sabato 30 marzo 2024

IL SAPORE DEL SANGUE

(Clay Pigeons di David Dobkin, 1998)

A volte i film si perdono, spariscono dalla memoria del grande pubblico e, seppur accessibili, vivono dimenticati in angoli remoti di cataloghi digitali infiniti all'interno dei quali non è facile essere ritrovati e riportati alla luce di schermi moderni. Accade spesso a quelle opere considerate di serie b, magari oneste, divertenti e per alcuni versi anche ben realizzate ma sommerse e sorpassate da altri titoli che, a torto o a ragione, sono riusciti a ritagliarsi maggior gloria e un posticino (o anche un meritato posto d'onore) all'interno dell'immaginario collettivo. Alcuni si perdono anche a causa dell'insignificanza di un titolo tradotto; prendiamo a esempio questo Il sapore del sangue: cosa ci dice questo titolo? Più che del sangue ha il sapore del prodotto di scarto, del fondo di magazzino, riporta alla mente l'odore del cestone dei dvd a un euro, delle visioni estive in seconda serata su canali di ripiego di una tv generalista di qualche decennio fa. Mettiamoci anche la firma di un regista non proprio di primo piano come David Dobkin, noto probabilmente solo a chi ama un certo tipo di commedia, e l'oblio sembra essere quasi assicurato. Eppure, e rimaniamo pure sempre al nostro esempio, in certi casi questo processo di scomparsa progressiva risulta essere un po' un peccato, perché alla fine questo Il sapore del sangue non è affatto male, certo rimaniamo nel mondo della serie b, ma di quella spassosa e anche succosa che può contare su mestiere ma anche su alcuni nomi di tutto rispetto, nella fattispecie quello di un molto giovane Joaquin Phoenix e quello del solo un pelo più maturo Vince Vaughn.

In un piccolo paese rurale del Montana Clay (Joaquin Phoenix) e il suo amico Earl (Gregory Sporleder) ammazzano il tempo sparando a bottiglie vuote e bevendo birra. Presto viene fuori che Earl è a conoscenza della relazione adulterina che sua moglie Amanda (Georgina Cates), una creatura tanto deliziosa quanto sfrontata e pericolosa, intrattiene proprio con il suo amico Clay. Essendo un buono Earl non è capace di sparare a quel traditore di Clay, decide così di togliersi la vita facendo in modo che le colpe ricadano sull'ex amico; questi però, nonostante il dolore sincero per la perdita di Earl, riesce a sfangarla allontanandosi poi da Amanda. Ma Amanda, come abbiamo già detto, è una testa calda che non accetta di lasciare libero Clay, inizia a comportarsi da vedova allegra affatto affranta mettendo in difficoltà il giovane ragazzo che proprio in quei giorni incontra un nuovo amico, il camionista dall'aspetto da cowboy Lester Long (Vince Vaughn) che diventa per Clay una valvola di sfogo per alleviare le tensioni del periodo. Un bel giorno, durante una battuta di pesca nel lago vicino al paese, i due uomini si imbattono nel cadavere affiorante di una giovane donna. Per Clay questo ritrovamento sarà un duro colpo (e non vi dirò perché) che coinvolgerà nelle indagini ufficiali lo sceriffo Mooney (Scott Wilson) che conosce Clay fin da quando era un ragazzino, e poi gli agenti dell'F.B.I. Shelby (Janeane Garofalo) e Reynard (Phil Morris).

David Dobkin, complice la sceneggiatura di Matt Healy, sceglie di narrare questo thriller di provincia (americana) con un piglio da commedia che in diversi hanno accostato allo stile dei fratelli Coen; a sottolineare questa scelta parecchio indovinata c'è il personaggio di Lester Long, un nome musicale in allitterazione per un carattere ambiguo, folle e divertente allo stesso tempo, graziato da una risatina idiota in grado di alzare il tasso di comicità delle sue uscite e interpretato davvero molto bene da un Vince Vaughn in palla che qui si ricorda ancor più del già bravo Joaquin Phoenix, ancora giovane e, come già accadeva nel quasi coevo Da morire di Gus Van Sant, preso per il naso da una donna avvenente e pericolosa. Il film riserva un paio di sorprese ben pensate e momenti giocosi come il parallelo dei due film guardati dai due agenti F.B.I. nelle rispettive camere d'albergo: Lassie e Alien, il film è tra l'altro prodotto dai due fratelli Scott, cosa che rende l'omaggio a Alien ancor più significativo e divertente. Ottima l'ambientazione nel paesino di provincia dove il protagonista lavora come meccanico, lo sceriffo ha un vice incline alla sonnolenza (e all'idiozia) e dove le ragazze non sanno scegliersi per benino i loro uomini. Alla fine Il sapore del sangue si guarda con molto piacere, è un film che non rimarrà negli annali del cinema ma che nemmeno merita quell'anonimato in cui è caduto a posteriori della sua uscita nelle sale, indi per cui se ne consiglia il recupero, lo si trova anche a gratis su Youtube sul canale Film&Clips.

giovedì 28 marzo 2024

ANATOMIA DI UNA CADUTA

(Anatomie d'une chute di Justine Triet, 2023)

In una baita ammantata dalla neve nelle vicinanze di Grenoble vivono Sandra (Sandra Hüller), Samuel (Samuel Theis) e loro figlio Daniel (Milo Machado Graner), un ragazzino di undici anni non vedente accompagnato costantemente dal suo cane guida Snoop (il Border Collie Messi, vincitore del Palm Dog Award... vabbè). Sandra è una scrittrice di un certo successo, accetta di concedere un'intervista in casa sua a Zoe (Camille Rutherford), una giovane studentessa con la quale si instaura un buon feeling; a causa di comportamenti poco urbani da parte di Samuel che continua a tenere in casa la musica a un volume assordante mentre effettua lavori di riparazione in mansarda, Sandra è costretta a congedare Zoe e rimandare l'intervista. Poco tempo dopo questo episodio Daniel inciampa nel corpo del padre; l'uomo è riverso sul terreno davanti la casa privo di vita, probabilmente caduto dalla finestra della mansarda durante i lavori di restauro della casa. Vista la mancanza di testimoni sarà necessario far partire delle indagini per accertare la dinamica dei fatti, sorge un lecito dubbio tra le varie ipotesi di incidente, di suicidio e finanche quella di omicidio perpetrato da Sandra ai danni del compagno. In aiuto della neo vedova arriva l'avvocato Vincent Renzi (Swann Arlaud), da tempo invaghito della donna e suo amico di lunga data. Si arriverà a un inevitabile processo lungo il quale l'anatomia di questa caduta verrà sviscerata in ogni suo aspetto, ma sarà il lato umano della vicenda a tenere banco con un occhio di riguardo alle sofferenze di un incolpevole e afflitto ragazzino che si trova nell'improvvisa condizione di orfano di padre e con una madre sotto processo a difendersi dall'accusa di uxoricidio.

