mercoledì 28 giugno 2023

DOV'È LA CASA DEL MIO AMICO?

(Khane-ye doust kodjast? di Abbas Kiarostami, 1987)

Abbas Kiarostami è stato un regista iraniano che ha vissuto gli anni della giovinezza e della sua prima maturità nell'Iran pre-rivoluzione khomeinista, un Paese con una serie di problemi non certo di poco conto ma con un maggiore livello di libertà rispetto alla controparte odierna, più propenso a guardare a un modello occidentale (anche a causa delle solite ingerenze statunitensi) e a una società volta al capitale e al commercio. In questo panorama Kiarostami comincia a muovere i suoi primi passi nell'editoria e nella pubblicità, occupandosi di illustrazione per ragazzi prima e di pubblicità per la televisione poi. Solo i suoi primissimi lavori da regista arrivano prima della presa di potere della repubblica islamica sciita, questo Dov'è la casa del mio amico? per esempio arriva quasi un decennio dopo la rivoluzione e risente quindi di un clima di rinnovate proibizioni. Ma lo sguardo di Kiarostami sui bambini, aiutato forse dall'esperienza già fatta con l'editoria per i più piccoli, sembra tenere il regista lontano, almeno all'apparenza, da temi scottanti. Occupandosi dell'animo dei ragazzi protagonisti di questo film, di uno in particolare, e della posizione difficile dei più giovani all'interno della società iraniana, Kiarostami riesce a creare un piccolo gioiello di infinita dolcezza, riuscendo a trovare dei piccoli interpreti capaci di bucare lo schermo con un solo sguardo, in maniera tanto semplice quanto meravigliosamente toccante. In Dov'è la casa del mio amico? si respira tutta la purezza disinteressata dell'infanzia, il bello di quelle esistenze innocenti che spesso gli adulti finiscono per tradire e deludere.


Nel villaggio di Koker il piccolo Ahmed (Babek Ahmed Poor) affronta un nuovo giorno di scuola. Il maestro (Kheda Barech Defai) prima redarguisce la classe per la caciara fatta dai bambini in sua assenza e poi prosegue controllando i compiti fatti a casa dagli alunni. Quando arriva il turno del compagno di banco di Ahmed, Mohamed Reza Nematzadeh (Ahmed Ahmed Poor), il bambino subisce una reprimenda perché per la terza volta ha presentato i compiti al maestro su un foglio volante e non sul suo quaderno. Il bambino si giustifica dicendo di aver dimenticato il quaderno a casa di suo cugino (che sta nella stessa classe e che riconsegna il quaderno a Nematzadeh), il maestro inizia così tutto un discorso sull'importanza della disciplina e ammonisce il ragazzo dicendogli che se capiterà di nuovo un episodio simile verrà espulso dalla scuola. Nematzadeh piange, Ahmed lo guarda attonito e dispiaciuto, la mattinata passa, i bambini tornano a casa. Lì Ahmed aiuta sua mamma con qualche faccenda domestica, ascolta i rimbrotti della nonna, si prende cura del fratellino neonato. Al momento di fare i compiti Ahmed si accorge di aver preso per errore non solo il suo quaderno ma anche quello di Nematzadeh, identico al suo. Angoscia, il compagno è senza quaderno e l'indomani verrà espulso da scuola se non farà lì sopra i suoi compiti. Ahmed tenta di far capire alla madre come debba assolutamente portare il quaderno al suo amico, il problema è che Nematzadeh abita a Poshteh, un paese parecchio distante dal suo. Visto che la madre si dimostra sorda alle richieste del bambino, Ahmed disobbedendo decide di partire a piedi per Poshteh alla ricerca della casa del suo amico, in modo da fargli riavere il quaderno ed evitargli l'espulsione dalla scuola. Inizierà così una piccola odissea.


Diverse settimane fa abbiamo parlato di un'altra piccola odissea in viaggio compiuta da un protagonista bambino, il giovane T. S. Spivet che partiva dagli stati centrali degli U.S.A. alla volta dello Smithsonian di Washington per ritirare il premio per una sua meravigliosa invenzione, incontrando sulla strada strani figuri e ogni sorta d'avventura. In questo film iraniano degli anni 80 non c'è il lato grottesco del viaggio (molto ridotto peraltro), mancano l'aspetto irreale della vicenda (l'invenzione incredibile di Spivet) e il fantastico, c'è invece tutta la dimensione terrena e umana che Kiarostami ricrea, come da lui stesso dichiarato, guardando al neorealismo italiano, creando meraviglia con lo sguardo di un bambino, con la profondità morale delle sue scelte (che strano, questi bambini non sparano piombini alle maestre, non le accoltellano!), con la caparbietà e l'innocenza di un bimbo che vuole fare la cosa giusta percorrendo per farla anche la strada più difficile. Alla purezza e alla generosità del piccolo Ahmed vi è la contrapposizione di un mondo adulto che non solo non ascolta e non prende in considerazione quanto di giusto hanno da dire questi bambini, ma sembra addirittura non sentirli nemmeno pur mantenendo l'arroganza di volerli educare con metodi fallaci e ciecamente riprenderli anche quando questi sono palesemente dalla parte della ragione e della saggezza. Emblematica in questo senso la figura del nonno che racconta come sia necessario picchiare i giovani almeno ogni due settimane per mantenerli adusi alla disciplina anche quando non hanno fatto nulla di sbagliato. Nonostante tutte queste figure metaforicamente sorde (la mamma di Amhed, i nonni, il papà di Nematzadeh, il vecchio di Poshteh), il film di Kiarostami non mostra segni di violenza se non appunto nella mancanza d'ascolto e nella costrizione per alcuni bambini al lavoro duro (il mal di schiena di uno dei compagni di Ahmed), gioca invece sulla tenerezza suscitata dallo splendido Babek Ahmed Poor che con il suo sguardo dolcissimo riesce a catturare lo spettatore nel giro di due secondi netti. Sullo sfondo la vita dura e semplice di una zona rurale dell'Iran, lontana dalle città e dalla frenesia moderna per un cinema capace di riempire i cuori, non per nulla Kiarostami è considerato uno dei maestri del cinema iraniano al quale guarda anche il suo "allievo" Jafar Panahi.

