(Di renjie di Tsui Hark, 2010)
Nel passato di Tsui Hark c'è un po' di tutto: nasce in Vietnam da genitori cinesi in una famiglia numerosissima, si trasferisce da adolescente ad Hong Kong dove inizia gli studi di secondo grado che proseguiranno poi in Texas; al termine degli stessi Hark si trasferirà a New York dove avrà le prime esperienze in campo cinematografico. Sul finire dei 70 torna a Hong Kong dove diverrà uno dei massimi esponenti della New Wave del cinema hongkonghese. Nei suoi primi lavori mischia il genere orientale del wuxia al mistery e a derive horror e fantasy, come produttore collabora con registi del calibro di John Woo insieme al quale realizza, dirigendone anche il terzo episodio, la saga A better tomorrow, grazie a una certa sensibilità per la messa in scena spettacolare viene anche definito lo Steven Spielberg d'Oriente.
Proprio l'attenzione alla forma dello spettacolo, alla messa in scena, alla sinuosità dei movimenti degli attori in campo, ai colori, alla visione d'insieme, alle misure e agli spazi, rendono Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma degno d'essere considerato un prodotto di un potenziale Spielberg d'Oriente, o ancor meglio un prodotto degno del nome di Tsui Hark. Il film è un moderno connubio del genere wuxia (il nostro cappa e spada con i dovuti distinguo) con il classico giallo all'inglese, il cosiddetto whodunit nel quale si susseguono a un fatto delittuoso ipotesi e potenziali colpevoli fino all'inevitabile svelamento finale del malfattore di turno.
In Cina sta per essere incoronata la prima imperatrice donna, Wu Zetan (Carina Lau) alla quale in passato si oppose un movimento rivoluzionario tra le cui fila militava Dee Renjie (Andy Lau), un famoso detective. Per i festeggiamenti si sta costruendo davanti al palazzo reale una mastodontica statua del Budda, diverse personalità legate alla supervisione dei lavori muoiono però di una morte inspiegabile, improvvisamente prendono fuoco per autocombustione. Alla futura regina non resta che chiedere l'aiuto del celebre Detective Dee, mettendo da parte i vecchi dissapori e affiancandogli la sua consigliera guerriera Jing'er (Li Bingbing). Ad investigare sugli strani accadimenti anche l'ufficiale Pei Donglai (Chao Deng), tra i tre protagonisti si svilupperanno rapporti spesso ambigui e poco chiari che, insieme alle manovre di diversi altri personaggi, renderanno torbide le acque e impediranno di vedere chiaramente i fatti. Solo con il dipanarsi della vicenda e dei rapporti tra i protagonisti si riuscirà infine a scoprire il colpevole e il macchinoso piano da lui elaborato per intralciare l'incoronazione della futura imperatrice.
Se il gioco della ricerca del colpevole, a un certo punto del film anche intuibile, non è nulla di eccezionale e conferma per le mie preferenze al genere il modello occidentale, l'estetica di Hark non si può non ammirare nel connubio di effetti moderni, anarchiche spruzzate di colore, rigorosità dei costumi, coreografie e movimenti armoniosi e come vuole il wuxia oltre l'umano e la fisica, bellezze innegabili (Li Bingbing non si può che ammirare) e luoghi e atmosfere di grande fascino. Alla fine la forma, il contorno, risultano più interessanti della portata principale, situazione questa che a me personalmente impedisce di godere di un film proprio fino in fondo. Però, tutto sommato, una visione a questo Detective Dee gliela si può anche concedere.
martedì 27 febbraio 2018
domenica 25 febbraio 2018
ANTICHRIST
(di Lars Von Trier, 2009)
Il Cinema di Lars Von Trier non è semplice, Antichrist forse lo è ancor di meno. Al momento della presentazione del film a pubblico e critica, quest'ultima non fu troppo benevola nei confronti del film del regista, definendolo un vuoto artificio di pura, sebbene spesso meravigliosa, forma. Sostanzialmente estetica, tecnica, messa in scena del nulla o quasi, qualcuno usò anche, parafrasando un poco il titolo del film, la definizione Anticinema. Eppure mi sembra molto ingiusto ridurre l'opera al solo aspetto formale (in alcune sequenze realmente eccezionale), il film esce dagli schemi, è interessante e in qualche modo richiama minuto dopo minuto l'attenzione e la partecipazione dello spettatore. Alla fine si può discutere sul fatto che Antichrist sia o meno un bel film, può piacere come no, personalmente avrei difficoltà ad esprimere un giudizio netto in questo senso, trattandosi di un'opera così particolare faccio fatica anche a mettermi d'accordo con me stesso al riguardo, certamente è un film che vale la pena guardare per poterlo giudicare, e già questo potrebbe essere un ottimo inizio.
Come ottimo è l'inizio del film stesso, la sequenza d'apertura è una dimostrazione di talento da parte del regista danese, un ralenty in un superbo bianco e nero di circa cinque/sei minuti sulle note dell'aria di Händel Lascia ch'io pianga. Moglie (Charlotte Gainsbourg) e marito (Willem Dafoe) hanno un appassionato rapporto sessuale, prima sotto la doccia, poi in bagno, poi ancora a letto. Il tempo è dilatato, le gocce d'acqua si separano l'una dall'altra mentre cadono calde sul volto della Gainsbourg, il vapore aleggia lento, dietro una finestra la neve scende fredda, il sesso di lui la penetra in maniera così naturale, la lavatrice gira, il volto di lei è puro piacere, nell'altra stanza un palloncino vola, un bel bambino biondo gioca nel suo lettino. Tre statuine osservano tutto, sono lutto, dolore e disperazione, anticipo del film a venire; il bambino scende dal letto, una bottiglia cade nel vuoto spargendo il suo liquido, il vento apre la finestra come il sesso apre la bocca di lei, un parallelo di tragedia e piacere, il bimbo cade, la madre ha il suo orgasmo, la lavatrice si ferma. Al suo interno tutto è di un candore immacolato.
Una costruzione perfetta fatta di simbolismi, parallelismi e tecnica, visivamente molto accattivante, esplicita, rafforzata dalla scelta della musica, lo stesso Von Trier ha dichiarato di aver "usato" Antichrist come terapia per uscire da un suo periodo di profonda depressione, da qui i vari simbolismi e le tematiche forti presenti nel film, non solo quella sull'elaborazione del lutto, ma anche quelle sul percorso terapeutico, sul conflitto atavico tra uomo e donna, il discorso sulla Natura come espressione femminile e spesso malevola e più in generale il tema del potere femminino, della figura della donna, argomento per il quale il regista è anche stato tacciato di misoginia. Insomma, almeno potenzialmente in Antichrist c'è parecchia carne al fuoco, ai veri esperti l'ardua sentenza sul come e sul se gli argomenti di cui sopra siano stati trattati effettivamente dal regista.
La prima parte è dedicata all'elaborazione del lutto. Il marito, affermato psicoterapeuta, andando contro quel che suggerisce la professione, si fa carico della guarigione della moglie, tra sofferenza, scoperte e recriminazioni. Si passa poi al caos provocato dal dolore, si torna sui luoghi dei ricordi, il film piega su un percorso ancor più psicologico, visionario, onirico e sicuramente crudo e violento, tra sesso, contrapposizioni forti e nuove inquietanti rivelazioni. Si passerà poi al conflitto aperto e all'orrore della disperazione.
I due protagonisti tengono in piedi il film da soli, la Gainsbourg, eccezionale, si concede oltre ogni limite (lo rifarà in misura ancor maggiore più avanti con Nimphomaniac sempre di Von Trier), il film presenta diverse sequenze onestamente disturbanti, lesioni della carne con almeno una scena estrema raramente vista in altre occasioni, sesso e masturbazione, tensione e dolore, all'apparenza tutto sembra avere la sua ragione, il film colpisce duro allo stesso modo in cui probabilmente una terapia d'urto potrebbe fare nei casi più gravi. Von Trier sostiene che la terapia Antichrist con lui abbia funzionato, non so quanto il film possa funzionare per lo spettatore. Sicuramente Antichrist non è una visione per tutti, è un film cerebrale che allo stesso tempo attacca la pancia, prima di iniziarne la visione è bene essere preparati, non si affronta un film come questo per riempire un paio d'ore.
