domenica 25 marzo 2018

SHAUN, VITA DA PECORA - IL FILM

(Shaun the sheep movie di Richard Starzak e Mark Burton, 2015)

La Aardman Animations è una bellissima realtà, patria incontrastata (se non da Tim Burton quando ci si mette) delle opere in stop motion con protagonisti in plastilina, qui nascono i celebri Wallace e Gromit e più di recente la serie televisiva dedicata alla pecora Shaun che nel 2015 si guadagna il suo primo lungo sbarcando così nelle sale di mezzo mondo e accumulando nominations nei festival cinematografici più prestigiosi, Academy compreso (dove verrà però giustamente battuto da quel capolavoro di Inside out).

Il film, durante il quale nessuno spende nemmeno una parola, è sì ad altezza bambino ma non mancherà di divertire anche gli adulti con la sua tenera semplicità e con qualche bella citazione sparsa qua e là (spassosa quella ai Beatles ad esempio), aiutandosi con una colonna sonora indovinata che si lascia apprezzare ben oltre il celebre tema di Shaun the sheep. Ciò che più facilmente si apprezza dei film della Aardman è la perizia tecnica messa nella minuziosa ricostruzione dei personaggi ma soprattutto degli ambienti in cui la vicenda si svolge, dalle bucoliche campagne in cui è sita la fattoria in cui Shaun e le sue compagne pecore vivono con il fattore, agli interni della casa di quest'ultimo, dalle strade della grande città (Londra?) ai negozi della stessa, una meraviglia continua per gli occhi dello spettatore. Indubbiamente dal punto di vista tecnico il film l'Oscar l'avrebbe meritato e come, la storia però, seppur piacevolmente divertente, è semplice e non presenta grosse chiavi di lettura e interpretazioni. Un po' come capita a chiunque di noi, col passare del tempo Shaun e gli altri animali della fattoria iniziano a sentire il peso della routine, Shaun desidera una vacanza dalla sua quotidianità e così allestisce un piano per mettere a dormire il fattore e concedersi il meritato riposo. Purtroppo nel pur ingegnoso piano qualcosa va storto, così il fattore si ritrova perso nella grande città privo di memoria e le povere pecore alla fattoria, senza cibo e senza nessuno che badi a loro, messe anche in difficoltà da maiali di orwelliana memoria. Starà proprio alle miti pecore, insieme al cane Bitzer, andare a recuperare il fattore, affrontare le sfide che la grande città presenta, fronteggiare il temibile acchiappanimali Trumper e riportare tutto alla normalità nell'amata fattoria: vacanza sì, ma non troppo riposante.

Un prodotto fresco, divertente e semplice semplice come ormai se ne fanno pochi, negli ultimi anni mi viene in mente ad esempio Nuove avventure nel bosco dei 100 acri con Winnie The Pooh (2011), film principalmente per bambini, target principe dell'animazione in sala, un film ben riuscito e godibile. La Aardman è da poco nuovamente nelle sale con il suo ultimo lavoro, I primitivi, a questo punto potrebbe valere la pena dare un'occhiata anche a quello.


sabato 24 marzo 2018

SI PUÒ FARE

(di Giulio Manfredonia, 2008)

