domenica 30 ottobre 2022

ESTATE '85

(Été 85 di François Ozon, 2020)

Dopo averlo da poco scoperto torno a stretto giro al cinema di François Ozon con uno dei suoi film più recenti, Estate '85, opera dal titolo programmatico che ha il sapore del ricordo, dei tempi andati, delle vacanze al mare, si torna infatti all'adolescenza e nel farlo Ozon torna anche ad alcuni dei temi per lui ricorrenti quali l'attrazione, l'identità di genere, i sentimenti, l'impulso sessuale; per Estate '85 sono veramente tanti gli spunti dai quali si potrebbero aprire digressioni, nonostante all'apparenza il film goda di una linearità limpida, costruita ad arte ma comunque dalla fruizione agevolissima. Eppure nelle pieghe del racconto (parola più che mai adatta in questo caso) si nascondono in nuce moltissimi temi. La storia è tratta dal libro di Aidan Chambers del 1982 Danza sulla mia tomba, lettura che Ozon si porta dietro dagli anni della sua giovinezza, un'epoca della vita alla quale ritorna proprio con Estate '85. Nelle atmosfere, nell'incedere del racconto viene facile alla mente il parallelo con l'altrettanto recente (qualche anno in più sulle spalle) Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, qui però siamo in Normandia e l'attenzione per i luoghi così marcata che c'era nel film del nostro connazionale qui si sposta sul tempo, su quel 1985 al quale siamo riportati soprattutto grazie a una scelta sapiente dei brani in colonna sonora. Se in apertura si può pensare a un aspetto thriller presente nel film, che in realtà non c'è, è il genere sentimentale che prende il sopravvento e caratterizza al meglio l'ottima opera del regista francese.

L'adolescente Alexis (Félix Lefebvre) esce in mare con la barca di un amico e viene colto di sorpresa da una tempesta improvvisa rischiando il naufragio, viene salvato dall'intervento di David (Benjamin Voisin) che gestisce la situazione con calma ed esperienza. Una volta a terra i due fanno conoscenza, David porta Alexis a casa sua dove la madre (Valeria Bruni Tedeschi) si prende cura del ragazzo più giovane, bagnato e infreddolito, con un candore senza pudori che lascia Alexis un po' stranito. David e la madre vivono soli, il padre del ragazzo è morto, nel corso della giornata David e Alexis instaurano un bel rapporto che presto si trasformerà in qualcosa di più di una precoce amicizia e che si svilupperà sempre più nei meravigliosi giorni a seguire. Un'amicizia che lo spettatore sa fin dalla prima scena essere destinata a finire, la voce over in apertura di film si riferisce a David come al "futuro cadavere" (da qui l'idea di un thriller che non è) e l'incedere del racconto è intervallato dal percorso che Alexis compie per riabilitarsi agli occhi delle persone che lo circondano proprio in relazione alla morte di David, lo fa portando avanti un progetto di scrittura con il suo professore di letteratura (Melvil Poupaud) e confidandosi con Kate (Philippine Velge), una ragazza "alla pari" inglese che aveva conosciuto prima Alexis e poi David.

Ozon tratteggia un amore adolescenziale all'interno di un racconto di formazione che non gioca mai con ambiguità e dubbio, con scelte contrastate e sofferte, rappresenta invece in maniera naturale l'innamoramento di due ragazzi, nato in maniera spontanea e sentito come forse solo gli amori adolescenziali sanno essere. Siamo in estate, l'amore estivo sappiamo tutti che è destinato con tutta probabilità a finire, una fine che qui è certezza, Ozon ce lo dice da subito, ma mentre scopriamo gli eventi che porteranno David a farsi cadavere, viviamo la passione giovanile dei due protagonisti, belli, presi da una storia che per almeno uno di loro ha già il sapore dell'eternità (come da giovani si è portati a pensare prima di scontrarsi con la dura realtà), un rapporto che per un periodo sembra essere totale. Nel riflettere sulle persone amate, alla luce degli eventi del film, Ozon ci pone il quesito su quanto queste persone siano state da noi idealizzate, quanto fossero davvero quel che noi vedevamo in loro, almeno nei giorni migliori, quelli della passione e della curiosità e della conoscenza e del mistero, dov'erano i loro difetti, le loro volubilità, i tradimenti, le debolezze? Nel film c'è un bel parallelo tra queste domande e il fatto che Alexis riscriva la loro storia, riscriva anche David con tutta probabilità nella sua personale visione e non come quello che David davvero era, tema molto interessante. Ottima la ricostruzione d'epoca, si torna agli Ottanta con In between days dei Cure, con la riproposizione, in una scena magnifica tra l'altro, de Il tempo delle mele e con scelte accurate d'ambiente e costumi. Bastano pochi assaggi per innamorarsi dello stile di Ozon, per fortuna il cinema è capace di regalarci sempre di queste meravigliose sorprese.

venerdì 28 ottobre 2022

LA LINGUA DEL FUOCO

(California Fire and Life di Don Winslow, 1999)

Don Winslow è un tipo eclettico, autore di successo di libri noir, uno tra i più apprezzati negli ultimi decenni, lo scrittore è stato in passato investigatore privato, perito per diversi tipi di assicurazione, guida di safari, consulente per studi legali e altro ancora, tutte esperienze che Winslow sfrutta per dotare di un'aura di grande credibilità tutti i suoi romanzi, caratteristica che non manca di emergere nemmeno dalla lettura di questo La lingua del fuoco. Il titolo del libro, La lingua del fuoco appunto (anche se in originale è tutt'altro, California Fire and Life è il nome della compagnia assicurativa per la quale lavora il protagonista), può essere inteso in due differenti accezioni. La prima è quella più fisica: la fiammata, sfogo visibile di un incendio tanto spettacolare quanto spietato e letale, compagna di fumo e calore, la seconda è metaforica, intesa come la lingua che il fuoco parla per raccontarci cosa è successo: da cosa è stato innescato, quali danni ha fatto, se e quanto si è sviluppato in fretta, se è stato spontaneo o provocato; "la lingua del fuoco" è quell'insieme di indizi e di osservazioni, resti e conseguenze, che possono servire a un occhio esperto per capire la dinamica degli eventi, processo fondamentale per chi come Jack Wade, il nostro protagonista, ha come compito proprio quello di raccogliere informazioni sugli incendi nelle proprietà assicurate con la compagnia per la quale lavora.

Jack Wade è un perito della compagnia assicurativa California Fire and Life, lavora nel ramo incendi e il suo compito è quello di capire se questi sono spontanei, nel qual caso la compagnia risarcisce i suoi assicurati senza fare troppe discussioni, o dolosi, spesso appiccati dagli stessi proprietari proprio per truffare l'assicurazione e incassare cifre molto ingenti. Alle sue spalle Jack ha un passato da poliziotto, sempre dedicato alla sezione incendi, un'esperienza che lo ha costretto in un'occasione a piegare le regole a fin di bene allo scopo di proteggere un testimone che rischiava grosso, cosa che gli è valsa l'allontanamento dal corpo di polizia e gli ha aperto l'occasione per lavorare per la California Fire and Life grazie anche all'interessamento di Billy "Porca Puttana" Hayes, il dirigente della sezione californiana dell'assicurazione che ha visto in Wade un ottimo elemento da portare in forza all'azienda. In virtù della passata esperienza in polizia, di una preparazione nella materia di altissimo livello e di una dedizione al lavoro già sviluppata fin da ragazzo quando lavorava nell'impresa edile del padre (altra esperienza preziosa nei casi di incendi alle proprietà), Jack Wade è considerato uno dei migliori periti del fuoco in circolazione. È proprio lui che andrà a valutare la situazione al 37 di Bluffside Drive, vicino alla spiaggia di Dana Strands dove Jack ama fare surf, qui una villa di lusso è bruciata con all'interno la proprietaria, Pamela Vale, da poco separatasi dal marito Nicky; sul luogo Jack trova già Brian "accidentale" Bentley, un poliziotto pigro al quale non interessa la verità sugli eventi quanto togliersi di torno il prima possibile per andare a giocare a golf. L'indagine che si aprirà sarà per Jack tutt'altro che facile e ben presto diverrà parecchio pericolosa.

