venerdì 31 agosto 2018

SONG 'E NAPULE

(dei Manetti Bros, 2013)

Ma che ce ne fotte di vedere film italiani come Perfetti sconosciuti quando possiamo avere roba come Song'e Napule? Il mio amore per L'Ispettore Coliandro, per Giampaolo Morelli e per l'approccio dal basso al Cinema da parte dei Manetti è ormai risaputo; potevo non adorare un film come Song'e Napule che riunisce tante delle caratteristiche già presenti nella serie di Coliandro trasportandole da Bologna a Napoli, città che per motivi di sangue mi sta a cuore in maniera particolare? Ovviamente non potevo e infatti il film l'ho adorato, una delle commedie italiane che più mi ha divertito negli ultimi anni (e sì, ho visto pure un paio di quelle di Zalone che in verità mi hanno detto davvero poco o niente).

Il lato più comico, scanzonato e cazzaro dei Manetti, che non sempre adoperano questo registro, viene qui esaltato da una miscela di elementi che evidentemente sta molto a cuore ai due fratelli romani. Tanto per iniziare è presente anche qui l'intreccio criminale che passa però in secondo piano rispetto alla forza dirompente della commedia, vitalizzata in maniera impeccabile dal già noto Morelli e dall'altrettanto bravo Alessandro Roja, vero protagonista del film. La vicenda è ben calata nell'atmosfera partenopea grazie a un cast molto indovinato anche se non completamente proveniente da Napoli (Roja è infatti romano, Sassanelli pugliese) e si rifà in maniera evidente al poliziottesco italiano degli anni 70 come dimostra anche la bella sequenza con tanto di inseguimento con una vecchia Giulia, auto simbolo della Polizia di quel decennio. Poi la musica... il connubio tra il neomelodico napoletano qui rappresentato dal personaggio di Lollo Love (Giampaolo Morelli) e la passione dei Manetti per la musica da blaxploitation dei Seventies, influenze stridenti capaci di creare una mistura irresistibilmente accattivante e comica.


A Napoli è difficile trovare lavoro, lo sanno tutti, anche un ragazzo irreprensibile, onesto e ligio al dovere si vede prima o poi costretto ad accettare il grande male della raccomandazione. Paco Stillo (Alessandro Roja), talentuoso musicista laureato al Conservatorio, dopo un colloquio col questore Vitali (un grande Carlo Buccirosso) accetta di entrare in Polizia, lavoro di routine lontano dall'azione, Paco nemmeno sa tenere in mano una pistola. Quando al Commissario Cammarota (un bastardissimo Sassanelli) arriva la soffiata della presenza di un noto latitante della Camorra al matrimonio della figlia di un altro camorrista, scatta la trappola. L'idea è quella di infiltrare qualcuno al matrimonio, magari inserendo un elemento nella band di Lollo Love (Giampaolo Morelli), cantante neomelodico sulla cresta dell'onda adorato dalla futura sposa e già ingaggiato per il matrimonio. Si ma chi infiltrare? Servirebbe qualcuno in grado di suonare con la band, un giovane capace di entrare nelle grazie del cantante... Paco, chi altri? Solo un paio sono gli intoppi, il più evidente è che Paco non sia proprio sto gran poliziotto, di minor importanza il fatto che Paco sia un musicista vero e consideri tutto il fenomeno dei neomelodici roba da decerebrati mentali. Una vera tortura per il giovane se non fosse che Lollo Love ha una sorella (Serena Rossi) che non è niente male...


La regia dei Manetti è allo stesso tempo rodata ed esperta ma anche povera, i due fratelli non mancano di ricorrere all'effetto speciale artigianale, a quel ralenty artefatto che ci riporta alla serie b, a quel Cinema lontano dalle grandi produzioni che è ormai una loro cifra stilistica e che probabilmente avrebbero le capacità economiche per abbandonare. Ma questo è il loro campo da gioco nel quale si trovano a loro agio e all'interno del quale sono capaci di realizzare prodotti dagli ottimi esiti, perché abbandonarlo? È un Cinema popolare che mischia la commedia all'azione ma che non dimentica i sentimenti nobili: l'amore, l'amicizia, l'onestà, riabilitando l'uomo integro, coraggioso e anche un fenomeno locale di portata enorme, quello della musica neomelodica, affrancandolo dal binomio con la camorra al quale spesso viene associato.

Su Morelli non aggiungo nulla, ormai penso veramente che l'attore napoletano abbia dentro di sé un po' di quello che vediamo dei suoi personaggi sullo schermo, e non ci sarebbe niente di male, anzi, voi non paghereste per avere un amico così? Simpaticissimo, un po' coglione ma col cuore sempre al posto giusto? Anche Serena Rossi ormai la conosciamo, uno di quei volti che mette buonumore solo a vederlo, un sorriso irresistibile e poi un ottimo Roja che non conoscevo e diverse comparsate di attori scafati come Buccirosso, Peppe Servillo o Antonio Pennarella purtroppo da pochissimo scomparso.

Il mix di elementi ha portato il film a un buon successo e i Manetti a guadagnare una popolarità un po' più ampia, un successo che sicuramente meritano e che ha portato alla produzione del successivo Ammore e malavita, altro film apprezzato da pubblico e critica. È un Cinema fatto più col cuore, con la pancia quello dei Manetti e io spero vivamente che continuino sempre così, nel frattempo tanti saluti cuoricini...

giovedì 30 agosto 2018

BULLETPROOF MAN

(Kill the irishman di Jonathan Hensleigh, 2011)

Prodotto passato perlopiù inosservato questo Bulletproof man (che senso ha cambiare un titolo originale per lasciarlo in inglese?), un film che rientra con pieno diritto nel genere del gangster movie pur non avendone il tono epico al quale ci ha abituati il miglior Cinema di Scorsese, vero maestro del filone. Kill the irishman - userò il titolo originale che mi piace di più - si rivela un film sicuramente minore che può però contare su una sua dignità capace di renderlo un tassello piacevole e da non sottovalutare per gli amanti del genere. Per la trasposizione del racconto tratto dal libro biografico scritto da Rick Porrello ci si affida al regista statunitense Jonathan Hensleigh, poca esperienza dietro la macchina da presa ma parecchia nella scrittura; oltre che di questo film Heinsleigh è stato infatti in passato sceneggiatore di diversi successi commerciali, titoli come Jumanji, Die Hard, Fuori in 60 secondi, The Rock, Armageddon e altre cose ancora. Con Kill the irishman Heinsleigh passa a un tono un poco più serio rispetto ai suoi scritti precedenti, affrontando una storia vera che di faceto e divertente ha davvero ben poco.

L'ambientazione è inusuale, siamo infatti nella poco battuta Cleveland degli anni 70, contea di Cuyahoga, Stato dell'Ohio. Kill the irishman racconta la storia di Danny Greene (Ray Stevenson), americano d'origini irlandesi, prima impiegato al porto di Cleveland, poi esponente del sindacato dei portuali fino a diventarne il membro più eminente. L'organizzazione del lavoro, i tentativi di cambiare le cose e ottenere migliori condizioni per i colleghi porteranno Greene ad avere i primi contatti con la mafia di Cleveland, da lì a entrare nel mondo del malaffare con conseguente ascesa nel panorama criminale della città il passo sarà davvero breve. Ma come è noto, in quegli ambienti i nemici che è molto facile accumulare, saranno inevitabilmente di quelli tosti, di quelli disposti a tutto pur di toglierti di mezzo, e occhio a non sottovalutare nemmeno gli amici. Irlandesi, mafia italiana, una spruzzata d'ungheresi ebrei e il piatto caldo, molto caldo, è servito. La vicenda di Danny Greene diventa presto una vera e propria faida di sangue, la Cleveland di quegli anni ne sarà stravolta, nel solo 1976 saranno poco meno di quaranta le bombe esplose in città a causa dei contrasti italoirlandesi, e parliamo di una città che ad oggi conta ancora meno di 400.000 abitanti, non certo una New York o una L.A.