Anatomia di una caduta è stato tra i film "da vedere" dello scorso anno, un Oscar alla sceneggiatura, miglior film straniero ai Golden Globe (la produzione è francese), ben sei premi agli European Film Awards, altri sei ai César, miglior film al British Indipendent Film Award e infine la Palma d'oro a Cannes. Opera quarta della regista francese Justine Triet fino ad ora poco conosciuta in Italia, Anatomia di una caduta nasconde dietro alla struttura del legal movie parecchio altro in una narrazione stratificata nella quale ogni parola ha un suo peso e la risoluzione del dubbio aleggiante (è stata lei o no?) non diventa mai il reale nodo d'interesse di un film che ha molto di più da raccontarci, ha molto di più su cui farci pensare e riflettere rispetto alla mera soluzione di un caso di omicidio (o suicidio o incidente che sia). A dimostrare quanto l'interesse anche degli autori (la Triet insieme al compagno Arthur Harari, regista anche lui) non stia tanto nella risoluzione processuale quanto nei rapporti tra gli attori coinvolti, c'è l'ambiguità della risoluzione finale la quale lascia ampissimi margini di dubbio, soggettività e discussione sul reale svolgimento dei fatti. I temi interessanti, come abbiamo detto, sono altri. Il cuore di Anatomia di una caduta è il rapporto tra Sandra (in presenza) e Samuel (in assenza), due persone che si amavano o che perlomeno si erano amate, che convivevano all'interno di un legame difficile che si nutriva (anche) di rancori, recriminazioni, invidie, momenti soffocanti, frustrazioni e di tutti quegli aspetti negativi che le relazioni a lungo termine spesso (quasi sempre?) si portano dietro. Entrambi scrittori (o aspiranti tali), una di successo, anche grazie a qualche idea di lui, l'altro frustrato e incapace di portare a termine un progetto, forse per favorire e assecondare l'ambizione della compagna dal carattere più deciso del suo. Emerge, delle difficoltà intrinseche a questa unione, un rapporto verso l'esterno obbligato dagli eventi a trovare una verità definitiva. Ma come possono persone estranee a un rapporto a due giudicare brani di conversazioni, pensieri riportati sui libri pubblicati da Sandra, esternazioni nate da momenti estemporanei di rabbia e conflitto, pareri e interpretazioni emersi dalla tempesta emotiva di un bambino che ha perso il padre e rischia di perdere anche la madre? Non si può, eppure si deve, la legge lo richiede. È questo rapporto tra l'inconoscibile e la parola che diventa pubblica l'aspetto più interessante del film della Triet che ricostruisce con dovizia di particolari e tempi lunghi (due ore e mezza di film) l'anatomia di questa caduta mettendo in scena un personaggio femminile non facile e non immediatamente accattivante per il pubblico (ottima la Hüller già apprezzata in Vi presento Toni Erdmann), una donna complessa e mai troppo accomodante verso l'esterno, verso un mondo che la accusa (nei panni dell'avvocato a lei avverso), anche con pregiudizio, senza possedere quegli elementi così necessari per entrare nelle dinamiche di quel rapporto che avrebbe potuto portare all'estremo gesto (che sia questo l'omicidio o il suicidio, le ipotesi restano entrambe valide). Alla fine l'unico a prendere una decisione netta sulla vicenda sarà il piccolo Daniel in un momento intenso, una decisione non dettata dai fatti ma dal cuore e dall'amore, sentimento che poi, per vie traverse e non semplici da seguire, è il nocciolo di tutta la questione.

domenica 24 marzo 2024

HOTEL GAGARIN

(di Simone Spada, 2018)

L'incubo del nostro cinema odierno è per molti (ma non per tutti) la sempre incombente "commedia media", assonanza terribile nel suono quanto nella sua coazione a ripetere, involontaria e autoflagellante, flagellante anche nei confronti di quello spettatore che vorrebbe un guizzo, un'alterità, uno sconfinare da quel prevedibile stato dell'arte che vorremmo in evoluzione, magari lenta e graduale ma comunque viva e di prospettiva. Invece spesso, non sempre per fortuna, lì si ricade, in quegli stereotipi che non si vorrebbero vedere, in parte ci batte la testa anche Simone Spada, regista e autore di questo Hotel Gagarin che però, perlomeno, si dimostra per taluni aspetti vivace e laterale (in Armenia non andiamo a girare tutti i giorni), capace di passaggi emotivi magari un po' risaputi ma sinceri, che sanno dove e come colpire lo spettatore rientrando in quell'onda nella quale è piacevole cullarsi, quella dei così detti "feel good movies" anche se qui la definizione non calza in toto al film e, nella fattispecie, quest'ultimo può essere visto anche come un aspetto positivo all'interno dell'economia di una commedia ben riuscita ma non proprio rivoluzionaria (e, per carità, il non esserlo non è per forza un delitto). Alla direzione di Hotel Gagarin Spada arriva dopo un'importante gavetta come aiuto regista durante la quale ebbe modo di partecipare a successi commerciali e collaborare con registi di talento come Claudio Caligari e Gabriele Mainetti, poi la regia di diversi corti e documentari e l'esordio nel lungometraggio con un film sulla vita di Maria Mazzarello. Nel 2018 arriva poi Hotel Gagarin...

Franco Paradiso (Tommaso Ragno) è un produttore cinematografico scalcagnato che tramite un amico europarlamentare riesce a ottenere dei fondi dalla Comunità Europea per girare un film italiano in Armenia; le sue mire sono quelle di assemblare una troupe più o meno improvvisata per raccogliere materiale da inviare in Europa, intascare l'anticipo dei fondi e sparire col malloppo, per far questo si fa aiutare da Valeria (Barbora Bobuľová), una sua vecchia conoscenza, un'organizzatrice di eventi russa con pochi scrupoli. Come soggetto viene scelto quello di Nicola (Giuseppe Battiston), professore alle superiori che tenta di insegnare la Storia a studenti disinteressati tramite i film di Sokurov, per le luci si opta per l'elettricista Elio (Claudio Amendola) che di come si faccia un film non ne sa assolutamente nulla, il fotografo strafatto Sergio (Luca Argentero) viene arruolato in quanto prima persona a rispondere all'annuncio messo da Paradiso, come volto per la protagonista de "Il viaggio di Marta" viene scelta Patrizia (Silvia D'Amico), una prostituta coatta, ingenua e svampita. Giunto in Armenia il gruppo sarà accompagnato dall'autista Kira (Caterina Shulha), una giovane punk in dolce attesa e dalla guida Aram (Hovhannes Azoyan), verranno tutti alloggiati all'hotel Gagarin. Intanto in Armenia scoppia la guerra con l'Azerbaigian e la "troupe" rimane bloccata in albergo, dovranno affrontare il fatto di essere stati truffati e ognuno di loro dovrà confrontarsi con le proprie aspettative e le sue motivazioni, in un crescendo di sogni, romanticismo e amicizia.