Il Cinema di Lars Von Trier non è semplice, Antichrist forse lo è ancor di meno. Al momento della presentazione del film a pubblico e critica, quest'ultima non fu troppo benevola nei confronti del film del regista, definendolo un vuoto artificio di pura, sebbene spesso meravigliosa, forma. Sostanzialmente estetica, tecnica, messa in scena del nulla o quasi, qualcuno usò anche, parafrasando un poco il titolo del film, la definizione Anticinema. Eppure mi sembra molto ingiusto ridurre l'opera al solo aspetto formale (in alcune sequenze realmente eccezionale), il film esce dagli schemi, è interessante e in qualche modo richiama minuto dopo minuto l'attenzione e la partecipazione dello spettatore. Alla fine si può discutere sul fatto che Antichrist sia o meno un bel film, può piacere come no, personalmente avrei difficoltà ad esprimere un giudizio netto in questo senso, trattandosi di un'opera così particolare faccio fatica anche a mettermi d'accordo con me stesso al riguardo, certamente è un film che vale la pena guardare per poterlo giudicare, e già questo potrebbe essere un ottimo inizio.
Come ottimo è l'inizio del film stesso, la sequenza d'apertura è una dimostrazione di talento da parte del regista danese, un ralenty in un superbo bianco e nero di circa cinque/sei minuti sulle note dell'aria di Händel Lascia ch'io pianga. Moglie (Charlotte Gainsbourg) e marito (Willem Dafoe) hanno un appassionato rapporto sessuale, prima sotto la doccia, poi in bagno, poi ancora a letto. Il tempo è dilatato, le gocce d'acqua si separano l'una dall'altra mentre cadono calde sul volto della Gainsbourg, il vapore aleggia lento, dietro una finestra la neve scende fredda, il sesso di lui la penetra in maniera così naturale, la lavatrice gira, il volto di lei è puro piacere, nell'altra stanza un palloncino vola, un bel bambino biondo gioca nel suo lettino. Tre statuine osservano tutto, sono lutto, dolore e disperazione, anticipo del film a venire; il bambino scende dal letto, una bottiglia cade nel vuoto spargendo il suo liquido, il vento apre la finestra come il sesso apre la bocca di lei, un parallelo di tragedia e piacere, il bimbo cade, la madre ha il suo orgasmo, la lavatrice si ferma. Al suo interno tutto è di un candore immacolato.
Una costruzione perfetta fatta di simbolismi, parallelismi e tecnica, visivamente molto accattivante, esplicita, rafforzata dalla scelta della musica, lo stesso Von Trier ha dichiarato di aver "usato" Antichrist come terapia per uscire da un suo periodo di profonda depressione, da qui i vari simbolismi e le tematiche forti presenti nel film, non solo quella sull'elaborazione del lutto, ma anche quelle sul percorso terapeutico, sul conflitto atavico tra uomo e donna, il discorso sulla Natura come espressione femminile e spesso malevola e più in generale il tema del potere femminino, della figura della donna, argomento per il quale il regista è anche stato tacciato di misoginia. Insomma, almeno potenzialmente in Antichrist c'è parecchia carne al fuoco, ai veri esperti l'ardua sentenza sul come e sul se gli argomenti di cui sopra siano stati trattati effettivamente dal regista.
La prima parte è dedicata all'elaborazione del lutto. Il marito, affermato psicoterapeuta, andando contro quel che suggerisce la professione, si fa carico della guarigione della moglie, tra sofferenza, scoperte e recriminazioni. Si passa poi al caos provocato dal dolore, si torna sui luoghi dei ricordi, il film piega su un percorso ancor più psicologico, visionario, onirico e sicuramente crudo e violento, tra sesso, contrapposizioni forti e nuove inquietanti rivelazioni. Si passerà poi al conflitto aperto e all'orrore della disperazione.
I due protagonisti tengono in piedi il film da soli, la Gainsbourg, eccezionale, si concede oltre ogni limite (lo rifarà in misura ancor maggiore più avanti con Nimphomaniac sempre di Von Trier), il film presenta diverse sequenze onestamente disturbanti, lesioni della carne con almeno una scena estrema raramente vista in altre occasioni, sesso e masturbazione, tensione e dolore, all'apparenza tutto sembra avere la sua ragione, il film colpisce duro allo stesso modo in cui probabilmente una terapia d'urto potrebbe fare nei casi più gravi. Von Trier sostiene che la terapia Antichrist con lui abbia funzionato, non so quanto il film possa funzionare per lo spettatore. Sicuramente Antichrist non è una visione per tutti, è un film cerebrale che allo stesso tempo attacca la pancia, prima di iniziarne la visione è bene essere preparati, non si affronta un film come questo per riempire un paio d'ore.
mercoledì 21 febbraio 2018
L'ARRIVO DI WANG
(dei Manetti Bros, 2011)
I Manetti sguazzano da anni in una dimensione che non è quella delle grandi produzioni, probabilmente le cose negli ultimi anni sono migliorate grazie al ritorno di Coliandro nei palinsesti Rai, ritorno fortemente voluto e chiesto a gran voce dai fan, e soprattutto grazie ai buoni successi, almeno di critica, dei più recenti Song 'è Napule e Ammore e malavita. Nel 2011 però, anno di uscita di questo L'arrivo di Wang, i confini materiali (non quelli mentali) e le possibilità economiche del Cinema dei Manetti sono ancora limitate. Questo però non ferma i due fratelli Marco e Antonio Manetti che, anzi, fanno di necessità virtù puntando sulle idee e sui generi per travalicare, come fanno già da tempo con L'ispettore Coliandro, i confini un poco asfittici della fiction e delle piccole produzioni italiane. Il film è realizzato con quattro soldi, quattro volti (tre veri e uno finto), una location e alcune buone idee. Poverissimo ma allo stesso tempo interessante, anche visivamente per alcuni versi, con una buona tensione in diversi passaggi della vicenda sottolineata dalle buone prestazioni del veterano Ennio Fantastichini e della meno nota Francesca Cuttica, già con i Manetti nelle stagioni sette e otto de Il Commissario Rex (eh si, i Manetti hanno fatto anche quello, parecchio trash se ci è concesso). Guardando operazioni come questa si capisce che i Manetti nel piccolo sanno benissimo come muoversi e che quel tipo di dimensione ai due fratelli piace pure, e alla fine riescono a farla piacere anche a noi.
Gaia Aloisi (Francesca Cuttica) è un'interprete impegnata a tradurre un film dal cinese, mentre lavora riceve una chiamata da una persona con cui ha collaborato in precedenza che le offre un lavoro di un paio d'ore urgentissimo ma molto ben retribuito. La persona ha evidentemente a che fare con lo Stato, Gaia, visto il preavviso praticamente nullo, è un po' titubante ma finisce per accettare. Andrà a prenderla a casa il signor Curti (Ennio Fantastichini), uomo in odore di Servizi Segreti, che spiega a Gaia che dovrà tradurre dal cinese una sorta di interrogatorio a un certo signor Wang (Li Yong). Da qui iniziano i misteri, Gaia non potrà sapere dove si terrà l'interrogatorio, ci arriverà bendata, dovrà tradurre al buio senza mai vedere in faccia Wang, tutto ciò ovviamente inizia a spaventarla e a crearle inquietudine, inizia a pensare al peggio finché non le si palesa una verità molto diversa da quella che lei stessa si stava figurando.
Penso che ormai tutti abbiano sentito parlare di questo film e il rischio di spoiler è ormai molto ridotto (comunque con la trama ci fermiamo qui), quello che i Manetti riescono a fare benissimo è creare la giusta tensione e una buona dose d'attesa utilizzando pochissimi elementi: il mistero iniziale, la dinamica tra personaggi chiusi nella stessa stanza, effetti speciali a dir poco artigianali, le sfuriate di Fantastichini, la paura di Wang, l'angoscia della Cuttica e le derive nel genere che è quello, sbilanciamoci un poco, fantascientifico.
Oltre al sano divertimento che il film offre durante i suoi 80 minuti, ne L'arrivo di Wang ci si può vedere anche altro. Intanto la difficoltà di andare a competere per un prodotto simile, che pure ha vinto i suoi premi, con produzioni internazionali ad alto budget che si inseriscono nello stesso filone, ma anche la possibilità molto concreta di ovviare a tali disparità con la gestione ottimale delle idee supportate da scelte visive che se pure non sono all'altezza della concorrenza appaiono nell'economia del film comunque dignitose. Poi c'è la conferma che i Manetti se ne fottono, e io li amo per questo. Se ne fottono del pensare comune, non cedono alla metafora facile dell'altro maltrattato ma che in fondo è un bravo Cristo, se ne fottono, un po' come fanno gioiosamente con Coliandro, e vanno per la loro strada che non è affatto estrema, anzi, ma nemmeno addormentata e addomesticata. Questi sono come il famoso falegname, che con 30.000 lire lo fanno meglio.