venerdì 23 giugno 2023

BLACK MIRROR - STAGIONE 6

Sono passati circa quattro anni dall'ultima stagione del serial di Charlie Brooker e questa sesta annata sembra presentarsi in continuità con quanto visto nel precedente lotto di episodi rilasciato da Netflix nel 2019. Già allora infatti Black Mirror aveva un poco perso quella capacità di stupire e colpire a fondo lo spettatore mettendo tutti noi davanti alle nostre cattive abitudini in tema di tecnologie, sviluppi futuri, media e utilizzo di device vari, andando a creare mondi futuribili vicinissimi al nostro presente e quasi sempre venati da una forte dose di pessimismo e scarsa fiducia nelle capacità di giudizio della nostra società. La sensazione, che per molti diventa una perplessità, è quella di trovarci dopo un arco di tempo notevole nella stessa situazione, con una serie che ha spostato un poco il suo sguardo, sempre capace di offrire di base un buon prodotto ma decisamente meno appagante dal punto di vista dell'esperienza emotiva. Insomma, Black Mirror è stato per diverso tempo un vero calcio in bocca, nelle ultime stagioni è diventato "semplicemente" un buono show con diversi spunti interessanti (ma non nuovi). Cinque gli episodi messi a disposizione in questa annata, a sfilare un parterre di star come forse non si era mai visto nelle stagioni precedenti, e non è detto che questo sia necessariamente un bene al netto della bravura dei nomi coinvolti: Salma Hayek, Aaron Paul, Michael Cera, Himesh Patel, Cate Blanchett, John Hannah, Josh Hartnett, Zazie Beetz e altri ancora. Ma diamo un'occhiata a questi cinque episodi.

Joan è terribile:
Unico episodio a ricordare gli antichi fasti di Black Mirror anche se nemmeno qui c'è nulla di realmente nuovo. Joan (Annie Murphy) lavora per un'azienda informatica, la vediamo intenta a licenziare una collaboratrice, poi a tradire almeno idealmente il suo noioso fidanzato con il suo ex Mac (Rob Delaney), cose che potrebbero metterla un poco in cattiva luce. La sera Joan, insieme al suo ragazzo Krish, si siede davanti alla tv per guardare qualcosa su Streamberry (chiara parodia della stessa Netflix) e lì nota la serie Joan è terribile nella quale Salma Hayek interpreta una ragazza identica a Joan e che vive la sua stessa vita, esasperando i tratti negativi della protagonista e dipingendola come una specie di mostro. Ogni cosa che Joan fa nella vita reale viene riportata nella serie tv. L'episodio che apre questa nuova stagione è quello che più di tutti profuma di Black Mirror, la costruzione della vicenda è giocata su più livelli e ben costruita, spiazza un po' l'alta concentrazione di star ma gli spunti su cui riflettere ci sono tutti: la pratica al consenso al trattamento dei dati che ormai avalliamo con una nonchalance mostruosa e il fatto conclamato e da tutti accettato che i nostri device siano vere e proprie spie in casa nostra sono alcuni dei temi al centro di un episodio d'apertura di tutto rispetto, ben calibrato tra divertimento e critica intelligente.


Loch Henry
:
Con Loch Henry il focus si sposta dalla tecnologia futuribile al rapporto che abbiamo con i media e con i temi ai quali da spettatori mostriamo un attaccamento morboso e voyeristico. Anche questo è un argomento già esplorato dalla serie fin dalla seminale prima puntata The national anthem del 2011 e in altre forme ripresa anche nell'episodio successivo Mazey Day. Davis (Samuel Blenckin) e Pia (Myha'la Herrold) tornano nel paesino scozzese di Loch Henry per girare un documentario su un uomo che si occupa di custodire uova di uccelli per proteggerne così le specie. Una volta sul luogo la coppia, ospite a casa della madre di lui, rievoca una vecchia vicenda tragica e sanguinosa che spinse i turisti a disertare il paese; Pia intravede la possibilità di catturare il pubblico con un macabro true crime dedicato alla vicenda dell'assassino Iain Adair, una vicenda nella quale fu coinvolto anche il padre di Dave che in conseguenza della stessa, anche se indirettamente, perse la vita. Così il progetto nobile di Dave si trasformerà in una storia morbosa che porterà al ragazzo solo sofferenza e scontento. Loch Henry non è proprio l'episodio che ci si aspetterebbe da Black Mirror, i temi della ricerca del macabro e del sordido sono stati già esplorati, ma resta comunque un buon prodotto degno di uno show di classe, è un racconto più intimo sul dolore che possono provocare gli uomini e di come l'esposizione mediatica possa fare altrettanto, il pubblico della serie però forse cerca altro. PS: il video di Davis verrà prodotto da Streamberry ovviamente.