Hotel Gagarin è una commedia che si guarda con piacere, al suo interno non mancano alcune ingenuità in fase di scrittura e nella costruzione dei personaggi, lo sviluppo di questi nel tempo necessario a sviluppare il loro percorso è però gradevole e titilla i giusti sentimenti, cosa che tutto sommato basta a farsi perdonare alcune scelte standardizzate come la figura della prostituta buona e ingenua, quella dell'irriducibile sognatore o quello della stronza redenta (per non parlare poi della parte affidata a Philippe Leroy), tutti caratteri tagliati con l'accetta ma che guadagnano nelle interazioni tra loro e con il popolo armeno che scambia questa truppa scombinata per un vero comparto capace di dar corpo (filmico) ai sogni. Spada gioca molto anche con l'amore per il cinema, in primis nella figura del professore cinefilo ma non solo, gli attribuisce un potere di rivalsa e lavora sulla forza che quest'arte sprigiona nel portare serenità, felicità, tutto ciò abbinato all'esperienza del viaggio e dell'incrocio di culture diventa motore nella svolta di intere esistenze. Qualche ingenuità scappa anche nel percorso di costruzione di questa nuova armonia ritrovata, la partita di calcetto con gli stranieri (qui calcata anche dalla presenza dei soldati) ormai se la aspettano tutti, la presenza fantasmatica pure, però di calce a tenere insieme tutto quanto ce n'è a sufficienza, uno come Battiston poi non tradisce mai e anche (quasi) tutto il resto del cast sembra essere in parte. Ottima scelta quello di girare nei luoghi freddi e sconfinati dell'Armenia, una splendida cornice che fornisce a Hotel Gagarin una marcia in più insieme ad alcune scelte in colonna sonora parecchio indovinate.

giovedì 21 marzo 2024

IL SOSPETTO

(Suspicion di Alfred Hitchcock, 1941)

Torniamo agli albori del periodo americano di Sir Alfred Hitchcock dopo aver da poco parlato de Il prigioniero di Amsterdam, film girato da Hitch nel 1940; facciamo un piccolo passo avanti, siamo nel 1941 quando il regista britannico porta a compimento il suo quarto film americano nel giro di due anni: Il sospetto con Cary Grant e Joan Fontaine che per questa interpretazione si guadagnerà il premio Oscar come miglior protagonista (gli altri due film, oltre a Il prigioniero di Amsterdam, furono Rebecca - La prima moglie del 1940 e Il signore e la signora Smith del '41). Sono anni produttivi questi per il maestro del brivido, se Il prigioniero di Amsterdam e Il signore e la signora Smith non sono tra le opere più ricordate e citate di Hitchcock, già Rebecca - La prima moglie (primissimo film targato U.S.A.) e questo Il sospetto ricorrono molto spesso nella mente dei cinefili, quest'ultimo in virtù soprattutto della celebre scena del bicchiere di latte, sequenza che ha fatto scuola grazie alla grande inventiva del regista che oltre ad aver istituzionalizzato il MacGuffin riusciva ad aguzzare l'ingegno al fine di trovare soluzioni visivamente intriganti per aumentare la suspense e dirottare l'attenzione dello spettatore, a volte ingannandolo, dove a lui più faceva comodo all'interno della scena o della scenografia. Rispetto a Il prigioniero di Amsterdam questo Il sospetto è un film narrativamente più riuscito nonostante il minor dispendio di mezzi e una storia più intima e meno dinamica di quella del film precedente.

Johnnie Aysgarth (Cary Grant), un giovane piacente e all'apparenza molto distinto e la timida e riservata Lina McLaidlaw (Joan Fontaine) si conoscono in treno; pochi giorni dopo, a dispetto di un'iniziale ritrosia, Lina accetta di uscire con Johnnie, anche per dimostrare ai suoi genitori, convinti del contrario, di essere capace di intrattenere una relazione con un uomo. Lina rimane ben presto totalmente affascinata dall'uomo, tanto da convolare con lui a nozze segrete nel giro di pochissimo tempo. Trasferitisi in una bellissima casa con tanto di cameriera a servizio, la coppia inizia la loro vita insieme. Ben presto Lina scopre la tendenza del neo marito a spendere e spandere senza essere coperto; il giovane infatti non arriva da una famiglia ricca, non ha rendite né lavoro e tenta di mantenersi con soldi a prestito e scommettendo alle corse, infilandosi così in situazioni poco rispettabili. Lina tenta di riportarlo sulla buona strada, in fondo è sinceramente innamorata di Johnnie, col passare dei giorni però inizia a nascere nella donna il sospetto che il patrimonio della sua famiglia, così come le ricchezze di alcuni amici di Johnnie, possano far gola al marito ed essere state il vero motivo della nascita della loro relazione. Poco a poco i sospetti di Lina diverranno sempre più grandi e profondi mentre lo stile di vita di Johnnie sembra continuare a seguire un percorso del tutto scriteriato.

Hitchcock gira Il sospetto andando al risparmio, forse per compensare gli investimenti più ingenti dei film precedenti, ne esce un thriller psicologico che poggia, come da titolo esplicativo, sul crescente sospetto da parte della protagonista nei confronti del suo novello sposo, insieme al suo sospetto crescono quelli dello spettatore e la generale sensazione di tensione che trova il suo apice in un paio di sequenze poste verso il finale del film, una è quella famosissima che vede Cary Grant portare un bicchiere di latte alla moglie. In un bianco e nero espressivo, diverso nello stile dalla fotografia del resto del film, Hitchcock illumina quel bicchiere (con una luce a bella posta inserita al suo interno) per dirottare su di esso l'attenzione dello spettatore così da alimentare ipotesi e sospetti, spingere a credere, magari ingannando, in un certo tipo di risoluzione finale. L'altra sequenza è quella del dinamico viaggio in auto dei due coniugi, lanciati a velocità folle sul bordo di un dirupo: torna il tema dell'altezza, della vertigine, soluzione che Hitchcock proporrà più avanti in altre sue opere. Il sospetto è costruito con un crescendo dosato in maniera ottimale, il gioco tra i due coniugi è ben alleggerito, poi aggravato, dalla presenza di Nigel Bruce che qui interpreta Beaky Thwaite, il miglior amico di Johnnie. Dopo aver alimentato dubbi su dubbi Hitchcock sceglie (pare anche costretto dalla produzione) di optare per un finale ambiguo e aperto che non permette di dissipare ogni sospetto; lo spettatore è chiamato a scegliere su quale possa essere la realtà, come se quelle di Lina e Johnnie fossero due letture della stessa storia, una sola delle quali può essere eletta a verità. Ottima costruzione, sceneggiatura ben calibrata e due attori di peso garantiscono a Il sospetto di poter rientrare nella cerchia, ampia per fortuna, delle opere meglio riuscite del maestro, vista la concorrenza non è cosa di poco conto.

lunedì 18 marzo 2024

ILLUMINATIONS

(di Alan Moore, 2022)