I Manetti sguazzano da anni in una dimensione che non è quella delle grandi produzioni, probabilmente le cose negli ultimi anni sono migliorate grazie al ritorno di Coliandro nei palinsesti Rai, ritorno fortemente voluto e chiesto a gran voce dai fan, e soprattutto grazie ai buoni successi, almeno di critica, dei più recenti Song 'è Napule e Ammore e malavita. Nel 2011 però, anno di uscita di questo L'arrivo di Wang, i confini materiali (non quelli mentali) e le possibilità economiche del Cinema dei Manetti sono ancora limitate. Questo però non ferma i due fratelli Marco e Antonio Manetti che, anzi, fanno di necessità virtù puntando sulle idee e sui generi per travalicare, come fanno già da tempo con L'ispettore Coliandro, i confini un poco asfittici della fiction e delle piccole produzioni italiane. Il film è realizzato con quattro soldi, quattro volti (tre veri e uno finto), una location e alcune buone idee. Poverissimo ma allo stesso tempo interessante, anche visivamente per alcuni versi, con una buona tensione in diversi passaggi della vicenda sottolineata dalle buone prestazioni del veterano Ennio Fantastichini e della meno nota Francesca Cuttica, già con i Manetti nelle stagioni sette e otto de Il Commissario Rex (eh si, i Manetti hanno fatto anche quello, parecchio trash se ci è concesso). Guardando operazioni come questa si capisce che i Manetti nel piccolo sanno benissimo come muoversi e che quel tipo di dimensione ai due fratelli piace pure, e alla fine riescono a farla piacere anche a noi.
Gaia Aloisi (Francesca Cuttica) è un'interprete impegnata a tradurre un film dal cinese, mentre lavora riceve una chiamata da una persona con cui ha collaborato in precedenza che le offre un lavoro di un paio d'ore urgentissimo ma molto ben retribuito. La persona ha evidentemente a che fare con lo Stato, Gaia, visto il preavviso praticamente nullo, è un po' titubante ma finisce per accettare. Andrà a prenderla a casa il signor Curti (Ennio Fantastichini), uomo in odore di Servizi Segreti, che spiega a Gaia che dovrà tradurre dal cinese una sorta di interrogatorio a un certo signor Wang (Li Yong). Da qui iniziano i misteri, Gaia non potrà sapere dove si terrà l'interrogatorio, ci arriverà bendata, dovrà tradurre al buio senza mai vedere in faccia Wang, tutto ciò ovviamente inizia a spaventarla e a crearle inquietudine, inizia a pensare al peggio finché non le si palesa una verità molto diversa da quella che lei stessa si stava figurando.
Penso che ormai tutti abbiano sentito parlare di questo film e il rischio di spoiler è ormai molto ridotto (comunque con la trama ci fermiamo qui), quello che i Manetti riescono a fare benissimo è creare la giusta tensione e una buona dose d'attesa utilizzando pochissimi elementi: il mistero iniziale, la dinamica tra personaggi chiusi nella stessa stanza, effetti speciali a dir poco artigianali, le sfuriate di Fantastichini, la paura di Wang, l'angoscia della Cuttica e le derive nel genere che è quello, sbilanciamoci un poco, fantascientifico.
Oltre al sano divertimento che il film offre durante i suoi 80 minuti, ne L'arrivo di Wang ci si può vedere anche altro. Intanto la difficoltà di andare a competere per un prodotto simile, che pure ha vinto i suoi premi, con produzioni internazionali ad alto budget che si inseriscono nello stesso filone, ma anche la possibilità molto concreta di ovviare a tali disparità con la gestione ottimale delle idee supportate da scelte visive che se pure non sono all'altezza della concorrenza appaiono nell'economia del film comunque dignitose. Poi c'è la conferma che i Manetti se ne fottono, e io li amo per questo. Se ne fottono del pensare comune, non cedono alla metafora facile dell'altro maltrattato ma che in fondo è un bravo Cristo, se ne fottono, un po' come fanno gioiosamente con Coliandro, e vanno per la loro strada che non è affatto estrema, anzi, ma nemmeno addormentata e addomesticata. Questi sono come il famoso falegname, che con 30.000 lire lo fanno meglio.
sabato 17 febbraio 2018
IL TRONO DI SPADE -- STAGIONI DA 1 A 4 (così, in generale)
All'inizio non capivo. Non capivo proprio. Dopo aver visto per intero le prime due stagioni, Il trono di spade mi faceva lo stesso effetto che mi fanno gli U2 per la musica rock, indiscutibilmente un buon prodotto, ben confezionato, con delle buone idee ma anche dei punti deboli, per moltissimi versi interessante, ma idolatrato dai fan oltre misura senza apparente ragione (almeno ai miei occhi, non vorrei sembrare troppo arrogante). Quello che non capivo, esattamente come mi accade per altri fenomeni, non era tanto il prodotto in sé, in fin dei conti valido, ma la posizione smodatamente entusiasta dei fan, i picchi di telespettatori che lo show incollava davanti ai teleschermi e via dicendo. Perché Il trono di spade piaceva più di altre serie che mi sembravano offrire di più alla nostra mente, al nostro cuore, alla nostra pancia o più semplicemente alle nostre serate bisognose di intrattenimento? Niente, non lo capivo proprio, così, spinto anche dai miei amici, sono andato avanti con la visione. Ora, giunto alla fine della quarta stagione, inizio a capire l'entusiasmo di molti, tutto (o quasi) mi è più chiaro.
Ammetto di essere partito con un certo scetticismo iniziale nonostante i ripetuti inviti alla visione, tempo fa mi prepararono addirittura un bel dvd con tutta la prima serie pronta per essere guardata, dvd che rimase lì a prendere polvere per diversi anni. De Il trono di spade se ne parlava molto già all'epoca, più che altro i temi di discussione erano il fantasy e la gran dose di violenza e di sesso presenti nel serial, tutte basi che, prese per quelle che sono, difficilmente potrebbero spingermi a guardare qualcosa, in primis il fantasy che detesto cordialmente. Poi, come dicevo sopra, sul finire dello scorso anno, sono riusciti a convincermi e sono partito.
Il primo punto a favore del serial che ho potuto riscontrare lungo le prime quattro stagioni è che l'impianto fantasy non è mai troppo invadente, quello che è il fulcro della vicenda sono gli intrighi di palazzo, i rapporti tra i personaggi, la lotta per il regno e per rimanere vivi, le rivalità, le vendette e via di questo passo. Insomma, Il trono di spade non offre grandi chiavi di lettura o spunti di riflessione, è puro intrattenimento, se vogliamo è il concetto della soap opera portata a livelli molto alti da un contesto affascinante, personaggi ben tratteggiati e una scrittura che almeno dalla terza stagione decolla in maniera esplosiva incollandoti allo schermo per parteggiare per questo o quel personaggio (ma attenzione a non affezionarvici troppo che tanto ve li ammazzano). Lungo le prime due stagioni i miei dubbi sono rimasti sempre vivi, sicuramente il lavoro fatto da sceneggiatori e registi è molto professionale, migliora ancora nel corso delle stagioni successive, però, salvo in alcune puntate, non trovavo quei guizzi che potessero farmi amare una serie che comunque rimaneva piacevole. Si possono considerare le prime due annate una grande presentazione del mondo e dei tantissimi personaggi del Trono, intervallata da alcuni episodi importanti e avvincenti, una presentazione forse un po' troppo lunga. Dalla terza serie però si cambia passo, da un certo punto in avanti sembra che ad ogni puntata o quasi debba accadere qualcosa di sorprendente o fondamentale, i toni si inaspriscono, i personaggi crescono, muoiono, cambiano. La narrazione diventa semplicemente avvincente mantenendo ritmi serrati capaci di non annoiare mai, alla fine a qualcuno di quegli stronzetti finisci anche per affezionarti.
Se il lato fantasy (per ora) rimane sotto controllo, si spinge molto su sesso e violenza, forse anche più del necessario, ma quello che si descrive è un mondo violento, lascivo, corrotto, la serie non è certo ambientata in un convento di educande, la maggior parte delle donne sullo schermo sono puttane o spietate manipolatrici, gli uomini dei viziosi sadici, corrotti, violenti, assetati di potere. A parte rare eccezioni, come si suol dire, il più pulito ha la rogna. Quello che funziona veramente bene è che alcuni di questi bastardi si finisce per odiarli di tutto cuore mentre altri, anche col tempo, si finisce in qualche modo per apprezzarli. Per godersi la serie bisogna amare i racconti collettivi, i personaggi sono tantissimi e a me personalmente, arrivato alla quarta stagione, capita ancora di fare confusione su alcune dinamiche, per fortuna posso contare su un paio di consiglieri esperti che mi riportano sulla strada giusta.
Alla fine mi sono ricreduto, ne vale la pena, ora si riattacca con la quinta, poi si vedrà.