Incipit frenetico ad opera di Giulio Manfredonia che in meno di un minuto ci presenta il protagonista Nello (Claudio Bisio), sindacalista aperto alle nuove esigenze dei mercati (siamo nel 1983) e quindi per lo stesso sindacato troppo moderno, uomo però troppo di sinistra per concepire che la sua donna tenti di fare profitto nel mondo della moda, troppo antico per la compagna Sara (Anita Caprioli) e quindi scaricato. Cornuto e mazziato in meno di un minuto, non male, ma si sa, il sindacato non lascia nessuno indietro (ah, che bellissima e menzognera utopia), così Nello viene riciclato come Presidente della cooperativa sociale 180 che si occupa di malati di mente transfughi dai manicomi in seguito all'approvazione della Legge Basaglia. Esaurita la velocissima introduzione, il film di Manfredonia si prende il suo ritmo, torna a una narrazione classica che bilancia al meglio i tempi, sia quelli comici che quelli del racconto, per andare a comporre una di quelle storie belle, edificanti e allo stesso tempo cariche di stimoli, capaci di far riflettere sui contenuti ma allo stesso tempo divertire lo spettatore. È una storia delicata che non manca di assestare qualche colpo duro, i protagonisti, tutti apprezzabili nell'interpretazione di questo gruppo di pazienti con disagi mentali, rendono al meglio i momenti di tenerezza come quelli di maggior tensione andando a sottolineare quella che è una crescita, del protagonista Nello, ma soprattutto comunitaria e collettiva, durante la quale tutti provano, tutti fanno, tutti decidono e lungo il percorso quasi tutti sbagliano, come poi capita realmente nella vita di ognuno di noi.

Dopo aver valutato la situazione, dopo aver fatto conoscenza con il gruppo e aver preso anche qualche bella batosta, Nello decide di portare i ragazzi della cooperativa 180 nel mondo, distogliendoli dalla loro attività assistenziale retribuita dal comune e lanciandoli nel mercato del lavoro, perché anche se non sembra tutto si può fare, perché no, anche diventare dei bravi posatori di parquet. Grazie alla propensione artistica di un paio di loro, il più agitato Luca (Giovanni Calcagno) e il remissivo Gigio (Andrea Bosca), l'attività comincia a farsi un nome e ad avere successo, in qualche misura il reinserimento di questi uomini nel mondo sembra avere delle serie possibilità di riuscita; con l'aiuto del dottor Furlan (Giuseppe Battiston) Nello decide così di diminuire il dosaggio dei farmaci che impedisce a molti di loro di vivere una vita piena e più o meno normale. Purtroppo non per tutti questi neo lavoratori sarà facile reggere le pressioni del mondo al di fuori di un ambiente ristretto e controllato come quello della comunità.


È il dilemma umano l'aspetto più interessante di Si può fare, non tanto quello sulla sorte degli ex internati, quanto quello difficile da sciogliere su fin dove ci si possa spingere per aiutare gli altri, perché si può essere armati delle migliori intenzioni ma non avere la preparazione adeguata per agire al meglio nell'interesse altrui, soprattutto nell'interesse dei più indifesi. È un po' il dilemma con il quale si confrontano quotidianamente tutti gli educatori, i medici, i terapeuti ma più banalmente anche qualsiasi genitore che giorno dopo giorno si trova a dover prendere decisioni che inevitabilmente andranno a influire sul futuro dei propri figli. Poi con tutte quelle scelte in qualche modo bisognerà convivere, non con tutte sarà facile farlo come proverà sulla propria pelle il protagonista Nello.

Tema complesso, difficile da condensare nel tempo di un film, il risultato però sorprende per onestà e freschezza, risultato in larga misura ottenuto grazie all'alchimia di un bel gruppo d'attori ben calato nel ruolo non semplice di "matti". Alla fine anche parlare con leggerezza di temi importanti si può fare.

giovedì 22 marzo 2018

GEEK LEAGUE - LA COMPILATION


Questa volta hanno tentato di farmi fuori, non so bene chi, non ho capito neanche come, ma sono riusciti solo a rallentarmi per ora. Ma bisogna stare in guardia, forse non sono così innocui come in principio mi sembravano. Ma non è facile fermare l'Outsider, continuerò a mischiarmi tra loro sotto mentite spoglie, in vesti sempre diverse. Hanno proposto una sorta di compilation questa volta, attenti, le loro potrebbero contenere messaggi subliminali. Ne approfitto comunque per compilare una lista di cose e ricordi che potrebbero smuovere qualcosa in qualcuno. Alla prossima.


