domenica 29 agosto 2021

AN ELEPHANT SITTING STILL

(Dàxiàng xídì'érzuò di Hu Bo, 2018)

Di pochi film si può dire che siano dei veri monumenti, opere che lasciano il segno e un'eredità incancellabile, nel caso specifico di insanabile disperazione; An elephant sitting still è uno di questi, senza ombra di dubbio, l'opera prima e purtroppo ultima di un giovane regista, Hu Bo, che terminata la realizzazione di questo film fiume (sfiora le quattro ore di durata) si toglierà la vita apparentemente per dissapori con la produzione. Guardando il film si può solo ipotizzare un malessere esistenziale da parte dell'autore di cui peraltro non abbiamo prove certe ma che riecheggia in maniera dolorosa, lancinante, all'interno di una narrazione di cupo nichilismo senza speranza, uno strazio profondo senza via d'uscita emerge dalle quotidiane esperienze dei personaggi messi in scena da Hu Bo e da una disgregazione sociale insostenibile che all'apparenza una delle maggiori potenze mondiali come la Cina non si cura di prendere nemmeno in considerazione, lasciando i suoi cittadini in balìa di una quotidianità di vuoto disperato, sofferenza e rassegnazione. Non è semplice tradurre in parole le sensazioni che l'opera di Hu Bo suscita durante la visione, l'immersione in queste quattro ore di cinema è totalizzante, se ne uscirà con un dolore nuovo per esistenze di cui raramente abbiamo consapevolezza.

An elephant sitting still ci mostra la quotidianità di quattro personaggi le cui vite sono destinate a incrociarsi, tutti i protagonisti arrivano da situazioni familiari insostenibili, Bu Wei (Peng Yuchang) vive in condizioni precarie, disprezzato dal padre, un ex poliziotto che ha perso il lavoro; per difendere l'amico Li Kai (Ling Zhenghui) dal pericoloso bullo Yu Shuai (Zhang Xiaolong) Bu Wei ferisce accidentalmente quest'ultimo. Il bulletto è però fratello di Yu Cheng (Zhang Yu), piccolo criminale che per questioni d'onore non può lasciar correre l'episodio. Lo stesso Yu Cheng è in una situazione di grande costernazione, pur tentando di giustificare a sé stesso e ad altri l'accaduto, è stato causa del suicidio del suo migliore amico che lo ha scoperto a letto con la moglie. Huang Ling (Wang Yuwen) vive sola con la madre che per lei non ha una stilla d'amore, la loro abitazione e in condizioni misere, la madre vive in un'apatia perenne, nell'abbandono e nello sfacelo del quale Ling non riesce più psicologicamente a farsi carico, distrutta dalla vita miserabile che conduce si appoggia al vice preside della sua scuola, un uomo molto più grande di lei, per poter passare almeno qualche ora in una casa decente e ordinata; tra le altre disgrazie la scuola che frequentano lei e Bu Wei è destinata alla chiusura, è una delle peggiori scuole della città, il destino di questi ragazzi è segnato, non c'è speranza, se va bene finiranno in strada a fare gli ambulanti per tutta la vita. Wang Jin (Liu Congxi) invece è un uomo anziano, vive con la figlia e il genero che sono decisi ad abbandonarlo in un'ospizio fatiscente togliendogli anche la compagnia della piccola nipotina.

Hu Bo si fa cantore del fallimento di un Paese abbacinato da nuove possibilità di ricchezza portate dall'asset globale ma indifferente al benessere e alla felicità dei propri cittadini, argomenti che in altre forme abbiamo visto anche nel cinema di Jia Zhang-ke. An elephant sitting still è un grido d'aiuto per quei milioni di persone che non hanno voce, condannate a esistenze che sono inferni privati senza possibilità d'uscita se non la morte. In una sequenza una Huang Ling preoccupata fa notare a Bu Wei come Yu Cheng potrebbe anche ammazzarlo per quel che è accaduto al fratello, alla preoccupazione della coetanea il giovane ragazzo risponde con un laconico e disperato "sarebbe fantastico". Questa è la misura delle esistenze dei protagonisti che non vedono prospettive e ai quali le giornate pesano ormai come macigni, accomunati da uno stralunato desiderio, quello di muovere verso Manzhouli, città dove sembra ci sia, presso un circo, un fantomatico elefante (che non vedremo mai) indifferente a tutto, capace di sopravvivere alla vita standosene seduto immobile tutto il giorno, lontano da sofferenze e preoccupazioni, una condizione alla quale sembrano ambire i nostri protagonisti altrimenti flagellati da dolore, mancanza d'amore, infelicità, disperazione sconfinata. Lo sguardo di Hu Bo segue caratteristiche ben precise, molta camera a mano (fermissima) a seguire costantemente i protagonisti, poche le panoramiche su un contesto intuibile come degradato e depress(iv)o, spesso gli attori sono pedinati, inquadrati di spalle, come i ragazzi di Elephant di Van Sant ma in una prossimità ancora maggiore; il circostante, i coprotagonisti, sono spesso fuori fuoco come a concentrare l'attenzione dello spettatore sulla desolazione di questi uomini, ragazze, ragazzi, vecchi. La consapevolezza dell'infelicità sconfinata di queste vite aumenta su brevi momenti di pausa che Hu Bo concede allo spettatore, come a far digerire le sensazioni suscitate dal film, qui interviene lo score musicale di Hua Lun, minimale, oscuro, perfetto per aumentare ancora il mood disperato della narrazione. Si chiude con un forte senso di perdita per un autore che avrebbe potuto dare molto al cinema e al quale, per qualche motivo, come accade ai suoi personaggi, almeno per un momento la vita deve essere sembrata insostenibile.

giovedì 26 agosto 2021

BECKETT

(di Ferdinando Cito Filomarino, 2021)

Carriera in forte ascesa quella del figlio d'arte John David Washington, ex giocatore di football americano e ora sulle orme di papà Denzel, negli ultimi anni titoli importanti e di grande visibilità, dal BlacKkKlansmen di Spike Lee al Tenet di Nolan, e poi ancora Malcolm & Marie con Zendaya e ora questo Beckett da protagonista assoluto in una produzione a forte respiro italiano a partire dal regista milanese Ferdinando Cito Filomarino. Con Beckett rialza la testa il thriller a sfondo politico/sociale che ha lasciato impronte indelebili nel cinema hollywoodiano del secolo scorso (leggi alla voce New Hollywood), lo fa con una buona dose di action e location decisamente poco battute che danno una bella ventata d'aria fresca al genere, sempre bisognoso di nuove derive e soprattutto da rivitalizzare per quel che concerne la produzione italiana che negli ultimi anni sembra stia facendo in questa direzione passi parecchio interessanti (o quantomeno indice di un ritrovato coraggio). È proprio il contesto geografico e politico a donare interesse alla vicenda di un uomo qualunque finito in maniera inconsapevole in un gioco più grande di lui del quale capisce poco o nulla.