Ammetto di essere partito con un certo scetticismo iniziale nonostante i ripetuti inviti alla visione, tempo fa mi prepararono addirittura un bel dvd con tutta la prima serie pronta per essere guardata, dvd che rimase lì a prendere polvere per diversi anni. De Il trono di spade se ne parlava molto già all'epoca, più che altro i temi di discussione erano il fantasy e la gran dose di violenza e di sesso presenti nel serial, tutte basi che, prese per quelle che sono, difficilmente potrebbero spingermi a guardare qualcosa, in primis il fantasy che detesto cordialmente. Poi, come dicevo sopra, sul finire dello scorso anno, sono riusciti a convincermi e sono partito.
Il primo punto a favore del serial che ho potuto riscontrare lungo le prime quattro stagioni è che l'impianto fantasy non è mai troppo invadente, quello che è il fulcro della vicenda sono gli intrighi di palazzo, i rapporti tra i personaggi, la lotta per il regno e per rimanere vivi, le rivalità, le vendette e via di questo passo. Insomma, Il trono di spade non offre grandi chiavi di lettura o spunti di riflessione, è puro intrattenimento, se vogliamo è il concetto della soap opera portata a livelli molto alti da un contesto affascinante, personaggi ben tratteggiati e una scrittura che almeno dalla terza stagione decolla in maniera esplosiva incollandoti allo schermo per parteggiare per questo o quel personaggio (ma attenzione a non affezionarvici troppo che tanto ve li ammazzano). Lungo le prime due stagioni i miei dubbi sono rimasti sempre vivi, sicuramente il lavoro fatto da sceneggiatori e registi è molto professionale, migliora ancora nel corso delle stagioni successive, però, salvo in alcune puntate, non trovavo quei guizzi che potessero farmi amare una serie che comunque rimaneva piacevole. Si possono considerare le prime due annate una grande presentazione del mondo e dei tantissimi personaggi del Trono, intervallata da alcuni episodi importanti e avvincenti, una presentazione forse un po' troppo lunga. Dalla terza serie però si cambia passo, da un certo punto in avanti sembra che ad ogni puntata o quasi debba accadere qualcosa di sorprendente o fondamentale, i toni si inaspriscono, i personaggi crescono, muoiono, cambiano. La narrazione diventa semplicemente avvincente mantenendo ritmi serrati capaci di non annoiare mai, alla fine a qualcuno di quegli stronzetti finisci anche per affezionarti.
Se il lato fantasy (per ora) rimane sotto controllo, si spinge molto su sesso e violenza, forse anche più del necessario, ma quello che si descrive è un mondo violento, lascivo, corrotto, la serie non è certo ambientata in un convento di educande, la maggior parte delle donne sullo schermo sono puttane o spietate manipolatrici, gli uomini dei viziosi sadici, corrotti, violenti, assetati di potere. A parte rare eccezioni, come si suol dire, il più pulito ha la rogna. Quello che funziona veramente bene è che alcuni di questi bastardi si finisce per odiarli di tutto cuore mentre altri, anche col tempo, si finisce in qualche modo per apprezzarli. Per godersi la serie bisogna amare i racconti collettivi, i personaggi sono tantissimi e a me personalmente, arrivato alla quarta stagione, capita ancora di fare confusione su alcune dinamiche, per fortuna posso contare su un paio di consiglieri esperti che mi riportano sulla strada giusta.
Alla fine mi sono ricreduto, ne vale la pena, ora si riattacca con la quinta, poi si vedrà.
mercoledì 14 febbraio 2018
25 INDISCRETE DOMANDE CINEMATOGRAFICHE
Ora capita che in passato, nel maggio 2016 per la precisione, io ebbi già a partecipare a un'iniziativa del tutto simile, tanto che le 25 domande a cui ora mi sottoporrò sono rimaste le medesime. Aggiornerò quindi solo quel che il tempo ha modificato (in corsivo), sperando di fare cosa gradita a qualcuno.
E andiamo ad incominciare.
1. Il personaggio cinematografico che vorrei essere
Beh, così su due piedi mi cogliete impreparato, non è così facile. Diciamo un qualsiasi personaggio di quelli da film, non necessariamente un eroe, no, solo uno di quelli che hanno una vita piena, di eventi, di sentimenti, anche di qualche dolore al cui confronto le nostre vite spesso ordinarie sembrano così banali. Poi, se proprio devo scegliere un personaggio, discostandomi anche un attimo da quanto appena detto, ho sempre subito la fascinazione di Sherlock Holmes, sia letterario che cinematografico (questo non sempre). Avere la sua intelligenza, vivere nella Londra vittoriana...
Beh, così su due piedi mi cogliete impreparato, non è così facile. Diciamo un qualsiasi personaggio di quelli da film, non necessariamente un eroe, no, solo uno di quelli che hanno una vita piena, di eventi, di sentimenti, anche di qualche dolore al cui confronto le nostre vite spesso ordinarie sembrano così banali. Poi, se proprio devo scegliere un personaggio, discostandomi anche un attimo da quanto appena detto, ho sempre subito la fascinazione di Sherlock Holmes, sia letterario che cinematografico (questo non sempre). Avere la sua intelligenza, vivere nella Londra vittoriana...
2. Genere che amo e genere che odio
Non fruisco del Cinema per assoluti, mi piacciono i bei film e cerco di non guardare quelli che a mio avviso possono sembrarmi brutti o poco interessanti (con le dovute eccezioni imposte dai miei doveri di papà), quindi sono aperto un po' a tutto. Diciamo che preferisco il dramma alla commedia, genere che non vado a cercarmi troppo ma che non disdegno, guardo pochi horror mentre mi piacciono molto i gangster movie e le storie criminali e amo guardarmi ogni tanto qualche bel western.
3. Film in lingua originale o doppiati?
Solitamente guardo i film in italiano e le serie tv in originale, soprattutto quelle britanniche. Poi in entrambi i casi scappa l'eccezione.
4. L'ultimo film che ho comprato
È un po' che non ne compriamo, l'ultimo che è entrato in casa ci è stato regalato ed è Oceania della Disney.
5. Sono mai andato al cinema da solo?
No, mai, che io ricordi almeno. Non è un'esperienza che scarterei a priori però, chissà...
6. Cosa ne penso dei Blu-Ray?
Niente. Non ho il lettore Blu-Ray, sono fermo al Dvd, ora sono passato a un 40 pollici moderno, uso molto la chiavetta USB, lo streaming, Raiplay, etc...
7. Che rapporto ho con il 3D?
Non mi piace. Mi sembra che l'abuso di questa tecnologia possa portare l'attenzione lontana dalle storie che per me sono quelle che in fin dei conti hanno importanza. Non ho visto molto in 3D ma, Avatar a parte, non ne è mai valsa la pena. Soldi buttati. Ma il 3D è ancora vivo?
8. Cosa rende un film uno dei miei preferiti?
La carica emotiva che regista, attori e narrazione riescono a scatenare. Poi ci sono i film con personaggi azzeccati dei quali non puoi non innamorarti, magari sono film più tamarri ma coinvolgenti. Comunque sopra a tutto l'emozione (o l'epicità in alternativa).
9. Preferisco vedere i film da solo o in compagnia?
Preferisco vederli in silenzio, poi da soli o in compagnia poco importa. Solitamente li guardo da solo, in compagnia cartoni animati e film per famiglie.
10. Ultimo film che ho visto?
Doppio gioco, un noir in bianco e nero di Robert Siodmak del 1949 (vedi sotto).
11. Un film che mi ha fatto riflettere?
Sono tanti i film che in qualche modo possono farti riflettere, dal cartone animato al film impegnato alla serie televisiva, su un problema sociale, sulle ingiustizie, sulla tua situazione personale, sui sentimenti e così via... ogni film riuscito ti fa riflettere su qualcosa. Si potrebbe rispondere a questa domanda con un banale Schindler's List ma anche con Inside Out ad esempio.
12. Un film che mi ha fatto ridere?
Burn after reading dei fratelli Coen.
13. Un film che mi ha fatto piangere?
Ultimamente Coco della Pixar, in parte La foresta dei sogni di Gus Van Sant.
14. Un film orribile?
Boh, ne è pieno il mondo. Il Daredevil con Ben Affleck.
15. Un film che non ho visto perché mi sono addormentato?
Mi capita raramente di addormentarmi guardando un film, se capita è a causa dell'eccessiva stanchezza o per lo scarsissimo interesse in partenza per il film in visione (magari cose che vuol vedere mia figlia e che io proprio no). L'unico caso in cui ricordo di essermi addormentato al cinema è stato durante la visione di American Beauty di Sam Mendes.
16. Un film che non ho visto perché stavo facendo le cosacce?
Definisci cosacce.
17. Il film più lungo che ho visto?
Heimat di Edgar Reitz, in tedesco con i sottotitoli. 924 minuti divisi in undici episodi (ma è un film non una serie). Visione che consiglio a tutti.
18. Il film che mi ha deluso?
Solitamente diversi vincitori del premio oscar, da Il gladiatore a Shakespeare in love, il secondo Avengers e chissà quanti altri.
