancer di William Gibson, 1984)

Il Neuromante di William Gibson è forse ancora oggi l'opera più celebre, e tra le più importanti, dell'intero filone del cyberpunk. Gibson, insieme a una serie di altri autori suoi contemporanei quali Bruce Sterling e Tom Maddox (giusto per citarne un paio che Gibson ringrazia a fine libro), ispirati da precursori della precedente generazione, autori del calibro di Philip K. Dick ad esempio, hanno codificato un genere molto riconoscibile che unisce temi legati a quell'insieme di dati in cui è possibile perdersi, creare avatar, mondi immaginari (o diversamente concreti) e trovarvi una seconda realtà che viene spesso indicata come matrice o appunto cyberspazio, a tematiche ambientali e sociali che dipingono spesso un futuro distopico, cupo, dove l'essere umano è iperconnesso, controllato, spersonalizzato e in balia dei grandi agglomerati, economici più che di potere, le grandi multinazionali che fanno il bello e il cattivo tempo, le Zaibatsu come le chiama Gibson nella sua opera, multinazionali padrone di immensi capitali spesso legati a un'unica famiglia, nel caso di Neuromante la famiglia Tessier-Ashpool. In contesti come questo si muovono personaggi del tutto peculiari, proprio come quelli che si imparano a conoscere (ma non abbastanza) durante la lettura di questo Neuromante.

Case è un hacker, uno di quegli operatori chiamati cowboys in grado di solcare le autostrade di dati del cyberspazio, una connessione via hardware e via tra le trame infinite della matrice. Durante una delle sue operazioni Case ha però fatto incazzare la gente sbagliata, ha tentato di fregare un cliente che non ha preso molto bene la cosa, quest'ultimo si è adoperato affinché Case non si connettesse mai più alla rete. Ora Case si aggira abbattuto tra la varia umanità perduta di Chiba, Giappone, la lontananza dalla rete per un hacker è come la morte, Case è così sulla buona strada per l'autodistruzione: una cura non si trova, molti altri stimoli per tirare avanti non ci sono. Nella fogna di Chiba Case viene però contattato dall'enigmatico Armitage, un uomo dal passato poco chiaro e dagli intenti ancor più oscuri, questi è accompagnato dalla bella samurai della strada Molly, una donna innestata con visori a specchio al posto degli occhi e lame retrattili sotto le unghie. A Case viene garantita dai due strani personaggi una cura e una nuova possibilità di connettersi alla matrice, in cambio Case, sotto calcolata minaccia, dovrà portare a termine una nebulosa operazione i cui scopi e le cui tappe si sveleranno al giovane hacker solo un pezzo per volta: tra famiglie di potere, intelligenze artificiali, personalità riversate su memoria, illusionisti potenziati e flussi di dati, Case cercherà di trovare il bandolo di un'intricata matassa che potrebbe costargli facilmente la morte cerebrale.

Il libro di Gibson ha un fascino innegabile, la creazione del suo mondo risulta avvolgente fin dall'inizio, le descrizioni dei luoghi, quelli reali, trasmettono un senso di claustrofobia e degrado palpabile, come se la vita di ognuno dei loro abitanti non valesse più nemmeno mezzo soldo bucato. Il contesto è intrigante, l'immaginario cyberpunk pure, i problemi iniziano quando la storia ingrana (o dovrebbe ingranare) e si comincia a faticare a star dietro alle evoluzioni di trama e all'immaginazione sfrenata dell'autore. A essere sincero ho faticato davvero molto a orientarmi all'interno di Neuromante, molto spesso non sono chiari gli scopi dei protagonisti, non si capisce bene chi manovri chi e quali azioni i vari personaggi stiano andando a compiere e perché, l'unico di cui con certezza si sa qualcosa è Case che sappiamo adoperarsi per la più valida delle ragioni: salvarsi la pelle. I vari protagonisti sono descritti più per le loro peculiarità (fisiche, percettive, connettive) che non per un intento di costruzione e stratificazione degli stessi, (non) si impara un poco a conoscerli pagina dopo pagina ma nemmeno più di tanto. Si arriva a fine lettura con la sensazione chiara di essersi persi dei pezzi per strada, probabilmente a metà via tra un capo e l'altro dello Sprawl, consapevoli di aver letto una pietra miliare per l'evoluzione della fantascienza ma con la sensazione di non esserci realmente entrati dentro a fondo. O forse, semplicemente, is not my cup of tea!

mercoledì 24 agosto 2022

TRE COLORI - FILM BLU

(Troi couleurs: Bleu di Krzysztof Kieślowski, 1993)

Quando esce la trilogia dei colori, nella prima metà degli anni 90, Krzysztof Kieślowski è ormai alla fine della sua carriera, i tre film ispirati dai colori della bandiera francese (la Francia è patria artistica adottiva per il regista polacco) sono il suo ultimo sforzo d'artista, una morte improvvisa lo coglierà un paio d'anni più tardi all'età di soli cinquantacinque anni.  Kieślowski torna a un progetto articolato su più film dopo che parecchi anni prima aveva già realizzato il suo Decalogo, una serie di film brevi ispirati dai dieci comandamenti. Per la trilogia dei colori il regista guarda non solo alla bandiera francese ma anche al motto ufficiale della Repubblica, quel celebre Liberté, égalité, fraternité che compare proprio nella costituzione del Paese. Film blu è il primo atto di questo progetto, il blu è abbinato alla prima parola del motto, quel liberté che tra le immagini del film assume un significato molto personale, lontano dai temi sociali e politici per i quali il motto vorrebbe essere di grande ispirazione e costante riferimento, è una libertà dai legami quella che Kieślowski ci racconta, una libertà che si spera possa affrancarsi dal dolore da cui nasce, una libertà di tornare alla vita, una piccola vittoria dopo un periodo molto buio.