Sigla cartoon: si poteva scegliere tra i ricordi della prima infanzia, addirittura pescare il primo ricordo a cartoni animati, e allora sarebbe stato Atlas Ufo Robot, o una di quelle sigla alle quali sarei sempre affezionato come quella de L'Uomo Tigre, andare sul simpatico con cose come Carletto il principe dei mostri, avrebbe potuto essere tutto, ma probabilmente non poteva essere altro che Ken.





Sigla serie tv: rischierò di essere noioso, qui non ci sono parole da spendere, c'è solo Twin Peaks!




Sigla programma tv: la domenica verso le 18.00, quando ancora il campionato si giocava tutto in un'unica giornata, quella del dì di festa, era tradizione guardare i gol, col nonno e con Paolo Valenti, una vita fa.




Colonna sonora cinema: difficile questa, un mondo di roba buona e meritoria, metto un pezzo dal film Broken Flowers, ma voi ascoltatevela tutta.




Colonna sonora videogame: sono rimasto alla preistoria, Rambo II per C64.




Qui sotto i link delle selezioni degli altri pazzi, occhio ai messaggi subliminali.

Omniverso
Il Bazar di Riky
Storie da Birreria
Cent'anni di Nerditudine
Gioco Magazzino
Gameocracy
La Cupa Voliera del Conte Gracula
Pietro Saba World
Moz O'Clock
Orso Chiacchierone
La Bara Volante
The Reign of Ema
Cornerhouse Pub
Stories, books and movies
Il Cumbrugliume

sabato 17 marzo 2018

IL TRONO DI SPADE - STAGIONE 5

Dopo due annate dai ritmi indiavolati, questa quinta stagione subisce un bel colpo d'arresto lungo il corso delle prime sette puntate, per riprendere a correre poi negli ultimi tre episodi nei quali gli eventi invece aumentano d'importanza e si succedono con un bel ritmo. Sette puntate su dieci di quella che potrebbe essere definita "fiacca" sono un po' troppe a mio avviso, indubbiamente questa situazione si viene a creare come conseguenza della moltitudine di personaggi e trame che si dipanano ne Il trono di spade, ogni tot di tempo la vicenda corale esige che i pezzi sulla scacchiera vengano ricollocati per potersi poi muovere verso altre direzioni. Facendo questo i ritmi rallentano, alcuni personaggi colgono l'occasione per crescere, altri sembrano immobili, altri ancora scompaiono per periodi più o meno lunghi, alcune cose si apprezzano, soprattutto a livello di spunti e idee dalle quali è possibile estrarre previsioni per potenziali sviluppi, a volte semplicemente fa capolino la noia, cosa che comunque per la serie più osannata nel panorama televisivo odierno, serie che basa le sue annate su sole dieci puntate, non dovrebbe mai accadere.

Per quel che concerne il comparto tecnico sembra che ci sia stato un ulteriore passo in avanti sulla ricerca della costruzione dell'immagine perfetta, un'attenzione maggiore è stata posta alle scenografie e soprattutto alla fotografia che spesso restituisce allo sguardo splendide ambientazioni e una nitidezza sicuramente apprezzabile ma che a volte sembra fare un po' perdere alla storia quell'aura da brutti, sporchi e cattivi necessaria almeno nelle sequenze più violente e truci. Ne guadagnano sicuramente i panorami e le location, e probabilmente anche le belle fanciulle che nel corso delle varie puntate non mancano mai.


Addentrandoci un poco di più nello specifico, il lavoro migliore viene fatto su alcuni dei tanti personaggi protagonisti della serie, su tutti probabilmente spicca quello della calcolatrice Cersei Lannister (Lena Headey) che per la prima volta, nonostante il gran fascino delle sue continue manipolazioni, assaggia un poco il ruolo della vittima, cosa che probabilmente scatenerà reazioni furiose in un futuro prossimo venturo. Tyrion (Peter Dinklage), il mio personaggio preferito insieme a Jon Snow (Kit Harington), vivacchia ridestandosi anche lui nelle ultime puntate ma senza destare troppi scossoni, interessante il lavoro svolto su Jorah Mormont (Ian Glen, che solo ora scopro essere figlio di quell'altro Mormont). Jon Snow, protagonista del più grande colpo di scena della stagione, ora Lord degli uomini che vestono il nero, è il vero motore del possibile cambiamento, accompagna i Guardiani della Notte e gli spettatori verso il primo grande scontro con gli estranei, sorta di non morti da oltre la barriera. Spettacolare la battaglia che ne consegue. Arya Stark (Maisie Williams) cresce ma sinceramente mi aspettavo ancora qualcosa di più da questo personaggio, un qualcosa che probabilmente arriverà nelle prossime serie, Sansa (Sophie Turner) subisce e (forse) si risveglia e Ramsay Bolton (Iwan Rheon) è sempre più bastardo puntata dopo puntata.