19. Un film che so a memoria?
Non sono uno che guarda e riguarda gli stessi film, tra quelli che ho visto più volte forse ci sono Ritorno al futuro e Lo chiamavano Trinità, ma almeno per il secondo è passato del tempo.
20. Un film che ho visto al cinema perché mi ci hanno trascinato?
Non ho nessuno che mi trascini al cinema, forse in passato qualche commedia italiana che mi ispirava poco, ma ora non ricordo.
21. Il film più bello tratto da un libro?
Probabilmente Il Padrino o Shining, ma penso ce ne siano davvero tanti.
22. Il film più datato che ho visto?
Forse Il monello del 1921, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
23. Miglior colonna sonora?
Domanda troppo difficile, ci sono film con temi portanti indimenticabili, altri con sottofondi azzeccatissimi, altri ancora con mix di canzoni perfette per le scene, in generale mi piacciono le scelte e i recuperi musicali effettuati da Tarantino, come colonna sonora azzarderei Giù la testa o Il buono, il brutto e il cattivo.
24. Migliore saga cinematografica?
Il Padrino, almeno i primi due episodi, ma ce ne sono altre sicuramente degne (i primi Rocky ad esempio). Dimenticavo, nel genere più disimpegnato sicuramente i primi tre Die Hard, un vero mito!
25. Miglior Remake?
Anche qui quasi impossibile dare una risposta secca, mi aveva divertito molto Ocean's eleven mentre l'originale Colpo grosso l'avevo trovato noioso.
Non fruisco del Cinema per assoluti, mi piacciono i bei film e cerco di non guardare quelli che a mio avviso possono sembrarmi brutti o poco interessanti (con le dovute eccezioni imposte dai miei doveri di papà), quindi sono aperto un po' a tutto. Diciamo che preferisco il dramma alla commedia, genere che non vado a cercarmi troppo ma che non disdegno, guardo pochi horror mentre mi piacciono molto i gangster movie e le storie criminali e amo guardarmi ogni tanto qualche bel western.
3. Film in lingua originale o doppiati?
Solitamente guardo i film in italiano e le serie tv in originale, soprattutto quelle britanniche. Poi in entrambi i casi scappa l'eccezione.
4. L'ultimo film che ho comprato
È un po' che non ne compriamo, l'ultimo che è entrato in casa ci è stato regalato ed è Oceania della Disney.
5. Sono mai andato al cinema da solo?
No, mai, che io ricordi almeno. Non è un'esperienza che scarterei a priori però, chissà...
6. Cosa ne penso dei Blu-Ray?
Niente. Non ho il lettore Blu-Ray, sono fermo al Dvd, ora sono passato a un 40 pollici moderno, uso molto la chiavetta USB, lo streaming, Raiplay, etc...
7. Che rapporto ho con il 3D?
Non mi piace. Mi sembra che l'abuso di questa tecnologia possa portare l'attenzione lontana dalle storie che per me sono quelle che in fin dei conti hanno importanza. Non ho visto molto in 3D ma, Avatar a parte, non ne è mai valsa la pena. Soldi buttati. Ma il 3D è ancora vivo?
8. Cosa rende un film uno dei miei preferiti?
La carica emotiva che regista, attori e narrazione riescono a scatenare. Poi ci sono i film con personaggi azzeccati dei quali non puoi non innamorarti, magari sono film più tamarri ma coinvolgenti. Comunque sopra a tutto l'emozione (o l'epicità in alternativa).
9. Preferisco vedere i film da solo o in compagnia?
Preferisco vederli in silenzio, poi da soli o in compagnia poco importa. Solitamente li guardo da solo, in compagnia cartoni animati e film per famiglie.
10. Ultimo film che ho visto?
Doppio gioco, un noir in bianco e nero di Robert Siodmak del 1949 (vedi sotto).
11. Un film che mi ha fatto riflettere?
Sono tanti i film che in qualche modo possono farti riflettere, dal cartone animato al film impegnato alla serie televisiva, su un problema sociale, sulle ingiustizie, sulla tua situazione personale, sui sentimenti e così via... ogni film riuscito ti fa riflettere su qualcosa. Si potrebbe rispondere a questa domanda con un banale Schindler's List ma anche con Inside Out ad esempio.
12. Un film che mi ha fatto ridere?
Burn after reading dei fratelli Coen.
13. Un film che mi ha fatto piangere?
Ultimamente Coco della Pixar, in parte La foresta dei sogni di Gus Van Sant.
14. Un film orribile?
Boh, ne è pieno il mondo. Il Daredevil con Ben Affleck.
15. Un film che non ho visto perché mi sono addormentato?
Mi capita raramente di addormentarmi guardando un film, se capita è a causa dell'eccessiva stanchezza o per lo scarsissimo interesse in partenza per il film in visione (magari cose che vuol vedere mia figlia e che io proprio no). L'unico caso in cui ricordo di essermi addormentato al cinema è stato durante la visione di American Beauty di Sam Mendes.
16. Un film che non ho visto perché stavo facendo le cosacce?
Definisci cosacce.
17. Il film più lungo che ho visto?
Heimat di Edgar Reitz, in tedesco con i sottotitoli. 924 minuti divisi in undici episodi (ma è un film non una serie). Visione che consiglio a tutti.
18. Il film che mi ha deluso?
Solitamente diversi vincitori del premio oscar, da Il gladiatore a Shakespeare in love, il secondo Avengers e chissà quanti altri.
19. Un film che so a memoria?
Non sono uno che guarda e riguarda gli stessi film, tra quelli che ho visto più volte forse ci sono Ritorno al futuro e Lo chiamavano Trinità, ma almeno per il secondo è passato del tempo.
20. Un film che ho visto al cinema perché mi ci hanno trascinato?
Non ho nessuno che mi trascini al cinema, forse in passato qualche commedia italiana che mi ispirava poco, ma ora non ricordo.
21. Il film più bello tratto da un libro?
Probabilmente Il Padrino o Shining, ma penso ce ne siano davvero tanti.
22. Il film più datato che ho visto?
Forse Il monello del 1921, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
23. Miglior colonna sonora?
Domanda troppo difficile, ci sono film con temi portanti indimenticabili, altri con sottofondi azzeccatissimi, altri ancora con mix di canzoni perfette per le scene, in generale mi piacciono le scelte e i recuperi musicali effettuati da Tarantino, come colonna sonora azzarderei Giù la testa o Il buono, il brutto e il cattivo.
24. Migliore saga cinematografica?
Il Padrino, almeno i primi due episodi, ma ce ne sono altre sicuramente degne (i primi Rocky ad esempio). Dimenticavo, nel genere più disimpegnato sicuramente i primi tre Die Hard, un vero mito!
25. Miglior Remake?
Anche qui quasi impossibile dare una risposta secca, mi aveva divertito molto Ocean's eleven mentre l'originale Colpo grosso l'avevo trovato noioso.
lunedì 12 febbraio 2018
DOPPIO GIOCO
(Criss cross di Robert Siodmak, 1949)
Doppio gioco porta in sé moltissimi degli elementi classici del noir insieme a note dinamiche proprie dell'heist movie contaminate da una vicenda sentimentale e passionale che in fin dei conti va addirittura ad eclissare tutto l'aspetto più crime dell'intero film, tutti questi ingredienti sono sapientemente cucinati da un regista, Robert Siodmak, che grazie alle sue scelte stilistiche dosa al meglio tensione, dinamismo e approfondimento psicologico dei suoi personaggi. La prima inquadratura è una bellissima panoramica aerea sulla Los Angeles di fine anni 40 sulle musiche di Miklós Rózsa, la camera cala progressivamente fino a stringere su un particolare parcheggio, tra due file di macchine Stefano (in originale Steven, interpretato da Burt Lancaster) e Anna (Yvonne De Carlo), si baciano con trasporto. I due stanno chiaramente architettando qualcosa, le figure presto si delineeranno: la femme fatale, il vinto in cerca di riscatto e il delinquente senza scrupoli qui imputabile al personaggio di Slim (Dan Duryea). Non manca ovviamente nemmeno il poliziotto chiamato a mettere un po' d'ordine nella vicenda e nella vita dei protagonisti, nella fattispecie l'amico fraterno di Stefano, il tenente Pete Ramirez (Stephen McNally).
Stefano torna in città dopo un paio d'anni in giro per gli States, il divorzio con Anna è stato digerito solo in apparenza, come sottolinea un altro personaggio del film "quella donna gli è rimasta nel sangue". L'amore fa fare cose stupide, seppur i motivi della separazione tornano chiari non appena i due si incontrano nuovamente, al cuor non si comanda e per avere quello di Anna a Stefano servono i soldi, oscuro motore di mille vicende ai quali, in seguito alla sua unione con Slim, Anna ormai si è affezionata troppo. Stefano torna a vivere a casa sua, con la madre e il fratello, riottiene il suo vecchio lavoro in una compagnia che si occupa di trasporti di preziosi, riallaccia i rapporti con Anna e per portarli avanti sviluppa un'idea che coinvolge il suo lavoro e l'attuale compagno dell'ex moglie, ben inserito nella mala locale.