Illuminations è la terza opera letteraria di Alan Moore, un'istituzione vivente per quello che è il mondo del fumetto, autore indicato praticamente all'unanimità come la voce più influente nel campo della nona arte in anni moderni. Illuminations è una raccolta di racconti scritti nel corso degli anni, alcuni già pubblicati in passato e integrati qui da diverso materiale inedito; questa antologia arriva dopo La voce del fuoco (1996) e soprattutto dopo la monumentale impresa (anche per il traduttore immagino) che ha portato alla pubblicazione di Jerusalem (2016). Anche questa raccolta di racconti conferma alcune caratteristiche della prosa di Moore che si conferma ricchissima di lessico e sfumature, eclettica, capace di passare da un registro a un altro senza cali qualitativi e senza apparente fatica da parte dell'autore che ancora una volta dimostra una grande cultura e un rapporto con la lingua che sembra essere quasi privilegiato, come se tra Moore e il dio della parola scritta fosse stato stretto un patto di sangue, cosa che tra l'altro, conoscendo un minimo il personaggio, non mi sento nemmeno di escludere. L'approccio a Moore è ostico, questo è inutile nasconderlo ed è anche questa cifra ricorrente dell'opera del "bardo di Northampton", alcuni suoi scritti possono facilmente dimostrarsi frustranti nei confronti di lettori poco motivati, con Moore ci vuole una dedizione mediamente più alta rispetto a quella che si mette nella lettura di opere che definiamo "di semplice intrattenimento"; anche nei suoi racconti più fantasiosi e strampalati l'impegno minimo richiesto è abbastanza alto. Detto questo, se quell'impegno glielo si concede, il vecchio e barbuto Alan saprà ripagare i suoi lettori, con un'alzata d'ingegno (gli sprazzi di puro genio qui non mancano, anzi), con una svolta o semplicemente con il fluire di una prosa talmente ricca e cesellata che non si può fare a meno di amare, in fondo il piacere della lettura sta anche nel riconoscere le differenze tra Scrittori con la S maiuscola e ottimi narratori di storie.

Uno dei racconti qui presenti, quello che apre Illuminations, è già noto ai fan di Moore in quanto edito nel 1988, anno in cui Hypothetical Lizard fu nominato per i World Fantasy Award e poi trasposto in forma di fumetto qualche anno più tardi. Lucertola ipotetica è il viatico migliore per venire introdotti al mondo di Moore; questa breve novella è un condensato di idee immaginifiche terribili e perfettamente congegniate portate al lettore con una prosa elegante e colta dal potere attrattivo infinito, a fine lettura Lucertola ipotetica rimarrà tra gli episodi più affascinanti dell'intera raccolta (nove i testi pubblicati). Nella città di Livarek Som-Som viene abbandonata dalla madre in una casa di tolleranza frequentata da esseri speciali; la bambina subirà interventi ripetuti al fine di renderla una partner perfetta per i suoi clienti. All'interno della casa degli orologi Som-Som sarà testimone di una peculiare storia d'amore e di un progressivo scambio di identità tra due artisti, anche loro alle dipendenze di Madame Ouish, la tenutaria della Casa senza orologi. Racconto non semplice, come molti dell'autore, ma forte di una carica d'ambiguità capace di attrarre il lettore, alcune immagini rimarranno impresse, si penerà per la piccola Som-Som e ci si chiederà inevitabilmente anche che cosa possa essere l'interno della testa di Alan Moore.

Di tutt'altro tono lo scritto più lungo di questa raccolta che porta alla luce l'amarezza che oggi Moore prova nei confronti dell'industria del fumetto e di alcuni dei suoi esponenti. È noto come il rapporto dell'autore con le due major di comics americani (Marvel e DC Comics) abbia portato Moore a disprezzare il modo in cui viene gestito il mondo del fumetto negli U.S.A. Cosa ci è dato sapere su Thunderman è una parodia al vetriolo di quella che poteva essere la vita di un'industria nascente e poi, col passare degli anni, via via più consolidata e affermata dagli anni 60 in avanti. In questo racconto è facile individuare paralleli tra i personaggi descritti da Moore su queste pagine e i loro corrispettivi Marvel o DC (Thunderman per esempio è chiaramente Superman, Re Fuco è Batman e così via); allo stesso modo tra le righe e sotto falso nome sarà facile riconoscere grandi autori come Stan Lee o Jack Kirby, sarà un po' meno facile se non per i fan esperti del settore farlo con altri autori e personaggi magari meno iconici o meno conosciuti al grande pubblico rispetto ai grandissimi sopra nominati. Per quanto ora tiri a disprezzarlo è chiaro come Moore sia qui nel suo mondo, fa quasi un po' male (e forse fa anche un po' riflettere) il rapporto descritto da Moore tra il medium fumetto e il suo pubblico adulto, sempre più numeroso e che nonostante l'età avanzata ancora riesce a godere di un albo di supereroi. Interessante nei contenuti e divertente nell'esposizione, un racconto che ogni fan dei comics (non) dovrebbe leggere.

Che dire invece di Luce americana: una valutazione critica, una sorta di poema in versi con il quale Moore ricrea un'opera e un affresco, entrambi (parzialmente) fittizi che richiamano la scena della beat generation in quel di San Francisco. L'intelligenza estrema e l'estro di Moore qui si mostrano in tutta la loro ampiezza, il bardo crea il suo poemetto e anche tutto un corollario di note che lo esplicano al lettore rendendo credibile la "sua" scena beat, quasi possibile da inserire in una cronologia di eventi delle vite di personaggi quali Ginsberg, Kerouak o Brautigan.

Come già detto sopra i racconti sono nove e qui potremmo andare per le lunghe, spero di aver reso l'idea e palesato cosa fare nell'immediato, ossia mettersi le scarpe e andare in libreria per procurarsi una copia di Illuminations.

venerdì 15 marzo 2024

PIXELS

(di Chris Columbus, 2015)

Per chi fu ragazzino tra gli anni 80 e i primi 90 Chris Columbus è stato una di quelle figure semi-mitologiche capaci di dare una connotazione più divertente e ricca all'età dell'infanzia. Il nome del regista è magari meno ricordato di quelli di gente come Steven Spielberg o Robert Zemeckis, John Landis, Ivan Reitman o anche Joe Dante, ma questo signore sta dietro ad alcune delle maggiori (e migliori) produzioni del cinema rivolto (principalmente) ai ragazzi di quei decenni. Inizia con la scrittura creando e sceneggiando le prime avventure dei Gremlins dirette poi da Dante, continua con uno degli intramontabili e imprescindibili degli eighties, I Goonies di Richard Donner che in tantissimi amano alla follia ancora oggi, arriva poi il giovane Sherlock Holmes di Piramide di paura, altro punto fermo dell'infanzia. Passa poi alla regia, dopo l'esordio nella commedia Tutto quella notte ci sono i primi due episodi di Mamma ho perso l'aereo e ancora Mrs. Doubtfire, in anni decisamente più recenti i primi due Harry Potter (La pietra filosofale e La camera dei segreti) e una serie di altre cose meno significative tra le quali compare anche questo Pixels del 2015. È chiaro come il curriculum vitae di Columbus, almeno fino a un certo punto della sua carriera, sia nutrito e di tutto rispetto, proprio per questo Pixels non può competere con le più gloriose opere provenienti dal passato del regista, non di meno la mano di Columbus riesce a mantenere in equilibrio una commedia dove pesa anche la presenza di Adam Sandler, attore che porta il suo stile di comicità a un film che per il resto si basa quasi unicamente sull'effetto nostalgia che i ragazzi di quegli anni lì possono provare sia per questo genere di pellicole sia per l'argomento principe che porta in scena i primi videogiochi che si potevano trovare all'epoca in tutte le sale giochi: Pac Man, Space Invaders, Asteroids, Donkey Kong e compagnia bella.