Nonostante i diversi lati positivi del film, Kill the irishman buca al botteghino incassando decisamente meno di quel che è costato, tutto sommato un peccato perché il film, seppur privo d'originalità, è bello solido, presenta fotografia e scenografie che ricostruiscono in maniera convincente l'epoca dei 70, mette sulla scena un protagonista che può contare su una scelta di cast davvero indovinata, Ray Stevenson infatti è irlandese e presenta il giusto physique du rôle, una presenza massiccia che incute timore e rispetto e una buona somiglianza con il vero Danny Greene. Stevenson a parte, anche il resto del cast è di tutto rispetto, anzi, probabilmente il protagonista principale è interpretato dall'attore di minor caratura, insieme a lui a tratteggiare il ritratto di una Cleveland spietata ci sono nomi come Vincent D'Onofrio, Christopher Walken, Val Kilmer, Fionnula Flanagan, Vinnie Jones e Paul Sorvino, mica gli ultimi arrivati.

Se si vuole riscontrare un difetto al film è quello di proporre allo spettatore più o meno quello che ci si può aspettare da una storia di ascesa e caduta criminale senza presentare troppi scossoni o eventi imprevisti con la piccola aggravante di aver sempre l'impressione di aver già visto questa storia, e di averla vista narrata dai grandi maestri del Cinema. Nulla di male, non di soli capolavori si può vivere, è un po' come ascoltare un bel disco rock suonato da una band di assoluto valore ma allo stesso tempo derivativa, questo non vuol dire che ci si debba annoiare ascoltandola. Kill the irishman è così, bello, derivativo e poco originale con diverse frecce da scoccare al proprio arco. A voi la scelta.

martedì 28 agosto 2018

PERFETTI SCONOSCIUTI

(di Paolo Genovese, 2016)

Che dite, l'abbiamo un pochino sopravvalutato questo film? Vogliamo davvero gridare al miracolo per un film del genere? Sia chiaro, guardando Perfetti sconosciuti io mi sono divertito, il film tutto sommato mi è piaciuto; un concetto intrigante che affonda nella realtà di oggi seppur con diverse forzature (voglio sperare che quelli seduti attorno a quel tavolo non siano davvero un campione troppo significativo di noi italiani), attori in parte, una buona scrittura, niente da dire... quello che mi provoca sempre un po' di prurito sono le acclamazioni esagerate quando ho la percezione che queste non siano troppo ponderate. Insomma, forse sono io, non lo nego, magari sono davvero un rompicoglioni, mica dico di no, può pure essere. Perfetti sconosciuti mi è sembrato un buon film, tutto qua, a tratti divertente, con alcuni buoni spunti su cui poter riflettere ma costruito spesso su mascherine preconcette ormai abusate e, se posso permettermi, spero anche sorpassate. La piazzata di Leo che scopre che il suo (presunto) miglior amico è gay e allora sbrocca sparando quelle stronzate inaudibili come "abbiamo fatto la doccia insieme"... ma che, davvero? Ancora? O il tono magari voleva essere ironico? Perché non sembrava...

Forse sono di nuovo io, è che ho una vita noiosa e sono solo un po' invidioso: non ho un'amante da nascondere, non ho un'entourage di donne o di ex che mi gira intorno (potrei quasi usare questo commento al film come appello...), non ho scoperto di essere gay, non sto pianificando all'insaputa di mia moglie di rinchiudere mia suocera in un ospizio, non ho amiche/colleghe che mi inviano le loro foto in déshabillé (altro appello, fatevi sotto please), non sento le mie ex per dar loro consigli su come comportarsi con i loro attuali compagni, non esco di casa senza mutande (prima o poi so che mi capiterà, la mia memoria sta perdendo colpi, oggi per esempio sono uscito senza cellulare... appunto, inevitabilmente arriverò anche alle mutande), soprattutto sono convinto che nel mio stretto giro di amici non ci siano intrallazzi di sorta per cui scandalizzarsi più di tanto... per carità tutti hanno i loro segreti, chi più chi meno, magari anche importanti, però... insomma, bel gruppo di amici che ha scelto Genovese per mettere in scena questo film.


Prendendo per buono l'assunto che per creare una storia intrigante su queste basi un po' la mano la si debba calcare, detto questo il film risulta godibile: certo, in una sola serata viene su uno di quei mucchi di merda che non ti dico, però ok, prendiamo pure tutto per buono. Perfetti sconosciuti ha un bel ritmo, i dialoghi e la sceneggiatura sono a prova di bomba, le situazioni intriganti. Gli attori, ognuno in rappresentanza di un tipo diverso, sono affiatati e girano tutti più che bene. Più che le riflessioni sui vari comportamenti umani, lo spunto più interessante è il concetto della perdita totale e volontaria della nostra privacy. La nostra vita sta davvero finendo troppo spesso in luoghi in cui non dovrebbe stare, ai famosi device stiamo dando troppa importanza, troppa confidenza e stiamo percorrendo una pericolosa china senza ritorno, sarebbe auspicabile un passo indietro verso il nostro privato. Tema dibattuto in più sedi che qui trova una sua riuscita collocazione; altro punto di interesse è ciò che non diciamo, il personale che ognuno dovrebbe aver diritto di poter coltivare, non sempre si ha voglia di parlare di tutto, siamo ancora capaci di tenerci qualcosa per noi stessi? O almeno di avere qualche compartimento stagno?

In fin dei conti se tralasciamo le critiche al film largamente esagerate in positivo e la tendenza del film stesso a calare un po' troppo la mano, Perfetti sconosciuti si conferma un buon film che tocca temi interessanti e che ha delle attinenze con la realtà magari un po forzate ma sicuramente nelle idee di base più che credibili. Almeno una visione è giusto concedergliela.

PS: non ho accennato alla trama, se non siete stati su Marte negli ultimi anni credo che non sia necessario, se così fosse guardatevi il film, ve lo godrete sicuramente di più.

venerdì 24 agosto 2018

CHE LA FESTA COMINCI

(di Niccolò Ammaniti, 2009)

Niccolò Ammaniti è stato più volte cantore di un genere che si potrebbe definire "apocalittico" pur non essendogli mai capitato di narrare l'apocalisse definitiva vera e propria. Nelle corde dello scrittore c'è quella meravigliosa tendenza, che di tanto in tanto affiora nei suoi racconti, a far peggiorare e precipitare le situazioni in maniera surreale, grottesca e progressiva tanto da riuscire a creare una sorta di effetto apocalisse; lo scrittore ha la capacità di portare le vicende dei vari protagonisti delle sue storie verso un'orizzonte degli eventi destinato a una grandissima esplosione (o implosione se preferite) per mezzo di successive piccole catastrofi incombenti. Nonostante possa affermare senza dubbi di aver apprezzato ogni cosa che mi sia capitato di leggere dello scrittore laziale, ovviamente con diversi gradi di soddisfazione, questo è senza dubbio il lato di Ammaniti che preferisco, il lato che fortunatamente emerge con maggior prepotenza tra le pagine di Che la festa cominci.

Questa attitudine di Ammaniti non è però la sola fonte di interesse di un libro arguto e divertente, la capacità dello scrittore di mettere alla berlina i vuoti vizi ma soprattutto una scala di valori completamente sballata di un'umanità ormai senza direzione alcuna, facendolo tra l'altro affondando la critica in una sana ironia e in una buona dose di risate, rende Che la festa cominci allo stesso tempo stimolante e rigenerante. La bella società, quella con i soldi che vive sulle spalle dei piccoli sogni delle persone "normali" viene ritratta in maniera impietosa in tutta la sua idiozia, ipocrisia e vacuità in un crescendo quasi musicale.