Per illustrare allo spettatore tutto il pregresso delle situazioni che porteranno alle sequenze più dinamiche del film, Siodmak utilizza un unico flashback che ci accompagna dal ritorno in città di Stefano fino all'inevitabile rapina al portavalori, lo fa dipingendo interessanti scorci della città, angoli che sono ormai splendidi documenti, concentrandosi sui sentimenti dei protagonisti grazie a inquadrature ravvicinate, quasi a invadere il pensiero dei personaggi in scena, tratteggia scorci di vita familiare come la movimentata vita dei locali notturni con un'attenzione particolare per musica e musicisti. Si passa poi all'heist movie con la costruzione del colpo, la divisione dei compiti, il parere dell'esperto e avanti di questo passo.
Si torna al presente con l'esecuzione del piano durante la quale si inanellano sorprese e colpi di scena che porteranno alla tesa risoluzione finale durante la quale Siodmak ricorre a soluzioni visive atte a procurare, riuscendoci, la necessaria tensione utile per preparare il finale affatto consolatorio. Con i titoli di coda tutto torna ad avere il sapore del vero noir, nonostante nel dipanarsi della vicenda ampio ruolo abbiano avuto i risvolti sentimentali. Un bel film, classico, secco, senza fronzoli inutili, ottimi interpreti di una Hollywood che purtroppo non c'è più.
Doppio gioco porta in sé moltissimi degli elementi classici del noir insieme a note dinamiche proprie dell'heist movie contaminate da una vicenda sentimentale e passionale che in fin dei conti va addirittura ad eclissare tutto l'aspetto più crime dell'intero film, tutti questi ingredienti sono sapientemente cucinati da un regista, Robert Siodmak, che grazie alle sue scelte stilistiche dosa al meglio tensione, dinamismo e approfondimento psicologico dei suoi personaggi. La prima inquadratura è una bellissima panoramica aerea sulla Los Angeles di fine anni 40 sulle musiche di Miklós Rózsa, la camera cala progressivamente fino a stringere su un particolare parcheggio, tra due file di macchine Stefano (in originale Steven, interpretato da Burt Lancaster) e Anna (Yvonne De Carlo), si baciano con trasporto. I due stanno chiaramente architettando qualcosa, le figure presto si delineeranno: la femme fatale, il vinto in cerca di riscatto e il delinquente senza scrupoli qui imputabile al personaggio di Slim (Dan Duryea). Non manca ovviamente nemmeno il poliziotto chiamato a mettere un po' d'ordine nella vicenda e nella vita dei protagonisti, nella fattispecie l'amico fraterno di Stefano, il tenente Pete Ramirez (Stephen McNally).
Stefano torna in città dopo un paio d'anni in giro per gli States, il divorzio con Anna è stato digerito solo in apparenza, come sottolinea un altro personaggio del film "quella donna gli è rimasta nel sangue". L'amore fa fare cose stupide, seppur i motivi della separazione tornano chiari non appena i due si incontrano nuovamente, al cuor non si comanda e per avere quello di Anna a Stefano servono i soldi, oscuro motore di mille vicende ai quali, in seguito alla sua unione con Slim, Anna ormai si è affezionata troppo. Stefano torna a vivere a casa sua, con la madre e il fratello, riottiene il suo vecchio lavoro in una compagnia che si occupa di trasporti di preziosi, riallaccia i rapporti con Anna e per portarli avanti sviluppa un'idea che coinvolge il suo lavoro e l'attuale compagno dell'ex moglie, ben inserito nella mala locale.
Per illustrare allo spettatore tutto il pregresso delle situazioni che porteranno alle sequenze più dinamiche del film, Siodmak utilizza un unico flashback che ci accompagna dal ritorno in città di Stefano fino all'inevitabile rapina al portavalori, lo fa dipingendo interessanti scorci della città, angoli che sono ormai splendidi documenti, concentrandosi sui sentimenti dei protagonisti grazie a inquadrature ravvicinate, quasi a invadere il pensiero dei personaggi in scena, tratteggia scorci di vita familiare come la movimentata vita dei locali notturni con un'attenzione particolare per musica e musicisti. Si passa poi all'heist movie con la costruzione del colpo, la divisione dei compiti, il parere dell'esperto e avanti di questo passo.
Si torna al presente con l'esecuzione del piano durante la quale si inanellano sorprese e colpi di scena che porteranno alla tesa risoluzione finale durante la quale Siodmak ricorre a soluzioni visive atte a procurare, riuscendoci, la necessaria tensione utile per preparare il finale affatto consolatorio. Con i titoli di coda tutto torna ad avere il sapore del vero noir, nonostante nel dipanarsi della vicenda ampio ruolo abbiano avuto i risvolti sentimentali. Un bel film, classico, secco, senza fronzoli inutili, ottimi interpreti di una Hollywood che purtroppo non c'è più.
giovedì 8 febbraio 2018
COP CAR
(di Jon Watts, 2015)
Spesso i film "piccoli" funzionano, si asciugano di tutto o quasi: cast limitati all'osso, budget ovviamente ridotti, pochi dialoghi, poche idee ma ben centrate e sviluppate in maniera tutto sommato credibile, se non per lo sviluppo, almeno per temi, atmosfere e sensibilità. Cop car di Jon Watts, regista anche del recente blockbuster Spiderman homecoming, è uno di questi.
Scopare. Tette. Figa. Troia. Porca troia. Culo. Buco del culo. Faccia di culo. Due bambini di una decina d'anni, provenienti da famiglie con qualche assenza, scappano di casa in cerca d'avventura e di trasgressione. Travis (James Freedson-Jackson), il più vivace, inanella parolacce, Harrison (Hays Wellford), con ritrosia e un po' di timidezza, le ripete. È una prima forma di libertà quella del linguaggio, insieme alla scoperta degli spazi amplissimi di un'America del Sud quanto mai disadorna di figure e figuranti, c'è pochissimo che si muove nel bellissimo paesaggio di Cop car, giusto l'erba, a calpestarla più mucche che uomini. L'incedere di Travis e Harrison, il loro girovagare, riporta alla mente, ma soprattutto al cuore, tanti racconti di formazione provenienti dal passato, dal Cinema come dalla Letteratura (si sono anche spesi i nomi di King e Lansdale), ancora una volta asciugando, eliminando uno di quegli elementi che più caratterizzava quei racconti, che poi altro non era che il "fantastico". Qui gli eventi sono tutti terreni, fantastici solo agli occhi dei due bambini, almeno in principio, poi anche per quegli occhi la gioia dell'avventura sarà destinata a trasformarsi crudelmente in altro.
Pochi elementi. A dar pepe al viaggio dei due amici una macchina della polizia, ferma, apparentemente abbandonata nella campagna. Isolata. Una bottiglia di birra vuota poggiata sul suo cofano. Travis e Harrison non ci possono credere, l'iniziale timore si trasforma nell'Avventura all'ennesima potenza, quella con la A maiuscola. Le chiavi sono all'interno, poliziotti non se ne vedono, sceriffi neppure, Travis un poco sa guidare. Si parte. Il nastro (digitale probabilmente) si riavvolge, lo sceriffo (Kevin Bacon) c'è ma non si vede, è solo da un'altra parte, sta facendo qualcosa di losco. Quando torna l'auto non c'è più e questo è un grandissimo casino da risolvere, soprattutto a piedi in mezzo al nulla.
Jon Watts e Christopher Ford scrivono una sceneggiatura scarna ma altrettanto funzionale che si regge su pochissimi elementi, mescola però sapientemente il racconto ad altezza di bambino (e questo non vuol dire che il film sia adatto ai bambini, anzi), la crime story grottesca sullo stile dei primi Coen, la giusta dose di tensione e location molto indovinate. Kevin Bacon, volutamente sopra le righe, non delude, ma sono soprattutto i due giovani protagonisti ad aderire perfettamente ai loro personaggi e a far sviluppare la vicenda nel migliore dei modi. Non arriviamo all'ora e mezza, i personaggi parlanti non sono più di cinque, seppur la vicenda inneschi diverse curiosità, per gli sceneggiatori non c'è un prima e non c'è un dopo, indubbiamente qualche spettatore avrebbe voluto vederli questo prima e questo dopo, ma il film, nel suo collocarsi fuori dall'onda mainstream, è più che completo anche così.