Julie Vignon (Juliette Binoche) è sposata con un celebre compositore di musica, i due sono genitori di una bambina ancora piccola; durante un viaggio in auto il marito di Julie perde il controllo del mezzo finendo contro un albero a grande velocità. Nell'incidente muoiono sia l'uomo che la bambina, Julie si sveglierà in ospedale solo qualche tempo dopo e qui riceverà la notizia della morte della sua famiglia. Dopo un maldestro tentativo di suicidio la donna affronterà l'immenso dolore effettuando una sorta di cancellazione sistematica dei sentimenti e dei ricordi, abbandonando la sua casa, eliminando oggetti e tutto ciò che le possa ricordare marito e figlia, arrivando anche a sopprimere le creazioni artistiche che il marito, con il suo stesso aiuto, stava da tempo portando avanti essendo stato invitato per aprire le celebrazioni dell'Unione Europea. Volenti o nolenti la vita però continua: gli incontri di tutti i giorni, la nuova casa, le questioni legali, i rapporti della vita precedente, tutte interazioni che sembrano bussare alla porta e al cuore ormai freddo di Julie. Ma per quanto tempo una donna può vivere senza contatti, senza provare nulla, senza emozioni di qualsiasi tipo?

Il film si apre con delle belle trovate di regia (la camera sulla parte bassa dell'auto, il gioco di luci sul volto della bambina, più avanti il focus sulla pupilla della protagonista) e presenta da subito una struttura simbolica, che rende anche intuibile qualche passaggio, per poi entrare nell'animo della protagonista devastata dal lutto, questo difficile da leggere nella glacialità che una Binoche stupenda riesce a trasmettere. Come da titolo la fotografia di Sławomir Idziak ricorre molto spesso ai toni del blu e delle sue gradazioni, si pensi al lecca lecca della piccola che Julie ritrova dopo la sua morte e che divora, non si sa bene se in preda a un desiderio di comunione o di distruzione, alla lampada blu che ritorna più volte, alle sequenze in piscina dove la protagonista trova un elemento (vitale) di distensione e di dolore allo stesso tempo, l'acqua, le pareti, sono azzurre, alcune luci riprendono le stesse tonalità, e via di questo passo. Tutto il film è caratterizzato dal colore e dalla musica, dai significanti espliciti a sottolineare gli elementi del racconto (il dito sullo spartito) i quali ci dicono di un dolore e di un tentativo di cancellazione dello stesso attraverso la rimozione totale della sua causa e di un isolamento progressivo che non può durare. Poi una riapertura. Entrambi i passaggi sono espressi da una Binoche sempre presente sullo schermo, una costante, protagonista assoluta di una prova difficile da gestire che l'attrice parigina porta a compimento con grande maestria (César e Coppa Volpi a Venezia). Nella sottrazione della Binoche non c'è solo un dolore inespresso, c'è l'enigma della maternità (che si ripresenta, con i topi, con l'amante del marito), c'è la rinascita alla vita, c'è un animo di fondo non portato all'isolamento. Poi c'è la musica, ovunque, parte integrante della trama e accompagnamento. Film molto riuscito, privo di picchi ma denso e profondo eppure agevole allo stesso tempo. Cinema d'autore, di classe, europeo per definizione. 

domenica 21 agosto 2022

SELFIE

(di Agostino Ferrente, 2019)

Nel settembre del 2014 il giovane Davide Bifolco, diciassette anni, viene ucciso da un colpo di pistola sparatogli alle spalle da un carabiniere all'inseguimento di un pericoloso (suppongo) latitante, un latitante nemmeno presente sul luogo dell'omicidio, una sorta di scambio di persona. Il carabiniere, dovendo dar conto dell'accaduto, si difese asserendo di essere inciampato e di avere esploso per sbaglio il colpo in seguito alla caduta (diciamo, nel migliore dei casi, un carabiniere questo che magari non dovrebbe operare per strada, volendo essere magnanimi). Succedeva a Napoli nel rione Traiano, dove purtroppo le condizioni di vita delle persone residenti non sono di quelle che permettono grandi sogni né troppe speranze di miglioramento. Da questo episodio nasce la voglia di Agostino Ferrente di raccontare non la storia di Davide ma quella di ragazzi come lui, suoi coetanei, cercando di capire come possa essere in realtà la vita di ragazzi adolescenti, lontani dal mondo della criminalità, ma destinati a crescere in quartieri molto difficili, capaci per il loro contesto di offrire sprazzi di luce ma anche di tagliare le gambe a speranze e possibilità di crescita, possibilità già difficili da prendere anche solamente in considerazione a causa di un contesto contingente che si dimostra essere oltremodo ostico. Ferrente sceglie così, immaginiamo dopo numerosi incontri, i suoi due protagonisti, Alessandro Antonelli e Pietro Orlando, sedici anni entrambi, li fornisce di un cellulare capace di effettuare delle buone riprese, e chiede loro di raccontare il loro quotidiano, il quartiere, le loro esperienze (la storia dell'amico Davide sarà tra queste), le loro speranze, gli chiede in poche parole di diventare registi di sé stessi e della loro storia.