Primi anni 80, Sam Brenner è un piccolo nerd, un vero campione ai videogiochi, tanto che il suo amico Will Cooper non riesce a tenergli dietro. Durante un'importante competizione a tema videoludico i due ragazzi incontrano per la prima volta il loro futuro amico Ludlow e il temibile avversario di Sam, il poco corretto Eddie "Fireblaster" Plant. L'evento verrà registrato e inviato nello spazio come forma di saluto per un'eventuale forma di vita intelligente; a ogni modo Sam verrà sconfitto da Plant, questo episodio segnerà per sempre il carattere di Sam convintosi di essere un perdente e di non essere in grado di realizzarsi a pieno nel corso della sua vita. Col passare degli anni Will (Kevin James) diverrà addirittura Presidente degli Stati Uniti d'America mentre Sam (Adam Sandler) si limiterà a installare tecnologie in case altrui; durante una di queste sortite Sam capita in casa di Violet Van Patten (Michelle Monaghan), una bella madre single in crisi a causa della relazione finita con il suo ex marito fedifrago, da qui la classica relazione di amore/odio tra i due. Nel frattempo un'intelligenza aliena si imbatte davvero nella registrazione di quel vecchio torneo di videogiochi; scambiando il saluto terrestre per una sorta di dichiarazione di guerra gli alieni mandano sulla Terra una forza d'invasione mascherata da vecchi videogiochi capace di pixellare totalmente la nostra realtà. Data l'incapacità dell'esercito nel fronteggiare una situazione così poco convenzionale, al Presidente Cooper non rimane che rivolgersi ai vecchi amici esperti di videogiochi Sam e Ludlow (Josh Gad) per trovare una soluzione alla crisi planetaria.

In quella che è una sorta di "rivincita dei nerd" Sandler e Columbus tentano di far riaffiorare quel cinema per ragazzi tanto in voga negli anni Ottanta, operazione non semplice in quanto in casi come questo ci sarebbe da fare una bella pensata sul pubblico di riferimento che si vuole raggiungere. Per Pixels il rischio è duplice: i nostalgici dell'epoca, oggi tra i quaranta e i cinquanta, potrebbero non gradire un cinema semplicistico basato solo su nostalgia e divertimento leggero (ma magari sì), i giovani e gli adolescenti ai quali questo tipo di film dovrebbe essere rivolto potrebbero invece non conoscere per nulla la maggior parte dei videogiochi qui citati e utilizzati e quindi non appassionarsi alle disavventure dei protagonisti. In tutto ciò Pixels è stato smontato dalla critica pixel per pixel (ma stacca incassi di tutto rispetto) la quale non ha visto di buon occhio il dispendio di energie (e del nome di Columbus) su un intrattenimento poco stratificato che non ha di certo la stessa magia che avevano per noi alcune pellicole negli anni 80; a parer mio però alcune critiche mosse alla comicità di Sandler (che qui non sembra mai volgare come si dice) e in generale a un film che senza pretese intrattiene senza annoiare e divertendo in più di un passaggio sono state fin troppo severe. Occorre essere consapevoli che gli anni 80 non ci sono più, che uno Stranger Things non esce tutti i giorni (e purtroppo nemmeno tutti gli anni) e che i film dai quali non è lecito aspettarsi il capolavoro si possono subodorare da lontano, detto questo alla fine Pixels risulta abbastanza divertente, per chi ricorda Space Invaders e simili tutto diventa più piacevole e alcune trovate non sono niente male (l'utilizzo del Tetris ad esempio o le vie cittadine come schema per Pac Man). Magari Columbus non è più quello di una volta (non lo è), un Sandler non sarà mai un Bill Murray (ma proprio mai) e il Pac Man digitale non rimarrà nell'immaginario come l'omino dei Marshmallow, questi però non sono motivi che impediscano di godere di un film magari sì più semplicistico di altri ma tutto sommato realizzato con lo spirito giusto.

martedì 12 marzo 2024

CEMETERY OF SPLENDOUR

(Rak ti Khon Kaen di Apichatpong Weerasethakul, 2015)

A cinque anni di distanza dalla Palma d'oro di Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), dopo l'intermezzo breve di Mekong Hotel, il thailandese Apichatpong Weerasethakul torna con un nuovo lungometraggio, questo Cemetery of splendour che, proprio come già accaduto con il più celebre predecessore, raccoglie un plauso pressoché unanime da parte della critica che vede nel regista del Khan Kaen una voce originale e di certo fuori dal coro, portatrice di un cinema lontano dagli schemi ai quali siamo abituati, o più semplicemente lontano dagli schemi tout court nonostante non manchino temi e segni di stile ricorrenti all'interno delle opere di Weerasethakul. Devo dire che la mia non è di certo la penna più adatta per promuovere ai non ancora convertiti il cinema di Weerasethakul, vuoi per una conoscenza e una frequentazione ancora molto, molto parziale della sua opera, vuoi per una sensibilità personale che non ha visto scoccare la scintilla con il cinema del regista di Bangkok, nemmeno nel caso del suo film più premiato e in ogni caso superato (parere personale) da questo Cemetery of splendour, per alcuni versi più fruibile (in senso molto relativo of course) e anche più intrigante, magari meno interessante nei luoghi e nella messa in scena ma ancora dotato di una potenza immaginifica capace di far sprofondare lo spettatore in un'altra sensibilità di approccio alla vita (e alla morte) da tenere in altissima considerazione.

Nella zona di Khon Kaen, area nord della Thailandia, c'è un piccolo ospedale ricavato in quella che sembra essere un'ex scuola: pochi letti, scarse attrezzature, un dottore, qualche infermiera, diversi volontari. Questo ospedale è occupato da soldati che soffrono di un peculiare disturbo che li porta a dormire per gran parte della loro giornata; questi uomini non hanno ferite gravi visibili eppure, quando svegli, sono preda di improvvise crisi narcolettiche che li riportano a letto, costretti a urinare tramite catetere, sottoposti a massaggi lenitivi e assistiti in tutto e per tutto. Tra le volontarie spiccano la signora Jen (Jenjira Pongpas Widner) sposata a un americano, Richard (ma un europeo sarebbe stato meglio, pare siano più ricchi), e la medium Keng (Jarinpattra Rueangram) capace di entrare in contatto con i soldati mentre sono nel mondo dei sogni. Sarà proprio Keng a rivelare a Jen che il luogo in cui ora sorge l'ospedale in passato era il sito di un importante palazzo di un regno antico, sono le anime dei guerrieri di quel tempo, secondo Keng, ad assorbire tutte le energie dei soldati odierni, al fine di alimentare la loro eterna battaglia. Intanto, nei brevi momenti di veglia e lucidità, Jen stringe amicizia con il soldato Itt (Banlop Lomnoi) e fa strani incontri nel suo tempo libero.