Si fa fatica a credere che il Watts di Cop car sia lo stesso dell'ultimo Spiderman, due modi di fare cinema agli antipodi ma che stranamente sembrano essere entrambi nelle corde del giovane regista.
Spesso i film "piccoli" funzionano, si asciugano di tutto o quasi: cast limitati all'osso, budget ovviamente ridotti, pochi dialoghi, poche idee ma ben centrate e sviluppate in maniera tutto sommato credibile, se non per lo sviluppo, almeno per temi, atmosfere e sensibilità. Cop car di Jon Watts, regista anche del recente blockbuster Spiderman homecoming, è uno di questi.
Scopare. Tette. Figa. Troia. Porca troia. Culo. Buco del culo. Faccia di culo. Due bambini di una decina d'anni, provenienti da famiglie con qualche assenza, scappano di casa in cerca d'avventura e di trasgressione. Travis (James Freedson-Jackson), il più vivace, inanella parolacce, Harrison (Hays Wellford), con ritrosia e un po' di timidezza, le ripete. È una prima forma di libertà quella del linguaggio, insieme alla scoperta degli spazi amplissimi di un'America del Sud quanto mai disadorna di figure e figuranti, c'è pochissimo che si muove nel bellissimo paesaggio di Cop car, giusto l'erba, a calpestarla più mucche che uomini. L'incedere di Travis e Harrison, il loro girovagare, riporta alla mente, ma soprattutto al cuore, tanti racconti di formazione provenienti dal passato, dal Cinema come dalla Letteratura (si sono anche spesi i nomi di King e Lansdale), ancora una volta asciugando, eliminando uno di quegli elementi che più caratterizzava quei racconti, che poi altro non era che il "fantastico". Qui gli eventi sono tutti terreni, fantastici solo agli occhi dei due bambini, almeno in principio, poi anche per quegli occhi la gioia dell'avventura sarà destinata a trasformarsi crudelmente in altro.
Pochi elementi. A dar pepe al viaggio dei due amici una macchina della polizia, ferma, apparentemente abbandonata nella campagna. Isolata. Una bottiglia di birra vuota poggiata sul suo cofano. Travis e Harrison non ci possono credere, l'iniziale timore si trasforma nell'Avventura all'ennesima potenza, quella con la A maiuscola. Le chiavi sono all'interno, poliziotti non se ne vedono, sceriffi neppure, Travis un poco sa guidare. Si parte. Il nastro (digitale probabilmente) si riavvolge, lo sceriffo (Kevin Bacon) c'è ma non si vede, è solo da un'altra parte, sta facendo qualcosa di losco. Quando torna l'auto non c'è più e questo è un grandissimo casino da risolvere, soprattutto a piedi in mezzo al nulla.
Jon Watts e Christopher Ford scrivono una sceneggiatura scarna ma altrettanto funzionale che si regge su pochissimi elementi, mescola però sapientemente il racconto ad altezza di bambino (e questo non vuol dire che il film sia adatto ai bambini, anzi), la crime story grottesca sullo stile dei primi Coen, la giusta dose di tensione e location molto indovinate. Kevin Bacon, volutamente sopra le righe, non delude, ma sono soprattutto i due giovani protagonisti ad aderire perfettamente ai loro personaggi e a far sviluppare la vicenda nel migliore dei modi. Non arriviamo all'ora e mezza, i personaggi parlanti non sono più di cinque, seppur la vicenda inneschi diverse curiosità, per gli sceneggiatori non c'è un prima e non c'è un dopo, indubbiamente qualche spettatore avrebbe voluto vederli questo prima e questo dopo, ma il film, nel suo collocarsi fuori dall'onda mainstream, è più che completo anche così.
Si fa fatica a credere che il Watts di Cop car sia lo stesso dell'ultimo Spiderman, due modi di fare cinema agli antipodi ma che stranamente sembrano essere entrambi nelle corde del giovane regista.
lunedì 5 febbraio 2018
GEEK LEAGUE - L'OGGETTO
La mia missione di infiltrato comincia qui, tenere d'occhio la banda di pazzi non sarà facile, dovrò farmi passare per uno di loro, cosa che non sono (non fino in fondo almeno, col tempo chissà, quello che è accaduto a Donnie Brasco potrebbe accadere anche a me), si dovrà discettare delle più strampalate derive di chissà quali passioni o fissazioni, sarà un compito arduo, da stacanovisti della dedizione alla causa, da Outsider oserei dire.
La prima missione tutto sommato però non sarà delle più difficili, il tema è libero, si parlerà in giro per il web, tra affiliati e semplici lettori, di quelli che sono gli oggetti totem delle nostre insane passioni, o almeno di quella alla quale ancora siamo più legati, o anche semplicemente di oggetti che hanno valenza nostalgica e affettiva molto elevata, robe da nerd, robe da geek.
Visto che nell'appuntamento precedente, all'interno della scheda di presentazione indicai come argomento d'elezione il fumetto, con una certa spiccata preferenza per i comics targati Marvel nello specifico, non mi resta che proseguire in questa direzione affrontando tra l'altro un tema già trattato qui in passato.
Stranamente quella che si può considerare una passione ormai viva da svariati decenni per il fumetto, più o meno tutto anche se la Marvel ha fatto gran parte del lavoro in questo, nasce più dalla televisione che non dalla carta stampata. Quando ero piccolo, si parla degli anni 70, primissimi 80, per alcuni di voi giovani virgulti come a dire nel Mesozoico, per motivi organizzativi vivevo praticamente con i miei nonni materni. Uno dei ricordi più belli che ho legato ai miei nonni sono proprio i momenti passati davanti alla televisione che non guardavo mai da solo, sempre con loro. Si guardava di tutto, da Fantastico con Heather Parisi, la trasmissione musicale di Jocelyn e Sophie, i mitici Giochi senza frontiere, Mork & Mindy, Goldrake, gli inglesissimi George e Mildred, ma ciò che più colpiva il mio immaginario erano i cartoni animati di Super Gulp.
Tra questi, oltre ai vari Nick Carter, Sturmtruppen e Corto Maltese, io adoravo l'Uomo Ragno. È da lì che nasce l'amore per la figura del supereroe mascherato, dallo schermo televisivo più che dalla carta stampata o dai fumetti dell'Editoriale Corno che in quegli anni si occupava di stampare le avventure degli eroi Marvel. Poi c'era anche altro legato alla Dc Comics, i cartoni animati dei Superamici, i quaderni con gli eroi della Justice League, ma da bambino il meglio per me era l'Uomo Ragno.
Purtroppo i fumetti in famiglia non circolavano, non c'era l'abitudine di spendere soldi per questo genere di intrattenimento, va da sé che le poche volte che mi era concesso di acquistarne qualcuno le mie scelte si indirizzassero sulla Marvel e sull'Uomo Ragno. Il primo acquisto, albo al quale sono nuovamente risalito anni dopo averlo avuto in mano e solo dopo diverse ricerche in rete per capire quale fosse, è riconducibile a L'Uomo Ragno Gigante 73 dove per la prima volta incontrai gli X-Men. Mi piacquero da subito, poi non ebbi più modo di incontrarli, fumetti in casa sempre pochissimi e quindi niente, tutto finiva lì.
Anni dopo, al mare, in vacanza, mia madre mi portò in edicola per comprare qualcosa da leggere, la Corno era sparita da tempo, pensate la sorpresa quando vidi un albo con gli X-Men in copertina, una copertina magnifica tra l'altro. L'albo era intitolato semplicemente Marvel, purtroppo era il numero 2 di una collana lanciata dalla Labor Comics che chiuse i battenti proprio con quella sua seconda uscita.
È inutile dire come gli X-Men di Chris Claremont e John Byrne mi rimasero nel cuore, sono ancor oggi i personaggi ai quali sono più affezionato, allora erano al loro meglio con la formazione che ho sempre prediletto (Ciclope, Tempesta, Colosso, Banshee, Wolverine, Nightcrawler con l'ausilio di Fenice, Madrox, Havock e la Bestia), c'era la bellissima saga di Proteus, c'erano i migliori autori mai messi al lavoro sul gruppo, cosa chiedere di più? Come si poteva non innamorarsi della Marvel con tanto ben di Dio a disposizione.
In più sull'albo comparivano il Devil di Frank Miller, Hulk e il Capitan Marvel originale, due personaggi che ho sempre continuato ad apprezzare, probabilmente proprio in virtù di questo primo incontro, senza contare che oggi, a parte l'affetto che nutro per gli X-Men, Devil continua a essere uno dei personaggi che a mio avviso ha sempre qualcosa da dire. Insomma, niente male come primo incontro con la Marvel.