Alessandro e Pietro raccolgono così la sfida, anche con un certo orgoglio si può ipotizzare, e iniziano a riprendere e a raccontare la loro vita nel rione. Alessandro lavora, fa il barista in un bar della zona e si occupa anche delle consegne, rigorosamente effettuate in motorino, senza casco e magari pure mentre si fa riprendere con il cellulare. Pietro non lavora, gli piacerebbe fare il parrucchiere e ogni tanto chiede all'amico Alessandro di fargli da cavia. Tra i due ragazzi c'è un bellissimo rapporto, un'amicizia quasi fraterna, Alessandro che lavora sembra prendersi un poco cura del suo amico che non ha impiego e che ha anche qualche difficoltà con le ragazze a causa del suo aspetto, da qualche anno Pietro è infatti sovrappeso (i due ci spiegheranno il perché) e questa cosa gli procura anche un po' di insicurezza. Oltre ai due protagonisti/registi lo sguardo si sposta su altri ragazzi del rione che Alessandro e Pietro a volte coinvolgono nelle riprese, altre volte intervistano per carpire anche i loro pensieri sul rione e sulle loro aspettative di vita all'interno di quella comunità. Ci sono ragazzi più coinvolti con attività criminali, giovani ancora innocenti ma all'apparenza già rassegnate a una vita difficile, bambini che vogliono imitare i grandi e, proprio in relazione all'episodio di Davide Bifolco, già abituati e cinici nei confronti della morte violenta.

Selfie è la dimostrazione pratica di come si possa fare un ottimo film in totale assenza di mezzi usando la vita, la verità e molta professionalità. Ovvio che tra tutto il girato che i ragazzi, seguiti da Ferrente, hanno realizzato, in fase di montaggio si è cercato di cucire tutto il meglio e tirarne fuori un film/documentario capace di coinvolgere, commuovere e indignare il suo pubblico, compito tra l'altro perfettamente assolto grazie proprio alla post produzione e all'empatia naturale che si prova per questi due ragazzi napoletani. Ovvio che la verità vista in video è una verità pilotata dagli stessi Pietro e Alessandro, consapevoli di star girando un film che sarà visto poi da un pubblico e proprio per questo, immaginiamo, propensi a mostrare il lato migliore di loro stessi, senza però evitare di raccontare fatti problematici delle loro vite ma soprattutto quelli del rione Traiano. Il racconto della morte di Davide è un racconto forte, che vede coinvolti i parenti del ragazzo e la sensazione di una giustizia che non può arrivare, "questo è un processo che una formica fa contro a un'elefante, nui simm 'a furmica e 'o Stato è l'elefante", questo diranno i parenti di Davide, disillusi (a ragione) sulla giustizia che lo Stato può concedere loro. Significative sono anche le prospettive delle giovani quindicenni del rione, già pronte in un futuro a vedere i loro eventuali mariti in galera, proprio come già accaduto con i loro padri. Al lato duro, spietato, che la vita mette in conto a questi giovani, si contrappongono una bellissima amicizia, una gioia di vivere che porta Alessandro e Pietro comunque a lottare per una vita pulita, lontano dal crimine (cosa che per loro purtroppo è una cosa da conquistare, non la norma) e a concedersi qualche piccola gioia: un bagno a Posillipo, un piatto abbondante di pasta, l'esperienza di questo film. Selfie è un documentario, se così vogliamo chiamarlo, molto bello, commovente a più riprese e che ci racconta il lato più onesto di una gioventù vitale e allo stesso tempo disillusa che purtroppo abbiamo prematuramente condannato e abbandonato.

mercoledì 17 agosto 2022

LA COSA DA UN ALTRO MONDO

(The thing from another world di Christian Nyby e Howard Hawks, 1951)