Fabrizio Ciba è lo scrittore italiano più in voga del momento, il tipo d'uomo che tenta di tenere viva quell'aria da scrittore di sinistra impegnato ma che alla fine è interessato a poco altro se non alla sua fama, alla sua carriera e alle donne, per dirla in maniera elegante. All'attivo ha un paio di libri, almeno uno di enorme successo e un contratto con una casa editrice che sta già pensando di scaricarlo a favore del nuovo fenomeno in ascesa nel panorama della narrativa italiana. Sasà Chiatti è un cafone che si è arricchito con l'industria del cemento, un palazzinaro che obnubilato dalle sue manie di grandezza e prestigio si è comprato tutta Villa Ada, uno dei parchi romani più antichi e noti della città eterna. Larita è l'ex leader di una band death metal in odore di satanismo che folgorata sulla via di Damasco si è convertita al cattolicesimo ripulendo la sua immagine e diventando l'idolo del grande pubblico. Mantos, all'anagrafe Saverio Moneta, è un frustrato dalla vita a capo di una setta satanica, le Belve di Abaddon, composta da altri tre sfigati come lui in cerca di riscatto, sposato con Serena, una bella donna dominante e castratrice a cui piace fare un po' la zoccola con gli estranei ma che al marito a malapena la fa annusare. Questi e altri personaggi incroceranno le loro esistenze in occasione della festa del secolo, quella che Sasà Chiatti ha organizzato per la crema di Roma a Villa Ada, un festone esagerato dove sono previste grandi abbuffate, droga e donne, la presenza di tutte le personalità che contano, una caccia alla tigre, una alla volpe, battute in groppa agli elefanti in uno scenario trasformato in uno zoo selvaggio all'aria aperta. Inutile dire come l'incontro tra una pletora immane di menti bacate e disturbate provocherà una serie di eventi destinati a trasformare il party del secolo in un vero e proprio inferno sulla Terra.

Ammaniti padroneggia i tempi e la scansione del racconto con la semplicità del grande maestro, calibra la narrazione in modo da non concedere momenti di stanca riuscendo a stimolare il lettore a procedere spedito nella lettura capitolo dopo capitolo. Il divertimento, anche amarognolo a volte, è assicurato. Lo scrittore sbava in alcune trovate che forse eccedono il limite consentito dall'inconcepibile, ma anche questo resta un difetto davvero da poco nell'economia di un romanzo che coglie nel centro, un ottimo esempio di racconto apocalittico, secondo solo al sempre suo L'ultimo capodanno dell'umanità che compare nella raccolta Fango del 1996.

martedì 21 agosto 2018

BREAKFAST ON PLUTO

(di Neil Jordan, 2005)

Con un po' di leggerezza tutto è possibile, anche ritrovarsi a fare colazione su Plutone, proprio come recita la canzone di Don Partridge dal titolo omonimo a quello del film. Ed è con incredibile leggerezza e qualche secchiata d'irriverenza che Neil Jordan fa attraversare a Patrick "Paddy" "Kitten" Braden (Cillian Murphy) il corso della sua non semplice esistenza: nato irlandese, cresciuto negli anni dei troubles, i tumulti dovuti al contrasto tra indipendentisti irlandesi ed esercito inglese, portatore orgoglioso della condizione di omosessuale in un paese cattolico, in anni dove ancora molte cose erano fonte di scandalo; ciò nonostante "Gattina" affronta la vita con una positività che per altri non sarebbe nemmeno possibile immaginare, continuando a chiedersi giorno dopo giorno perché tutto debba sempre essere così serio.

Fin dagli inizi nulla è facile per Patrick Braden, figlio del peccato tra un prete cattolico (Liam Neeson) e la sua giovane e bella governante (Eily Bergin), il bambino viene abbandonato dalla stessa madre davanti alla chiesa del padre poco prima di fuggire verso Londra. Il piccolo verrà affidato dal prete a una famiglia adottiva che però mostrerà segni di intolleranza e sconcerto ai primi segnali di confusione sessuale da parte del bambino. In realtà confuso Paddy non lo è mai stato, e nemmeno tenta di nascondere la sua natura arrivando a tenere comportamenti provocatori e irriverenti, difficili da accettare per la famiglia e la scuola cattolica che il ragazzo frequenta. Nonostante le avversità Patrick attraversa la vita con il sorriso sulle labbra, anche i colpi più duri (e ce ne saranno) non riusciranno a scalfire l'indole positiva di un essere sincero alla ricerca del suo posto nel mondo.


Fin dalle prime sequenze la camera di Neil Jordan vola, si muove senza peso, quasi a sottolineare la leggerezza con cui il regista decide di narrare le vicende tratte dal libro di Patrick McCabe, una scelta stilistica e di contenuto che lascerà quindi sullo sfondo le violenze di quegli anni e le conseguenze più dure delle azioni dell'IRA, concentrandosi sulla storia di Patrick, sui suoi amori (uno in particolare), sui suoi amici, e sul viaggio che la nostra Gattina intraprenderà alla ricerca di una madre persa ormai da troppo tempo. Anche la scansione della vicenda è frammentata in tanti brevi capitoli, ognuno con un suo titolo e una sua musica d'apertura, che rendono più lieve la visione di un film che supera abbondantemente le due ore di durata. I toni sono alleggeriti da due pettirossi che sottolineano in maniera surreale alcuni passaggi della vicenda, da citazioni pop (è sempre un piacere vedere i Dalek di Doctor Who) e da una serie di incontri un po' fuori dagli schemi: quello con il cantante Billy Hatchett (interpretato da Gavin Friday, cantante dei Virgin Prunes) con il quale Patrick allaccerà una relazione d'amore e anche professionale (se vogliamo definirla così), quello con l'iracondo John Joe Kenny (Brendan Gleeson) che per campare intrattiene bambini dentro un costume da strano esserino peloso e quello con l'illusionista Bertie Vaughan (Stephen Rea) del quale Patrick diverrà l'assistente. Infine la famiglia, quella vera.

Al centro della storia un Cillian Murphy strepitoso, attore dal volto lievemente androgino e dai lineamenti di una delicatezza estrema, probabilmente la miglior scelta possibile per interpretare questo irlandese innocente e abbandonato, perfetto nelle movenze, nel look, negli atteggiamenti. Insieme a lui un bel cast composto da nomi noti e meno noti che donano davvero tanto colore al film di Jordan. Breakfast on Pluto non si rivela a conti fatti un film imperdibile, forse proprio in virtù di questa leggerezza diffusa e dello sviluppo di temi e ambienti che sicuramente sono venuti fuori meglio in altri film, rimane però un gradevole esempio di come argomenti seri possano venire trattati in maniera sempre rispettosa ma differente, e pone sotto i riflettori la figura di un bel protagonista al quale ci si affeziona e di cui si seguono con curiosità peripezie e destino. Tutto sommato può anche bastare.

sabato 18 agosto 2018

LA GRANDE BELLEZZA

(di Paolo Sorrentino, 2013)

Dopo l'uscita de La grande bellezza e ancor di più dopo la sua vittoria agli Oscar come miglior film straniero, non si è fatto altro che parlare del lavoro di Sorrentino: forma e contenuto, politico o non politico, virtuosismi di camera e orpelli simbolici, decadentismo e compiacimento dello sfacelo, citazionismo e noia e chi più ne ha più ne metta. Personalmente vorrei cominciare da Toni Servillo, sarà pure banale, ma è o non è il miglior attore italiano vivente e, senza voler abusare dell'assoluto, uno dei migliori attori italiani di tutti i tempi? Perché a me sembra che tutte le volte che Jep Gambardella, per gentile intercessione di Servillo, apra la bocca per dire qualcosa, si conceda un'occhiata, faccia una smorfia o formuli un pensiero, ci sia sempre qualcosa da cogliere: un'arguzia, un concetto, uno stato d'animo... e che tutte queste cose non siano solo scaturite dalla scrittura, seppur validissima, ma che in qualche modo senza Servillo non sarebbero state proprio le stesse e che a conti fatti questo Jep Gambardella sia uno dei personaggi meglio riusciti che mi sia capitato di vedere nel Cinema degli ultimi anni. Ovviamente la domanda un poco retorica lo è, non è che Toni Servillo lo stia scoprendo io adesso, tra l'altro pure con anni di ritardo sull'uscita in sala del film, il fatto che sia il miglior attore italiano di questi anni lo sanno tutti, sicuramente lo sa Sorrentino che in maniera intelligente non si fa scappare l'occasione di scritturarlo. Mi faceva solamente piacere partire da qui per una volta e non da Sorrentino, in ogni caso autore sicuramente ingombrante e capace di uscire dai noti binari del Cinema italiano di questi ultimi tempi.