Ancora un buon romanzo per Don Winslow, tornano un protagonista con la passione del surf e l'ambientazione vicina all'oceano come ne L'inverno di Frankie Machine, Winslow dedica diverse pagine alla descrizione dell'argomento portante, il fuoco, dando un bel resoconto sulle dinamiche degli incendi, sulle tracce che questi lasciano, sulla formazione del protagonista portando il lettore a conoscenza (parziale ovviamente) di quella lingua del fuoco esplicitata nel titolo italiano. Il ritmo è ottimo e la costruzione dei personaggi ben approfondita con ampi squarci sul passato sia del perito Jack Wade, sia su quello dell'antagonista Nicky Vale, non mancano nemmeno le sorprese e i colpi di scena necessari per un titolo di genere come questo. La scrittura di Winslow garantisce una giusta dose di coinvolgimento, i capitoli sono brevi, l'incedere fluido, lo scrittore di New York ha un ottimo approccio alla descrizione dei luoghi, del vissuto che si respira in essi, creando cartoline di luoghi che si finisce per voler visitare, lo scrittore si conferma tra le penne più interessanti nel panorama del thriller, per quel che riguarda la costruzione delle storie Winslow ricorda in qualche misura il Michael Connelly di Bosch, ottimo anche lui, entrambi produttori di intrattenimento di qualità senza cadute di tono. Per i fan del genere lettura più che consigliata.

lunedì 24 ottobre 2022

HOUSE OF GUCCI

(di Ridley Scott, 2021)

Film che ha molto diviso la critica questo House of Gucci e che si è attirato pareri contrari ferocissimi, in gran parte dovuti al fatto che la firma in calce è quella di Ridley Scott e, nonostante gli anni passati, in maniera spietata e forse tutto sommato naturale, giudicando le ultime opere del regista si torna sempre al Ridley Scott di Alien, de I duellanti, di Blade runner, di Thelma & Louise o anche solo di un film come Il gladiatore (che io non amo per nulla in realtà), ma quel Ridley Scott non c'è più, possiamo ormai farcene una ragione, ed è pressoché inutile evocarlo ogni volta, cosa lecita per carità, ma ormai ridondante se pensiamo che dai film sopra citati sono passati diversi decenni. Una delle critiche più ricorrenti a tenere banco nelle discussioni intorno al film è quella degli accenti caricati in maniera macchiettistica per la versione in lingua originale, difetto non percepibile per chi guarda il film con il doppiaggio italiano che, essendo proprio l'italiano l'accento in questione, non presenta questa problematica rendendo forse il film migliore della sua versione originale. House of Gucci è un classico biopic che ricostruisce, a partire dal libro di Sara Gay Forden The house of Gucci: A sensational story of murder, madness, glamour, and greed, la vicenda assurta alle cronache con protagonista Maurizio Gucci e la moglie Patrizia Reggiani, nel farlo si tirano un po' le fila della storia della famiglia Gucci e della maison, una delle più famose ancor oggi a livello mondiale. 

Patrizia Reggiani (Lady Gaga) è una ragazza piena di vita che ha un lavoro impiegatizio nella ditta di autotrasporti del padre. Durante una festa Patrizia incontra Maurizio (Adam Driver), un ragazzo timido e impacciato che studia giurisprudenza ma che è anche uno degli eredi legittimi della casa di mode Gucci; il ragazzo, seppur poco interessato all'azienda di famiglia, è figlio di Rodolfo Gucci (Jeremy Irons) e nipote di Aldo (Al Pacino), i due fratelli che negli anni Settanta portano avanti l'azienda di famiglia fondata negli anni Venti dal padre Guccio Gucci. Patrizia e Maurizio iniziano a frequentarsi, si piacciono e si innamorano l'uno dell'altra al punto da arrivare a pensare al matrimonio, un matrimonio che Rodolfo però non accetta vedendo in Patrizia una donna di bassa estrazione sociale e un'arrivista interessata solo al potenziale patrimonio del figlio; quando Maurizio deciderà comunque di sposare Patrizia verrà diseredato dal padre il quale deciderà di non lasciare la sua eredità a quel figlio che lo ha fortemente deluso. Rodolfo aveva visto lungo, con il tempo Patrizia si dimostrerà molto amante dei soldi, del lusso, delle cose belle che la famiglia Gucci ha da offrire, la donna si muoverà per favorire il ricongiungimento tra Maurizio e lo zio Aldo per far rientrare il marito nei giochi, cercando di ammorbidire anche il suocero Rodolfo con l'allettante prospettiva di un bel nipotino. Nel frattempo si sviluppa la storia del marchio Gucci tra la gestione di Aldo e le ambizioni prive di talento di suo figlio Paolo (un irriconoscibile Jared Leto) che vorrebbe lanciare la sua linea di moda. I Gucci passeranno un periodo buio, di scarsa creatività, fino all'arrivo di un certo Tom Ford (Reeve Carney)...

Permettendomi di impugnare un poco le critiche piovute su House of Gucci a parer mio il film di Scott rimane un buon biopic, a misurare l'affermazione l'impressione (per carità, soggettiva) che l'importante minutaggio del film, che supera le due ore e mezza di durata, corra liscio come un bicchier d'acqua senza pesantezza alcuna. Tralasciando la questione accenti non avendo visionato il film in lingua originale, anche la scelta degli attori è comunque indovinata; a parte per il misurato Adam Driver in altri casi si ricorre spesso all'eccesso: Lady Gaga offre momenti che oscillano tra il trash e il sublime, Al Pacino gigione più che mai ma resta sempre un piacere da guardare, forse oltremodo eccessivo il caricatissimo Jared Leto che potrebbe essere l'unico punto stonato in un cast che, proprio tra misura ed eccesso, porta il giusto taglio a una vicenda che è eccessiva di suo, nell'episodio di cronaca, nella messa in scena lussuosa, nell'ambiente della moda, non dimentichiamo poi che Ridley Scott ha un importante passato nella pubblicità ed è quindi molto attento a mostrare la superficie, il primo impatto, il mondano, le ville, le auto, i negozi Gucci e via dicendo, House of Gucci non è uno scavo nei personaggi, non è un cercare motivi, giustificazioni o colpe nella persona della Reggiani (o di tutti gli altri, Maurizio Gucci per primo), non è una ricostruzione adesa ai fatti reali passo per passo, è la cronaca di una vicenda nota, una proposta d'ambiente, di vicende, di comportamenti (e non di quel che ci sta dietro) e soprattutto di avidità. House of Gucci non è di certo un film ascrivibile tra i capolavori di Ridley Scott ma non è nemmeno l'oscenità di cui spesso si è detto. A volte la verità potrebbe stare davvero nel mezzo.

domenica 23 ottobre 2022

LA SIGNORA DELLA PORTA ACCANTO

(La femme d'à côté di François Truffaut, 1981)

Siamo nel 1981, François Truffaut è al suo penultimo lungometraggio, il regista francese morirà qualche anno dopo in seguito alle conseguenze di un tumore al cervello che non gli lascerà scampo. Anche negli anni 80 Truffaut ci regala film memorabili, La signora della porta accanto è un puro melodramma d'amore e passione senza troppe letture recondite se non quelle degli scherzi e degli sviluppi che la vita ci presenta; a metterlo in scena, diretti dal grande regista, un Gérard Depardieu già divo e allora trentatreenne e la quasi esordiente Fanny Ardant, di un anno più giovane, che fino a quel momento aveva più che altro lavorato per la televisione francese e che diverrà a breve la compagna di Truffaut. Con pochi elementi, poche location e diverse idee indovinate, il regista francese costruisce una storia dove a farla da padrone sono i sentimenti forti, l'amore ma soprattutto il (ri)sollevarsi di passioni sopite, riaccese, incontrollabili, che vanno a scardinare sicurezze e stili di vita costruiti magari con dolore, pazienza e con l'aiuto del tempo e della lontananza, riemerse in un ambiente placido, borghese, dove gli eccessi sembrano all'apparenza non poter trovare posto, e invece...