La cosa da un altro mondo può essere considerato uno dei pilastri della fantascienza classica del cinema dei 50, la settima arte in quel decennio fu molto prolifica per quel che riguarda questo genere, addirittura sembra sia questo uno dei primi film, se non proprio il primo, a narrare storie di visitatori da altri pianeti. Tratto da un racconto che porta lo stesso nome scritto da John W. Campbell, La cosa da un altro mondo ne modifica in parte la trama soprattutto in quelle che sono le caratteristiche e le abilità del protagonista alieno, nello scritto capace di mutare forma e prendere le sembianze di qualsiasi umano, cosa che avrebbe fatto salire di molto la tensione ma che probabilmente non è stata ben vista in fase di sceneggiatura dove si è optato per una scelta più semplice da gestire, ciò nonostante le caratteristiche terrificanti di quello che era uno dei primi visitatori alieni al cinema non mancano di certo (contestualizzando il tutto al 1951 ovviamente), almeno nei comportamenti, per quel che riguarda la parte relativa a trucco e parrucco l'alieno non è poi così spaventoso. Il Nostro però si rifece e venne portato in scena con tutte le sue caratteristiche originali molti anni più tardi, nel 1982, a opera di John Carpenter che con La cosa, remake del film di Hawks e Nyby, tornò al testo originale e rese tutto più angosciante e spaventoso. Qualche questione da dirimere anche sulla paternità della regia, Nyby in realtà più che come regista cinematografico viene ricordato come montatore (anche candidato all'Oscar), in questa veste lavorò diverse volte con Hawks, regista di tutt'altro livello, a tutt'oggi questo film è l'unica prova che si ricordi di Nyby (poi diresse molta televisione), ci fu anche chi affermò che il film fu diretto praticamente tutto da Hawks, così sosteneva ad esempio Kenneth Tobey, protagonista principale del film, cosa che ovviamente Nyby negava, comunque, sia come sia, La cosa da un altro mondo è ancora oggi un film di cui si parla quando si torna alle origini della fantascienza.

La trama un poco la conosciamo (abbiamo parlato de La cosa di Carpenter non molto tempo fa). Un gruppo di militari di stanza ad Anchorage in Alaska comandato dal capitano dell'aviazione Patrick Hendry (Kenneth Tobey) viene inviato nei pressi di una stazione artica causa la caduta di un velivolo non identificato. Il drappello, insieme al giornalista in cerca di un buon servizio Ned Scott (Douglas Spencer), raggiunge in loco il gruppo di scienziati coordinati dal dottor Carrington (Robert Cornthwaite); alla stazione è presente anche la bella e spigliata segretaria Nina (Margaret Sheridan), nei confronti della quale il capitano Hendry nutre qualche ricambiato interesse. Giunta sul luogo dell'impatto la squadra dell'aviazione trova un oggetto circolare sepolto nel ghiaccio; nel tentativo (goffo) di liberarlo il gruppo di Hendry distrugge inavvertitamente il veicolo, nel ghiaccio rimane però una forma umanoide che i militari non vogliono rianimare prima di aver ricevuto un preciso ordine, mentre gli scienziati vorrebbero ovviamente scongelare e studiare la creatura. In seguito a diverse vicissitudini l'alieno si libererà e si rivelerà essere una forma di vita tutt'altro che facile da tenere a bada, inizierà a seminare morti e panico tra gli ospiti della stazione artica i quali avranno vedute differenti sui comportamenti da tenere nei confronti della cosa.

Film datato ma che ancora si guarda tutto sommato con piacere, il trucco e gli effetti speciali sono realizzati in economia, non manca qualche bel dettaglio qua e là e la mano di Hawks rende piacevole la scansione degli eventi. Girato quasi tutto in studio con pochi mezzi si distinguono però alcune sequenze aeree ben realizzate, in molte scene i dialoghi dei personaggi si affastellano uno sull'altro con un sovrapporsi di voci (nemmeno ci fosse Altman) che dona un buon ritmo alla progressione della trama la quale si basa molto sugli scambi di vedute tra i protagonisti. Oltre alla trama della minaccia venuta dallo spazio, si contrappongono nel film i punti di vista dei militari, più conservativi e minacciosi, e quelli degli scienziati, più aperti allo straniero e desiderosi di conoscenza anche a costo di mettere a repentaglio la vita di qualcuno. Nonostante il film abbia un certo peso per la produzione del fantastico d'epoca (iscritto nel National Film Registry), La cosa da un altro mondo rimane un capitolo minore, seppur interessante, nella filmografia di Hawks che arrivava dal brillante Ero uno sposo di guerra con Cary Grant e che aveva già in curriculum film come Scarface, Susanna!, Acque del Sud, Il grande sonno e Il fiume rosso e altri ne verranno in seguito (Un dollaro d'onore ad esempio). Passaggio obbligato per gli appassionati di fantascienza, visione comunque consigliata per chi vuole capire come si è arrivati a produzioni più moderne, il film tra l'altro è disponibile gratuitamente nel catalogo di Raiplay, quindi...