L'ospedale di Weerasethakul sembra un'oasi di pace all'interno di un mondo che si muove, a rappresentarlo le ruspe che scavano e scavano (non si sa bene per cosa) lungo l'arco di tutto il film. A questi elementi molto terreni, esplicitati anche dalla malattia alla gamba della protagonista, un ferita molto fisica, dalle lampade che modificano la cromia dell'immagine, si contrappone uno dei temi prediletti dell'autore, quello spiritismo già visto con Lo zio Bonmee, unito al convergere del mondo dei morti in quello dei vivi. Lo spirito creatura di Bonmee è qui sostituito dalle due dee, all'apparenza due ragazze normalissime (Sujittraporn Wongsrikeaw e Bhattaratorn Senkraigul) che appaiono, in un incontro surreale ma dai toni pacati e ben inseriti nella quotidianità, in un momento di relax a una serena Jen. Poi la medium, il racconto dei vecchi guerrieri, in un'unione tra passato e presente, tra vivi e trapassati, che dona al film un tocco onirico caratterizzato però da un senso di sospensione e serenità che ammanta l'opera dall'inizio alla fine. Tutto è pacato, non c'è struttura stretta, il racconto è libero, ondivago, quello di Weerasethakul è un cinema di sensazioni, di pace, di immagini (spesso fisse), nel cinema del regista thailandese il mondo può cambiare d'improvviso senza nessun mutamento esteriore, senza strappi, solo nella testa e nel cuore di chi lo vive, di chi lo sente, di chi lo guarda con occhi profondi. È necessario sintonizzarsi su una sensibilità altra per empatizzare con opere come Cemetery of splendour, processo non sempre facile e non adatto a chiunque, film come Cemetery of splendour sono esperienze da provare, non si garantisce a tutti la certezza di uscirne soddisfatti.

lunedì 11 marzo 2024

PARANORMAL ACTIVITY

(di Oren Peli, 2007)

Per un film come Paranormal activity il discorso più interessante da fare potrebbe essere quello sul rapporto tra produzione, soprattutto sui costi di produzione, e incasso finale. Paranormal activity è il film d'esordio del regista Oren Peli che realizza questo lungometraggio in camera a mano più qualche inquadratura fissa con soli 15.000 dollari di budget e una crew fatta di pochissimi amici e attori. L'incasso totale realizzato in tutto il mondo da Paranormal activity ha sfiorato i 200 milioni di dollari, una cifra incredibile piovuta sul regista e sulla casa di produzione Blumhouse Production di Jason Blum che con questo film sigla uno dei più grandi successi della sua recente storia, un successo che avrà sicuramente contribuito alla scelta in Blumhouse di dedicarsi in maniera prevalente al genere horror (in catalogo però anche cose come Whiplash, The reader, Jem e le Holograms (?)). Sarebbe interessante capire cosa può aver attirato questa enorme mole di pubblico sufficiente a premiare in maniera così plebiscitaria un film che, seppur piacevole nel suo segmento, di certo non può definirsi né seminale né indimenticabile se non appunto per il discorso costi/ricavi, discorso comunque importantissimo, anzi fondamentale in alcuni casi per alimentare la macchina cinema e per poter magari finanziare film con una potenzialità meno ficcante di questo. La risposta potrebbe stare in una generica popolarità del genere che comunque continua a piacere e nell'ambiguità tra finzione e storia vera sulla quale alcuni mockumentary (chiamiamolo così) di stampo horror, in maniera più o meno dichiarata, giocano spesso (emblematico il caso Blair Witch Project). Mettiamoci pure che oggi, anche più che nel 2007 anno in cui il film uscì, viviamo in una società voyeuristica immersa nel mondo social ed è facile capire come questa esigenza in Paranormal activity possa essere facilmente soddisfatta. Ad ogni modo, per questi aspetti, il film di Peli è divenuto fenomeno studiato e da studiare.

Micah (Micah Sloat) e Katie (Katie Featherstone) sono fidanzati da circa tre anni e vivono insieme in una casetta unifamiliare a San Diego, California. Katie convive fin da bambina con la convinzione che una strana presenza l'accompagni costantemente e che si manifesti, soprattutto di notte, attraverso rumori, piccoli spostamenti, con un alito caldo che di tanto in tanto Katie si sente addosso. La ragazza è per alcuni versi inquieta ma quasi abituata a questi fenomeni; Micah, che forse non crede del tutto alle parole di Katie pur incoraggiandola nel tentare di capire, decide di acquistare una buona videocamera da piazzare in camera in modo da registrare tutto ciò che succede durante la notte nella camera da letto che i due ragazzi dividono. Se da principio può sembrare che nulla accada, ecco che d'improvviso iniziano a intravedersi i primi strani fenomeni, cose da poco, casi di apparente sonnambulismo da parte di Katie, porte che si muovono da sole in piena notte. Katie consulta anche un sensitivo, il dottor Fredrichs (Mark Fredrichs) che consiglia alla coppia il consulto di un demonologo; il fatto che la presenza sia da sempre con Katie lo porta a escludere il coinvolgimento di un fantasma. Durante la discussione con i due fidanzati, appurata una scellerata intraprendenza da parte del ragazzo, il sensitivo consiglia all'esuberante Micah di non tentare di contattare lo spirito/demone in modo da non provocarlo ma Micah vorrà fare di testa sua (come in ogni horror che si rispetti), così...

Nonostante il film di Oren Peli non metta in scena (né in moto) nulla di veramente nuovo e si concentri con alcuni accorgimenti economici a (non) mostrare l'inimmaginabile che irrompe nella quotidianità, Paranormal activity, forse proprio per questo, alla fine funziona discretamente bene e capitalizza molto, molto meglio. Peli gira in casa sua, pochissime location: la camera da letto, una sortita in giardino e qualche passaggio nelle altre stanze (il bagno il più gettonato); tanta camera a mano stile ponte su una nave in tempesta, camera fissa per le notturne, scene queste più interessanti, con segnatempo a correre veloce quando non succede nulla. Forse è proprio questa essenzialità, asciugata della messa in scena che ci si aspetta dal cinema, a dare un senso di plausibilità e immedesimazione a quel che accade in quella casa; gli "spaventi" sono centellinati ma ben calibrati, si arriva a un potenziale terrore (per chi è a digiuno di horror) solo sul finale, sequenza rivista più volte e ripensata su consiglio di, nientepopodimenoche, Steven Spielberg, in giro è comunque possibile visionare anche le chiusure alternative compresa quella in origine pensata dal regista. Opera sovrastimata, almeno dal pubblico (la critica fu più divisa) che volente o nolente centra in pieno il bersaglio economico e che alla fine non se la cava malaccio nemmeno come intrattenimento aiutata dai volti genuini non immediatamente ricollegabili al mestiere dell'attore dei due protagonisti. Per diversi versi modesto ma innegabilmente uno dei grandi successi del suo decennio.

giovedì 7 marzo 2024

DIAZ - DON'T CLEAN UP THIS BLOOD

(di Daniele Vicari, 2012)