È la signora Odile Jouve (Véronique Silver) a introdurci alla vicenda cui andremo ad assistere, la donna è la proprietaria di un circolo di tennis in una località non lontana dalla città di Grenoble. In una villa nei pressi abitano i coniugi Coudray, Bernard (Gérard Depardieu), un insegnante di guida in una specie di scuola nautica, e la moglie Arlette (Michèle Baumgartner), una casalinga che bada al loro piccolo figlioletto Thomas (Olivier Becquaert). Nella casa accanto alla loro con la quale i coniugi condividono il cortile, sfitta da tempo, arrivano dei nuovi vicini: Philippe Bauchard (Henri Garcin), un controllore di volo all'aeroporto di Grenoble e sua moglie Mathilde (Fanny Ardant), appassionata di disegno e in via di trovare una carriera nel mondo dei libri dell'infanzia in qualità di illustratrice. Dopo le presentazioni di rito durante le quali le due coppie fanno una buona impressione l'una sull'altra veniamo a scoprire come Mathilde e Bernard si conoscano già da tempo, cosa taciuta ai rispettivi compagni nel momento dell'incontro tra le due coppie, e che i due sono stati protagonisti in passato di un'appassionata storia d'amore che ha lasciato su entrambi, soprattutto sulla donna, delle profonde cicatrici non del tutto dimenticate e sopite. I vecchi sentimenti riaffiorano andando a rimestare e sconvolgere le esistenze dei quattro protagonisti che proveranno con mano quanto l'intensità dei sentimenti, a volte incontrollabili, possano fare davvero male.

La signora della porta accanto segue a brevissima distanza L'ultimo metrò nella filmografia di François Truffaut, torna Depardieu (che come nel precedente film, anche qui interpreta un uomo di nome Bernard) che questa volta ha al suo fianco una bravissima e sensuale Fanny Ardant. Se nel film precedente l'aspetto sentimentale era trattenuto, imbrigliato dalla situazione e dalle circostanze, dal contesto storico, qui si sciolgono i lacci e la passione diventa straripante fino alle estreme conseguenze. Senza troppo rivelare dei movimenti della trama, e senza accennare al finale del film, è proprio la voce narrante, la figura della signora Odile che ci presenta i trascorsi e il presente dei due protagonisti, a essere riferimento lampante di quell'amore folle e totalizzante che può portare a gesti estremi, proprio come quello compiuto in gioventù dalla direttrice del centro sportivo. In un racconto circolare (si inizia e si finisce sulla stessa sequenza), Odile ci narra la passione bruciante di Mathilde con la quale in qualche modo si identifica e rivive il dolore incontrollabile e il male che può fare un amore forte finito non nel migliore dei modi, un amore che Truffaut ci mostra essere capace di far perdere la testa anche a chi, all'apparenza, sembra poterlo ormai tenere sotto controllo, orientato a una vita familiare consolidata e tranquilla, con l'amore per (e di) un bambino a riempire le giornate, emblematica la sequenza magnifica della scenata che Bernard compie di fronte a tutti al circolo del tennis. Girato con grande fluidità e senza particolari virtuosismi La signora della porta accanto si può dire, giocando proprio sulla misura perfetta, una delle opere più riuscite e appaganti del regista francese, innalzata anche dalla presenza di una coppia d'attori stupenda, capace di oscillare sempre tra passione e controllo all'interno di una relazione clandestina destinata a fare molto male. La passione per la passione di Truffaut. Chapeau.

mercoledì 19 ottobre 2022

QUELLA CASA NEL BOSCO

(The cabin in the woods di Drew Goddard, 2011)

C'era una volta l'horror con una valenza sociale, quello che rifletteva sulla condizione (dis)umana, sulle sue storture, ci spaventava con il gore, con personaggi terrificanti, anche con un onesto jump scare magari, ma soprattutto con l'acume delle sue metafore, con le riflessioni sulle pieghe peggiori della nostra società, con previsioni di un futuro incline al disastro (sociale). Ora c'è molto horror che riflette sull'horror, sui suoi schemi, sulle sue strutture, sulla sua storia e sul suo passato, in un'impeto che può sembrare esclusivamente autoriferito e autoreferenziale ma che in qualche caso, come questo, è capace di trasformarsi in un gioco, in un piacere ludico che non spaventa (ma qualche jump scare riuscito comunque permane), sicuramente non terrorizza, non regala grossi contenuti se non quelli metalinguistici del genere a cui appartiene ma si dimostra sfizioso e parecchio divertente, aggettivo che non è detto non possa essere associato con efficacia a un horror, un horror che non avrà le finalità di molti famosi predecessori che hanno fatto grande il genere e che (in parte) lo hanno regolamentato, schematizzato e poi sviluppato e ritorto ma che ha come scopo l'omaggio a sé stesso, il divertimento, la festa del riconoscimento di una cultura comune e la mission di offrire non troppo di più di un intrattenimento, magari non profondo, ma costruito con estrema intelligenza, non soltanto formale. Quella casa nel bosco di Drew Goddard rientra a pieno titolo in quest'ultima categoria.

Un gruppo di giovani ragazzi sta programmando un weekend di divertimento: trasferimento in camper e soggiorno in una casa isolata nel bosco di proprietà del cugino di uno di loro. Del gruppo fanno parte l'atletico Curt (Chris Hemsworth) che ha tutte le intenzioni di passare qualche giorno amoreggiando con la sua bella ragazza, la bionda e molto disponibile Jules (Anna Hutchinson), un amica di Jules, la (quasi) virginale Dana (Kristen Connolly) e un amico di Curt, il serio e studioso, nonché belloccio, Holden (Jesse Williams). L'ultimo componente del gruppo è lo strambo Marty (Fran Kranz), un tipo simpatico, sempre strafatto ma con alcune convinzioni paranoiche che sfociano a tratti in una visione più lucida di quella dei suoi compagni di viaggio. Sulla strada per arrivare alla sperduta dimora il gruppo si ferma a fare rifornimento presso una pompa di benzina gestita da un individuo parecchio strano e inquietante, le stranezze si moltiplicheranno anche durante la sistemazione in casa fino alla scoperta di una cantina piena di oggetti particolari, alcuni dei quali richiamo diversi filoni classici dell'horror. La cosa più inquietante, della quale i nostri non sono a conoscenza, è che tutta questa situazione è sorvegliata da quelli che sembrano due tecnici di laboratorio, Gary (Richard Jenkins) e Steve (Bradley Whitford), che di tutto quel che sta accadendo sembrano saperne molto più di quei (poveri) ragazzi.

È un grande giocattolo Quella casa nel bosco e in quest'ottica va visto, Goddard dichiara le sue intenzioni fin da subito con l'introduzione dei due tecnici e del complesso che supervisiona l'intera avventura dei cinque ragazzi, una situazione che, a quel che dicono i due (e come potrà vedere lo spettatore), si ripropone con costanza in tutto il mondo, dalla Germania al Giappone e via discorrendo. È un film a tema su temi che già tutti conosciamo: il principale è la metanarrazione dello schema classico di tanto horror, dove nel gruppo le ragazze sessualmente vivaci muoiono per prime, è data per scontata la presenza di un bel fisicato, la vergine diventa la final girl che sopravvive (o quanto meno crepa per ultima) e via dicendo. A questo si unisce il gioco della citazione, nella scelta degli oggetti nella sequenza in cantina ad esempio oppure nel pre-finale collettivo che include una sacco di creature/personaggi, dove si possono distinguere chiari riferimenti a un mondo di horror del quale i fan si sono beati nel corso dei decenni. Il film è ben scritto e ben girato, qualche passaggio assesta anche qualche saltino sulla sedia che non guasta, certo se si cercano paura e tensione qui non se ne troveranno molte ma se si avesse voglia di giocare, di divertirsi un po' con l'horror, Quella casa nel bosco assolve bene il suo compito. In fondo un Chris Hemsworth in un horror davvero serio quanto sarebbe stato credibile?