Ecco, se dovessi scegliermi un oggetto da mettere in una teca esposta per sfogare la mia passione nerd sarebbe proprio quel Marvel n. 2. Ma io sono un Outsider, non sono come loro, quell'oggetto (sigh!) non ce l'ho neanche più, è andato, chissà dove, chissà quando. Così non mi resta che controllare le loro mosse, vedi mai che mi capiti di sgraffignarlo proprio a qualcuno di loro.
Alla prossima, stay tuned.
Qui sotto trovate l'elenco di tutti i totem sparsi nella blogosfera.
Il Bazar di Riky: gli Exogini
Omniverso: L'Uomo Ragno #102
Storie da Birreria: il Tablet
La Bara Volante: il Maestro Yoda
La Cupa Voliera del Conte Gracula: la Carta Stampata
Nerditudine: il Commodore
The Reign of Ema: joypad del Sega Master System
Moz O'Clock: lo Slime
Fede Stories: Game Boy Advance
Gameocracy: Dragon Ball Final Bout
Pietro Saba World: il Personal Computer
Orso Chiacchierone: l'Unico Anello
Gioco Magazzino: il Furby
Il blog di Delux: l'action figure di Spider-Man
Il Cumbrugliume: Summer Games
La prima missione tutto sommato però non sarà delle più difficili, il tema è libero, si parlerà in giro per il web, tra affiliati e semplici lettori, di quelli che sono gli oggetti totem delle nostre insane passioni, o almeno di quella alla quale ancora siamo più legati, o anche semplicemente di oggetti che hanno valenza nostalgica e affettiva molto elevata, robe da nerd, robe da geek.
Visto che nell'appuntamento precedente, all'interno della scheda di presentazione indicai come argomento d'elezione il fumetto, con una certa spiccata preferenza per i comics targati Marvel nello specifico, non mi resta che proseguire in questa direzione affrontando tra l'altro un tema già trattato qui in passato.
Stranamente quella che si può considerare una passione ormai viva da svariati decenni per il fumetto, più o meno tutto anche se la Marvel ha fatto gran parte del lavoro in questo, nasce più dalla televisione che non dalla carta stampata. Quando ero piccolo, si parla degli anni 70, primissimi 80, per alcuni di voi giovani virgulti come a dire nel Mesozoico, per motivi organizzativi vivevo praticamente con i miei nonni materni. Uno dei ricordi più belli che ho legato ai miei nonni sono proprio i momenti passati davanti alla televisione che non guardavo mai da solo, sempre con loro. Si guardava di tutto, da Fantastico con Heather Parisi, la trasmissione musicale di Jocelyn e Sophie, i mitici Giochi senza frontiere, Mork & Mindy, Goldrake, gli inglesissimi George e Mildred, ma ciò che più colpiva il mio immaginario erano i cartoni animati di Super Gulp.
Tra questi, oltre ai vari Nick Carter, Sturmtruppen e Corto Maltese, io adoravo l'Uomo Ragno. È da lì che nasce l'amore per la figura del supereroe mascherato, dallo schermo televisivo più che dalla carta stampata o dai fumetti dell'Editoriale Corno che in quegli anni si occupava di stampare le avventure degli eroi Marvel. Poi c'era anche altro legato alla Dc Comics, i cartoni animati dei Superamici, i quaderni con gli eroi della Justice League, ma da bambino il meglio per me era l'Uomo Ragno.
Purtroppo i fumetti in famiglia non circolavano, non c'era l'abitudine di spendere soldi per questo genere di intrattenimento, va da sé che le poche volte che mi era concesso di acquistarne qualcuno le mie scelte si indirizzassero sulla Marvel e sull'Uomo Ragno. Il primo acquisto, albo al quale sono nuovamente risalito anni dopo averlo avuto in mano e solo dopo diverse ricerche in rete per capire quale fosse, è riconducibile a L'Uomo Ragno Gigante 73 dove per la prima volta incontrai gli X-Men. Mi piacquero da subito, poi non ebbi più modo di incontrarli, fumetti in casa sempre pochissimi e quindi niente, tutto finiva lì.
Anni dopo, al mare, in vacanza, mia madre mi portò in edicola per comprare qualcosa da leggere, la Corno era sparita da tempo, pensate la sorpresa quando vidi un albo con gli X-Men in copertina, una copertina magnifica tra l'altro. L'albo era intitolato semplicemente Marvel, purtroppo era il numero 2 di una collana lanciata dalla Labor Comics che chiuse i battenti proprio con quella sua seconda uscita.
È inutile dire come gli X-Men di Chris Claremont e John Byrne mi rimasero nel cuore, sono ancor oggi i personaggi ai quali sono più affezionato, allora erano al loro meglio con la formazione che ho sempre prediletto (Ciclope, Tempesta, Colosso, Banshee, Wolverine, Nightcrawler con l'ausilio di Fenice, Madrox, Havock e la Bestia), c'era la bellissima saga di Proteus, c'erano i migliori autori mai messi al lavoro sul gruppo, cosa chiedere di più? Come si poteva non innamorarsi della Marvel con tanto ben di Dio a disposizione.
In più sull'albo comparivano il Devil di Frank Miller, Hulk e il Capitan Marvel originale, due personaggi che ho sempre continuato ad apprezzare, probabilmente proprio in virtù di questo primo incontro, senza contare che oggi, a parte l'affetto che nutro per gli X-Men, Devil continua a essere uno dei personaggi che a mio avviso ha sempre qualcosa da dire. Insomma, niente male come primo incontro con la Marvel.
Ecco, se dovessi scegliermi un oggetto da mettere in una teca esposta per sfogare la mia passione nerd sarebbe proprio quel Marvel n. 2. Ma io sono un Outsider, non sono come loro, quell'oggetto (sigh!) non ce l'ho neanche più, è andato, chissà dove, chissà quando. Così non mi resta che controllare le loro mosse, vedi mai che mi capiti di sgraffignarlo proprio a qualcuno di loro.
Alla prossima, stay tuned.
Qui sotto trovate l'elenco di tutti i totem sparsi nella blogosfera.
Il Bazar di Riky: gli Exogini
Omniverso: L'Uomo Ragno #102
Storie da Birreria: il Tablet
La Bara Volante: il Maestro Yoda
La Cupa Voliera del Conte Gracula: la Carta Stampata
Nerditudine: il Commodore
The Reign of Ema: joypad del Sega Master System
Moz O'Clock: lo Slime
Fede Stories: Game Boy Advance
Gameocracy: Dragon Ball Final Bout
Pietro Saba World: il Personal Computer
Orso Chiacchierone: l'Unico Anello
Gioco Magazzino: il Furby
Il blog di Delux: l'action figure di Spider-Man
Il Cumbrugliume: Summer Games
venerdì 2 febbraio 2018
GEEK LEAGUE - LA SCHEDA
Qualche giorno addietro la mente sempre in fermento del Moz ha partorito un'altra delle sue più o meno malsane idee che ha catturato l'attenzione di diversi brutti ceffi che popolano la blogosfera, una banda scatenata che tenterà di farsi passare per un gruppo di supereroi in stile Avengers. Diffidate, sono dei pazzi scatenati pronti a ribaltare la blogosfera a suon di orgoglio nerd e fierezza da geek consumati. Ho tentato di seguirli in incognito, per controllarli cercherò anche di unirmi a loro nelle varie sortite nel web, almeno quando potrò, per tallonarli da vicino. Ad ogni modo pensavo peggio, frequentandoli un poco non mi sembrano poi così pericolosi, e sono pure simpatici. Vedremo dove si andrà a parare, aiutatemi a tenerli d'occhio, seguite le loro iniziative, denunciatene i piani sovversivi all'Outsider, il sospetto fondato è che questo insolito gruppo possa presto dilagare, creare proseliti e reclutare nuovi adepti. Non ignorateli! Qui sotto troverete la mia scheda da infiltrato, devo sembrare uno di loro, fate finta di niente, reggetemi il gioco. Ora mi infilo il costume da Dalek per passare inosservato in mezzo alla pazza folla. Alla prossima.
- NOME: l'Outsider
- ALTER EGO: La Firma Cangiante
- SPAZIO WEB: http://lafirmacangiante.blogspot.it/
- CODICE: H0009
- CHI È: L'imbucato, quello che proprio non sta al passo ma alla fine è contento di esserci. L'outsider.
- SUPERPOTERI: Una buona conoscenza del fumetto in genere, vista l'età anche il mood nostalgico e i decenni passati.
- PUNTI DEBOLI: Tutto ciò che è videoludico uscito dopo l'Amiga 500.
- PERCHÉ HA SCELTO LA GEEK LEAGUE: Perché era ora di far qualcosa insieme al Moz, la sua iperattività è contagiosa e in qualche modo va premiata.
Torniamo tra noi, mi riprometto di tenerli d'occhio, non appena potrò tenterò di prendere parte alle loro scorribande, segnalerò a voi tutti i loro movimenti sospetti. Alla prossima, stay tuned.
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