Beyond the sea
:
Il terzo episodio è un racconto di fantascienza intimista ambientato in una realtà simile al nostro passato ma tecnologicamente più avanzata nella quale per due astronauti coinvolti in una lunga spedizione spaziale è possibile scaricare ciclicamente la loro coscienza in una replica artificiale dei loro corpi sulla Terra. Cliff (Aaron Paul) e David (Josh Hartnett) possono così continuare a vivere le proprie vite grazie alle loro repliche per poi tornare ai corpi originali in orbita ogni qual volta un'operazione programmata lo richieda. Nel momento in cui per David, in seguito ad un incidente, non sarà più possibile tornare al suo doppio, inizierà per l'uomo un lungo periodo di solitaria depressione e disperazione; sarà il suo compagno Cliff a offrirgli una soluzione temporanea prestandogli di tanto in tanto il suo doppio, scelta non troppo saggia perché a David la vita di Cliff sulla Terra potrebbe cominciare a piacere. Pura fantascienza che scava nell'animo dei protagonisti e non si basa sull'azione o sulla missione dei due astronauti; il futuro, la tecnologia, sono mero contesto per un racconto che avrebbe potuto star benissimo altrove, l'episodio si lascia guardare comunque con piacere.


Mazey Day
:
Con Mazey Day si torna a riflettere sull'esposizione mediatica e la divulgazione del privato mettendo al centro del racconto una figura sempre attuale: quella dei paparazzi. Bo (Zazie Beetz) si ritira dalla professione dopo che alcune sue foto hanno provocato il suicidio di uno dei suoi soggetti. L'evento viene accolto con cinismo esasperato dai suoi colleghi che per soldi sono disposti a giustificare ogni azione e passare sopra a tutto, ma a Bo è rimasto ancora qualche scampolo di coscienza e quindi decide di dire il fatidico "basta" e appendere la macchina fotografica al chiodo. Quando l'attrice di grido Mazey Day (Clara Rugaard) scompare, per avere una sua foto alcuni editori mettono a disposizione una cifra spropositata, anche Bo non saprà resistere alla tentazione e andrà così a staccare la macchina dal simbolico chiodo. La vicenda prenderà pian piano risvolti inquietanti e fantasiosi ma quel che rimarrà vivo fino alla fine è quella base di cinismo di cui la nostra specie non riesce a liberarsi. Probabilmente l'episodio meno originale e meno interessante del lotto, esempio lampante di quanto Black Mirror possa ancora intrattenere ma anche di quanto poco ormai riesca a stupirci, qui rimane davvero poco di memorabile.


Demone 79:
L'episodio più difficile da collocare all'interno di Black Mirror e che poco ha a che spartire con gli intenti iniziali della serie di Charlie Brooker. Siamo a fine anni 70, Nida (Anjana Vasan), commessa maltrattata in un negozio di scarpe, inavvertitamente attiva un talismano che la mette in contatto con il demone Gaap (Paapa Essiedu) il quale le anticipa come l'apocalisse sia in arrivo (mostrandogliela) e dicendole che solo lei potrà fermarla al semplice prezzo di tre omicidi. Ovviamente non disposta a questo atto, Nida verrà pian piano convinta della bontà dell'opera, Gaap la convincerà a uccidere delle persone che in fondo meritano di morire, cosa sono poi tre vite in confronto ai morti provocati da un'apocalisse? Però per una giovane ragazza come Nida quanto potrà essere facile fermare davvero l'apocalisse?


Black Mirror non ci mostra più il nostro futuro ma piuttosto riflette sul presente, vira addirittura su passati fantastici e nel farlo perde mordente. La serie resta su livelli più che dignitosi ma oggi le serie realizzate con una buona qualità sono molte, Black Mirror aveva qualcosa che la poneva parecchio al di sopra della media, qualcosa che oggi non c'è più. Una cosa però la serie di Charlie Brooker continua a fare, e cioè continuare a dirci quanto facciamo schifo (generalizzando ovvio). Gli episodi sono tutti più o meno godibili, a parere di chi scrive i primi due meglio degli altri tre, diventa però difficile capire se la serie in un prossimo futuro possa tornare a stupirci, senza questa caratteristica di base ha ancora senso perdersi in un Black Mirror?

lunedì 19 giugno 2023

CREEPOZOIDS

(di David DeCoteau, 1987)

Ogni tanto capita di sentire il bisogno di una temeraria incursione nel cinema di "serie b" (o anche c o d andando a scendere), una passeggiata nei territori del trash più spinto, con la speranza magari di scovare qualche piccola perla nascosta o perlomeno qualche oretta di sano, truce e ignorante divertimento. È in fondo un po' quello che ci si aspetta dai b-movies però, come è ben noto, ci sono b-movies e b-movies. Proprio noi italiani siamo stati maestri dei generi votati alla serie b, film fatti con pochissimi soldi, arrangiando set e immagini sfruttando la contemporaneità di altre produzioni, film che hanno avuto il merito di far emergere quelli che ancora oggi sono considerati maestri del nostro cinema artigiano, artisti dignitosissimi e in alcuni casi geniali che non hanno mancato di regalarci alcune piccole gemme tutte da gustare. Lo stesso cinema b è stato realizzato anche oltreoceano con esiti discontinui. David DeCoteau è un regista originario di Portland che come molti altri arriva dalla factory di Roger Corman, inizia a girare giovanissimo ed è uno di quei registi che sembrano lavorare a cottimo; classe 1962 firma il suo primo lungometraggio attorno alla metà degli anni Ottanta e a tutto il 2019 ha siglato circa una novantina di film senza contare i numerosi lavori per la televisione. In mezzo a tutto questo materiale girato devo ammettere di non aver idea se ci si possa trovare qualcosa che valga la pena d'esser visto, a meno che ovviamente non si sia fan a oltranza dei trash movies a budget ridotto, questo Creepozoids per esempio è stato realizzato con soli 150.000 dollari di budget e girato in un arco temporale di una quindicina di giorni usando come set un semplice magazzino di Los Angeles.