martedì 16 agosto 2022

MS. MARVEL

All'interno dell'universo Marvel, quello a fumetti, Ms. Marvel a.k.a. Kamala Khan è un personaggio molto giovane, nato solo nel 2013 dalla mente (tra le altre) di G. Willow Wilson e dalla matita di Adrian Alphona, ottiene la sua testata regolare l'anno successivo grazie alla quale la giovane supereroina del New Jersey d'origine pakistana racimola fin da subito un buon successo rivelandosi uno dei protagonisti più freschi e interessanti di un universo narrativo spesso a corto d'ossigeno e di idee veramente nuove. La carta vincente di Ms. Marvel fu quella di parlare, e bene, a un pubblico adolescente, come faceva Peter Parker negli anni d'oro della sua serie, nei 60, e declinare le trame teen in un ambiente multiculturale descritto da una scrittrice che sapeva bene di quel che parlava; cresciuta nel Jersey per diversi anni, studiosa e poi convertita all'Islam, G. Willow Wilson riuscì a rendere molto credibile ogni singolo aspetto di una protagonista il cui lato supereroico era solo uno dei diversi a suscitare interesse attorno alla serie. Molto di questo (ottimo) lavoro è stato trasportato con successo nei sei episodi della serie tv, anche qui maestranze e componenti del cast sono stati scelti ad hoc per rendere la storia il più realistica possibile, l'esordiente Iman Vellani che interpreta la protagonista Kamala Khan è infatti un'attrice di origini pakistane come lo è una dei registi chiamati a dirigere i vari episodi, Sharmeen Obaid-Chinoy, si è lavorato molto bene sul contesto, con il cast, con il teen drama, peccato che sia presente anche la parte supereroica, onestamente molto poco interessante e meno riuscita di tutto il resto.

Nell'approccio alla trama, in particolare quella del lato super che in una serie Marvel non può di certo mancare, le origini di questa Ms Marvel (ricordiamo che non è la prima e probabilmente non sarà nemmeno l'ultima eroina a portare questo nome) sono state riviste e parecchio stravolte rispetto a quelle narrate sulla serie a fumetti. Kamala Khan (Iman Vellani) è una ragazza del New Jersey di origini pakistane, come tanti coetanei è in fissa con i supereroi, è una fan degli Avengers con un occhio particolare a Capitan Marvel (Brie Larson). Insieme all'amico Bruno (Matt Lintz) la ragazza decide di partecipare a un'evento dedicato agli Avengers dove ci sarà anche un concorso per cosplayer, questo nonostante il divieto di papà (Mohan Kapur) e mamma (Zenobia Shroff). Alla convention Kamala, vestita da Capitan Marvel e dotata di un vecchio bracciale (per dare un tocco personale al suo costume) appartenente agli avi di famiglia, scopre che proprio quel bracciale è in grado di donarle grandi poteri legati all'utilizzo di una sorta di luce solida, grazie a questi salverà la sua amica Zoe (Laurel Marsden) messasi nei guai e attirerà le indesiderate attenzioni della Damage Control, un'agenzia governativa interessata ai super esseri. Nei giorni seguenti Kamala dovrà capire la natura e l'utilizzo dei suoi nuovi poteri e per farlo dovrà appianare i contrasti con i suoi genitori che ovviamente l'hanno beccata a disobbedire alla loro proibizione di andare alla convention. In più nella vita di Kamala entrerà il bel Kamran (Rish Shah) e tutta una serie di figuri legati alla storia della sua famiglia e a quella del bracciale.

Come si diceva Ms. Marvel presenta parecchi punti positivi a suo favore e gode di una certa freschezza che si perde purtroppo negli episodi centrali proprio a causa delle divagazioni necessarie a spiegare un'origine super molto più pasticciata e molto meno interessante di quella appartenente alla Kamala cartacea. La narrazione è studiata per un target principalmente adolescenziale, sotto questo aspetto la realizzazione è ottima: regia dinamica, divertente, belle soluzioni per portare sullo schermo le interazioni dei ragazzi con il mondo digitale, utilizzo originale di inserti grafici che diventano parte integrante della narrazione, dinamiche teen ben sviluppate, contesto familiare godibilissimo, un ottimo prodotto a target. Perfetto il cast, ben assortito e con una capacità di parlare a tutti portando avanti un discorso anche storico culturale su quella che è una minoranza negli U.S.A., si affronta a più riprese l'argomento del colonialismo inglese e i danni da questo provocati al momento della partizione dell'India e della nascita del Pakistan, con migrazioni di massa che costarono sangue e morti e una separazione dolorosa tra indù e musulmani. La carne al fuoco è tanta, magari non tutta cotta a dovere ma il sapore speziato di questo Ms. Marvel è davvero apprezzabile. Tocca dirlo, è purtroppo noiosa la parte dedicata all'origine dei poteri di Ms. Marvel, vengono tra l'altro tirati in ballo un po' a caso dei personaggi minori dell'universo Marvel ai quali viene collegata la nostra protagonista, non ho ben capito se per una questione di diritti ancora da dirimere, l'azione si sposta in Pakistan per un paio di episodi e l'attenzione presto scema. Difetto comunque digeribile, restano in mente puntate coloratissime, vivaci, slanci verso Bollywood, atmosfera inclusiva e un personaggio indovinato che speriamo non si perda nel mezzo di un carrozzone sempre più vasto nel quale anche gli spunti migliori rischiamo di perdersi tra una scazzottata e l'altra. Come ci anticipano, Kamala Khan tornerà in The Marvels, questa è andata, pronti a promuovere il prodotto successivo.

lunedì 8 agosto 2022

CREED - NATO PER COMBATTERE

(Creed di Ryan Coogler, 2015)