Beckett (John David Washington) e April (Alicia Vikander) sono una giovane coppia che vive il pieno del loro amore durante una vacanza in Grecia. Siamo negli anni della crisi economica del Paese impoverito da un sistema spietato, Beckett e April vengono a sapere che nella piazza dove si trova il loro hotel ci sarà un'importante manifestazione e si prevedono scontri e disordini. I due decidono così di proseguire la vacanza nell'entroterra, in montagna, per evitare guai e non essere coinvolti nei tumulti, lungo la strada però, a causa di un colpo di sonno, Beckett perde il controllo dell'auto che ruzzola giù in un burrone andando a finire contro una casa di campagna sfondandone il muro. Beckett è frastornato, vede una donna e un bambino, chiede aiuto ma questi scappano, April perde la vita nell'incidente. Risvegliatosi in ospedale il ragazzo si trova ad avere a che fare con autorità che non parlano inglese e a dover fronteggiare la perdita del suo amore e il senso di colpa che ne deriva. Fatta la sua deposizione all'agente Xenakis (Panos Koronis) del commissariato locale, roso dal rimorso Beckett torna sul luogo dell'incidente, a quella casa sventrata dove rivede la donna del giorno prima che inspiegabilmente estrae una pistola e gli spara, subito dopo alla donna si unisce Xenakis, anche lui tenta di uccidere il Nostro, l'incubo di Beckett precipita in un incubo ancor peggiore senza che lui abbia la seppur minima idea di cosa gli stia accadendo intorno. Inizia la fuga con conseguente caccia all'uomo, l'unica speranza di Beckett è quella di raggiungere l'ambasciata statunitense ad Atene, città ormai a cinque ore di distanza, ferito, in una terra di cui non conosce la lingua e con alle spalle almeno due persone intenzionate a fargli la pelle.

Ottimo lavoro di messa in scena ben supportato dalle musiche di Ryuichi Sakamoto, la regia di Filomarino gode di un notevole equilibrio che non lascia concessioni a facili esagerazioni nonostante si sia nel campo dell'action thriller (fatta eccezione forse per la scena del parcheggio con una trovata finale con un pizzico d'azzardo). È proprio il contesto a dare un valore aggiunto al film, lo sfondo che ben presto si rivelerà politico apre squarci su un passato che è praticamente presente, la minaccia di partiti estremi come Alba Dorata, il dilagare della povertà e lo scavalcamento dei diritti dei cittadini interconnessi alla stessa figura di Beckett che nella Grecia dilaniata dalla crisi è l'altro, uno statunitense nato e cresciuto nella patria del capitale, nero, ferito, che attraversa il paese senza risorse, braccato e proveniente da una recentissima sua guerra personale ha in sé numerosi spunti per lanciare discorsi su diversi temi d'attualità. Emblematica la facilità con cui, in un Paese ridotto ai minimi termini, Beckett riesca a trovare la solidarietà e l'aiuto della povera gente che pagherà le conseguenze dell'onestà e del buon cuore in un sistema paese che è diventato un piccolo inferno. Non solo intrattenimento quindi, tra l'altro gestito in maniera esemplare grazie a una tensione di fondo costante e alcune sequenze ben coreografate e dirette, ma anche una buona dose di impegno, la giusta via da seguire per il rilancio dei nostri film di genere.

mercoledì 25 agosto 2021

YESTERDAY

(di Danny Boyle, 2019)

Danny Boyle parte da una sceneggiatura di Richard Curtis (già autore e regista di I love Radio Rock) e da un'idea molto sfiziosa per poi sfumare su toni da classica commedia romantica (genere che è il vero cavallo di battaglia per Curtis) vanificando un poco il potenziale che stava nella premessa di questo Yesterday ma riuscendo comunque a realizzare un film sempre piacevole e divertente. In fondo sbagliare il film con tutti quei pezzi dei Beatles a disposizione era quasi impossibile, Boyle il mestiere ce l'ha e così la commedia musicale è bella che servita. L'idea di fondo è questa: cosa succederebbe se per qualche strana ragione tutti al mondo dimenticassero l'esistenza dei Beatles? Che mondo sarebbe senza la loro musica? E se fossi tu l'unico a ricordare i loro pezzi allora che cosa faresti?

Jack Malik (Himesh Patel) vive in un paesino sulla costa del Suffolk in Inghilterra, ha un lavoro come magazziniere ma il suo sogno sarebbe quello di sfondare con la sua musica. Purtroppo la musica di Jack non incontra grande interesse, l'unica sua vera fan che lo sprona a continuare a credere nel suo sogno è Ellie (Lily James), amica dai tempi delle elementari e da sempre innamorata di Jack, amore corrisposto che nessuno dei due ragazzi ha il coraggio di confessare all'altro, entrambi persi in una friend zone radicata nelle loro teste che si autoalimenta ormai da sempre. Una sera, durante un black out di pochi minuti su scala globale, Jack viene investito da un autobus, al suo risveglio si ritrova in ospedale con qualche acciacco e due denti in meno. Nessuno sa spiegare il fenomeno del black out, Jake però, dopo alcuni indizi, realizza che per nessuna ragione apparente durante l'evento sono stati cancellati dall'esistenza i Beatles: nessuno ricorda le loro canzoni, Google restituisce solo scarafaggi ai tentativi di ricerca di Jack, i loro dischi sono spariti, nessun segno dell'esistenza dei quattro di Liverpool. Quando Jack intona Yesterday davanti ai suoi amici questi credono che il pezzo sia suo, allora perché non approfittarne avendo un catalogo magnifico a propria disposizione per sfondare finalmente nel mondo dell'industria musicale, aiutato magari da quel talento di Ed Sheeran?