La trama è presto riassunta. Siamo in un mondo post nucleare nel quale la guerra ha modificato il clima, gli umani si riuniscono in piccoli gruppetti che tentano di sopravvivere e resistere alle piogge acide. Nel film lo spettatore segue le peripezie di un manipolo di disertori dell'esercito composto da tre uomini e due donne i quali si trovano a dover cercare riparo proprio per evitare una di queste scrosciate acide letali per l'uomo. Quando la pioggia arriva improvvisa il gruppo del comandante Jake (Richard Hawkins), composto da Jesse (Michael Aranda), l'unico a capirci qualcosa di computer, dal bellicoso Butch (Ken Abraham) e da Bianca (Linnea Quigley) e Kate (Kim McKamy) trova riparo in quello che sembra un magazzino che si rivelerà essere una sorta di laboratorio scientifico dotato di letti e ben stipato di viveri a lunga scadenza che potrebbero garantire la sopravvivenza al gruppo per lungo tempo. Ma dell'ex laboratorio ancora rimane qualche traccia, all'insaputa dei Nostri eroi esseri modificati geneticamente, e soprattutto una mostruosa creatura alfa, ancora si aggirano nei corridoi dell'ex installazione biomedica e le loro intenzioni non sono per nulla pacifiche.

A visione ultimata si può dire che questa incursione nel cinema trash tutto sommato ce la potevamo anche risparmiare; il film è girato con quattro soldi (e mezza idea) e tanto vale, le possibilità di tirarne fuori qualcosa di buono non erano molte e il miracolo in effetti non è avvenuto. Il problema più grosso (tra i tanti) è l'inevitabile resa dall'aria molto "cheap" dei mostri dovuta ai pochi soldi a disposizione per lavorare sugli effetti speciali. La creatura che si aggira nei sotterranei è sempre in ombra e completamente nera, piccolo espediente per tentare di mascherare gli scarsi mezzi, ciò nonostante la poca cura nella realizzazione del mostro viene facilmente alla luce, i ratti geneticamente modificati invece sembrano dei brutti peluches usciti con qualche difetto di fabbrica. La trama è proprio stracciata, senza approfondimento sui personaggi né sulle relazioni, la Linnea Quigley, scream queen stacanovista (Il ritorno dei morti viventi, Nightmare 4, etc...), concede una scena di nudo mentre la Kim McKamy è più nota nel circuito pornografico che non in quello horror, ma anche la presenza delle due fanciulle nulla può per alzare la media di un prodotto onestamente trascurabile. Purtroppo mancano totalmente i personaggi interessanti o anche solo tamarri il giusto e le situazioni capaci di creare tensione, si salvano giusto un paio di trovate: qualche espressione inquietante del bambolotto che compare sul finale, almeno in un caso le conseguenze sul corpo di uno dei Nostri infettato, davvero un po' troppo poco per ambire alla sufficienza. Solo per irriducibili (e completisti) cultori del trash in video.

venerdì 16 giugno 2023

GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL. 3

(Guardians of the Galaxy vol. 3 di James Gunn, 2023)

Con il terzo capitolo delle avventure dei Guardiani della Galassia torna finalmente il cuore nel Marvel Cinematic Universe; a fine visione lo stesso cuore piange consapevole dell'abbandono di James Gunn, il regista che più di tutti ha saputo trasmettere un tocco personale ai "suoi" amati personaggi ed è stato capace di farli crescere e maturare film dopo film trovando un punto di equilibrio tra avventura, sentimento e comicità del quale certamente sentiremo la mancanza. L'approccio di Gunn rimane in prevalenza scanzonato nonostante alla base di questo terzo capitolo ci sia la tragica storia passata di Rocket, il procione modificato da ripetuti interventi invasivi che potrebbe anche richiamare temi serissimi come quello sulla sperimentazione animale. Al netto dei temi, quello che è sempre piaciuto al pubblico dei Guardiani è lo strambo amalgama che personaggi molto ai margini dell'immaginario supereroico riescono a creare, è il coinvolgimento emotivo che procioni antropomorfi, alberi dalla favella incomprensibile, killer alieni o umani incasinatissimi riescono a innescare nello spettatore. È sotto questo aspetto che James Gunn riesce a fare centro una volta ancora, ben consapevole di quando affondare e colpire con la giusta dose di buoni sentimenti, di come piazzare la canzone giusta al momento giusto, di quale battuta idiota far recitare a questo o a quel personaggio per stemperare anche le scene potenzialmente più serie. Tutto questo funziona al meglio grazie al grande concetto di "famiglia" che i Guardiani, pur con tutte le loro disfunzionalità, incarnano alla perfezione, un concetto che con ogni probabilità è stato molto sentito anche sul set, cosa che ha permesso il ritorno di Gunn in Marvel (seppur per poco tempo) e a questo terzo volume di suonare così fresco e divertente.

Sulla stazione volante di Knowhere i Guardiani hanno stabilito la loro casa; l'asteroide a forma di teschio ospita una gran quantità di vite aliene alle quali improvvisamente si aggiunge quella del bellicoso Adam Warlock (Will Poulter), un essere tanto potente quanto infantile. A seguito di un suo feroce attacco Rocket rimane gravemente ferito e per salvarlo a Quill (Chris Pratt) e compagni non resta che partire alla ricerca di una password in grado di fermare un dispositivo killer impiantato nel corpo del bellicoso procione, cosa possibile solo all'interno del complesso della Orgocorp. Alla ricerca di Rocket ci sono però gli scagnozzi dell'Alto Evoluzionario (Chukwudi Iwuji), un potentissimo alieno responsabile degli esperimenti condotti sul procione nel tentativo continuo di creare una razza perfetta con cui popolare una nuova Terra (la Controterra). Nel frattempo Peter Quill ha modo di chiedere l'aiuto di Gamora (Zoe Saldana), non la sua Gamora però ma una proveniente da un'altra linea temporale che non ha memoria dello Star-Lord, della loro passata relazione e che soprattutto non lo ama. Per Quill è dolorosa la presenza di questa Gamora fredda e distaccata, ma ora la priorità è quella di salvare il suo (secondo) migliore amico, così i Guardiani lasceranno un Kraglin (Sean Gunn) sulle orme di Yondu (Michal Rooker) a reggere le sorti di Knowhere, mente Quill, Mantis (Pom Klementieff), Drax (Dave Bautista), Groot e Nebula (Karen Gillen) andranno all'assalto della Orgocorp, ma sulla loro strada troveranno l'Alto Evoluzionario.