Creed - Nato per combattere è per i fan della saga di Rocky una sorta di ritorno a casa, una passeggiata lungo una strada nota, una strada già percorsa in passato e che, vista da un'angolazione diversa, con un altro taglio di luce, da un'altra prospettiva, riesce ancora a regalare emozioni e un senso diffuso di appagamento per un viaggio sempre piacevole, pur nella consapevolezza che in fondo si stia seguendo la strada di sempre e che questa ci porterà proprio lì dove ci aspettiamo che ci porti, in qualche modo, appunto, a casa. Questo è Creed, con le sue varianti, le sue deviazioni, i suoi piccoli spostamenti, nient'altro che il racconto del mito, sempre lo stesso, quello del riscatto, della fatica, della lotta contro le avversità e a dispetto di tutte le probabilità contrarie, è ancora il mito di Rocky Balboa, quello che sta tanto a cuore all'ormai invecchiato Sly, traslato dentro altra carne, dentro altri colori, immerso in una situazione diversa ma per molti aspetti simile, è un'eredità, nominalmente quella del mitico Apollo, in realtà anche, e sempre e soprattutto, quella dell'indimenticabile Stallone Italiano di Philadelphia che al settimo capitolo della sua saga ancora non mostra cenni di cedimento (qualitativo, quello fisico c'è ed è mostrato con ammirevole orgoglio e grande dignità). Senza grandi novità, sebbene non manchi qualche elemento interessante, la saga di Rocky infila un ulteriore capitolo, a quarant'anni dal primo, che ancora si lascia guardare con molto piacere. Inoltre l'arrivo alla regia di Ryan Coogler, direttore di uno dei film più "black" di sempre, il successo enorme Black Panther, offre una prospettiva diversa anche dal punto di vista razziale finalmente senza forzature e con una costruzione del tutto naturale.

Adonis Johnson (Michael B. Jordan) è a sua insaputa il figlio illegittimo del grande campione dei pesi massimi Apollo Creed, cresciuto tra orfanotrofi e riformatori viene in seguito accolto dalla moglie di Apollo, Mary Ann (Phylicia Rashād) quando questa viene a conoscenza dell'esistenza del bambino. La donna garantisce al ragazzo una vita agiata e un'ottima istruzione, una volta adulto Adonis trova un ottimo lavoro e sembra essere ben avviato a una carriera finanziaria. Ma la sua infanzia difficile, quella che l'ha reso un combattente duro, non si dimentica facilmente e Adonis sfoga la sua rabbia partecipando a degli incontri clandestini in Messico nei quali verrà fuori il suo talento naturale per la boxe, una passione che lo spingerà a lasciare un lavoro sicuro e ben retribuito per seguire il suo sogno. Ma al ragazzo mancano le basi, c'è del talento grezzo, c'è la fame del voler dimostrare a sé stesso, e poi al mondo inconsapevole, di poter meritare quell'eredità così ingombrante tenuta nascosta a tutti, ma mancano la tecnica, la velocità, la sapienza. Ed è per questo che Adonis si presenta al ristorante Adrian's (già visto in Rocky Balboa) e chiede al vecchio Stallone Italiano (Sylvester Stallone) di allenarlo, di renderlo un vero pugile. Dopo le prime ritrosie, scoperta l'identità del giovane, Rocky decide di accettare l'offerta di Adonis, le strade di Philadelphia che erano state di un giovane Balboa diventano piano piano quelle di Adonis, un ragazzo promettente che il mondo imparerà a conoscere come il figlio di Apollo Creed.

Creed - Nato per combattere ha tutte le carte in regola per piacere ai fan della saga di Rocky (si può anche iniziare da qui ma ci si perde parecchio), pur non proponendo grosse novità se non qualche variazione sul tema il film di Coogler si distingue per un'onestà di fondo davvero apprezzabile, si sposta l'attenzione dalla comunità italoamericana dei primi Rocky a quella nera, si aggiunge alla parabola sportiva quella della malattia di un Balboa ormai anziano e provato dal tempo e dal ricordo della sofferenza dell'amata Adriana ormai dipartita (che tenerezza la lettura del giornale davanti alla tomba sua e di Paulie), nel farlo non traspare mai la pretesa che il film possa essere altro dall'ennesimo e rispettoso nuovo capitolo di una saga amata da milioni di persone, a partire dagli inseguimenti alle galline per finire in cima a quella scalinata che tutti voi conoscete molto bene. Ed è ancora Rocky a entrare nei cuori, nonostante Michael B. Jordan sia un ottimo discendente del grande Apollo, il volto ormai sfatto di Stallone accompagna in maniera perfetta il tramonto di un'icona, di un uomo che è diventato mito che torna a essere uomo e che affronta l'ultimo tratto di esistenza con tutte le difficoltà che questa comporta, aggravate dal peso sempre presente di non aver fermato per tempo quel maledetto incontro di tanti anni prima. La regia di Coogler è piana (ma mai noiosa), asseconda il racconto con classicismo per poi esplodere sull'incontro finale, anche questo intriso di una buona dose d'amore per il passato. Nulla di nuovo sotto il sole, solo l'ennesimo ottimo capitolo di una saga che sembra non stancare e non stancarsi mai.