Sono passati più di vent'anni dai fatti del G8 di Genova e dall'ignobile intervento delle forze dell'ordine (?) italiane all'interno della scuola Diaz ma il resoconto dei fatti di quella notte proposto da Daniele Vicari, costruito sulle dichiarazioni degli atti ufficiali dei processi e su numerose testimonianze dirette, riesce ancora a far montare una rabbia cieca e uno sdegno incolmabile, emozioni aggravate dalla consapevolezza che tra quelle persone indegne di portare una divisa nemmeno uno ha pagato seriamente per i suoi atti atroci, un'umiliazione e una presa in giro nei confronti non solo di quelle vittime massacrate di botte da quelli che dovrebbero essere dei protettori (dello Stato sempre, prima che del cittadino) bensì un'onta nei confronti di ogni singolo italiano ancora dotato di una seppur minima briciola di compassione, solidarietà e onestà. Al di là dei meriti puramente cinematografici del film, che a parere di chi scrive ci sono, operazioni come questa di Vicari devono prima di tutto essere viste come documento e insegnamento, viatico di conoscenza ed educazione, perché il repetita iuvant, o almeno dovrebbe, e invece il manganello è sempre lì pronto, l'abbiamo visto a Pisa di recente, fortunatamente con conseguenze meno gravi rispetto a quelle del 2001, film come questo andrebbero fatti vedere ai giovani nonostante la durezza delle immagini, delle emozioni, perché le botte date da quei poliziotti si sentono tutte guardando Diaz, le teste spaccate fanno male, tutte le umiliazioni, le ingiurie, gli sputi arrivano ancora come ferite profonde. Ma qui da noi tutto si giustifica, si dimentica, si archivia, cade in prescrizione, si aggiusta in appello.

E allora che fare? Limitarci a parlare di cinema (che poi non è una limitazione ma passione e privilegio) o andare a ricordare l'episodio, il momento storico, quello che associazioni come Amnesty International  definirono come "la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale"? Certo, qui di solito ci occupiamo di film facendo di tanto in tanto riferimenti inevitabili a situazioni, attualità, contesti; c'è anche da dire che non siamo proprio i Cahiers du cinéma e questo ci consente di fare un po' come ci pare e piace, quindi al di là dei meriti e al di là dei difetti dell'opera filmica, il consiglio è quello di recuperare Diaz - Don't clean up this blood, perché oltre le emozioni che il film suscita, cosa positiva in quanto segno di vita e vitalità, il gesto di riprendere in mano e nella memoria episodi come questo è segnale di giustizia, intesa non come quella negata e che avrebbe dovuto garantire il nostro Stato, ma giustizia in senso di atto dovuto, sacrosanto e giusto nei confronti di quei ragazzi, uomini, donne che tanto hanno dovuto subire in quella notte del 2001, solo dopo vengono il film, le scelte di Vicari, gli attori, la narrazione, in primis è necessario che quel sangue non venga lavato, che rimanga sempre lì a monito, perché noi purtroppo facciamo sempre difficoltà a imparare.

Il film di Vicari gode di una struttura tensiva ed emozionale di altissimo livello. Immaginate cosa dev'essere stato girare un film come questo, scomodo e duro, in un contesto dove la parola d'ordine per fatti di questa portata sembra essere "dimenticare" o al limite "minimizzare".  Vicari compie un atto coraggioso mettendo in moto una macchina capace di produrre un risultato tutt'altro che didascalico o meramente divulgativo. Diaz - Don't clean up this blood ha invece tutte le carte in regola per portare avanti un impianto immersivo e capace di coinvolgere lo spettatore sotto tutti i punti di vista; è certo un film di parte, schieratissimo, ma anche in questo caso, come accade per molti film di Loach ad esempio, la scelta è più che giustificata da un senso di giustizia sempre più necessario: se al centro del film c'è quella che da molti giornalisti è stata ai tempi definita la "macelleria messicana" perpetrata da alcuni esponenti della Polizia di Stato nei confronti di cittadini italiani e non, giovani e non, Vicari non manca di tratteggiare anche le frange violente appartenenti ai famosi Black Blocks, certo non sono il centro di un film che in realtà non ha protagonisti principali e non vede attori in primo piano, anche i volti di maggior talento o comunque più noti come quelli di Germano, Santamaria, Calabresi, Scarpa, Geraldi, Acquaroli, Roja, si dividono lo spazio con interpreti sconosciuti al grande pubblico che contribuiscono però a dare un tocco di maggior autenticità alla messa in scena che per quanto possibile cerca di ricostruire senza troppo romanzare. Nonostante non sia mancata qualche critica personalmente non trovo nessuna colpa in questo film, né ideologica né cinematografica.

lunedì 4 marzo 2024

TYLER RAKE

(Extraction di Sam Hargrave, 2020)

In Tyler Rake non c'è un'idea che sia una. Questo, posto che si sia disposti a passare una serata in compagnia di un'action ignorante ma adrenalinico, non è detto che debba per forza precludere la riuscita del film. In Tyler Rake non troverete messaggi, sottotesti, letture politiche, approfondimenti sui personaggi, niente; l'unico tentativo di creare spessore è dato dal legame sentimentale di Tyler Rake (Chris Hemsworth) verso il giovane coprotagonista, una vicinanza dettata dal ricordo di un figlio evidentemente perso prematuramente, tentativo questo di dare un tocco di profondità al film che manca il bersaglio di almeno centomila chilometri, quindi lasciamo pure perdere, in Tyler Rake non ci sono altro che ritmo e azione conditi con sparatorie, esplosioni, inseguimenti, combattimenti, massacri. Ora, assimilato quanto appena detto, per il resto il film è un action ben diretto, riuscito in tutte le sue sequenze, adrenalinico e capace dall'inizio alla fine di non presentare mai cali di ritmo né tempi morti. Non c'è nemmeno un risvolto di trama, linearissima e riassumibile in quattro righe, motivo per cui non sarà così semplice costruire su questo film un pezzo decente degno di venir pubblicato. Ci proviamo comunque.

Ovi Mahajan (Rudhraksh Jaiswal) è un adolescente figlio di un importante narcotrafficante indiano (Pankaj Tripathi) attualmente in galera; il ragazzo è controllato a vista e affidato alle cure del braccio destro di suo padre, tal Saju Rav (Randeep Hooda) che però pecca nel suo compito e permette che il ragazzo venga rapito da un narcotrafficante rivale, Amir Asif (Priyanshu Painyuli) che lo nasconde in un rifugio a Dacca, capitale del Bangladesh. Per recuperare il ragazzo viene contattata l'agenzia di mercenari diretta dalla bella e pericolosa (ma non priva di sentimenti) Nik Khan (Golshifteh Farahani) la quale affida il compito al suo uomo di punta, Tyler Rake (Chris Hemsworth), un soldato super addestrato e con un'apparente desiderio di morte dentro il cuore (per il figlio di cui sopra). Nonostante l'estrazione (da cui il titolo originale) di Ovi in principio riesca, qualcosa comunque va storto e i soldi che avrebbero dovuto arrivare sul conto corrente dell'agenzia non vengono trasferiti; a questo punto Tyler si rifiuta di abbandonare il ragazzo e lo scenario si complicherà alquanto tra le due fazioni in lotta, Saju che cerca di recuperare Ovi per conto suo, un vecchio amico di Tyler, Gaspar (David Harbour), che verrà coinvolto nella vicenda, la polizia corrotta e infine l'intervento in prima persona di Nik. Uscire da Dacca non sarà per niente facile.