James Gunn è riuscito con la trilogia dei Guardiani a trovare una cifra narrativa personale che ha trasformato una banda scalcagnata in una famiglia del tutto credibile, nonostante i toni delle loro avventure non siano mai seriosi e, anche quando idioti (quasi sempre), dotati della preziosa capacità di non andare mai fuori misura (vero Taika?). Questa potrebbe sembrare un po' la sviolinata dell'addio (e un po' lo è), ma Guardiani vol. 3 è realmente un film ben riuscito; certo qualche difettuccio c'è: Warlock per esempio, un'importante figura quasi cristologica nei fumetti Marvel qui ridotta a un potente mezzo scemo, anche un po' meno d'isteria nell'Alto Evoluzionario non avrebbe guastato ma queste sono crepe di scarsa importanza. Invece quanto è ben riuscito questo film sotto il punto di vista dell'immagine rispetto al piattume digitale dell'ultimo Ant-Man and the Wasp? Il set di Knowhere, già visto nell'Holiday Special è accattivante e imponente, la gioia cromatica dei Guardiani nelle tutine da Power Rangers immersi in uno scenario alla Siamo fatti così è impagabile, l'uso del digitale ben calibrato nella costruzione della Orgocorp e poi la magnifica scena di combattimento sulle note di No sleep till Brooklyn dei Beastie Boys che conferma Gunn come ottimo regista oltre che bravo narratore. Il lato sentimentale è affidato alla storia di dolore di Rocket che ci accompagna per tutto il film più che al rapporto tra Quill e Gamora che viene gestito in maniera non scontata. I Guardiani cambieranno nel prossimo futuro, è già scritto, finiranno in mano a qualcun altro, Gunn lascia un'eredità difficile da cogliere, a noi non resta che sperare che Quill e soci riescano a rimanere sempre la solita banda di adorabili cazzoni.

lunedì 12 giugno 2023

IL TOCCO DEL PECCATO

(Tiān zhùdìng di Jia Zhang-ke, 2013)

Il tocco del peccato arriva all'interno della filmografia di Jia Zhang-ke, cantore del cambiamento della Cina, nel mezzo di quella splendida e ideale trilogia dedicata allo slittamento del Paese verso la modernità, composta da Still life, Al di là delle montagne e I figli del fiume giallo. Per Il tocco del peccato il regista cinese sceglie un approccio diverso rispetto alle opere sopra citate: l'evoluzione della Cina è sempre al centro del discorso dell'autore che qui si concentra più che sul cambiamento in sé o su ciò che esso comporti per il territorio e in termini di perdita di luoghi e tradizioni, sulla nuova società del capitale e sulle ripercussioni che seguono l'apertura spinta a un'occidentalizzazione che presenta i conti delle sue peggiori abitudini. Sono quattro le storie che Jia Zhang-ke mette in scena lungo le due ore e poco più del suo film, ognuna delle quali ha il suo spazio e i suoi protagonisti che solo marginalmente si incontrano, senza che le loro esistenze influiscano sulle altre, nonostante i loro destini siano accomunati dal dover vivere nella stessa società ingiusta e difficile. Quattro storie e quattro differenti zone della Cina, compresa quella d'origine del regista; come in molti altri film di Zhang-ke non manca la presenza dell'ottima Zhao Tao, moglie del regista.

Provincia dello Shanxi. Dahai (Jiang Wu) è un ex minatore rimasto senza lavoro dopo che il capo villaggio ha venduto le miniere a un investitore che come da prassi effettua i soliti tagli sul personale. Dahai cerca in tutti i modi di cambiare le cose e ottenere giustizia ma quando va bene viene bellamente ignorato, altrimenti viene insultato o pestato dagli sgherri del potere. Stufo ed esasperato dalla situazione Dahai imbraccia il fucile e si muoverà per farsi giustizia da solo. San Zhou (Wang Baoqiang) transita solamente nello Shanxi (e lascia il segno), incrocia qui solo di sfuggita Dahai; San è un giovane uomo smarrito con una pistola, sembra non trovare pace né posto in questo mondo in cambiamento, si annoia a morte, anche quando torna al suo paese, dalla moglie e dal figlio sulle sponde dello Yangtze, San si annoia e fugge, un uomo in movimento perenne; un uomo con una pistola. Nella provincia dell'Hubei Yu Xiao (Zhao Tao) intrattiene una relazione con un uomo sposato che non vuole saperne di lasciare la moglie. Yu Xiao lavora come receptionist in una sorta di centro massaggi "con lieto fine"; la donna è costretta a volte ad avere a che fare con uomini non proprio educati: quando uno di questi pensa di poterla molestare impunemente le cose non andranno a finire bene. Nel Guandong Xiao Hui (Luo Lanshan) lavora in una fabbrica dove le terribili condizioni di lavoro non prevedono norme sulla sicurezza; quando un suo collega rimarrà ferito per una distrazione la colpa verrà riversata proprio su Xiao Hui che dovrà farsi carico anche economicamente del mancato guadagno del proprietario. Costretto a lasciare la fabbrica Xiao Hui trova lavoro e l'amore in un bordello per facoltosi, lì scoprirà di non essere ricambiato e che l'esistenza in cui si trova invischiato è sempre più difficile da sopportare.