domenica 16 ottobre 2022

TRE MILLIMETRI AL GIORNO

(The incredible shrinking man di Richard Matheson, 1956)

Richard Matheson è tra gli autori più noti della fantascienza classica, le sue prime pubblicazioni risalgono infatti ai primissimi anni 50, il suo primo racconto venne pubblicato sulla rivista The Magazine of Fantasy and Science Fiction proprio nel 1950. Tra i suoi scritti più celebri si annoverano Io sono leggenda dal quale sono stati tratti anche diversi film, Io sono Helen Driscoll e anche questo Tre millimetri al giorno. La carriera di scrittore di Matheson nel corso degli anni è stata affiancata da quella di sceneggiatore per Hollywood, non solo per quel che riguarda adattamenti delle sue opere ma anche trasposizioni di libri di altri autori di fantascienza e altro ancora, divenendo pian piano, tra cinema e televisione (molti episodi di Ai confini della realtà), l'attività più prolifica da parte dello scrittore statunitense. Anche da questo Tre millimetri al giorno è stato tratto un film, Radiazioni BX: distruzione uomo del 1957 per la regia di Jack Arnold, direttore molto attivo in quegli anni e del quale si ricordano diversi titoli: Destinazione... Terra!, Il mostro della laguna nera, Tarantula. Con queste premesse non nascondo che l'aspettativa nei confronti di Tre millimetri al giorno fosse per me parecchio alta, il romanzo però, pur tenendo conto che si tratta di uno scritto datato, si è purtroppo rivelato una discreta delusione, una novella dove il lato fantastico si limita a una sola idea, quella del rimpicciolirsi progressivo del protagonista, un'idea molto affascinante e indovinata che in potenza conteneva in sé possibilità di esplorare la condizione del protagonista in diverse direzioni, cosa che, a parte una metafora più volte esplicitata dalla critica, non avviene, il romanzo invece si perde molto spesso in situazioni ripetitive e poco accattivanti.

Durante una gita in barca Scott Carey, sposato con la moglie Louise e padre di una bimba ancora piccola, viene a contatto con una strana onda contenente una sostanza sconosciuta. Dopo qualche tempo Scott inizia ad avere l'impressione di star rimpicciolendo (l'incredibile uomo che rimpicciolisce suona il titolo originale), gli sembra di diventare giorno dopo giorno un poco più basso. Effettuate le dovute misurazioni l'uomo scopre di star rimpicciolendo di ben tre millimetri al giorno, cosa che ovviamente lo getta nel panico e a sprazzi nella disperazione e nello sconforto. A nulla valgono le ricerche mediche, le visite degli specialisti, i ripetuti esami: quello di Scott è un caso unico al mondo che i medici studiano volentieri e con avidità ma per il quale nessuno ha davvero una soluzione. Presto la vita di Scott diventa sempre più difficile, sia dal punto di vista fisico, sia da quello psicologico, sia nel ruolo di padre e marito, la figlia vede infatti nel padre una figura sempre meno autoritaria e più simile a lei, nel rapporto con la moglie Scott si sente sempre meno virile, sempre più visto come un bambino di cui prendersi cura che non come un marito da sua moglie Louise. Oltre alle vicende relative alle varie fasi di rimpicciolimento del protagonista, Matheson ci narra anche la lotta per la sopravvivenza dello stesso quando, alto ormai pochi millimetri, si trova rinchiuso nella cantina di casa sua a lottare contro la fame, la sete, le dimensioni spropositate di qualsiasi oggetto ma soprattutto contro un piccolo ragno che per Scott è divenuto ormai un mostro gigantesco da cui non farsi divorare.

Il romanzo, abbastanza breve e veloce da leggere, è diviso in due tipi di capitoli. A fasi più o meno alterne Matheson ci racconta la lotta per la sopravvivenza di uno Scott Carey ormai ridotto a pochi millimetri di altezza (ma con un corpo in proporzione perfettamente funzionante) rimasto chiuso nella cantina di casa costretto a superare mille ostacoli e altrettante insidie, come quella posta dal ragno, dovute alla sua ormai inadeguata altezza rispetto al mondo che lo circonda. Negli altri capitoli vediamo Scott affrontare varie fasi di "altezza" con le progressive problematiche che queste si portano dietro. Seppur visto come una grande metafora della visione dell'uomo virile e, in questo caso, della sua demolizione, ciò che invece manca al romanzo è la parte di suspense, meraviglia e pericolo che dovrebbe scaturire dai capitoli ambientati in cantina che presto si rivelano invece molto ripetitivi, privi di grande interesse e poco coinvolgenti se non in qualche sparuto passaggio. L'idea di base è molto affascinante, quasi geniale, e poteva essere sfruttata al meglio proprio nella descrizione dei momenti di inadeguatezza del protagonista, che pur ci sono ma insufficienti per una piena riuscita del racconto. Se fosse stata questa la parte predominante del romanzo sarebbe stata tutta un'altra faccenda, non a caso uno dei momenti migliori del libro è una tragica e intima presa di coscienza di inadeguatezza, nei confronti della moglie, dell'essere uomo messo in crisi dagli eventi, tutto si palesa nell'incontro che Scott fa al circo con una donna affetta da nanismo, una donna ancora alla sua portata in compagnia della quale Scott si sente di nuovo uomo, episodio che mette in moto una delle dinamiche meglio riuscite dell'intero libro e che si esaurisce troppo presto perché necessita tornare in quella maledetta cantina a fare i conti con quel noiosissimo ragno. Una delle letture della recente collana che Urania ha varato per festeggiare i suoi 70 anni che mi incuriosiva di più, peccato, avevo sperato in qualcosa di meglio, sarà per un'altra volta.

sabato 15 ottobre 2022

TRE COLORI - FILM ROSSO

(Trois couleurs: Rouge di Krzysztof Kieślowski, 1994)

Con Film rosso giunge a termine la trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e il cerchio si chiude (ma sarà poi davvero un cerchio?); si chiude purtroppo anche la carriera del regista polacco che nel '96 verrà stroncato da un'infarto che priverà il cinema di una delle sue voci più interessanti; la visione di Film rosso, forse l'episodio concettualmente più appagante e interessante tra i tre, dà vita al rimpianto di molti appassionati che perdono un regista che avrebbe potuto offrire ancora molto, all'epoca della sua morte Kieślowski aveva infatti in programma un progetto su Dante strutturato tra Inferno, Purgatorio e Paradiso. Come per i capitoli precedenti il riferimento è a uno dei colori del tricolore francese, il rosso in questo caso, e a una parte del motto caro ai cugini d'oltralpe: Liberté, égalité, fraternité. Il concetto di fratellanza, come è già avvenuto in Bianco e Blu per l'uguaglianza e la libertà, è tutto da interpretare, c'è da pensare su come lo intenda il regista, la lettura più semplice e immediata è quella di collegare il valore in questione alla protagonista Valentine, giovane donna di buon cuore e aperta al contatto con gli altri e alla generosità, non per nulla Rosso è l'unico episodio in cui la scena ricorrente dell'anziana che tenta di gettare una bottiglia nella campana verde del vetro trova un compimento positivo, facilitato proprio da un gesto di altruismo. I simbolismi abbondano e, forse più che nei film precedenti, per Film rosso ci sono tutte le possibilità di fermarsi a ragionare sui significati che Kieślowski intendeva dare alla costruzione e ai segni presenti nel suo film.

Valentine (Irène Jacob) è una giovane modella che sta lavorando alla pubblicità per una marca di chewingum. La ragazza ha un fidanzato un po' scostante che è in Inghilterra, lei sta a Ginevra e i chilometri di lontananza non aiutano un rapporto sul quale Valentine inizia a interrogarsi. Una sera Valentine investe un cane, nel cercare il padrone la ragazza arriverà all'abitazione di un anziano giudice in pensione, Joseph Kern (Jean-Louis Trintignant). L'uomo è molto freddo, dal carattere rude, mostra da subito poco interesse per il suo cane tanto da permettere a Valentine di tenerselo. A quel primo incontro ne seguiranno altri, la curiosità di entrambi per l'altro aumenta nonostante Valentine trovi repellenti alcuni comportamenti dell'ex giudice, uno su tutti il fatto che lui, tramite un'apparecchiatura procuratasi grazie alle sue conoscenze, spii le conversazioni telefoniche dei suoi vicini tra i quali la coppia in crisi formata da Auguste (Jean-Pierre Lorit) e Karin (Frédérique Feder). Il racconto, incrociando le vite dei personaggi e forse anche qualcosa di più, procede donando significato a ogni singolo evento e aprendo le porte a un futuro diverso sia per Valentine che per l'anziano giudice.