Diciamo che altre vie sarebbero state più interessanti da battere, una su tutte, solo in parte accennata nel film di Boyle, sarebbe stata questa: se si fosse presentato oggi un artista sconosciuto, nuovo, con il meglio del catalogo dei Fab Four in repertorio, queste meravigliose canzoni che impatto avrebbero avuto sul pubblico del 2019 (anno di uscita del film)? In piccola misura possiamo avere un assaggio sulla questione nelle divertenti esibizioni di un bravo Himesh Patel, la prima esecuzione della "sua" Let it be davanti ai genitori per nulla colpiti è spassosissima, così come i primi tentativi con i suoi amici come pubblico. Per il resto il film si sviluppa sul canonico canovaccio da rom com (con risvolti non sempre credibili) e sui rimorsi di coscienza di un artista che raggiunge vette stratosferiche di successo in modo poco onesto, molto sopra le righe la descrizione dello show business che assume cadenze grottesche grazie al personaggio della manager di Jack interpretata da Kate McKinnon, plauso invece per Joel Fry nei panni di Rocky, amico e roadie di Jack completamente fuso. Sul pre finale una scena tutta da decifrare che non anticipo, rimangono poi diverse trovate divertenti sulle ricerche in Google (perché senza i Beatles come avrebbero potuto esserci gli Oasis? e così tanti altri) e la potenza intramontabile dei brani dei Beatles. Ottima la presenza di un'autoironico Ed Sheeran nei panni di sé stesso, tra  i primi a dare una possibilità a Jack, c'è una scena bellissima dove Ed, appurato il talento del giovane collega, propone una sfida davanti a un pubblico ristretto, dieci minuti per comporre un nuovo pezzo e vinca il migliore. Dopo la bella e breve esibizione di Ed, Jack si siede al piano ed esegue una struggente interpretazione di The long and winding road, Ed lo guarda tra l'ammirato e lo stupefatto, Rocky guarda Ed di sghimbescio sorridendo, quasi a dirgli "mi dispiace bimbo, non ce la puoi fare", sul finale un Ed Sheeran annichilito e ammirato ammette la sconfitta, in fondo chi può vincere su Paul McCartney? Forse la sequenza migliore del film.

Nel succo una commedia romantica nemmeno troppo originale, sul versante musicale però c'è di che godere, Yesterday una visione la vale tutta.

lunedì 23 agosto 2021

ULTIMA SENTENZA

(The appeal di John Grisham, 2008)

Tempo di letture estive. Diciamocelo pure fuori dai denti, i libri di Grisham sono (quasi) tutti simili, se però vi piace l'intrattenimento offerto dall'ex avvocato e politico dell'Arkansas, se amate il legal thriller con tutti i risvolti procedurali del caso, anche con questo Ultima sentenza troverete pane per i vostri denti. Chi lo conosce e allo stesso tempo è in possesso di un minimo di spirito critico sa già che Grisham non è di certo uno scrittore dallo stile sopraffino, è un buon costruttore di storie, a volte più in forma, a volte meno, capace di intrattenere con grande maestria, troppo spesso ingabbiato all'interno di un genere che gli ha garantito soldi e successo ma al di fuori del quale ha mostrato sprazzi di inventiva purtroppo mai coltivati fino in fondo (La casa dipinta, Fuga dal Natale). Ultima sentenza rientra nel filone processuale caro all'autore, è un romanzo corposo, quasi cinquecento pagine, che nonostante riesca a offrire quasi sempre una piacevole lettura soffre di qualche momento di stanca durante il quale Grisham si sofferma con molta attenzione nello spiegare al lettore come funzioni negli States una campagna elettorale volta a eleggere i giudici della Corte Suprema di uno Stato, nella fattispecie il Mississippi, cosa che in realtà offre spunti di riflessione molto interessanti sulla (in)giustizia del sistema americano ma che inevitabilmente appesantisce qua e là un poco il testo.

Siamo al capitolo finale di un lungo processo contro la Krane Chemical, azienda colpevole di aver scaricato tonnellate di sostanze tossiche nelle falde acquifere di Bowmore nel Mississippi. Lo scontro assomiglia a quello tra Davide e Golia, un'azienda che fattura milioni su milioni assistita da stuoli dei migliori avvocati sulla piazza, portata in giudizio dal piccolo studio legale che fa capo a Wes e Mary Grace Payton per conto di Jeannette Baker che nel giro di pochi mesi ha perso marito e figlio a causa di un cancro provocato dalle scorie smaltite illegalmente della Krane e presenti come residuo nell'acqua di Bowmore. Al momento del giudizio finale la giuria giudica l'azienda colpevole e decide per un rimborso molto cospicuo a favore di Jeanette; ma non è finita qui, i giurati inoltre affibbiano alla Krane Chemical una sentenza punitiva che costringerà il piccolo impero di Carl Trudeau, maggiore azionista della Krane, a versare come risarcimento una somma che supera i quaranta milioni di dollari. È una sentenza storica e disastrosa per l'affarista privo di scrupoli al quale non resta che portare il caso in appello alla Corte Suprema del Mississippi, ma la corte di quello Stato si è spesso dimostrata propensa a favorire gli attori delle cause contro le imprese disoneste, per aggiustare il tiro interverrà l'azienda di Barry Rinehart specializzata nel manipolare in tutto segreto le campagne elettorali al fine di ottenere nella composizione della Corte giudici a loro favorevoli.