Le reazioni della critica a La grande bellezza sono state all'unanimità positive per quel che riguarda la stampa estera, non così qui in Italia. È pur vero che nessuno è profeta in patria, seppure nemmeno i detrattori si sognerebbero di negare l'importanza di Sorrentino per il nostro Cinema recente, La grande bellezza è stato da noi equamente elogiato e contrastato. Ammettendo che le opinioni sulle arti possano essere sempre soggettive, davvero non capisco come si possa non considerare questo un grande film, per tutta una serie di motivi, ma soprattutto per quei contenuti che da molti sono stati considerati vacui (appunto), inconcludenti, noiosi (o addirittura boriosi) e finanche rei di mettere in cattiva luce la situazione italiana e degli italiani, cosa che mi sembra una vera follia, come se fosse necessario un film per rendere negativa all'estero la visione di un'Italia attuale palesemente in ginocchio.

Più che un film politico, e se vogliamo in qualche modo La grande bellezza politico lo è, pur rimanendo distante da figure e ambienti della politica, il film di Sorrentino mi ha dato l'impressione di essere profondamente privato: qualcuno obietterà che il privato è politico, e anche questa osservazione la si può accettare. Ma è il percorso che porta Gambardella alla presa di coscienza definitiva di un'esistenza ormai quasi completamente trascorsa e vuota ad essere il nodo più interessante di un film all'interno del quale il protagonista è mattatore irresistibile, una consapevolezza maturata in seguito a diverse esperienze che coinvolgono la caducità dell'uomo (e della donna) e al contatto con quella grande bellezza che in fin dei conti non è data da una Roma che seppur splendida si dimostra in ultima analisi deludente, né tanto meno da una mondanità che si rivela priva di contenuti e di importanza alcuna. Sprazzi di questa bellezza Gambardella li trova in elementi che sono ormai estranei alla sua vita fatta di feste, happening presunti intellettuali, riflessioni e scritti su una mondanità autoriferita e inconcludente; sprazzi di questa bellezza si trovano ormai solo nel ricordo di un'antico amore, l'unico, ormai sbiadito nel tempo, nelle vite di persone agli antipodi di quella del protagonista, nella sofferenza e nella morte che funge da catalizzatore per una nuova visione. Nelle parole di una Santa; forse allora ancora c'è speranza.


La grande bellezza è un film intriso di malinconia, nonostante l'immaginario messo in scena da Sorrentino sia oltremodo sontuoso e il carnevale di personaggi grotteschi e sopra le righe molto spesso divertente, le sortite di Gambardella nell'alta società romana si traducono in un qualcosa di irragionevole ed effimero che spesso muove al riso, e come potrebbe essere altrimenti? La cadenza napoletana di un Servillo inarrivabile dona ulteriore musicalità alle frasi irresistibili, anche quando dure, di un personaggio meraviglioso contornato da un circo di freaks normalizzati: il commerciante di successo che incede a forza di "te chiavasse", la nobildonna intellettuale di sinistra che difende i suoi sforzi e il suo impegno in ogni aspetto di una vita peraltro comodissima, la madre ricca di un figlio completamente ammattito, il cardinale che della spiritualità se ne fotte, il poeta che non parla, nani e ballerine... nel mezzo due personaggi veri cuciti addosso a Carlo Verdone che interpreta forse l'unico amico sincero di Jep e a Sabrina Ferilli finalmente in un bel ruolo che le rende anche grande onore.

È allo stesso tempo spassoso e triste assistere a questo circo umano imbastito da Paolo Sorrentino, accompagnato nei suoi movimenti da una colonna sonora che spazia dalla più becera rivisitazione dance di grandi successi pop fino a composizioni che potremmo definire colte. La cura per l'immagine, per l'inquadratura, per il movimento è quella che già al regista è stata riconosciuta più volte, caratteristica che va a impreziosire un film a mio parere di assoluto valore, un film da rivalutare anche da parte dei nostrani detrattori.

"Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che si potrebbe definire il vortice della mondanità. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano: volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire".

giovedì 16 agosto 2018

MR. NOBODY

(di Jaco Van Dormael, 2009)

La visione di Mr. Nobody di Jaco Van Dormael potrebbe non rivelarsi troppo semplice. Almeno i primi trenta/quarantacinque minuti, nei quali si ha la netta sensazione di non riuscire a cogliere i fili narrativi della storia e durante i quali si può pensare di non aver capito nulla di ciò che sta accadendo in video, potrebbero indurre diversi spettatori a mollare la presa e abbandonare anzitempo un film comunque complicato piuttosto che no. Non fatelo. Alla fine tutto sarà (un pochino) più chiaro, molti fili si riallacceranno e a qualcuno magari verrà la voglia di riguardare il film una seconda volta per capirne meglio alcune dinamiche, alcuni simbolismi e diversi dei suoi intrecci. Quando al termine delle due ore e mezza di durata di Mr. Nobody tutto si riavvolgerà sulle note di Mr. Sandman e sull'ennesimo concetto scientifico, allora capirete che sarà valsa la pena di guardare questo film fino alla fine e che, fermandosi un attimo a ripensare alla storia messa in piedi da Van Dormael, qui anche sceneggiatore e soggettista, ci si può portare a casa qualcosa di buono per la mente e qualcosa di buono per il cuore.

Dopo aver guardato un paio di film del regista belga sembra chiaro come Van Dormael rifugga la banalità e come su due concetti solo all'apparenza semplici si possa dispiegare un film che in fondo ci dimostra semplicemente come le cose della vita siano dannatamente complicate. I concetti (non gli unici ma i più importanti): ogni cosa è possibile finché non si effettua una scelta, come conseguenza della scelta compiuta si srotola una vita diversa che in ogni caso sarà interessante da vivere o seguire. Le cose sono più complesse di quello che all'apparenza possono sembrare, la semplificazione non sempre risulta essere efficace. E intorno a questi concetti il regista costruisce Mr. Nobody, affidandosi a teorie scientifiche, a scelte estetiche simboliche indirizzate anche dall'uso sapiente di colori e fotografia, alle possibilità multiple, alle storie d'amore, al passato, al presente, al futuro e all'intreccio di questi tempi uno sull'altro. Nel corso della storia di cui Nemo Nobody (Jared Leto) è protagonista, ci troveremo davanti a teorie legate alle realtà alternative (o in maniera più complicata a quella che viene definita interpretazione a molti mondi della realtà), al celebre effetto farfalla (la farfalla sbatte le ali di qua, una tempesta creerà scompiglio di là, insomma, la conoscete), le dinamiche legate alla linearità o meno del tempo, quelle legate agli eventi casuali fino ad arrivare all'espansione e alla contrazione dell'Universo. E poi ci sono quei concetti banalissimi, che potrebbero migliorare sensibilmente le nostre vite e che noi, esseri umani fallibili, spesso vigliacchi, non riusciamo ad applicare: "ho capito una cosa... è che dobbiamo sempre dire ti amo alle persone che amiamo... ti amo", certo le conseguenze non sempre si riveleranno quelle sperate ma potrebbero dar vita a un'esistenza che in ogni caso sarà interessante da vivere. O forse no. E forse stiamo complicando un po' le cose, ma così è la vita. Ti amo, dicevamo. I risvolti sentimentali della storia (delle storie) di Nemo (Jared Leto appunto ma anche Toby Regbo e Thomas Byrne) sono forse le più interessanti del film, soprattutto quella sincera e appassionata vissuta con Anna (Juno Temple e Diane Kruger), coinvolgente e capace di sopravvivere anche al caos. Forse. Una storia d'amore complicata e quasi impossibile che ricorda molto quella splendida, romantica e meravigliosa tra Cate Blanchett e Brad Pitt ne Il curioso caso di Benjamin Button (altro film che vi consiglio di guardare al quale Van Doermel qui strizza l'occhio); la Kruger (bellissima come lo era la Blanchett) e Leto non fanno rimpiangere i due colleghi più celebri.