Questa volta è un'immersione totale nel rosso. Se in Blu si giocava molto con le tonalità della fotografia e in Bianco si lavorava per sprazzi e suggestioni, qui il rosso è ovunque, una scelta estetica di grande efficacia e un'approccio visuale vincente, avvolgente, che accompagna lo spettatore per tutto il film senza mai lasciarlo. A simbolo della tendenza cromatica la bellissima immagine della pubblicità di Valentine, una foto su sfondo rosso che esalta la bellezza della Jacob che rivaleggia senza timore per fascino anche con le colleghe Binoche e Delpy protagoniste dei primi due capitoli del trittico. Il rosso qui è nella sequenza iniziale, negli abiti, negli oggetti d'arredo, è il colore delle auto, delle pareti delle stanze, Kieślowski inserisce un tocco di rosso in quasi ogni inquadratura del film, molto ben girata la prima sequenza, come accadeva già nei precedenti capitoli, dal punto di vista formale Rosso si può dire il più caratterizzato tra i tre colori. In più in Rosso abbiamo un attore di razza come Jean-Louis Trintignant che un poco la differenza la fa: mai fuori misura, mai un eccesso eppure profondo, come è tutto il film in fondo, come già detto le letture possibili sono molteplici, nella figura del giudice, in quella di Auguste, nelle trame del tempo, in quelle del caso e degli eventi, e in quella chiusura del cerchio che vede protagonisti anche la Binoche, la Delpy, Zbigniew Zamachowski e Benoît Régent, protagonisti di Bianco e Blu. Cinema di altissimo livello, un trittico che non può deludere, non immediato ma capace di scavare nel tempo, lasciare residui e opere alle quali, per fortuna, si può sempre tornare.

mercoledì 12 ottobre 2022

UNA NUOVA AMICA

(Une nouvelle amie di François Ozon, 2014)

Per quanto ci si dedichi e ci si sforzi, alla fine ci si scopre sempre ricoperti da una montagna d'ignoranza. Ed è così che mi imbatto per la prima volta nel cinema del regista francese François Ozon. Non che non conoscessi "di fama" il regista, nome parecchio noto per quel che concerne il mercato francese e non solo, ma non mi era ancora riuscito di vedere nessuno dei suoi (tanti) film, un corpo d'opera che conta già almeno una ventina di lungometraggi tra i quali anche diversi titoli abbastanza conosciuti come 8 donne e un mistero, Swimming pool, Potiche - La bella statuina o Giovane e bella. Giunge così anche il momento dell'incontro con questo autore e devo dire che la prima sortita nel cinema di Ozon è stata più che appagante: film intrigante, ottima regia, bella messa in scena e temi di fondo di assoluto interesse; fa inoltre piacere ritrovare ancora una volta Romain Duris del quale è ancora viva nella memoria l'ottima prova nel bellissimo Tutti i battiti del mio cuore di Jacques Audiard, anche se in molti lo ricordano più facilmente ancor più giovane per L'appartamento spagnolo di Cédric Klapisch. Anche il cast quindi, non solo Duris, a illuminare questo bel film del regista parigino.

Claire (Anaïs Demoustier) conosce la sua amica Laura (Isild Le Besco) quando ancora entrambe sono delle bambine. Le due ragazze crescono insieme: le estati, la scuola e poi le uscite, i primi ragazzi con i quali Laura sembra molto più a suo agio e dei quali Claire sembra provare anche un filo di gelosia, tanto è l'amore che prova per la sua amica. Poi la vita va avanti, Laura sposa David (Romain Duris), Claire sposa Gilles (Raphael Personnaz), i primi due diventano genitori di una bella bambina, Lucie. L'amicizia delle due donne prosegue fino a che a interromperla arriva la malattia che in poco tempo prima costringe Laura su una sedia a rotelle e poi se la porta via lasciando David a prendersi cura da solo della piccola Lucie. Un giorno, mentre Claire va a casa di David a trovare la piccola Lucie della quale Claire è anche la madrina, quest'ultima trova David vestito da donna, con indosso gli abiti della defunta Laura, mentre da da mangiare alla figlia. Dopo attimi di forte sconcerto da parte di Claire e di imbarazzo per David, questi spiega a Claire questa sua voglia di abbigliarsi con abiti femminili che lo accompagna fin dalla tenera età, una predisposizione che non è accompagnata dal desiderio verso il suo stesso sesso. Questa novità, che Claire terrà nascosta al marito Gilles, porterà turbamento nella vita della donna ma anche quella che col tempo diverrà una nuova amica che potrebbe, in qualche modo, riempire il vuoto lasciato da Laura.

Film condotto con grandissima eleganza da François Ozon che regala una regia vivace, spumeggiante, anche cinefila per alcuni versi, quanto cinema ci ricorda Romain Duris vestito da donna che sale o scende per le scale? Scelte impeccabili di costumi, atmosfere, luci, per una confezione che accompagna in maniera splendida il racconto, come se fosse una storia di un Almodóvar più lieve, meno carico ma dai contenuti comunque partecipati e coinvolgenti. I dubbi, i turbamenti, le pulsioni di Claire ci raccontano la graduale apertura di un personaggio inizialmente trattenuto nei confronti di una situazione inaspettata e che da principio può creare un certo grado di disagio, per i dettami imposti dalla società, per la sorpresa, per le proprie titubanze in fatto di apertura di genere, di desiderio sessuale, dell'accettazione di sé stesso. È emblematico del giudizio di una società non ancora pronta a queste piccole/grandi rivoluzioni proprio il personaggio di Claire, che più di quello interpretato da Romain Duris fatica ad accettare il cambiamento, mentre l'uomo accetta più in fretta e di buon grado il fatto di sentirsi a suo agio in abiti femminili, questo nuovo ruolo che si è ritagliato nei panni di Virginia (con l'accento sulla a), la nuova amica di Claire e mamma/padre di Lucie. Ci sono passaggi bellissimi nel film di Ozon: il piacere delle giornate passate con un'amica che entusiasmano Virginia e pian piano conquistano anche Claire, le lacrime dell'uomo davanti alla drag queen che canta il suo dramma con un'interpretazione struggente, lo slittamento dei parametri, i mutamenti del desiderio, tutti passaggi gestiti da cast e regista in maniera impeccabile. Il primo impatto con l'opera del francese non sarebbe potuto andare meglio, non resta altro da fare che cercare conferme all'interno di una filmografia già ben nutrita.

lunedì 10 ottobre 2022

IN JACKSON HEIGHTS

(di Frederick Wiseman, 2015)

Jackson Heights è un quartiere di New York situato nella zona nord ovest del Queens, uno  dei cinque boroughs che formano il territorio della Grande Mela (gli altri sono il Bronx, Manhattan, Staten Island e Brooklyn). Jackson Heights conta una popolazione di poco superiore a centoottomila abitanti che insieme formano uno dei più significativi esempi di integrazione multiculturale al mondo. All'interno del territorio del quartiere sono stati conteggiati centosessantasette idiomi vivi, parlati da una popolazione residente che per più del cinquanta per cento è nata al di fuori degli Stati Uniti e che vede una maggioranza di cittadini di lingua ispanica, provenienti per lo più dal Sud America con una forte rappresentanza delle comunità colombiana e messicana, ma nel quartiere ci sono bianchi, afroamericani (in minoranza), asiatici, europei e più o meno tutto quel che può venire in mente, in un melting pot costruito in grandissima parte su tolleranza e solidarietà (non mancano i problemi, come è ovvio in una metropoli come New York) e che non pone limiti all'appartenenza di genere o di religione. In Jackson Heights si contano numerose le espressioni di culto (ebraica, musulmana, cristiana, battista, metodista, luterana, evangelica, induista, episcopale, ortodossa, etc...) così come è qui residente una delle più importanti comunità LGBT d'America la quale, dopo l'omicidio di uno dei suoi appartenenti negli anni 90, il giovane Julio Rivera, ha compiuto enormi passi avanti nell'ottenere il riconoscimento dei propri diritti dando vita anche a una delle più celebri Parade a tema promosse dal consigliere comunale Daniel Dromm.