mercoledì 3 agosto 2022

ESTATE ROMANA

(di Matteo Garrone, 2000)

Garrone prima di Garrone. Oggi uno dei maggiori registi italiani, il successo di Matteo Garrone esplode con l'uscita di Gomorra, siamo nel 2008, annata trionfale per il cinema dello stivale che vede nelle sale anche Il divo di Paolo Sorrentino, momento memorabile per la produzione nostrana. Garrone in realtà aveva suscitato gli interessi della critica già in precedenza con L'imbalsamatore, il regista all'epoca aveva già alle spalle ben tre lungometraggi meno noti al grande pubblico dei quali questo Estate romana è proprio il terzo. Se pensiamo ai lavori più recenti del regista romano, cose come appunto Gomorra, Dogman, Il racconto dei racconti o Reality, il più datato Estate romana sembra distante anni luce per stile e costruzione da questi esiti più moderni. Più libero, immediato, meno studiato, fuori fuoco, il film si presenta come un lavoro meno calibrato ma allo stesso tempo vivace e vitale, capace di inquadrare per bene, anche se in maniera (volutamente) disordinata, esistenze disorganizzate, spontanee, genuine e imperfette in una Roma altrettanto caotica e priva dei soliti riferimenti riconoscibili dal pubblico, i luoghi, come le vite dei protagonisti, prive di appigli certi e universalmente noti.

Siamo nella Roma impalcata pre giubileo, quello del 2000: lavori, caos (più di quello sempre presente nella città eterna), edifici coperti dai teli, cantieri, ponteggi, il solito traffico per una città dal volto diverso. In questo scenario più che movimentato torna a Roma dopo una lunga assenza l'ex attrice teatrale Rossella (Rossella Or), legata alla scena dei palchi d'avanguardia in voga nella capitale negli ormai lontani anni 70. Una volta a Roma Rossella cerca di riprendere i vecchi contatti, torna nell'appartamento di sua proprietà dove ora abita l'amico Salvatore (Salvatore Sansone), un ex avvocato napoletano convertitosi alla vita artistica. Aspirante scenografo per produzioni teatrali indipendenti, in realtà Salvatore è un creativo pigro e molto spesso inconcludente, un po' indolente e indeciso anche sulle svolte sentimentali da dare alla propria vita: invaghito della sua amica e collaboratrice Monica (Monica Nappo) non riesce a dichiararlesi soffrendo anche di qualche malcelato attacco di gelosia infantile. Monica dal canto suo cerca di guadagnarsi la giornata in una situazione difficile, una bambina piccola da mantenere da sola, lavori precari, di giorno a realizzare il mappamondo gigante che Salvatore dovrebbe vendere a un regista di spettacoli teatrali, la sera barista con figlia al seguito, osteggiata anche dalla suocera (Ester Astrologo) che vorrebbe farle togliere la bambina. Altri personaggi minori girano intorno ai protagonisti tutti inseriti nella scenografia di una Roma in rifacimento.

Film molto spontaneo, tanta camera a mano per Garrone che non si preoccupa di infilare inquadrature parziali, strette, con movimenti all'apparenza poco studiati, piani ravvicinati sui volti o su parti di essi, disordine, sonoro in presa diretta, a tratti anche difficile da comprendere su alcuni passaggi dei dialoghi; è tutto girato come se il regista fosse lì con i protagonisti, noi non lo vediamo ma in qualche modo lo percepiamo. Sia questo tipo di approccio nella realizzazione, sia la storia in sé, che non ha uno sviluppo di trama così forte, lasciano passare l'idea di un film molto libero, con una sua certa energia vitale ma anche incompiuto, aperto, fotografia di un momento e di protagonisti in movimento come la città, anch'essi incompiuti, ingabbiati in progetti che anche loro non sanno bene se andranno a frutto e compimento, in bilico tra totale spaesamento e inadeguatezza (Rossella), indolenza e mancanza di direzione (Salvatore) e difficoltà oggettive (Monica). Bravi gli attori, interessante il personaggio di Salvatore che non si scompone mai, nemmeno davanti a un lavoro non pagato, ma che patisce il fatto di non saper gestire il rapporto con Monica e il fastidio di vederla potenzialmente con qualcun altro. Estate romana sembra un laboratorio, un lavoro di elaborazione di un regista ancora immaturo che, come i suoi personaggi, sta ancora cercando il suo posto nel mondo. A posteriori ora sappiamo che quel posto l'ha trovato, chissà però che fine hanno fatto Salvatore, Monica e Rossella.

lunedì 1 agosto 2022

DUNE

(di David Lynch, 1984)