Proviamoci. Siamo in un remoto futuro asettico, dove la morte è stata sconfitta da qualche tempo, Nemo Nobody (un Jared Leto invecchiato) è l'ultimo mortale, l'unico essere umano destinato alla morte, ha 117 anni e il suo destino tiene con il fiato sospeso l'intera popolazione mondiale. Nemo cerca di ricostruire la sua storia narrandola a un giornalista, i suoi racconti però sono confusi, saltano da un tempo all'altro, si contraddicono, confondono reale e fantasia o forse solo il reale con un'altro reale. L'episodio chiave della vita, o delle vite, di Nemo sembra essere la separazione dei suoi genitori avvenuta quando il giovane Nemo (Thomas Byrne) aveva nove anni e si trovò a dover decidere se andare a vivere con la madre (Natasha Little) o rimanere con il padre (Rhys Ifans). Ma come può un bambino prendere una decisione del genere, una decisione che avrebbe completamente cambiato le sue vite? In più, lo sapevate che prima di nascere noi umani sappiamo tutto del nostro futuro? Nel momento in cui veniamo al mondo gli angeli resettano tutto, in modo da farci avere una vita piena tutta da costruire. Purtroppo, quando arrivò il turno di Nemo gli angeli si dimenticarono di resettare, il giovane quindi si trova ad avere a disposizione sprazzi di cose a venire, con la possibilità di ponderare... sembra complicato vero? Beh, lo è.

Non è facile dare un giudizio secco a Mr. Nobody, però nello scrivere questo breve commento al film (che a tratti mi sembra delirante, il commento intendo, non il film. Beh, forse anche il film) mi sono riguardato alcuni passaggi e li ho trovati ben più interessanti rispetto alla prima visione, ovviamente alla luce della conoscenza completa dell'opera. Non so se consigliarvi di dare un'occasione a questo film, posso però consigliarvi di dargliene due. Ecco, questa mi sembra la giusta chiusura per un commento a Mr. Nobody, una storia non proprio immediata.

mercoledì 15 agosto 2018

THE NICE GUYS

(di Shane Black, 2016)

La coppia da buddy movie sui generis è un classico della commedia d'azione americana, una tradizione qui rinverdita in maniera splendida da Shane Black che dirige un duo mal assortito (ma forse neanche più di tanto) di investigatori privati, o almeno una coppia di un qualcosa che all'investigatore privato più o meno gli assomiglia. Jackson Healy (Russel Crowe) e Holland March (Ryan Gosling) più che due occhi privati sono una sorta di picchiatore prezzolato e un pasticcione combina guai con qualche sprazzo d'intuito che a volte si rivela utile ma più spesso no. Fortunatamente ad assisterli c'è anche la figlia di March, Holly (Angourie Rice), tredicenne sboccata ma col cervello che gira meglio di quello del padre, anche perché quello del padre è spesso imbevuto d'alcool. La trama di The nice guys è un semplice pretesto attorno alla quale il regista e sceneggiatore Shane Black costruisce una commedia action con al centro due attori di grande talento ispiratissimi nel prendere in giro il ruolo del duro da loro stessi ricoperto altrove e, soprattutto per quel che riguarda Gosling, mettere in scena doti da cazzaro forse mai mostrate a questi livelli nei film precedenti. E tutto questo alla coppia Crowe/Gosling riesce davvero molto, molto bene.

Siamo in California, anni 70, patria del noir, di Hollywood e dell'industria del porno. Holland March è un investigatore privato scapestrato, non sempre competente e dedito all'alcool, che viene assunto dalla vecchia zia di Misty Mountains (Murielle Teilo), reginetta del porno deceduta in uno strano incidente d'auto qualche giorno prima. La vecchia è convinta di aver visto la nipote viva e vegeta ben dopo l'incidente d'auto, difende con forza la sua convinzione indossando due bei fondi di bottiglia calati sugli occhi. In qualche modo pasticciato, indagando, Holland arriva sulle tracce della giovane Amelia (Margaret Qualley) che potrebbe essere coinvolta nel caso; la ragazza, spaventata, assume il picchiatore Jackson Healy per farsi togliere di torno March. Il primo incontro tra i due non sarà proprio all'insegna dell'amore fraterno, però, dopo aver capito che la giovane Amelia potrebbe trovarsi in qualche sorta di pericolo, Jackson si prenderà a cuore la faccenda e assumerà March per farsi aiutare nella ricerca della ragazza (nel frattempo scomparsa) nonostante March come investigatore non sia proprio questo granché. Sua figlia Holly però non se la cava male. I due si imbatteranno in diverse morti, in personaggi potenti e nell'industria dell'auto, in qualche modo tutto sembra essere collegato al film porno La mia auto ti piace, bambolone?


Come dicevamo la trama è pretestuosa, non è nemmeno necessario comprenderne tutti i risvolti per godersi questo film sinceramente divertente, Shane Black offre una regia movimentata, gioiosa e giocosa, infarcita di scene al limite e mirata a valorizzare l'estro di una coppia dai tempi comici ad orologeria, plauso speciale a Ryan Gosling per le attitudini slapstick (guardare la scena del cesso per capire) e a Crowe per la presenza ingombrante (imbolsito il ragazzo) capace sempre di riempire la scena. Sgargianti i costumi e le scenografie che riportano al decennio e agli anni della disco music, grandi pezzi in colonna sonora e un'atmosfera svagata e ruffiana che ci fa apprezzare ogni singolo passaggio di questo film che sarà pure senza pretese ma al quale non si può rimproverare davvero nulla.

Non sarebbe male vedere Shane Black dietro la macchina da presa un poco più spesso, solo quattro film in tredici anni e un genere, quello del buddy movie, a lui molto congeniale. Sue infatti le sceneggiature dei primi due Arma letale e de L'ultimo boyscout, tutti film con irresistibili coppie di tutori dell'ordine più o meno fuori dalle righe. Senza prendersi sul serio, qualche sortita in più nel genere, senza inflazionarlo, si potrebbe tentare. Anche rivedere all'opera Jackson Healy e Holland March non sarebbe poi così male.

domenica 12 agosto 2018

99 HOMES

(di Ramin Bahrani, 2014)

99 homes è un opera a tema nel quale l'argomento trattato è ciò che tiene in piedi il film, le riflessioni e le situazioni che il regista sottopone alla nostra attenzione, ancora molto attuali, sono l'unico vero motivo d'interesse di un film altrimenti anonimo sotto tutti gli altri punti di vista. Questo non necessariamente è un male, a volte è bene fruire di un'opera per approfondire un argomento, per conoscere meglio situazioni a noi magari lontane (ma non così tanto) e via discorrendo; certo è che il film d'impegno e di denuncia d'alta qualità qui è un po' lontano, ad ogni modo il film di Bahrani non è da disprezzare, anzi, solletica la curiosità e se solo fosse stato un po' più breve sarebbe stato anche un buon modo per passare la serata (che in ogni caso potete impegnare meglio facendo altro). L'impatto che ha avuto 99 homes anche sui distributori italiani non deve essere stato così rilevante, il film infatti ha saltato il passaggio in sala per finire direttamente nel catalogo della piattaforma streaming di Netflix.