È tra le strade del quartiere che Frederick Wiseman costruisce l'ennesimo documentario della sua impressionante carriera. La cifra di stile del regista di Boston è ben riconoscibile nonostante la rinomata discrezione dello stesso nella costruzione delle sue opere. Come accade in altri, ottimi peraltro, documentari del regista, Wiseman ci immerge totalmente nella realtà che riprende, lo spettatore in questo caso ha l'impressione di vivere per qualche ora a Jackson Heights, Wiseman non interviene mai in maniera diretta sulla narrazione, non ci sono commenti, punti di vista, prese di posizione, non ci sono interviste dirette, Wiseman gira tanto, lascia spazio ai residenti, alle organizzazioni del quartiere, alle comunità, alle strade, alle attività, ai negozi, alle scuole, al consiglio comunale, agli immigrati, ai palazzi, ai treni della metropolitana; tutto e tutti raccontano vivendo, muovendosi nella quotidianità, Wiseman costruisce in fase di montaggio riuscendo a creare un documentario immersivo che è una testimonianza il più naturale possibile di ciò che Jackson Heights rappresenta per i suoi abitanti ma anche per l'intera città in termini di cultura, integrazione, tolleranza, idee, lavoro.

Si parte proprio dalla comunità LGBT che è ospitata nei locali della casa di culto ebraica, qui si discute l'opportunità per la comunità di trovare un posto di aggregazione proprio, valutando anche la possibilità di andare fuori dai confini di Jackson Heights, si valutano le opzioni non solo in termini di vantaggio per gli appartenenti alla alla comunità LGBT ma si pone grande attenzione e rispetto anche a ciò che potrebbe essere meglio per la comunità ebraica che li ospita. Questo è il principio di convivenza che muove il lavoro di molte organizzazioni in Jackson Heights, come quella che tenta in tutti i modi di unire tra loro e sostenere i piccoli negozianti che ancora sono un segno distintivo nel quartiere, contro lo strapotere delle catene (si parla molto di Gap) e dei grandi proprietari immobiliari, si cerca di valutare i fenomeni di gentrificazione e di svalutazione degli immobili con il fine ultimo di non perdere la vera ricchezza della zona: i suoi abitanti. Come già fatto in altri documentari, in Ex-Libris ad esempio, Wiseman porta lo spettatore a partecipare agli incontri della politica, dei consigli direttivi che decideranno cosa è meglio per gli abitanti del quartiere, come quelli scolastici, anche questi all'opera per evitare che le famiglie debbano rivolgersi a servizi esterni al quartiere. Non mancano i fenomeni di costume, la musica di strada, la comunità colombiana che segue la propria nazionale di calcio in occasione dei grandi eventi, le cene organizzate a ringraziamento dei cittadini che si spendono per il quartiere e per il bene collettivo. È un grande affresco questo In Jackson Heights dal quale vengono fuori l'attaccamento dei cittadini alle loro strade, la dedizione per esse, l'entusiasmo ma anche tutti i problemi legati a un'economia e a un incremento dei prezzi che non possono non preoccupare famiglie e commercianti. 

Tre ore di girato, montato in maniera sapiente, che ci proiettano nelle strade del quartiere, ci fanno vivere per un breve lasso di tempo le sue strade, i suoi crucci, le sue infinite possibilità e una ricchezza enorme in termini di tolleranza, amore e solidarietà, tutte cose preziose e non troppo comuni che dalle parti di Roosevelt Avenue, della 37th Avenue e di tutte le strade limitrofe sembrano trovare per fortuna terreno fertile per crescere ed essere coltivate.

sabato 8 ottobre 2022

ALONERS

(Honja Saneun Salamdeul di Hong Sun-eun, 2021)

Il film d'esordio della cineasta coreana Hong Sun-eun, come già sotteso nel plurale del titolo, parte dal personale per allargare il discorso a una condizione collettiva che nei paesi asiatici è sempre più diffusa; parliamo della tendenza all'isolamento, all'alienazione solitaria che caratterizza la vita di molti giovani, in Corea del Sud è stato anche coniato un vocabolo, honjok, che identifica persone che in maniera volontaria decidono di intraprendere tutta una serie di attività in totale solitudine. Se questa definizione e questa tendenza possono indicare anche scelte consapevoli e ponderate fatte da giovani che rifuggono l'imposizione di una vita da condursi per forza di cose in termini di socialità e confronto con l'altro, nel film di Hong Sun-eun l'isolamento pressoché totale della protagonista, fatto salvo l'obbligo di interazione sociale (ridotto ai minimi termini) a cui è obbligata per lavoro, trova le sue radici in una società produttiva, del capitale, che non è basata sicuramente sul contatto umano ma su fredde statistiche, impersonali performance, contatti svuotati da ogni logica solidale e di soddisfazione personale. Quale che sia il motivo reale e più profondo di quello che assume tutte le caratteristiche di un disagio, lo spettatore è chiamato dalla regista a seguirne lo sviluppo tramite l'esistenza della giovane Jina, una brava Gong Seung-yeon che approda al lungometraggio dopo una discreta serie di ruoli per la televisione.

Jina (Gong Seung-yeon) lavora in un call center dove si occupa del servizio clienti di un'azienda che gestisce carte di credito. Jina è la miglior dipendente del call center: professionale, distaccata, riesce a gestire ogni lamentela dei clienti con cortesia e lucidità senza mai farsi toccare dai problemi degli stessi, nemmeno da quelli più strambi, come l'utente abituale che con ciclicità chiama per sapere se in occasione del suo imminente viaggio nel tempo la carta, nel passato o nel futuro, continuerà a funzionare. Finito il suo turno Jina stacca e va a pranzo da sola, torna a casa da sola, non vede nessuno, non dà confidenza a nessuno e cerca di evitare ogni tipo di interazione con gli altri, siano questi uomini o donne non fa alcuna differenza. A pranzo Jina guarda degli show sul suo telefonino, stessa cosa quando è sul bus, una volta a casa invece c'è la televisione. Ogni giorno la stessa routine. La sera, quando torna a casa da lavoro, le capita di incontrare il suo vicino che immancabilmente le rivolge la parola, Jina per lo più lo ignora. A sconquassare la sua abitudine quotidiana arrivano tre eventi di un certo peso: la morte della madre malata, che Jina accoglie con una certa freddezza, con conseguente notizia di un'esclusione totale dall'eredità della genitrice, la morte del vicino di casa, trovato nel suo appartamento schiacciato da una montagna di dvd e riviste pornografiche e l'arrivo di una nuova impiegata, la giovane e ciarliera Sujin (Jeong Da-eun) che l'azienda le impone di istruire causando a Jina un forte disagio emotivo.