Grisham cattura da subito l'attenzione del pubblico con lo scontro tra il colosso della chimica e il piccolo studio di avvocati che si sta giocando anche le proverbiali mutande pur di arrivare in fondo a una causa giusta, Wes e Mary Grace Payton raccolgono la simpatia del lettore ma gli onesti in questo mondo faticano a combattere con gli squali. L'autore perde qualche battuta nella fase successiva dedicata alla manipolazione da parte dei potenti e delle lobby con cui hanno contatti per la composizione della Corte Suprema, se qui si diluisce un poco il ritmo del racconto c'è da riconoscere a Grisham una competenza consapevole delle storture del sistema giudiziario americano, in una nota in fondo al libro lo stesso autore sottolinea come "finché si consentirà l'afflusso di denaro privato nelle elezioni giudiziarie continueremo a vedere interessi contrastanti in lotta tra loro per ottenere seggi sul banco dei giudici", nodo centrale anche di questa vicenda che mette bene in evidenza il sistema di corruttela celata che appesta la politica americana (e non solo quella). Come già detto chi conosce Grisham sa cosa aspettarsi, prendere o lasciare, Ultima sentenza offre spunti interessanti e un discreto intrattenimento, per grandi romanzi rivolgersi altrove.

sabato 21 agosto 2021

THE FOUNDER

(di John Lee Hancock, 2016)

Dopo il bel biopic Saving Mr. Banks dedicato alla figura della scrittrice Pamela Lyndon Travers, l'ideatrice di Mary Poppins, e al tira e molla della stessa con Walt Disney per la cessione dei diritti cinematografici del personaggio, il regista John Lee Hancock si dedica a un'altra biografia, quella di Ray Kroc, nome che a molti potrà non dire molto ma uomo al quale si deve (che poi sia un bene o un male decidetelo voi) l'ascesa inarrestabile della catena di fast food McDonald. Oltre alla storia di Kroc e a quella dei fratelli McDonald, indubbiamente interessante e presentata da Hancock in maniera coinvolgente, The founder è anche un piccolo trattato sul capitalismo e sui comportamenti che questo sistema avalla e premia, con buona pace di chiunque sostenga che questo sia il sistema economico più giusto possibile. In questo senso il film non offre giudizi bensì illustra, allo spettatore resta da decidere se il signor Kroc sia stato un grande imprenditore o un abile ladro privo di scrupoli. Magari la risposta comprende entrambe le declinazioni, il grosso del problema sta nel fatto che in una società civile il ladro andrebbe punito e non aiutato nel fare fortuna.

Ray Kroc (Michael Keaton) è un commerciale itinerante per la ditta di frullatori Multimixer, attività che in realtà non gli rende molto bene, sempre in giro per gli States e con una moglie devota a casa (Laura Dern) che lo sostiene anche se talvolta a denti stretti. Lungo il suo peregrinare Kroc si ferma a mangiare qua e là, interminabili code al drive-in di turno. Appreso di un ordine insolito di ben sei frullatori da parte di uno di questi fast food, Ray si reca in loco a San Bernardino per capirne le motivazioni, si troverà di fronte al locale dei fratelli Mac (John Carroll Lynch) e Dick McDonald (Nick Offerman), inventori di un metodo di lavoro innovativo e studiato fin nel minimo dettaglio per azzerare i tempi di attesa della loro clientela. Il sistema funziona, Kroc si innamora sinceramente di quell'idea, di quel nome - McDonald - inizia così a fare pressione sui due uomini per espandere il marchio in tutto il Paese ed entrare in società con loro. L'espansione è sempre stata il sogno di Dick, i due fratelli McDonald sono gente onesta che vuole mantenere il controllo sulle decisioni prese in loro nome al fine di garantire la qualità del prodotto e del servizio, con molta riluttanza affidano a Kroc la gestione di nuove sedi e nuovi affiliati, il piazzista si rivelerà un abile imprenditore e aiutato dal consulente finanziario Harry Sonneborn (B. J. Novak) troverà il modo di fondare l'impero economico che ancora oggi conosciamo, per farlo dovrà però calpestare desideri e nome dei veri proprietari del marchio.

Un ottimo (ancora una volta) Michael Keaton ci accompagna nella costruzione e nell'affermazione del terzo simbolo immancabile in ogni rispettabile cittadina degli Stati Uniti, gli archi dorati del Mac (gli altri due sono la bandiera americana e la croce), interpretando un personaggio in bilico tra il genio imprenditoriale e il farabutto (per me più il secondo). John Lee Hancock con un'accurata messa in scena degli anni 50 americani ci racconta una grande storia sul capitale, sulla perseveranza, sulla fame di successo e in maniera inevitabile sull'ingiustizia e sulla disonestà, lo fa ancora una volta in maniera intelligente con un biopic che suscita interesse e schifo o ammirazione in base all'orientamento di ogni singolo spettatore. Immerso in scenari pulitissimi e ordinati un cast di supporto esemplare impreziosisce la narrazione, non solo la coppia di fratelli formata da Carroll Lynch e Offerman ma anche la componente femminile rappresentata da Laura Dern e da Linda Cardellini, il cui personaggio è ulteriore prova di valore per Kroc, offre un contributo esemplare. The founder è un film con un finale amarissimo per chi ancora crede che giustizia e onestà debbano essere i fondamenti su cui costruire le società, non solo quelle per azioni ma soprattutto quelle formate da uomini, un finale duro da digerire per idealisti ormai fuori tempo massimo in una società come quella odierna che predilige al vero latte di mucca composti in polvere in nome del progresso che avanza (vedi alla voce ricavi). 

giovedì 19 agosto 2021

IL FERROVIERE

(di Pietro Germi, 1956)

1956, siamo agli sgoccioli del filone neorealista, Pietro Germi esce con Il ferroviere, uno dei film più importanti della sua filmografia e tra gli ultimi grandi esiti del neorealismo tutto, al centro della narrazione la condizione operaia e quella dell'istituzione familiare nel secondo dopoguerra e in anni in cui il boom economico è lì da esplodere ma i costumi e l'approccio alla vita delle generazioni più giovani stanno già andando a modificarsi. Per il ruolo del ferroviere protagonista del film Germi ci mette letteralmente la faccia interpretando in prima persona Andrea Marcocci, macchinista e padre di tre figli da mantenere in un'Italia dove le difficoltà sono ancora molte. Il film gioca tra impegno civile, presa di posizione politica e sentimentalismo in quelle che sono le dinamiche familiari, ben espresse dall'osservazione dei vari membri da parte del piccolo Sandro (Edoardo Nevola, attore e soprattutto doppiatore) con il quale il pubblico empatizza dopo mezzo minuto dalla sua comparsa in scena. Proprio la deriva sentimentale valse qualche critica al film che trova invece un equilibrio finissimo dove il melodramma non va mai a soverchiare l'impianto sociologico della storia.