Fortunatamente si accelera sul finale, molti eventi precipitano, qualche protagonista ce lo giochiamo e le attese per la sesta stagione crescono. Mi dicono sesta e settima siano due annate forsennate, forse l'ultima (al momento) anche troppo. Aggiornamenti a breve.

martedì 13 marzo 2018

4 MESI, 3 SETTIMANE, 2 GIORNI

(4 luni, 3 săptămâni și 2 zile di Cristian Mungiu, 2007)

Al suo secondo lungometraggio il rumeno Cristian Mungiu vince la Palma d'Oro alla sessantesima edizione del Festival di Cannes, lo fa con un film del reale che per alcuni versi può ricordare il Cinema dei fratelli Dardenne, per l'asciuttezza nello stile e nei dialoghi, per la scelta delle tematiche anche se qui, più nelle intenzioni che nel risultato, si lascia intravedere un minimo di contesto politico che nella realizzazione del film rimane più uno sfondo che elemento sostanziale della vicenda narrata. Siamo infatti nella Romania di fine anni 80 ancora sotto il regime di Ceaușescu, il regista ne tratteggia le difficoltà economiche, lo stile di vita e focalizza l'attenzione su un tema scottante: l'illegalità nel paese di praticare le tecniche di interruzione di gravidanza che per forza di cose diventano illegali e quindi clandestine.

In una situazione arrangiata alla meno peggio, Otilia (Anamaria Marinca) e l'amica Gabita (Laura Vasiliu) dividono una camera nello studentato universitario di Bucarest. Tra le inquiline dello studentato non regna l'abbondanza, si ricorre allo spaccio per le piccole necessità, al mercato nero per altre, ci si scambia la roba, si cerca di tirare su in qualche modo un po' di Lei, la moneta corrente. Accade però che Gabita rimanga incinta e che non voglia tenere il bambino, problema molto grosso questo all'epoca di un regime che ha dichiarato fuori legge l'aborto, regime tutt'altro che tenero con i trasgressori. L'unica via percorribile è quindi proprio quella dell'illegalità; con l'aiuto dell'amica Otilia, che sarà la persona che dovrà farsi carico dei pesi più gravosi della pericolosa situazione, Gabita si rivolgerà a un medico abortista (Vlad Ivanov) disposto a praticare l'interruzione in maniera clandestina, scenario che provocherà ripercussioni psicologiche in diversi dei protagonisti del film.


Con poche sequenze Mungiu inquadra bene più l'aspetto sociale che quello politico della Romania del regime, per virare poi su una narrazione più intima e personale che mette al centro l'amica Otilia, gravata da decisioni difficili, da prendere in poco tempo, e in seguito dalle conseguenze delle stesse, piuttosto che Gabita, la vera protagonista della situazione spinosa. La messa in scena è scarna, essenziale, la camera balla seguendo le protagoniste, il buio è buio davvero, i quartieri di Bucarest poco rassicuranti, i sentimenti, le paure, le umiliazioni, sono tutte interne, represse, portate allo spettatore dalla recitazione in sottrazione della Vasiliu e della Marinca, entrambe bene addentro alla vicenda. Con una certa naturalezza, inaspettatamente, Mungiu assesta almeno un bel paio di pugni allo stomaco sul quale si potrà riflettere: sull'abuso, sulle situazioni a cui porta il muoversi nell'illegalità, sul rischio, sul rimorso e sull'umiliazione dell'altro.