Come già accennato sopra, con Il tocco del peccato Jia Zhang-ke sembra guardare non tanto ai movimenti della Cina, che pur inevitabilmente ci sono, quanto alle conseguenze che i nuovi assetti del Paese scatenano, concentrandosi su scoppi di violenza nati da ingiustizie, disagio sociale, perdita di riferimenti, altra violenza. Nella narrazione di questa violenza il regista è molto diretto, compiendo a volte anche un lavoro estetizzante sulla stessa, pensiamo alla reazione di Zhao Tao all'arma bianca che ricorda da vicino le coreografie dei film marziali o dei wuxia o agli effetti dei colpi esplosi da Dahai. Nella costruzione dei singoli episodi, delle quattro storie, in maniera naturale viene fuori l'ennesimo ritratto, questa volta narrato in maniera diversa, di un Paese in transizione che si porta sulle spalle un carico di responsabilità pagate in ultima istanza da cittadini inermi e impossibilitati a combattere se non, come qui si vede, con una presa di posizione netta e violenta, a volte attiva, altre passiva, sempre disastrosa. È un male comune quello narrato da Zhang-ke, è la piaga che non coinvolge solo la Cina, un Paese enorme che si trascina dietro problematiche altrettanto grandi, ma che tocca con sfumature diverse la gran parte dei paesi del mondo governati da un sistema in crisi ormai perenne che non può più fare a meno di creare vittime su vittime a vantaggio di pochi eletti. Ancora una volta il regista dello Shanxi costruisce un ottimo film capace di farci fermare a pensare, di fronte alla vastità dei luoghi e davanti all'enormità del male che non ci accorgiamo di avallare tutti i giorni.

martedì 6 giugno 2023

ANT-MAN AND THE WASP: QUANTUMANIA

(di Peyton Reed, 2023)

Con Ant-Man and the Wasp: Quantumania si apre la fase cinque del Marvel Cinematic Universe e se il buongiorno è vero che si vede dal mattino questa fase cinque potremmo anche chiuderla qui. La cosa migliore di Ant-Man and the Wasp: Quantumania è quella di non essere andato a vedere il film al cinema e di conseguenza aver risparmiato i soldi del biglietto. La domanda più interessante suscitata da questa nuova prova di Peyton Reed è se essa sia più o meno brutta di Thor: Love and thunder (forse meno brutta ma molto, molto più inutile e superflua, cosa che è anche peggio a parere di chi scrive. E forse è anche più brutta, devo pensarci meglio ma per favore non fatemi perdere questo tempo). Dove sta andando quindi questo Marvel Cinematic Universe? Non è che forse è giunto il momento di tirare un po' il fiato e raccogliere le idee? Diradare le uscite per offrire prodotti migliori? In più l'abbandono di Disney/Marvel da parte di James Gunn non potrebbe forse spostare un poco l'ago della bilancia nel duello simbolico tra Marvel e DC sul grande schermo? Rimanendo in casa Marvel non è chiaro e palese come in un confronto tra la Fase tre e la più recente Fase quattro lo stesso sia impietoso nei confronti di quest'ultima? Il calo di idee sembra assodato, le sorti si risolleveranno sicuramente con il nuovo dei Guardiani della Galassia, ma dopo? Cosa devono aspettarsi i fan della Casa delle idee dalla versione cinematografica dei loro personaggi preferiti? Se a tutto questo aggiungiamo quello che sarà un processo naturale e inevitabile, ovvero l'abbandono progressivo del franchise da parte di attori che sono diventati dei beniamini del pubblico con conseguente recasting o ricambio generazionale, le prospettive non necessariamente tenderanno ad apparire rosee per il futuro del MCU. Passiamo ora a un compito arduo, riassumere in poche parole una trama (?) della quale in testa non mi è rimasto praticamente nulla, forse proprio perché è "il nulla"?

Scott Lang (Paul Rudd), meglio noto come Ant-Man, è finalmente in un momento di serenità: ha scritto un libro di successo, la gente lo apprezza (più o meno), con sé ha la sua amata Hope (Evangeline Lilly) e può passare del tempo con sua figlia Cassie (Kathryn Newton), ormai un'adolescente col pallino della scienza che come nulla fosse inventa un apparecchio per esplorare a distanza e in sicurezza il regno quantico. Purtroppo l'incidente in questi casi è sempre dietro l'angolo e così Cassie, Scott e Hope, insieme a Hank Pym e Janet Van Dyne (gli Ant-Man e Wasp originali interpretati da Michael Douglas e Michelle Pfeiffer) vengono miniaturizzati e trasportati proprio nel regno quantico. Qui Janet mostra segni di inquietudine e sembra nascondere agli altri qualcosa di proveniente dalle sue passate esperienze nella dimensione quantica; questo qualcosa non è altri che il despota Kang il Conquistatore (Jonathan Majors) che proprio a causa di Janet ha in passato rischiato di riottenere la possibilità di ripartire alla conquista del multiverso; confinato invece nel quantiverso (licenza poetica) Kang si è dovuto accontentare di schiavizzare la popolazione locale. In questo scenario poco rassicurante i nostri mini eroi dovranno fare cose, vedere gente...