"Non sono... un aristocratico, io non sono nato così, mio padre faceva tetti, capisci? Sono cresciuto nei cantieri guardandolo farsi il culo finché un giorno non è caduto da una casa a schiera. Una vita di premi pagati all'assicurazione e l'hanno mollato prima che potesse comprarsi una sedia a rotelle, ma dopo averlo solo imbottito di antidolorifici. E dovrebbe capitare anche a me questo? Credi che all'America di oggi gliene possa fregare un cazzo di Carver o di Nash? L'America non salva mai i perdenti, l'America è stata costruita tirando sempre in salvo i vincenti, forgiando una nazione di vincenti... per i vincenti, fatta dai vincenti. Ci vai in chiesa Nash? Tu ci vai in chiesa?"
"Certo"
"Solo uno su cento sale sull'Arca Nash... e tutte le altre povere anime affogano... io non voglio affogare".

L'America. Il paese delle libertà e delle opportunità. Per qualcuno magari. Dennis Nash (Andrew Garfield) è un padre single che vive con sua madre (Laura Dern) e il figlioletto Connor (Noah Lomax). Manovale tuttofare perde diversi lavori a causa della crisi del settore edile; in seguito al mancato pagamento di tre rate del mutuo riceve lo sfratto dalla banca che gli ha concesso lo stesso mutuo. A questo punto entra in scena Rick Carver (Michael Shannon), agente immobiliare che affretta i tempi e sfratta la famiglia Nash che dall'oggi al domani si trova a dover vivere in un motel. Per venir fuori da questa situazione Nash accetta il proverbiale patto con il diavolo, iniziando a lavorare proprio per Carver, l'uomo che ha sfrattato la sua famiglia e che sulle disgrazie della povera gente ha creato un business poco pulito ma molto redditizio. Nash, tenendo la sua famiglia all'oscuro di tutto, finirà in un giro illegale dove truffe allo Stato, furti, raggiri alla legge e soprattutto accanimento su poveri cristi come lui, sono all'ordine del giorno.


La crisi dei mutui americani è vicenda che tanto ha fatto discutere, in 99 homes il regista Bahrani non mette sotto i riflettori l'aspetto della finanza legata al crollo dei mercati, ci mostra invece le conseguenze che ha sulla gente un sistema malato incapace (e poco interessato) a tutelare i propri cittadini più deboli, in fondo come lo stesso Carver afferma l'America è un paese costruito per pochissimi vincenti. L'aspetto più interessante del film è probabilmente il dilemma morale che deve affrontare un loser qualsiasi quando si trova davanti l'occasione per salire sull'Arca, per passare finalmente dalla parte dei vincenti, quasi inevitabilmente dovendo calpestare le proprie convinzioni, i propri principi, i propri valori, etica e morale e finanche amici e conoscenti. Lo sviluppo del film per il resto è abbastanza prevedibile, il cast (Dern esclusa) non è nulla di eccezionale ma assolve al suo compito, anche la regia non offre spunti di interesse e il coinvolgimento del Cinema d'inchiesta o di denuncia, quello vero, qui purtroppo non si avverte. 99 homes ha il passo del film tv, va bene per un catalogo online come quello di Netflix, tratta però un argomento interessante e dai risvolti morali assolutamente universali.

Ad ogni modo la mia simpatia va sempre a quei bellissimi perdenti che sanno quando dire un bel no, anche a discapito di qualche vantaggio personale. Infatti a dire sempre di sì magari si possono ottenere dei risultati, però questo mondo continuerà a fare sempre schifo. E bene, vorrà dire che l'interno di quell'Arca non lo vedremo mai. Sticazzi.

sabato 11 agosto 2018

SOPRAVVISSUTO - THE MARTIAN

(The martian di Ridley Scott, 2015)

Ridley Scott e l'amore per l'immagine. Ridley Scott e l'amore per la fantascienza (qui forse più vicina alla scienza, anche se un poco tirata per i capelli). La somma delle due infatuazioni del regista in The martian potrebbe concretizzarsi nella via al blockbuster di classe, quello costruito a dovere, blindato da una sceneggiatura solida e privo di (troppe) concessioni allo sbraco e all'americanata facile. Il film che vede in Matt Damon il suo protagonista quasi assoluto, anche se contornato da fior d'attori, sembra essere davvero un ottimo compromesso tra il film spettacolare e la storia che potrebbe piacere a tutti, anche allo spettatore che non ama le pellicole (mi ostino a chiamarle così) infarcite di vistosi effetti speciali. La vicenda è costruita sul più classico dei "riportiamo a casa i nostri ragazzi" che nel Cinema U.S.A. abbiamo visto migliaia di volte, da Salvate il soldato Ryan ad Apollo 13, giusto per rimanere in tema spaziale (e sono solo i primi due film che mi sono venuti in mente in una frazione di secondo). Quello che qui si apprezza maggiormente è però il one man show portato avanti da Matt Damon che, filmato in tutte le salse, dalle camere piazzate ad arte da Scott, alle telecamere a circuito chiuso della navicella su Marte, dai megaschermi NASA alle piccole webcam, ci racconta in prima persona la tenacia di un uomo, un botanico, che semplicemente decide di sopravvivere dopo la catastrofe, con le sue conoscenze e con la forza di volontà, in un ambiente che potremmo definire un tantino ostile. Un passo alla volta, un problema alla volta. Credibile? Non saprei, probabilmente la disperazione avrebbe sopraffatto chiunque in una situazione del genere, ma poco importa: credibile forse, divertente sicuramente. Perché il protagonista affronta la sua situazione disperata con una certa nonchalance di fondo che strappa ben più di un sorriso nonostante il piglio del film non sia proprio quello della commedia.


La spedizione Ares 3 è di stanza su Marte. L'equipaggio è composto da cinque astronauti sotto il comando di Melissa Lewis (Jessica Chastain). A causa di una fortissima tempesta di sabbia la navicella Ares 3 è costretta a lasciare Marte in fretta e furia; durante le operazioni di rientro il membro dell'equipaggio Mark Watney (Matt Damon) viene colpito e creduto morto dai suoi compagni che abbandoneranno il pianeta e il loro amico, ignari che lo stesso è sopravvissuto all'incidente. Watney, ripresosi dal trauma iniziale, si troverà a dover combattere con la probabilità sempre dietro l'angolo che si verifichino guasti di vario tipo alla sua attrezzatura, con la scarsità di cibo, con il problema di vivere su un pianeta dove l'aria non è respirabile e con la prospettiva di dover sopravvivere almeno altri quattro anni su Marte prima che una nuova spedizione ne raggiunga il suolo. Inizierà ad adoperarsi per capire in che modo poter resistere così a lungo sul pianeta rosso. Per sua fortuna l'analista della NASA Mindy Park (Mackenzie Davis), utilizzando i satelliti puntati su Marte, nota che alcune delle attrezzature abbandonate sul pianeta dalla spedizione Ares 3 sono in movimento: l'unica spiegazione possibile è che Watney sia ancora vivo. Urgerà capire come andarlo a recuperare, operazione rischiosa e difficile da realizzare. Il film alternerà la caparbia e ottimista quotidianità di Watney, intento a sopravvivere su Marte, all'angoscia dei restanti membri dell'equipaggio, convinti in prima battuta di aver perso un amico, consapevoli poi di averlo abbandonato, situazione ancor più difficile da digerire per il comandante Lewis che sente sulle proprie spalle la responsabilità per la sorte del collega. In più si assiste al febbrile lavoro a terra, dove nella sede della NASA il comandante Sanders (Jeff Daniels) e i colleghi Henderson (Sean Bean) e Kapoor (Chiwetel Ejiofor) vaglieranno tutte le possibilità per recuperare l'astronauta prima che muoia di fame (o di qualsiasi altra cosa, le opzioni sono tutte probabili).