Per raccontarci la storia di Jina la regista Hong Sun-eung sceglie molte inquadrature ravvicinate, frontali sul volto della ragazza quando è a lavoro, a stretto contatto in altre occasioni, una scelta di stile che sottolinea lo stato di solitudine della protagonista inserita in un ambiente di lavoro impersonale capace di gratificare le persone solo in base a freddi dati. Più in generale il discorso si amplia a quella che è proprio una tendenza dei giovani in Corea del Sud, un isolamento anaffettivo, privo di emozioni che qui viene a poco a poco scosso da tre eventi che aprono delle possibilità di scalfittura nella corazza della protagonista. Inspiegabilmente delle tre non sembra essere la morte della madre quella più significativa se non di riflesso nel ritrovato, e forzato, rapporto con il padre (Park Jeong-hak) che Jina spia tramite una telecamera nascosta in casa. Una scossa arriva invece dalla presa di coscienza della protagonista di non essersi accorta della morte e della sparizione del suo vicino di casa, squarci grotteschi si aprono nella narrazione della regista, la morte surreale del giovane ragazzo ne è un esempio, altro segnale di disagio e solitudine seppur caricato fino all'assurdo. Poi c'è l'esuberanza di Sujin, una ragazza un po' invadente ma genuina e sincera che verrà trattata in maniera molto fredda da Jina creando poi nella stessa una sensazione di senso di colpa nel momento in cui la ragazza prenderà un'altra strada. Si chiude con una nota di speranza, Hong Sun-eung mostra come anche nella solitudine si possa penetrare, con un lavoro su se stessi, con delle prese di coscienza e anche con aiuti esterni, nel film il nuovo vicino di casa e il suo approccio con la morte del precedente inquilino. Ottimo esordio che senza forzature affronta un importante argomento di attualità, in maniera piana ma con la capacità di regalare alcuni momenti di profonda riflessione e commozione, troviamo, con enorme piacere, in Hong Sun-eung un'altra regista asiatica da tenere d'occhio con vivo interesse.

mercoledì 5 ottobre 2022

SMALL CRIMES

(di Evan Katz, 2017)

Fate finta di avere una vecchia auto, un macinino che inizia a darvi diversi problemi: si inceppa, il motore sembra che non giri più fluidamente, le magagne spuntano un po' da ogni parte. Però voi volete ancora farla andare, immaginate ora di essere in cima a una discesa, magari una di quelle viste in tanti film ambientati a San Francisco, siete li in cima pronti a lanciarvi di sotto e a percorrere questa strada che fa ormai parte dell'immaginario collettivo ma il vostro macinino si ferma. Il motore si inceppa, non c'è più benzina, ci sono una serie di cose che non funzionano, ma voi comunque volete farla andare lo stesso. Allora niente freno a mano, niente conducente (ovviamente non siete così pazzi), nessun controllo, nessun carburante, niente di niente, date giusto una spinta su quella discesa dritta e l'auto inizia ad andare da sola, se incontra qualche piccolo ostacolo lo travolge, e il mezzo avanza così, per forza di inerzia, per gravità, anche se non c'è in realtà nulla e nessuno a guidarla. Alla fine arriverà al mare, ci cadrà dentro e vaffanculo, macinino finito e presto dimenticato. Small crimes mi ricorda un poco quella macchina, lanciata per una via in discesa data dall'appartenenza a un genere forte, quello crime (o noir) dove bene o male si vuole arrivare alla fine, senza conducente, ruolo che avrebbe dovuto essere di Evan Katz che però dà l'impressione di non sapere bene da che parte andare, e con una serie di problemi che non gli permettono di girare al meglio. Metaforica caduta in mare e spettatori pronti a dimenticarsi di questo Small crimes nel giro di qualche giorno. Facciamo anche di qualche ora (infatti sto faticando a scrivere il pezzo perché già non ricordo più cosa ho visto).

Joe Denton (Nikolaj Coster-Waldau, già Jaimie Lannister de Il trono di spade) è un ex poliziotto corrotto che ha scontato sei anni di galera e si appresta a tornare in società. Joe sembra davvero ben intenzionato a rigar dritto, a fare ammenda nei confronti delle persone che ha ferito in passato, a riallacciare i rapporti con la sua famiglia, moglie e figlie, a rimanere sobrio, lontano dalle droghe e magari affidarsi anche un poco alla fede. Si, certo, come no. Forse nella testa di Joe tutta quella roba c'è davvero, peccato che la prima sera dopo il ritorno in libertà sia già ubriaco marcio, riesca a farsi adescare da una ragazzina che invece di portarselo a letto lo consegna a due tizi che vogliono fargliela pagare per le sue vecchie malefatte, sarà però Joe ad avere la meglio. Finito nei casini viene ricattato da un altro poliziotto corrotto, Dan Pleasant (Gary Colt) che con il miraggio di annullare l'ordine restrittivo che il nostro ha nei confronti delle figlie impone a Joe di togliere di mezzo il vecchio boss locale, Manny Vassey (Shawn Lawrence), ormai in punto di morte ma determinato a cantare su un sacco di vecchi misfatti per pulirsi la coscienza davanti a Dio. Per portare a termine il compito Joe dovrà superare l'ostacolo Junior (Pat Healy), il feroce figlio di Manny, per far questo tenterà di sfruttare la conoscenza dell'infermiera del vecchio, Charlotte (Molly Parker), ben disposta nei confronti del Nostro.

Si è parlato per questo noir di provincia di dark humor; forse un paio di sorrisi scappano anche, qualche faccia stralunata di Nikolaj Coster-Waldau, che non è proprio un attore da strapparsi le vesti, coglie pure nel segno, l'ambientazione da piccolo centro poteva essere interessante (e non lo è) ma nel complesso Small crimes non presenta segni distintivi che ne giustifichino la visione. Il film nel suo complesso non è nemmeno così terribile, si arriva alla fine senza nessun problema, certo, con l'impressione ben chiara che si sarebbe potuta utilizzare meglio quest'ora e mezza. Mancano completamente gli spunti, gli approfondimenti del contesto, c'è poca chiarezza in quel che ha fatto nel passato il protagonista, sappiamo che ha menomato qualcuno, ma per il resto tutto rimane opaco pur senza creare quell'ambiguità necessaria per instillare interesse nello spettatore. L'impressione è proprio che Katz abbia spinto la macchina e l'abbia guardata correre lungo la discesa rimanendo comodamente in cima a godersi (?) lo spettacolo, il tutto aggravato dal fatto che il regista contribuisce anche alla scarsissima sceneggiatura. Alla fine il film si schianta perdendosi nel mare di proposte mediocri che Netflix ci propina con buona continuità: fotografia piatta, recitazione anonima, storia risibile, seppur passabile per una serata sonnolenta di prodotti come questo non si sente davvero il bisogno.

martedì 4 ottobre 2022

L'UOMO DAI MILLE VOLTI

(El hombre de las mil caras di Alberto Rodriguez, 2016)

L'uomo dai mille volti di Alberto Rodriguez è un film che rimane in bilico tra thriller, film di spionaggio ed episodio biografico romanzato senza però riuscire fino in fondo ad aderire a nessuno dei tre filoni, di certo non ai primi due. Modellato sul libro Paesa, el espía de las mil caras di Manuel Cerdán, L'uomo dai mille volti racconta un episodio di cronaca e i suoi risvolti che hanno coinvolto Luis Roldán, politico di spicco e direttore della Guardia Civil spagnola negli anni 90, accusato di appropriazione indebita e altri capi d'accusa e sparito per diverso tempo con un'ingente cifra sottratta al denaro pubblico. Rodriguez ricostruisce l'intera vicenda, con un preambolo legato alla figura di Francisco Paesa, una sorta di spia e faccendiere già sul libro paga del governo spagnolo, figura che in realtà si rivela essere il vero protagonista della pellicola (come mi piace chiamare ancora i film "pellicola"), e con una coda chiarificatrice facilmente intuibile in anticipo dallo spettatore. Ma in fondo non è il colpo di scena finale che cerca il regista quanto la (ri)costruzione di una vicenda intricata lungo la quale si tenta, anche con discreti risultati, di avvincere lo spettatore facendo uso di una narrazione sì ingarbugliata (non troppo in realtà) ma senza puntare sulla spettacolarizzazione degli eventi lasciando fuori dalla porta il lato più action che solitamente il genere richiama.