Andrea Marcocci fa il macchinista per le ferrovie, nei suoi viaggi è accompagnato dal collega e amico Gigi (Saro Urzì), a casa lo aspettano la moglie Sara (Luisa Della Noce), la figlia in età da marito Giulia (Sylva Koscina), il figlio sfaccendato Marcello (Renato Speziali) e il piccolo Sandro, affezionato al padre, sensibile e refrattario allo studio. Quello di Andrea è un buon impiego per i tempi, ma la sua propensione per il vino e le serate con gli amici e le incomprensioni con i due figli maggiori creeranno diversi contrasti in famiglia: Marcello tende a mettersi nei guai in cerca di guadagni facili, Giulia rimane incinta e sarà costretta dal padre a sposare un uomo che lei non ama e che non la ama (Carlo Giuffré). Dato il dolore di Sara per il disgregamento familiare, sembra toccare al piccolo Sandro l'incombenza di riportare il padre alla ragione ma il destino si accanirà contro Andrea, durante uno dei suoi viaggi un uomo si suiciderà gettandosi davanti al treno in corsa guidato da Marcocci, questi sconvolto commetterà un errore che lo porterà a rischiare il posto di lavoro tanto duramente guadagnato.

È fuor di dubbio che Il ferroviere sia prima di tutto un melodramma; dietro le vicissitudini della famiglia Marcocci, non solo quelle del padre Andrea, si costruisce un impianto che tocca con realismo i temi nodali della vita di quegli anni: innanzitutto c'è il confronto generazionale con figli che non credono più ciecamente a un'istituzione come quella familiare allo stesso modo in cui facevano i loro genitori, è una rottura importantissima e che deve aver pesato in maniera atroce su molti giovani e sui loro padri e madri, nella fattispecie Giulia rifiuta una vita insieme al padre di suo figlio (che morirà durante il parto) e lo stesso fa il marito Renato, condizione inaccettabile per un uomo di tradizione come Andrea, un vero dramma che si unisce alla difficoltà di occupazione (di Marcello) e alla vita dura degli operai in relazione alla quale Germi ha il coraggio di scoccare critiche pungenti alle istituzioni sindacali, scelta per la quale venne ovviamente molto criticato da una certa sinistra; si mettono anche in scena le rivendicazioni, gli scioperi, la divisione tra lavoratori. Inoltre una sorta di infelicità quasi endemica al nucleo familiare viene chiarificata ed esposta dalle parole amare di una Luisa Dalla Noce inappuntabile, Germi lascia spazio alla speranza ma ci ricorda che la vita è fatta anche da brutte sorprese e dolore. A smorzare i toni drammatici la simpatia naturale del piccolo Sandro, occhio vigile sulle situazioni e cuore pieno di buoni sentimenti per tutti. Ottimo film del nostro neorealismo che può affiancare senza vergogna pellicole più note come Ladri di biciclette, Riso amaro e altri grandi titoli ai quali è stato in maniera unanime attribuito lo status di capolavori.

martedì 17 agosto 2021

ANDROMEDA

(The Andromeda strain di Robert Wise, 1971)

Robert Wise è un regista che oggi si ricorda poco nonostante abbia siglato pagine importanti di storia del cinema, quattro Oscar personali, due per West side story (film e regia) e due per Tutti insieme appassionatamente (ancora film e regia); detto questo potrebbe sembrare Wise un autore votato al musical invece così non è, nella sua carriera caratterizzata da periodi di grande successo e da altri di relativa bonaccia Wise si dedica ai progetti più disparati: un paio di film rimasti nella memoria ambientati nel mondo della boxe (Stasera ho vinto anch'io e Lassù qualcuno mi ama), diverse sortite nell'horror e nel noir classico (La collana insanguinata, La jena, Gli invasati), viaggi nel west (Sangue sulla Luna, Due bandiere all'ovest) e infine la fantascienza proprio con questo Andromeda, con la prima escursione cinematografica di Star Trek e soprattutto con il cult movie Ultimatum alla Terra (Klaatu barada nikto). Lavora tra l'altro come montatore per Orson Welles ne L'orgoglio degli Amberson e in Quarto potere, il film che viene spesso indicato come il più influente nella storia del cinema. Robert Wise non è stato di certo un peso piuma eppure il suo nome non è rimasto scolpito a fuoco come quello di altri registi nella memoria collettiva; negli anni 70 la sua carriera è alle battute finali, nel 1971 Wise si adopera per adattare per lo schermo il romanzo di Michael Crichton che porta lo stesso titolo del film.

In un paesino del New Mexico precipita una parte di un satellite artificiale statunitense portando con sé una forma virale di vita aliena, questo virus che in seguito verrà denominato Andromeda uccide l'intera popolazione del paese fatti salvo un neonato e un anziano malato. La zona viene isolata e un team medico composto dai dottori Stone (Arthur Hill) e Hall (James Olson) viene inviato sul posto, le ricerche si sposteranno poi nell'avanzatissimo centro sperimentale Wildfire, un luogo asettico e a prova di fuga batteriologica, ai due medici, oltre al personale della base, si uniranno la dottoressa Leavitt (Kate Reid) e il più anziano dottor Dutton (David Wayne). Lo scopo del team sarà quello di studiare il virus e renderlo inoffensivo cercando di capire il perché questo non abbia ucciso il vecchio e il neonato. Nel frattempo il virus muterà, alcuni inconvenienti intralceranno il lavoro dei medici mentre il tempo stringe, la minaccia batteriologica diventa sempre più pressante.

Cosa c'è di meglio tornati dalle vacanze di un bel film su un virus mortale? L'ipotesi presa qui in esame è quella di un contagio sconosciuto, alieno addirittura, sul quale il governo non ha proprio la coscienza pulitissima; ciò che di interessante c'è nel film è l'ipotesi concreta di trovarsi di fronte a nuove forme di vita letali senza sapere come affrontarle; bisogna concedere al governo finzionale almeno la capacità di non creare un panico diffuso nella popolazione, esempio chiaramente non preso a modello dai governi reali. La grande pecca di Andromeda è il ritmo eccessivamente blando che si vivacizza solamente sul finale, ogni fase della ricerca del team medico è dettagliata e rappresentata con grande perizia e abbondanza di particolari, gli scenari e tutto il design della base Wildfire sono realizzati con cura e con effetti all'avanguardia per i primi anni 70, alcune soluzioni grafiche sono addirittura considerate come i primi esempi di rendering computerizzato applicati al cinema, i personaggi hanno il giusto spazio e trasmettono una certa credibilità, acuita dal fatto di non vedere nemmeno un volto noto nel cast, diciamo pure che tutto funziona bene ma ogni tanto si desidera davvero una sferzata di ritmo, un'accelerata capace di rendere il film più godibile. Wise adotta molto bene alcune soluzioni di regia all'epoca non abusate come lo split screen, riprese ripetute sugli schermi dei computer, inquadrature fisse a mostrare le conseguenze del virus sugli abitati del paese colpito, dando al film una connotazione molto moderna. Interessante per diverse tematiche (la paura della discriminazione, nuovamente attuale, i limiti che la scienza non dovrebbe valicare, la minaccia batteriologica, etc...) Andromeda pecca parecchio sulla calibrazione dei ritmi, con qualche sequenza più dinamica avrebbe fatto un'altra figura ritagliandosi magari un posto al sole all'interno della filmografia di Wise nella quale invece spiccano in misura maggiore altri titoli.