Mentre tentavo di ricordare qualcosa di significativo della trama di Quantumania ho pensato che è più brutto questo film di Love and thunder, così se a Thor ho dato un 4 a questo gli darei un 3 e mezzo, così, giusto per amor di discussione. Lo so, sono un generoso, che ci posso fare? L'impressione è che Reed (Peyton, da non confondere con il marito di Sue) e soci abbiano davvero sbagliato tutto: dal punto di vista estetico il film, nonostante l'impiego ultra invadente di effetti digitali (o meglio proprio per questo) è davvero brutto da guardare, scuro, con quei toni piatti di mattone e marrone, una fotografia pessima e una corsa all'omaggio visivo davvero imbarazzante, ok che ora anche Star Wars è Disney però..., sul versante narrativo peggio mi sento. Il film non riesce a spremere una stilla d'interesse ma nemmeno per sbaglio; il lato umoristico che aveva caratterizzato i primi due film dedicati all'eroe in miniatura è sparito e se c'è non fa mai ridere, non c'è nessun vero approfondimento o qualsivoglia evoluzione nei personaggi, Hope è una figurina sottoutilizzata, il rapporto tra Scott e la figlia non lascia nulla da ricordare, anche gli interpreti non è che si impegnino più di tanto, ma poi chi non è fan della Marvel di carta ha idea di cosa sia Kang? Ma questo imbonitore da circo cos'è? Suvvia, non perdiamo altro tempo, una delle peggiori (scegliete voi) prodotte finora in casa Marvel.

sabato 3 giugno 2023

GUERRA AL GRANDE NULLA

(A case of conscience di James Blish, 1958)

Guerra al grande nulla, che in originale porta il titolo più significativo di A case of conscience, è un romanzo breve del 1958, il più celebre dello scrittore James Blish. Nel 1959 Guerra al grande nulla vince il prestigioso Premio Hugo, il romanzo è in realtà una revisione espansa di un vecchio racconto di Blish pubblicato in origine su rivista; quella vecchia stesura diventa la prima parte del nuovo romanzo ampliato poi con una seconda sezione che cambia scenario e porta l'opera in direzioni diverse andando a creare una sorta di discontinuità narrativa che probabilmente non ha giovato a un racconto in origine molto interessante e originale, almeno all'epoca della sua uscita. In realtà ancora oggi la lettura della prima parte di questo romanzo rimane stimolante e piacevole, diventa tutto più confuso nella seconda parte che disattende alcune delle aspettative del lettore e segue una strada lungo la quale si perdono spunti validi e occasioni di approfondimento a favore di un'evoluzione del protagonista alieno scontata e meno interessante di quel che avrebbe potuto essere. Nonostante questi difetti il libro di Blish rimane comunque tra gli esiti più interessanti tra quelli presentati fino a questa uscita dalla collana Urania 70, la riflessione religioso-teologica proposta dal protagonista di fronte all'esplorazione di un pianeta sconosciuto con una società dominante molto differente dalla nostra non manca di lanciare molti spunti di riflessione degni d'essere approfonditi (cosa che poi non viene fatta, maggior difetto del libro).

L'umanità ha raggiunto la conoscenza per rendere il volo stellare realtà. Un piccolo gruppo di scienziati terrestri vola alla volta di Lithia per capire se il pianeta possa diventare uno scalo commerciale per le rotte terrestri e se lo stesso presenti risorse in qualche modo sfruttabili dagli umani. Su Lithia gli scienziati trovano una civiltà dove la specie dominante è costituita da esseri somiglianti a grossi rettili evoluti, alti quasi quattro metri e capaci di costituire una società che assomiglia non poco a una sorta di Paradiso terrestre. I lithiani vivono nella più perfetta armonia, non conoscono concetti come "conflitto" né sentimenti quali avidità, invidia o quanto di negativo la razza umana è riuscita a concepire nel corso dei millenni. Di contro il lithiani non conoscono nemmeno le passioni, vivono in armonia grazie a una predisposizione del tutto naturale, innata, e soprattutto non hanno nulla che assomigli al concetto di religione, idolatria o altro, nulla che faccia loro distinguere tra bene e male, sono semplicemente volti a un concetto di vita senza prevaricazione alcuna. Ciò nonostante la società Lithana non è primitiva, i rettili hanno sviluppato tecnologie e conoscenze differenti da quelle terrestri a causa della differente conformazione del loro habitat, eppure sono aperti a nuove forme di sviluppo e riescono a creare buoni rapporti anche con lo straniero terrestre. Dopo diverso tempo in cui la compagine proveniente dalla Terra studia il pianeta, Padre Ramon Ruiz Sanchez, gesuita e biologo, inizia a sospettare di un ambiente così perfetto nel quale non c'è traccia di Dio, pian piano inizia a credere che dietro la creazione di Lithia possa esserci lo zampino del Maligno. Il fisico Clever invece si convince che il pianeta sia la base perfetta per la NATO per dar vita a un'immensa produzione di ordigni atomici. I due scienziati, insieme al chimico Michelis e al geologo Agronski si troveranno a dover decidere del futuro di Lithia, ma forse sarà il rettile Chtexa a prendere la decisione che più si rivelerà significativa per il futuro del suo pianeta.

Le riflessioni di natura teologica che il protagonista principale, Padre Ramon, mette in campo, arrivando fino a credere a un intervento fondativo del Maligno riguardo la nascita della società lithiana e che lo porteranno a essere tacciato d'eresia, sono di certo l'aspetto più significativo e coinvolgente di questo romanzo di James Blish. La Chiesa terrestre non concepisce la capacità di creare la vita da parte del Maligno, dogma questo che porterà il prete verso la scomunica e a essere tacciato d'eresia. La contrapposizione di Padre Ramon al collega Clever con Michelis e Agronski a fare da ago della bilancia, costituisce il cuore della prima parte del romanzo insieme alla descrizione della società aliena rappresentata qui per lo più da Chtexa, rettiliano vicino a Padre Ramon. Le prese di posizione dei personaggi, le descrizioni dei sistemi di comunicazione lithiani e di altri aspetti di questo mondo sono realmente avvincenti e purtroppo si perdono nella seconda parte del romanzo dove il protagonista diverrà Egtverchi, progenie di Chtexa sviluppatasi nel viaggio verso la Terra e cresciuto con tutti i difetti e le abitudini terrestri. Si perde qui quella disquisizione sulla vera origine dei lithiani, quella diatriba religiosa che avrebbe potuto tener banco e desto l'interesse del lettore che invece si trova di fronte a una metafora su come il male del mondo (dei mondi) siamo noi terrestri e la nostra cultura (metafora peraltro anche condivisibile). Ci si trova così con un rettiliano deviato dai nostri usi e costumi che non mancherà di attirare l'attenzione e far più danno possibile, azioni che si ripercuoteranno poi, insieme alle scellerate scelte dei terrestri, anche sul suo pianeta d'origine. Nel complesso Guerra al grande nulla rimane una lettura stimolante, peccato la deriva che il romanzo subisce nel suo ampliamento volto a garantire una pubblicazione esterna al giro delle riviste, senza un deciso cambio di ritmo e destinazione ne sarebbe potuto uscire un libro di fantascienza migliore di questo.