Scott ci presenta un ottimo compromesso tra il film spettacolare, graziato da bellissime immagini e un bel lavoro sui costumi (vorrei anche io quella bella tuta da astronauta), e una narrazione pensata, studiata e per quanto possibile vicina ad essere credibile. La soluzione del videodiario tramite il quale Watney annota successi e insuccessi in chiave spesso ironica dona un bel ritmo alla narrazione, buttando lì qualche concetto anche molto divertente: Watney si autoproclama colonizzatore di Marte, in quanto essendo riuscito a far crescere patate concimandole con i propri escrementi, assolve alla definizione tecnica di colonizzazione avendo coltivato per primo un terreno finora incolto; diventa inoltre anche pirata dello spazio in quanto per cavilli tecnici e semantici per la legge internazionale Marte ricadrebbe proprio nella giurisdizione delle acque internazionali... insomma tutte trovate surreali che alleggeriscono l'atmosfera per la sopravvivenza. Tenendo conto che il pericolo di morte per il protagonista è sempre in agguato il film risulta sorprendentemente leggero e divertente.

mercoledì 8 agosto 2018

THE NEW WORLD

(di Terrence Malick, 2005)

Forse due ore e mezza per narrare la storia di Pocahontas (Q'orianka Kilcher) sono un po' troppe anche per un autore particolare come Terrence Malick, qui al suo quarto lungometraggio realizzato a distanza di ben sette anni dal precedente (e ben più interessante) La sottile linea rossa e a quasi trent'anni dai primi due (La rabbia giovane del '73 e I giorni del cielo datato 1978). Gli aspetti migliori del film si possono ricondurre proprio a quegli elementi che spesso si sottolineano come pregi nel Cinema di Malick: la maniacalità per il dettaglio, l'importanza preponderante della fotografia, la maestria nella costruzione delle inquadrature e l'attenzione alla scelta di location magnifiche che palesano l'amore del regista per tutto ciò che appartiene all'ambito naturalistico, sempre senza tralasciare le riflessioni che le immagini di Malick spesso suscitano, riflessioni forse qui meno spirituali e filosofiche che altrove e più legate proprio a quel rispetto per una vita scandita su ritmi naturali e avulsi dalle imposizioni della società moderna.

In diverse occasioni al regista statunitense è stata imputata la tendenza a dare troppa importanza alle immagini e alla filosofia celata dietro ad esse, ad ammantare il proprio Cinema di significato e significante a discapito della pura narrazione, con il rischio palpabile di andare a creare "polpettoni" poco digeribili, apprezzati solo da un pubblico "colto" o finto tale. Nel caso di The new world il problema non si pone, la storia c'è, è anche semplice e tutto sommato parecchio risaputa, ora non vorrei fare paragoni con il Pocahontas di casa Disney in quanto è proprio uno dei cartoni animati della Disney di cui non ho memoria, però per sommi capi la storia d'amore tra l'indigena e l'inglese John Smith (Colin Farrell) la conoscono più o meno tutti.

Virginia, 1607. Un gruppo di colonizzatori inglesi sbarca sulle coste del continente americano e getta le basi per la fondazione del villaggio di Jamestown; il capitano John Smith, graziato dei suoi peccati di insubordinazione, viene incaricato di allacciare rapporti commerciali con le tribù indigene dei Powhatan. Inizialmente fatto prigioniero dagli indigeni, John Smith si inserisce all'interno del gruppo di nativi iniziando ad apprezzarne lo stile di vita libero, rispettoso della Natura, privo delle brutture che inevitabilmente nascono in una società strutturata e volta al profitto.


"Sono gentili, amorevoli, leali, privi di qualsiasi astuzia e inganno. Le parole che indicano menzogna, falsità, avidità, invidia, maldicenza e perdono non sono mai state udite; non conoscono la gelosia, il senso del possesso: reale ciò che ritenevo un sogno".

Ma il conflitto purtroppo è dietro l'angolo, inglesi e powhatan saranno destinati a scontrarsi, John Smith e Pocahontas verranno separati.

Uno dei pensieri che più mi ha colpito guardando The new world è la domanda sul perché una storia di questo genere abbia colpito l'immaginario di un regista come Malick che in fondo, pur condendola con alcune riflessioni a lui care e con diversi momenti innegabilmente molto ben riusciti, altro non ha fatto che narrarci una già nota storia d'amore. Il film, proprio in virtù della classicità della storia, si guarda senza problemi, certo non entusiasma e non è neanche graziato da grandi prove di recitazione, risulta forse un po' troppo lungo ma si apprezza comunque per un comparto tecnico e visivo di alta qualità.

Forse ciò che di più bello rimane è proprio il personaggio di Pocahontas, di un candore innocente come sempre più raramente accade di poter ammirare al Cinema. Per apprezzare a pieno il talento di Malick probabilmente invece bisognerà dirottare su altro.

domenica 5 agosto 2018

WESTWORLD - STAGIONE 1

Una delle cose più divertenti nell'entrare in un parco a tema, che so, Disneyland ad esempio, è la possibilità di lasciare all'esterno le preoccupazioni e anche un buon numero di inibizioni. Rimanendo sull'esempio del finto mondo creato dal grande Walt, è possibile all'interno dei parchi a tema Disney tenere alcuni comportamenti che in una situazione più "normale" verrebbero considerati atti da "perfetto imbecille", non è raro infatti vedere vagare tra le varie attrazioni del parco adulti in altri momenti con la testa perfettamente ancorata sulle spalle, girare tranquillamente con le orecchie di Pippo calate in testa, mangiare mele stregate cariche di zuccheri, cantare senza nessun imbarazzo i temi portanti dei cartoni animati a voce alta in mezzo a perfetti estranei; tutte cose più che innocenti che però la maggior parte di noi mai si sognerebbe di fare liberamente in mezzo alla strada.

Ora pensate se ci fosse un parco a tema dove oltre alle stupidate di cui sopra, fosse possibile sfogare tutti i propri istinti, dai più alti ai più bassi, certi di rimanere impuniti, al sicuro da ogni rischio, con la possibilità di sfogare il proprio Io senza limitazioni, sia che quell'Io porti verso azioni più o meno eroiche sia che punti verso la realizzazione di istinti più carnali o ancor peggio brutali. Impuniti, ma anche certi di non aver arrecato vero danno a nessuno, perché nel parco tutto ciò con cui si può interagire è finto, persone comprese, così se hai ferito qualcuno non ci saranno problemi, avrai ferito una macchina, se avrai ucciso qualcuno avrai ucciso una macchina che verrà poi riparata, se ti sarai scopato qualcuno ti sarai scopato una macchina, certo avvenente e perfetta, ma pur sempre una macchina. Questo è più o meno Westworld, un parco a tema western dove tutto sembra vero ma non lo è, un parco da 40.000 dollari al giorno, un parco dove tutto quello che succede rimane all'interno del parco.


Westworld (la serie) nasce dal film del 1973 Il mondo dei robot (Westworld in originale), pellicola che ancora non ho avuto modo di vedere, ne rende le idee più moderne e al passo con i tempi ma ne mantiene il concetto di fondo. Il tema centrale e più interessante è sicuramente quello della presa di coscienza da parte dell'essere sintetico, tema usatissimo da Philip Dick in avanti e sempre portatore di situazioni e conflitti di grandissimo interesse. Nel corso delle dieci (lunghissime) puntate della prima stagione possiamo vedere come alcuni dei "residenti" del parco, automi creati per dar vita a delle narrazioni ben precise che si ripetono giorno dopo giorno magari con delle piccole variazioni, inizino a mostrare dei piccoli scarti, dei comportamenti anomali, dovuti anche all'inserimento da parte del creatore del parco Robert Ford (Anthony Hopkins) e del suo primo assistente Bernard Lowe (Jeffrey Wright) delle ricordanze, sorta di ricordi delle azioni precedenti dei residenti che hanno lo scopo di rendere gli automi più vivi e credibili, forse anche troppo. Così l'innocente Dolores (Evan Rachel Wood) intraprenderà un percorso volto alla conoscenza di sé stessa, la prostituta Maeve (Thandie Newton) subirà lo shock più forte e cercherà nuove strade in maniera anche decisa, così come le cercheranno anche alcuni umani, tra gli altri proprio il creatore del parco, Ford, e un uomo misterioso, il pistolero in nero, interpretato da Ed Harris.