Tyler Rake è un action movie onesto, senza velleità, solido, ritmato e divertente il giusto, mantiene quel che promette e chi questo cerca questo trova, nel suo segmento un film riuscito. Il problema di Tyler Rake, visto oggi, potrebbe essere dato dal fatto che lo spettatore potrebbe non aver più voglia (o almeno non dovrebbe averne) di immergersi in scenari di guerra, in viaggi nella violenza estrema per la quale sembra che oggi, parlando di quella reale, con i morti veri, si stia sviluppando un'indifferenza senza ritorno. Certo, sappiamo tutti che l'origine del male non sono certo i film come questo, ci mancherebbe, non è questo il punto. È che a guardare un certo tipo di narrazione, sapendo quel che succede nel mondo, un po' di disagio forse lo si dovrebbe provare, come in alcuni passaggi l'ho provato io. Magari per un periodo ci si potrebbe concentrare su altro o affrontare il genere con maggiore consapevolezza e profondità, cercando di aprire occhi e smantellare le indifferenze, abbandonare il conflitto usato come mero divertimento. Sono queste ovviamente considerazioni personali, Tyler Rake è del 2020, anno nel quale le recenti sciagure ancora non erano iniziate, nulla si vuol quindi rimproverare a Hargrave che confeziona un film godibile (magari in altri tempi) che sfoggia doti tecniche di tutto rispetto: c'è almeno una sequenza vertiginosa e realizzata con una maestria incredibile che contiene inseguimenti, corpo a corpo, effetti speciali, gestione degli spazi e dei tempi degna del passato da stuntman del regista che va a far concorrenza all'altro stuntman passato dietro la macchina da presa in tempi recenti, quel Chad Stahelski regista di John Wick dotato però di un tocco più ironico. Hemsworth è un action man credibile e preparato, meglio qui che in film più gettonati come Blackhat o nelle imbarazzanti recenti sortite nei panni del "dio del tuono"; affascinanti le location, magari non troppo credibile il conteggio dei morti a favore ma per quello, si sa, c'è la tanto cara e utile sospensione d'incredulità.

venerdì 1 marzo 2024

BYZANTIUM

(di Neil Jordan, 2013)

È probabile che, andando contro al celebre detto, anche cinque o sei indizi possano non fare una prova, certo è che messi insieme questi diventino perlomeno una discreta indicazione. Questa volta ci ripetiamo, lo si era già detto in occasione del commento a Triplo gioco dello stesso Neil Jordan, commento al quale la visione di questo Byzantium diventa una (abbastanza) solida conferma: al cinema di Neil Jordan sembra mancare sempre un qualcosa per esplodere, convincere appieno e farsi ricordare. Ancora lontani dall'aver esaminato l'intera opera del regista, si può però considerare parecchio significativo, in merito alla formulazione di un giudizio seppur parziale, il peso di opere quali Non siamo angeli, Intervista col vampiro, Michael Collins, Triplo gioco, Breakfast on Pluto e buon ultimo anche questo Byzantium, film spalmati lungo i decenni, tutti onesti e ben fruibili (anche se di Michael Collins ne ho un ricordo intorpidito) ma mai entusiasmanti. Con Byzantium, a distanza di quasi vent'anni da Intervista col vampiro, Jordan torna ai succhiasangue narrandone ancora una volta un'esistenza che si dipana, tra eventi attuali e ricordi dei protagonisti, lungo il corso dei secoli. Meno romantica del predecessore anche questa sortita nel mondo degli abitanti della notte (che in realtà qui si muovono tranquillamente anche di giorno) nasce dalla penna di una donna, per Intervista col vampiro la fonte era il romanzo omonimo di Ann Rice, per Byzantium alla base abbiamo invece una pièce teatrale firmata da Moira Buffini (A vampyre story), qui anche sceneggiatrice.

Clara (Gemma Arterton) ed Eleanor (Saoirse Ronan) vivono in un fatiscente caseggiato inglese, sono due vampire; Clara lavora come ballerina in un night e non è nuova al mestiere più antico del mondo, la donna si preoccupa di procurarsi da vivere per lei e per la sorella Eleanor. Questa, più giovane anche nell'aspetto (in realtà entrambe sono pluricentenarie), limita le sue sortite alla ricerca di plasma e globuli rossi ai danni di uomini già morenti, Clara è invece più spregiudicata e diretta. Appartenenti come spiegato in diversi flashback alla congrega dei vampiri, da questa Clara e Eleanor non sono ben viste in quanto donne; nel momento in cui qualche regola della confraternita viene elusa le due "ragazze" diventano prede di una caccia feroce che porterà le nostre a nascondersi ad Hastings, all'interno di un hotel in rovina, il Byzantium, di proprietà del timido Kevin (Tom Hollander), uomo mite e debole presto soggiogato dall'avvenente e disinibita Clara. Il Byzantium diventa così il nuovo rifugio delle due sorelle; ad Hastings Eleanor incontra un ragazzo di nome Frank (Caleb Landry Jones) che finirà per piacerle e nel quale troverà un confidente; da tempo Eleanor sente la necessità di raccontare a qualcuno del suo retaggio, più volte la vampira ha scritto la sua storia, la frequentazione insieme a Frank di un corso di scrittura creativa sarà l'occasione per far emergere il suo inconfessabile segreto. Seguiranno tragedie.

L'elemento di maggior interesse nel film di Jordan è dato dalle due figure femminili, donne già ostracizzate secoli addietro in quanto accettate di controvoglia in un mondo (la fratellanza) prettamente maschile e che le vede come oggetti di consumo (lo sfruttamento sessuale, i ripetuti tentativi di violenza). La Arterton e la Ronan riescono a delineare due vampiri dal carattere molto diverso, il desiderio di libertà e di verità della più giovane porta la coppia di ragazze ad avere più di un problema e nel percorso di svelamento della loro vera natura regalerà alla Ronan i passaggi drammatici più efficaci del film, capaci di farne uscire il limpido talento che si staglia anche sulla prova della coprotagonista Arterton. Eleganti e d'impatto alcune scene costruite da Jordan come i bagni nella cascata di sangue e l'ingresso con l'insegna gialla dell'hotel Byzantium ben scenografato in tutti i suoi interni, ottima ricostruzione d'ambiente. Jordan lavora bene con i rossi, ritornanti anche in alcuni costumi, delinea una visualità elegante che ammanta un film ancora una volta piacevole ma non memorabile, mette da parte alcune convenzioni trite sulla figura del vampiro (un punto a favore) e cesella due donne nelle quali, nonostante i secoli d'età, si leggono ancora i traumi della crescita per una e la responsabilità della tutela per l'altra. Non male quindi, aspetto però ancora la folgorazione.

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