Francisco Paesa (Eduard Fernández) è un ex agente segreto che è stato al servizio del governo spagnolo, un uomo capace di far circolare armi illegalmente, un astuto conoscitore della finanza e della gestione dei conti off shore, un uomo con i giusti contatti da un lato e dall'altro della legalità. In una delle sue più celebri operazioni Paesa riesce a far catturare dal governo un nutrito gruppo di militanti dell'ETA, falange armata degli indipendisti baschi; proprio questa "vittoria" di Paesa porterà l'uomo ad allontanarsi dal governo spagnolo, dal quale si sentirà tradito e dal quale verrà costretto a un periodo di esilio forzato. Tornato in patria dopo anni, dopo aver perso beni, credibilità e anche l'amore della moglie Gloria (Mireia Portas), Paesa accetta di lavorare per il fuggitivo Luis Roldán (Carlos Santos) e per sua moglie Nieves (Marta Etura); l'uomo è un politico di spicco accusato di aver sottratto beni allo Stato ed è proprio nell'ottica di giocarsi una rivincita con lo Stato che Paesa accetta di far sparire i due coniugi, i loro soldi e un paio di ville faraoniche di loro proprietà, per far questo si avvarrà dell'aiuto dell'amico Jesús Camoes (José Coronado), pilota di linea di grande esperienza, e di una serie di collaboratori, non tutti professionisti di prim'ordine a dire il vero. Il variopinto gruppo riuscirà a tenere in scacco il governo spagnolo per molto tempo.

Film elegante e ben diretto che si gioca tutto sulla costruzione dell'inganno, sull'intrigo, mettendo in scena una storia che ha molte caratteristiche del genere legato alle spy stories ma che non si avvale del comparto action. È proprio quest'ultima scelta che il film in parte paga, troppo poco dinamico seppur sempre interessante e anche avvincente in alcuni passaggi, un certo qual dinamismo in più avrebbe giovato, essendo basato su una storia vera e in parte nota non si poteva però pigiare troppo sul pedale dell'acceleratore andando a inventare cose che non ci sono state. Film d'intelligenza quindi, basato su mosse e contromosse, inganni, mistificazioni, ben recitato e con un comparto tecnico che assolve bene al suo compito. Se vogliamo considerarlo un thriller, come potrebbe essere, il film pecca dal punto di vista della suspense in realtà quasi mai presente. Rimane un buon gioco di incastri e la narrazione di un episodio probabilmente poco noto fuori dai confini spagnoli e che quindi ha almeno il pregio di farci conoscere la storia grazie a un film che a conti fatti si rivela comunque godibile e mai noioso. Sufficienza piena quindi ma rimanendo nel genere si trova sicuramente qualcosa di più appassionante in giro, però, se queste dinamiche piacciono, una visione a L'uomo dai mille volti la si può anche concedere, non sarà un Jason Bourne ma per impegnare una serata di relax questa potrebbe anche rivelarsi una scelta piacevole.

domenica 2 ottobre 2022

THIS IS ENGLAND

(di Shane Meadows, 2006)

Nella seconda metà dello scorso secolo la Gran Bretagna vide un proliferare di sottoculture variegate, alcune delle quali con il tempo virarono verso estremismi e accezioni negative. In principio però non sempre questi "movimenti" portavano in sé atteggiamenti da condannare. L'esempio che a noi interessa, e che è al centro del film di Shane Meadows, è quello della subcultura skinhead, che letteralmente è l'equivalente di un semplice "teste rasate", una corrente che nasce già nei tardi 60 con connotazioni meramente di costume, legate all'abbigliamento, a una (non) capigliatura in contrasto a quelle hippie, a una predisposizione per un certo gusto musicale e via discorrendo... l'unica vera caratteristica determinante nello sviluppo del movimento e nel cementarsi di uno spirito forte di gruppo all'interno dello stesso fu l'appartenenza dei suoi componenti al proletariato operaio inglese e a una classe sociale non privilegiata, spesso sfruttata e poi abbandonata, caratteristica che solo più avanti, in epoca tatcheriana, già nei "favolosi" anni Ottanta, porterà il movimento skinhead a una deriva violenta e razzista, causata anche dall'avvicinarsi allo stesso di formazioni politiche di estrema destra, fatto per lo più nuovo in quanto nei decenni precedenti quello skinhead rimase un movimento disinteressato alla politica. Il regista Shane Meadows, classe '72, con This is England ci trasporta in quegli anni, i primi Ottanta, all'epoca della guerra delle Falkland tra Gran Bretagna e Argentina, in un contesto molto simile a quello da lui stesso vissuto durante la sua giovinezza.

1983, un piccolo paesino dell'Inghilterra. Shaun (Thomas Turgoose) è un ragazzino di dodici anni non troppo popolare a scuola, viene spesso preso in giro dai suoi compagni e vessato dai bulli, spesso a causa del suo abbigliamento poco "cool". Shaun ha perso il padre nella guerra delle Falkland, la condizione familiare non permette grandi spese, mamma Cynthia (Jo Hartley) vuole molto bene al ragazzo e fa quello che può. In questo contesto difficile Shaun trova una svolta alla sua vita nell'incontro con il gruppetto di Woody (Joseph Gilgun), questi è una sorta di capo di un gruppo di skinhead tra i quali ci sono il giamaicano Milky (Andrew Shim) dalla pelle scura, la dolce Lol (Vicky McClure) ragazza di Woody, il grasso e impacciato Gadget (Andrew Ellis), Pukey (Jack O'Connell) e Smell (Rosamunde Henson), una ragazza più grande di Shaun che con l'adolescente instaurerà un rapporto di simpatia reciproca. Il gruppo è molto aperto, qui la cultura skinhead si mischia ad altre correnti presenti nella società inglese in maniera libera e senza pregiudizi, i ragazzi si affezioneranno presto al loro membro più giovane e insieme faranno feste, uscite, cambi di look (facendo arrabbiare un poco mamma Cynthia) e qualche scorribanda innocente a far danno in giro, Shaun sembra aver trovato un gruppo di bravi ragazzi, più grandi di lui, che lo fanno finalmente sentire ben accetto e parte di una piccola famiglia. I problemi iniziano quando torna a farsi vedere in giro Combo (Stephen Graham), vecchio amico di Woody appena uscito di galera. In carcere questi ha preso contatto con gruppi di estrema destra e si è politicizzato iniziando a tenere atteggiamenti razzisti e intolleranti, sfoggiando un'indole aggressiva e nazionalista e sfogando le sue frustrazioni sugli immigrati, addossando a loro lo sfacelo della società inglese dell'epoca. Shaun subisce il fascino di questo ambiguo personaggio.

C'è tantissimo contesto nel bel film di Shane Meadows: "Maggie is a twat" si legge sui muri delle case, chiaro insulto alla figura di una Tatcher non proprio propensa a preoccuparsi della classe proletaria, primo ministro poco amato anche dalla propria Regina; causa l'impoverimento economico e culturale le classi più deboli diventano facile preda, come spesso accade, di estremismi e nazionalismi, in un periodo nel quale la Gran Bretagna sta anche portando avanti una (inutile?) guerra con l'Argentina per il possesso delle Falkland, guerra che seppur breve non risparmiò tragedie e che provocò circa un migliaio di morti. In questo scenario si dipana la storia del piccolo protagonista, un ottimo Thomas Turgoose all'epoca quattordicenne. È un film diretto This is England, che mette in evidenza il buono e il brutto di una classe sociale diventata marginale con la rarefazione della manodopera, dell'industria, del lavoro nelle miniere, l'escalation verso la violenza e l'intolleranza di Combo (uno Stephen Graham grandissimo), senza voler giustificare un personaggio del genere, va inquadrata nel fallimento di un'intera società che sempre più si rivela profondamente ingiusta e con un unico orizzonte in mente, quello economico, riservato a pochi e che non ha mai come obiettivo la felicità dei propri cittadini ma un benessere rivolto decennio dopo decennio a una base sempre più stretta (almeno su base europea). Si muovono nel mezzo una manciata di ottimi personaggi, il merito maggiore di Meadows è proprio quello di condurre alla perfezione un gruppo di attori tra i quali non compaiono grandi star e che contribuisce a riportare con fedeltà l'ambiente dell'Inghilterra dei primi anni 80. Una distribuzione all'epoca miope ritarda l'uscita in Italia di ben cinque anni, nel frattempo Meadows aveva già trasformato il film in una serie con This is England '86 (2010), This is England '88 (2011) e This is England '90 (2015).

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