venerdì 2 giugno 2023

TRE VOLTI

(Trois visages di Jafar Panahi, 2018)

Nonostante il divieto di girare nuovi film comminatogli dal Governo del suo paese il coraggioso regista Jafar Panahi sfida ancora una volta le istituzioni oscurantiste di un Iran in continua regressione libertaria e torna alla sua passione clandestina: il cinema. Con una spada di Damocle sospesa sul capo volta a impedirgli di realizzare nuove opere e di lasciare il Paese, Panahi fa di necessità virtù e si arrangia come può; come già fatto per Taxi Teheran il regista allestisce la sua automobile come fosse un laboratorio cinematografico e parte, questa volta non per incontrare la gente della città, della capitale, si muove invece alla volta di una sperduta zona montana nella quale sembra che una giovane ragazza abbia scelto di togliersi la vita in seguito ai continui divieti impostigli dalla sua famiglia riguardo al modo di condurre la sua esistenza e su come pensare il suo futuro. Così, a dispetto della fatica di trovarsi intrappolato all'interno di un calvario giudiziario liberticida, Panahi riesce ancora una volta a esprimersi clandestinamente e a colpire forte con una leggerezza che sembra baciare le sue pellicole nonostante i temi trattati leggeri non lo siano affatto. Noi, da spettatori, vediamo chiaramente tutto ciò che di storto i suoi film ci mostrano, tutto ciò che tutti dovremmo aver il coraggio di combattere, ma a guardare meglio sembra proprio che ciò che realmente preme a Panahi sia l'atto di girare, raccontare, magari sì per denunciare, ma soprattutto per non essere imbrigliato, per un bisogno impellente, per non permettere che un pezzo importante della sua esistenza gli venga ingiustamente portato via.

Ancora una volta Panahi è protagonista nei panni di sé stesso, accompagnato dall'attrice iraniana Behnaz Jafari, anch'essa nella parte di sé stessa. La Jafari è un'attrice molto nota in Iran, protagonista di una serie televisiva di lungo corso. Un giorno l'attrice riceve un video sul suo cellulare; il video è di una giovane ragazza di nome Marziyeh (Marziyeh Rezaei) che vorrebbe fare l'attrice, iscritta a una scuola di recitazione a Teheran, una scuola che non potrà frequentare a causa del divieto della sua famiglia, del fratello soprattutto, che vede la scelta di Marziyeh come un disonore e un allontanarsi dai dettami che vogliono donne non indipendenti e sottomesse ai voleri delle famiglie d'origine. Il video è girato in una grotta di una zona montana, nel video la giovane implora l'aiuto della Jafari, minacciando di uccidersi per non dover subire un futuro controllato da altri, il video termina con quella che a tutti gli effetti sembra un'impiccagione, il suicidio di una ragazza ancora nel fiore dell'età. La Jafari, turbata dal video e incerta se credere o meno a ciò che ha visto, chiede l'aiuto dell'amico Jafar Panahi; i due si mettono in viaggio verso la zona remota in cui abita la famiglia di Marziyeh, alla ricerca di qualche indizio. Qui si imbattono in una società arretrata e ancora fortemente legata a un patriarcato soffocante nella quale i sogni di una giovane donna vengono bollati come mattane o semplici grilli per la testa, gli incontri con la gente del posto saranno diversi, alcuni positivi, altri meno, nel frattempo si cerca la giovane ragazza.

Rispetto al precedente Taxi Teheran questo Tre volti, pur nella sua libertà, dà l'idea di seguire una sceneggiatura più ferrea; sono comunque molti i punti di contatto tra i due film, primo fra tutti la presenza dell'auto come location protagonista nella quale Panahi cela il corrispondente di una produzione cinematografica, in comune i due film hanno anche i risicati mezzi adottati per realizzarli. Se Taxi Teheran poteva sembrare più frammentato nell'incedere (ma anche più vivace), grazie ai molti incontri di diverso stampo che Panahi inanellava lungo i suoi spostamenti, Tre volti ha uno sviluppo più classico, sempre prendendo il termine con le molle, e presenta almeno un personaggio, quello del fratello di Marziyeh, realmente respingente, almeno per noi occidentali che non possiamo e non riusciamo a tollerare mentalità così prevaricatrici e non dotate nemmeno del più minimo lampo d'illuminazione. Eppure Panahi ci trasmette la durezza della situazione senza giudizi palesi, senza mai scagliarsi contro nessuno, perché a volte l'ignoranza è talmente radicata che è difficile trovare un colpevole in un contesto privo di mezzi per progredire, si coglie quindi tutta la difficoltà di uno status quo dove davvero si vedono pochissimi spiragli di miglioramento, per Panahi non resta così che continuare a girare, eludere le regole, tentare di sopravvivere senza mai fuggire.

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