lunedì 16 agosto 2021

LOBSTER JOHNSON - IL PROMETEO DI FERRO

(Lobster Johnson: The iron prometheus di Mike Mignola e Jason Armstrong, 2007/2008)

Nel 2007 arriva il momento di espandere ancora un poco il Mignolaverse, dopo le varie miniserie ed episodi brevi dedicati a Hellboy e al B.P.R.D. anche per la chela, Lobster Johnson, è ora di ottenere la prima uscita personale dopo diverse apparizioni sulle pagine dei fumetti dedicati ai suoi più illustri colleghi. Lobster Johnson è un personaggio misterioso, una piaga per nazisti e forze del male assortite, un uomo di cui non si sa molto e che sembra essere immune alle conseguenze del passare del tempo, un giustiziere armato di pistola e di una mano ustionante con la quale marchia i suoi nemici con il simbolo della chela, un deterrente per tutto il sottobosco criminale che ha imparato a temere l'avvento dell'aragosta. Il prometeo di ferro non ci dice ancora molto sulla storia di Lobster Johnson ma almeno ci permette di conoscere meglio il personaggio, i suoi metodi e la piccola squadra di supporto che aiuta il Nostro a fronteggiare il nemico di turno, questa volta identificato in un classico: il pericolo giallo tanto caro a molti romanzi pulp. E proprio dei protagonisti del pulp Lobster Johnson ha le caratteristiche, l'omaggio è dichiarato, come ci fanno capire esplicitamente gli inserti testuali corredati da illustrazioni che si trovano tra i vari episodi della miniserie in cinque parti. Questo "misterioso uomo mascherato con grossi occhiali rotondi vestito tutto di nero" sale alla ribalta delle riviste pulp grazie a un ex poliziotto divenuto scrittore che afferma di aver conosciuto Lobster Johnson durante la sua carriera da tutore dell'ordine, meno di una decina di romanzetti prima di passare sulle pagine dei fumetti, poi un paio di serial tv di scarsa qualità per finire nel circuito del cinema di serie B messicano. Ma il vero Lobster è altro, uno con cui non conviene scherzare.

New York, 1937. Jim Sacks fugge con la tuta T.E.V. capace di controllare la terribile energia Vril in seguito a un attacco al laboratorio dove la tuta stessa veniva testata dal Professor Gallaragas e da sua figlia Helena. I tizi che lo inseguono per impossessarsi della tecnologia T.E.V. vengono brutalmente fermati dall'intervento di Lobster Johnson che dovrà fronteggiare uomini con cattive intenzioni e scimmioni profondamente alterati. Dietro all'attacco c'è un'antica organizzazione che ha origine nel mito di Hyperborea, una delle antiche civiltà scomparse che Memnaan Saa, una sorta di Fu Manchu in stile pericolo giallo, vuole riportare all'antico splendore. Toccherà a Lobster Johnson con l'aiuto di un Sacks potenziato dall'armatura e quello della sua piccola gang di supporto, fermare hyperboreani, nazisti, scimmioni e draghi fiammeggianti, in un'avventura che non sfigurerebbe se pubblicata a puntate su una di quelle riviste pulp degli anni 30.

Come anticipato sopra Il prometeo di ferro, con riferimento al personaggio di Sacks, non ci dice molto del protagonista della serie, Lobster Johnson è un personaggio misterioso, di poche parole, uso a scomparire nel momento più opportuno (un po' come fa Batman con Gordon) e che evidentemente ha già un corposo passato di cui nulla ci viene ancora rivelato. Mignola si concentra sull'azione divertendosi a inserire nella storia tutti quegli elementi a lui cari (i nazi cattivi, i robot, i mostri, le scimmie) costruendo una storia adatta al periodo narrato, gli anni 30 delle storie pulp dove il pericolo arrivava dall'Asia o dal nascente movimento nazista. Mignola ripesca un personaggio visto di sfuggita su B.P.R.D. e lo trasforma nella nemesi di Lobster Johnson, per il design dei personaggi si avvale dell'aiuto di Guy Davis ma affida le matite a Jason Armstrong, disegnatore forse di minor talento se paragonato allo stesso Mignola o a Davis o a un Fegredo ma che ben si adatta allo stile narrativo di questa prima storia in solitaria della chela. Una buona storia di apertura per un personaggio che aspetta di essere scritto e costruito e che probabilmente entrerà con più decisione negli avvenimenti del Mignolaverse con i prossimi volumi, nel frattempo giunge il momento dell'esordio a solo anche per Abe Sapien.

venerdì 6 agosto 2021

QUESTA NOTTE MI HA APERTO GLI OCCHI

(The dwarves of death di Jonathan Coe, 1990)

Nel 1990, arrivato al traguardo del terzo romanzo, Jonathan Coe si confermava un autore in evoluzione costante; se i primi due libri dello scrittore britannico (Donna per caso e L'amore non guasta) non  avevano convinto fino in fondo, con Questa notte mi ha aperto gli occhi si arriva a una forma più compiuta e soddisfacente che, pur lasciando sospesi e non detti, appaga il lettore preparando il campo al successivo esito dell'autore, quel La famiglia Winshaw che viene unanimamente indicato tra gli scritti più riusciti di Coe. Per questo romanzo lo scrittore unisce al suo amore per la lingua e la narrazione quello storico per la musica, ad aprire il romanzo, almeno nell'edizione Feltrinelli, c'è proprio un'introduzione che racconta la passione di Coe per la materia e il rimpianto per non aver studiato in gioventù la musica con maggiore impegno, trovando questa una forma d'arte ancor più sincera di quella legata alla parola scritta. Chissà quale scenario si sarebbe aperto per lo scrittore se le cose fossero andate diversamente, magari oggi non avremmo i suoi romanzi... e forse neppure la sua musica!