Uno dei film meno lynchiani dell'intera carriera di quel geniaccio di David Lynch, un progetto che si rivelò parecchio complicato sia da imbastire che da portare a termine, venne all'epoca visto per lo più come un insuccesso (sia di pubblico che di critica) e ancora oggi il film non gode di quella riabilitazione che è toccata a quelli che in origine furono flop totali o parziali realizzati da grandi nomi della settima arte, tuttora il Dune di David Lynch è considerato un progetto fallimentare e una delle opere più deludenti dell'intera filmografia del regista e, mi duole dirlo, non proprio a torto. L'adattamento del romanzo omonimo di Frank Herbert, tra i più noti della letteratura fantascientifica, solletica la mente dei produttori cinematografici già in epoca precedente l'anno 1984 nel quale Dune vedrà infine il buio delle sale; negli anni 70, prima ancora dell'uscita di Guerre Stellari, sembrava che il progetto dovesse essere portato avanti da Jodorowsky il quale aveva in mente di ingaggiare un supercast per la sua realizzazione: i Pink Floyd per la colonna sonora, Moebius, Giger e Chris Foss per concepirne la parte visiva, Orson Welles e addirittura Salvador Dalì nel cast, un progetto enorme poi naufragato di cui è possibile rinvenire le tracce nel documentario del 2013 Jodorowsky's Dune di Frank Pavich. Lynch arrivò al progetto dopo l'enorme successo di The Elephant man e dopo aver rifiutato la regia de Il ritorno dello jedi, accettò così di dirigere questo Dune, un film che si rivelò non essere nelle sue corde, una lavorazione che imbrigliò l'estro visionario di Lynch e che riuscì a segnare delle note positive solo su alcuni aspetti tecnici dovuti anche alla collaborazione del regista con grandi professionisti.

Uno dei punti deboli del film è proprio la struttura della trama. Molti anni nel futuro l'impero galattico è gestito con un sistema che ricorda il vecchio feudalesimo terrestre, i vari pianeti sono retti da rispettive casate sulle quali governa l'Imperatore Padishah Shaddam IV (José Ferrer) il quale non manca di ordire intrighi per i suoi fini personali a scapito delle varie casate e con la pericolosa alleanza della Gilda spaziale. L'impero è si regge grazie alla produzione della spezia, una sorta di droga capace di allungare la vita degli esseri umani ma anche di sbloccare il dono della preveggenza in individui predisposti, in particolare i membri della Sorellanza e delle Reverende Madri. Gli uomini della Gilda spaziale invece usano la spezia per condurre le navi a velocità superluminale. Questo elemento, il più prezioso dell'intero universo, viene prodotto solo sul pianeta desertico Arakkis (o Dune) grazie al lavorio di enormi e pericolosi vermi giganti, la raccolta è affidata a un complicato sistema di macchine che separano la sabbia dalla spezia e che devono anche guardarsi costantemente dai vermi, sensibili alle vibrazioni delle macchine e sempre pronti a distruggerle. Per garantirsi un futuro nel ruolo di imperatore, Shaddam tenta di mettere una contro l'altra le casate Atreides e Harkonnen, la prima rappresentata da Leto Atreides (Jürgen Prochnow) e da suo figlio Paul (Kyle MacLachlan), la seconda dal viscido Barone Vladimir Harkonnen (Kenneth McMillan). Proprio Paul sembra essere l'eletto di un'antica profezia tramandata sia dalla Sorellanza che dai Fremen, gli abitanti autoctoni di Arakkis, gli unici a poter raccogliere la spezia senza ausilio di macchine e senza mettere in allarme i giganteschi vermi.

Si accennava prima a come il problema principale del film fosse proprio la trama, nonostante Lynch si sia fatto carico di curare in prima persona anche la sceneggiatura. Intanto c'è da dire che, nonostante le due ore di durata siano oggi la norma, e quindi come pubblico siamo abituati a questi minutaggi, Dune si rivela un film noiosissimo, privo di sussulti, farraginoso e arrancante nel procedere della vicenda (e mi fa male scrivere questo di un film di Lynch), assolutamente sconsigliato se vi portate addosso un minimo di stanchezza della giornata, il rischio di cedimenti è molto elevato. Inoltre sembra che a Lynch sia stato imposto dalla produzione di contenere la durata del film, cosa che lo costrinse a voli pindarici per rendere in due ore la complessità dell'universo narrativo creato da Herbert, decisione che ha influito in maniera negativa anche sulla facilità di comprensione della vicenda, altro aspetto poco riuscito del film. A parere di chi scrive Dune rimane nella filmografia del regista un'opera poco significativa e consigliata solo ai completisti che di Lynch vogliono vedere tutto, o al limite ai fan del Dune letterario, con questo non si vuol dire che il film non abbia nessun pregio: le scenografie sono sontuose e, come spesso sono state definite, barocche, c'è un che di grandioso in alcune trovate visive realizzate in un'epoca dove l'effetto artigianale la faceva da padrone, alcuni elementi come i vermi giganti sono stati ideati da Carlo Rambaldi con ottimi risultati, alla colonna sonora ci sono i Toto e Brian Eno, nel cast oltre ai già citati si annoverano attori come Max von Sydow, Silvana Mangano, Sting, Sean Young, Freddie Jones, Patrick Stewart e i lynchiani Everett McGill e Jack Nance. Insomma, gli aspetti positivi non mancano, non bastano però a sollevare le sorti di un progetto nato forse sotto una cattiva stella.

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