Le tematiche presentate in Westworld sono senza dubbio avvincenti, tirano in ballo un sacco di dilemmi morali sui quali è necessario soffermarsi, gli spunti sono innumerevoli e le possibilità infinite, anche il connubio western/fantascienza è interessante e ben gestito, l'equilibrio è bilanciato e nessuno dei due aspetti prende troppo il sopravvento sull'altro. Purtroppo si presentano spesso problemi di ritmo e momenti di stanca, ammetto su un paio di puntate di aver proprio sonnecchiato, la durata delle stesse supera o si avvicina all'ora piena e capita che la percezione della durata sia ancora amplificata dai cali di ritmo. Questo è il grande difetto di una serie che avrebbe tutte le carte in regola per sfondare, purtroppo da quel che ho letto in rete sembra che il problema si amplifichi ancora nel corso della seconda stagione. Un vero peccato perché posso dire di essermi goduto molto le ultime tre puntate di stagione, capaci di assestare diversi colpi di scena ben orchestrati e sequenze dal ritmo sostenuto, con aperture su scenari che solleticano la curiosità (anche se il più intrigante vede un dietro front già in chiusura di stagione, peccato, forse si sarebbero aperte troppe possibilità difficili da gestire, allora meglio una situazione più chiusa e controllabile dagli sceneggiatori). Prima di questi tre episodi conclusivi ero deciso ad accantonare Westworld per sempre, ora chissà...

Comunque il mio consiglio per chi ama i temi sopra descritti è quello di provare la serie e dargli una possibilità, elementi positivi ce ne sono molti, tutto è soggettivo e a tanti spettatori Westworld potrebbe piacere anche molto. Ogni tanto affiora un po' di noia, o ancor meglio di pesantezza, una sensazione che probabilmente sarebbe stata scongiurata con un minutaggio più contenuto delle puntate. In ogni caso guardate e giudicate.


PS: Westworld ha un gran cast, ma i due vecchi Hopkins e Harris si mangiano ancora tutti. Che classe!

venerdì 3 agosto 2018

I RANGERS DI FINNEGAN

(di Mauro Boselli e Majo, 2018)

Texone importante questo I rangers di Finnegan se non altro almeno in virtù del fatto che vede la luce nell'anno del trentesimo anniversario della collana, inaugurata nell'ormai lontano 1988. Come sempre più spesso accade anche quest'anno a illustrare l'albo più speciale e atteso del personaggio di punta della scuderia Bonelli è stato chiamato un artista italiano, l'ormai veterano Mario Rossi (quasi non ci si crede) a.k.a. Majo. Nonostante porti uno dei nomi più comuni in Italia, l'artista bresciano ribattezzatosi appunto Majo, emerge dall'anonimato già nei primi anni 90 partecipando al progetto Full Moon Project e, a seguire, unendosi a un gruppo di altri artisti nella realizzazione grafica delle avventure del Lazarus Ledd del mai troppo compianto Ade Capone, contribuendo poi a creare l'interessante serie fantascientifica Hammer. Da lì in avanti per il disegnatore si apriranno diverse strade che porteranno Majo a lavorare sia in Italia (Dampyr per Bonelli ad esempio) sia all'estero.

In questo trentatreesimo Texone il focus della vicenda è incentrato sul corpo dei Texas Rangers, quello di cui sono illustri esponenti proprio il duo di pards composto da Tex Willer e Kit Carson. In origine i Texas Rangers non erano un vero e proprio gruppo organizzato; la necessità di avere un manipolo di pistoleri capaci di difendere le terre del Texas nasceva nei primi decenni del 1800 quando le famiglie di coloni stanziatesi nella zona in numero sempre maggiore, iniziavano ad avere sempre più pressante la necessità di difendersi dalle varie tribù di pellerossa e dalle incursioni dei bandidos messicani. Da qui la designazione di un gruppo di uomini a guardia dei confini e delle proprietà dei coloni, gruppi all'inizio sparuti composti da uomini disordinati, spesso poco più che veri e propri farabutti senza onore, indisciplinati, violenti e inclini alla rissa, non proprio un corpo di polizia da guardare con rispetto e riverenza. Dalla loro prima apparizione e per almeno una quindicina d'anni i rangers del Texas furono un gruppo poco più che anarchico, sregolato, comunque utile alla bisogna per arginare le minacce incombenti dall'esterno dei territori di proprietà dei coloni. Solo nel 1838 la legge riconobbe l'ufficialità del corpo dei Texas Rangers che di lì in avanti prese via via un aspetto più istituzionale, organizzato in reggimenti e un pelo più incline a rispettare la legge e (forse e magari non sempre) anche la buona creanza.

Tre indiani di una tribù forestiera si avvicinano ai territori Navajo protetti da Aquila della Notte, nome indiano del Nostro Tex Willer. Sono il capo Pecos, il saggio Kwinhai e il giovane Tuwik, arrivati dai lontani territori dei Comanche per chiedere proprio l'aiuto di Aquila della Notte. Il piccolo manipolo di pellerossa racconta a Tex, Carson, Kit e Tiger Jack una storia dura da digerire per il gruppo di pards: un massacro di indiani innocenti, compresi donne e bambini, perpetrato proprio dal nobile corpo dei Texas Rangers. I quattro compagni sono propensi a pensare più a un'azione organizzata da qualche gruppo di comancheros, commercianti e contrabbandieri spesso in affari con gli stessi Comanche, ma i tre indiani ospiti dei Navajos si sentono di escludere questa ipotesi, convinti della colpevolezza dei rangers: chiedono così ad Aquila della Notte di portare a galla la verità sull'incresciosa faccenda, cosa che un uomo d'onore come Tex non può rifiutarsi di fare. Così Tex e Tiger si metteranno sulle tracce dei comancheros capitanati da Robledo indagando in quella direzione; Carson e Kit si recheranno ad Austin cercando di infiltrare il figlio di Tex tra le fila dei Rangers di Finnegan, un capo carismatico che si è guadagnato la fedeltà dei suoi uomini, qui cercheranno di capire se il manipolo locale dei Texas Rangers ha qualcosa da nascondere.

Mauro Boselli imbastisce una trama funzionale, molto classica e forse un pizzico troppo prevedibile, andando a confezionare l'ennesimo Texone riuscito che però farà fatica a farsi ricordare, perso tra altre prove, molte delle quali dello stesso Boselli, riuscite meglio di questa. Si segnala un'attenzione particolare per Kit Willer, messo sotto i riflettori più di altre volte, un buon incip d'azione in quel di Austin e la solita maestria nel confezionare una buona storia affidandosi al mestiere. L'apporto di Majo all'epopea texiana si rivela sicuramente apprezzabile anche se, pur offrendo una visione inedita del ranger, non lascia il lettore a bocca aperta per lo stupore. Nonostante il disegnatore non sia uso ai territori del western, Majo dimostra di trovarsi completamente a proprio agio tra i territori polverosi dell'Ovest americano, il suo west è impeccabile e si nota soprattutto il suo bel lavoro sugli scuri, sui notturni, meno interessante invece la caratterizzazione dei personaggi comunque in ogni caso resa in maniera sempre più che professionale. Insomma, anche I rangers di Finnegan si rivela un buon Texone, non proprio quell'uscita memorabile che ogni anno dal Texone ci piacerebbe aspettarci.

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