William è un giovane di Sheffield trasferitosi a Londra per provare a sfondare nel mondo della musica; compositore e pianista suona con un gruppo di mediocre talento, gli Alaska Factory, tenuto a galla proprio da William che ne è un po' il collante. Per mantenersi lavora in un negozio di dischi e condivide l'appartamento con Tina, che non incontra quasi mai, sorella di Tony, uno dei suoi primi insegnanti di musica. Gli Alaska Factory sono alla ricerca dell'agognato contratto discografico ma la situazione è stagnante, il loro manager Chester non riesce a trovare sbocchi per loro, così propone a William, l'unico ad avere un po' di talento, di fare una prova con gli Unfortunates, l'altro gruppo gestito da Chester, una band decisamente più rumorosa e sperimentale degli Alaska e composta da membri decisamente più bizzarri. Nel frattempo per William procede - per modo di dire - anche la vita sentimentale, il ragazzo porta avanti infatti una relazione platonica con la bellissima ma fredda Madeline, un rapporto fermo che oscilla per William tra l'adorazione e l'irritazione ma che in realtà sembra non andare da nessuna parte. Così la vita di William si trova a un punto morto sotto ogni aspetto, questo finché il protagonista non incontrerà gli Unfortunates e il loro cantante Paisley in una nottata che a tutti gli effetti gli cambierà davvero la vita.

Romanzo impregnato di musica, ogni capitolo porta il titolo di un termine musicale (Assolo, Coda, Sezione intermedia, Secondo tema e via dicendo) e soprattutto tutti si aprono con la citazione di un brano degli Smiths o di Morrisey, il testo del racconto è intervallato di quando in quando dal pentagramma sul quale William appunta parti delle sue composizioni entrando anche in qualche tecnicismo che rende il racconto ancor più gradevole per chi conosce la musica pur rimanendo sempre più che comprensibile a tutti, diciamo che c'è un di più che solo un musicista può realmente apprezzare. Il tono passa dal comico (applausi per il passaggio sui bus di Londra la domenica) al sentimentale, che poi è la parte centrale e più importante del libro, fino a sfociare in risvolti thriller con alcuni eventi di un certo peso nell'economia generale del racconto. Ma ciò che più fa breccia nel cuore del lettore e l'inadeguatezza incolpevole di William nei confronti della vita, incapace di progredire nel suo rapporto con Madeline, fermo da mesi a un amore platonico e a vuote discussioni ma impossibilitato anche nel troncarlo, bloccato con la musica in un gruppo privo di ambizioni, in difficoltà nel carpire le altrui esigenze o le richieste di aiuto, in questo William è uno come tanti, con talenti inespressi e privo di quella spinta propulsiva al cambiamento, un personaggio che è più facile di altri da sentire vicino. Inoltre Coe sa come si scrive, è a suo agio con tutti i registri, non si fa remore a dire che la musica di Andrew Lloyd Webber fa schifo, è sempre piacevole e non si perde in giri interminabili di parole. Il tutto lascia ben sperare nei romanzi successivi visto che Questa notte mi ha aperto gli occhi di solito non è menzionato tra le opere più importanti dell'autore inglese.

mercoledì 4 agosto 2021

I FIGLI DEL FIUME GIALLO

(Jiānghú érnǚ di Jia Zhang-ke, 2018)

Bastano pochi film per capire come quello di Jia Zhang-ke sia il percorso di un grandissimo autore, un regista che ancora tutto sommato giovane (classe '70) ha fermato nel tempo i grandi cambiamenti che la Cina e la sua popolazione hanno vissuto a cavallo dei due millenni; quello di Jia Zhang-ke è un viaggio in divenire, come lo sono le storie dei protagonisti dei suoi film, percorsi esistenziali ma anche geografici e che, come per ogni spostamento, non sono esenti da ritorni, riferimenti a temi già trattati, ritorni sui luoghi fisici e nel merito puramente cinematografico ritorni agli stessi attori, su tutti Zhao Tao anche moglie dello stesso regista e presente in diverse sue opere. I figli del fiume giallo è al momento l'ultimo tassello della filmografia del regista cinese, un corpo d'opera che inizia a mostrare rimandi autoreferenziali che aggiungono valore oltre che ai singoli film anche all'esperienza dello spettatore che può creare collegamenti non solo generali su tematiche e argomenti ma anche rimandi ben specifici su volti, singoli episodi e strizzate d'occhio a dare completezza anche al nostro di percorso in quanto fruitori dell'opera.

La Jianghu è un'organizzazione criminale locale che si occupa principalmente di gioco d'azzardo alla quale appartengono anche Bin (Liao Fan) e la sua donna Qiao (Zhao Tao), entrambi molto rispettati dagli altri esponenti del gruppo. Bin è una sorta di autorità che riesce a tenere a bada le contese tra vari membri dell'organizzazione nel territorio di Datong, mantenere l'ordine anche tra cani sciolti e altre organizzazioni invece non è sempre semplice, Bing subisce anche un paio di aggressioni durante una delle quali Qiao è costretta a esplodere un colpo di pistola; fermata dalla polizia per possesso d'arma illegale sconterà ben cinque anni in carcere. Uscita di galera Qiao tenterà di rintracciare Bin che nel frattempo si è trasferito a sud nella zona di Fengjie rifacendosi una nuova vita; per Qin sarà un periodo duro durante il quale si troverà a doversi arrangiare con diversi espedienti, il suo passato criminale la aiuterà a sopravvivere giorno dopo giorno. Ma il legame tra Bin e Qiao non è così facile da spezzare nonostante i mutamenti della vita e i cambiamenti che il Paese impone ai suoi cittadini.

A dimostrare quasi una circolarità nel suo cinema Jia Zhang-ke torna sul fiume, alla diga delle Tre Gole dove in Still life proprio Zhao Tao andava alla ricerca del marito perduto, proprio come in I figli del fiume giallo la stessa attrice, in una sequenza che richiama in molti particolari quella del film precedente, raggiunge la città di Fengjie alla ricerca del suo amato Bin. Ma come cambiano i sentimenti dei protagonisti cambia la Cina, la voce sul battello ricorda ai viaggiatori come gradualmente questi luoghi verranno evacuati e sommersi dall'acqua del fiume, sepolti in un bacino idrico che vuole per il popolo nuove esistenze, come quella che suo malgrado sarà costretta a cercare Qiao. Durante la sua ricerca, una volta uscita di galera, c'è un'altra sequenza molto significativa: la donna incontra sul treno un uomo che viaggia verso sud, lui dice di avere un progetto turistico da realizzare, un tour per turisti sui luoghi di avvistamenti Ufo, quando questi chiede a Qiao se crede negli Ufo lei gli risponde di averne visto uno una volta, lo spettatore preparato torna a una delle tre scene surreali di Still life chiudendo un cerchio che verrà ripreso ancora più avanti. Piccoli rimandi che fanno crescere la narrazione che qui è tripartita come in Al di là delle montagne seppur con tempi cronologici più vicini tra loro. C'è un senso di disfacimento che accompagna il (i) film e la Cina tutta, per sopravvivere a Qiao non resta che tornare al passato, cosa che non sarà possibile per tutti (i minatori del nord), Jia Zhang-ke ancora una volta si fa cantore non solo dei suoi protagonisti ma delle trasformazioni del suo Paese che passa dal falso ottimismo un po' farlocco dei Village People alla solitudine dell'abbandono e delle memorie perdute.

lunedì 2 agosto 2021

DARK SHADOWS

(di Tim Burton, 2012)

Sono ormai diversi anni che non sono più un estimatore dell'accoppiata Tim Burton/Johnny Depp, tanto meno se condita dalla presenza di Helena Bonham Carter; tralasciando i film che il regista ha realizzato in stop-motion, decisamente superiori ai suoi ultimi live action, è dai tempi di Big fish (2003) che non mi capita di vedere un film davvero soddisfacente girato da Tim Burton, curioso che in Big fish tra l'altro manchi proprio l'apporto di Johnny Depp (per correttezza ammetto di non aver ancora visto Big eyes). Anche dopo la visione di questo Dark Shadow uscito nel 2012 non è che si possa proprio gridare al miracolo, bisogna ammettere però che se preso senza pretese il film risulta divertente e presenta qualche bella idea che rende la visione tutto sommato piacevole, certo i tempi d'oro del regista di Burbank sono passati da tempo, lo dimostreranno anche i successivi Miss Peregrine e Dumbo, però qui almeno traspare un'aria giocosa e divertita, nonostante l'immancabile ambientazione cupa, capace di coinvolgere lo spettatore e ben predisporlo per godersi la visione.

Storia, ambientazione e personaggi sono ispirati all'omonimo serial tv che andò in onda negli Stati Uniti a partire dal 1966 sulla ABC. I Collins sono una famiglia di origini britanniche che nella seconda metà del 1700 raggiunge il Nuovo Mondo per ampliare il loro giro di affari, qui fonderà la cittadina di Collinspot e si insedierà nella magione sulla collina poi denominata Collinwood. I Collins sono imprenditori nel ramo ittico, il loro primogenito Barnabas (Johnny Depp) è un bel ragazzo non indifferente al fascino femminile, dopo essersela spassata con la domestica Angelique (Eva Green) si innamorerà della bella ed eterea Josette (Bella Heathcote). Angelique, che in realtà è una potente strega, innamorata e rifiutata, lancerà un maleficio sulla ragazza che porterà questa al suicidio e trasformerà Barnabas in un vampiro, seppellendolo vivo in una bara incatenata sprofondata metri sottoterra. Nel 1972, in seguito a lavori di scavo, Barnabas viene riportato alla vita; dopo essersi abbeverato a discapito dei poveri operai, il settecentesco vampiro giunge nell'ammodernata cittadina di Collinspot ormai dominata dalle industrie AngelBay di proprietà di una ancora viva Angelique, mentre la famiglia Collins è ormai decaduta, gli eredi vivono in una ormai in rovina Collinwood. Qui Barnabas conosce la matriarca Elizabeth (Michelle Pfeiffer) con la quale stringerà un patto, il bislacco "maggiordomo" Willie (Jackie Hearle Haley), l'adolescente intrattabile Carolyn (Chloë Grace Moretz), il piccolo David e la sua istitutrice Victoria (di nuovo Bella Heathcote), identica alla defunta Josette. Oltre ai parenti, in casa è ospite anche la psicologa Julia Hoffman (Helena Bonham Carter). Fatta conoscenza con i lontani parenti Barnabas tenterà di risollevare le sorti dei Collins e di riprendersi il dominio del paese.

La combriccola di stanza a Collinwod richiama le strambe famiglie di vecchi serial tv, non solo Dark Shadows come riferimento ma anche La famiglia Addams (del '64 la serie tv) o i The Munsters dello stesso anno, lo scenario molto gotico e in stile Burton dell'incipit viene riversato nei seventies con effetto straniante per il protagonista del film ma anche con tanto ruffiano divertimento per il pubblico, accompagnato da una colonna sonora molto più che accattivante: tra i primi pezzi una delicata Nights in white satin dei Moody Blues, e poi T-Rex, Carpenters, Iggy & The Stooges, menzione particolare per Alice Cooper che si concede attivamente in un discreto ruolo e soprattutto per Barry White che accompagna una delle scene di sesso più divertenti di sempre, quella tra Johnny Depp ed Eva Green. Alcune sequenze sono effettivamente molto riuscite (la M del McDonald), i momenti simpatici non mancano, ottima la ricostruzione degli ambienti, meraviglioso il paesino del Maine dove la vicenda si svolge (ma queste sono cose alle quali Burton ci ha abituati). Il regista può permettersi un cast di classe: una sensualissima Eva Green, l'istituzione Michelle Pfeiffer, qui bene anche Johnny Depp e parecchio indovinati i ruoli di Chloë Grace Moretz e Jackie Hearle Haley, forse un po' sacrificata Bella Heathcote che apparentemente sembra dover ricoprire un ruolo fondamentale ma che a conti fatti si perde un poco nel corso del film. Nulla di memorabile ma un buon film, divertente, ben realizzato e calibrato al meglio per poter piacere a un pubblico vasto, meglio di quanto mi aspettassi.

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