Interessante vedere come anche nell'arte contesti storici differenti portino ad approcci alla materia (quella del Cinema in questo caso), per mezzi e sensibilità, parecchio distanti dalla nostra, senza voler scendere in termini di paragone che potrebbero (per noi) risultare spesso troppo penalizzanti. Privo della benché minima inclinazione allo spettacolo, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni è uno di quei film da vedere, anche per un pubblico abituato ad altro il film alla fine potrà rivelarsi meno ostico di quel che si possa pensare.

domenica 11 marzo 2018

UN REBUS PER L'ASSASSINO

(The last of Sheila di Herbert Ross, 1973)

Un rebus per l'assassino non è certamente uno dei film più noti del regista Herbert Ross, direttore poliedrico che ben si è districato nel corso degli anni tra i diversi generi e il cui nome oggi risulta ancora poco conosciuto alle masse. Eppure a lui si devono la regia del capolavoro comico Provaci ancora, Sam (con lo zampino di Woody Allen), il musicale Funny Lady con Barbra Streisand, l'originale Sherlock Holmes: soluzione settepercento, il generazionale Footlose negli 80 e commediole leggere ma di successo come Il segreto del mio successo (appunto). Insomma, anche se Ross non è annoverato nell'empireo dei maestri della regia, anche giustamente se si vuole, è uno che le sue cose le ha fatte e che ci ha lasciato diverse ore di buon Cinema. Con questo film Ross si cimenta nel filone classico del giallo all'inglese, guardando molto alla costruzione di un "caso" proprio come facevano la maestra Agatha Christie e i suoi vari epigoni, andando a mettere in scena una vicenda durante la quale allo spettatore verranno forniti un caso da risolvere, sospetti e indizi con tanto di svelamento finale del colpevole da parte dei personaggi che si prenderanno l'incarico di fungere da narratori e moderatori della vicenda.

Lo spunto è rapido e semplicissimo nella messa in scena: una festa a cui partecipa gente del bel mondo del Cinema; Sheila (Yvonne Romain), moglie dell'ospite Clinton Green (James Coburn), in seguito a un alterco di poca importanza fugge dalla villa in uno stato d'alterazione alcolica, da lì a breve sarà investita da un pirata della strada che le toglierà la vita. Incidente? Omicidio?


Qualche tempo dopo Clinton, grosso produttore di Hollywood, organizza una vacanza di una settimana sul suo yacht (di nome Sheila); tra gli invitati alcuni dei partecipanti alla precedente festa al seguito della quale morì la moglie. Accetteranno l'invito, portati sullo schermo da un cast di tutto rispetto, Tom (Richard Benjamin), sceneggiatore in attesa di decollare nel mondo del Cinema, la sua ricca moglie Lee (Joan Hackett) che lo mantiene, il regista sul viale del tramonto Philip (James Mason), l'affermata manager Christine (Dyan Cannon), la bellissima attrice Alice (Raquel Welch) e il compagno Anthony (Ian McShane). Per loro Clinton organizza un gioco che sarà itinerante sulla costa francese, ad ognuno dei partecipanti verrà attribuito a caso un ruolo che gli altri dovranno scoprire, tutti ovviamente ruoli poco piacevoli per questi esponenti dell'industria cinematografica: l'alcolizzato, l'omosessuale, il delatore, l'ex carcerato, il pedofilo e infine il pirata della strada assassino. Dietro la facciata goliardica del gioco c'è ovviamente ben altro.


Un rebus per l'assassino, pur non sconvolgendo la vita a nessuno, si lascerà apprezzare da chi è fan dei meccanismi sopra descritti, chi ama i racconti della Christie in qualche misura apprezzerà questo film che oggi potrà sembrare un po' datato ma che gode comunque di ottime interpretazioni adatte alla situazione. Parliamo comunque di gente come James Coburn, James Mason il celebre caratterista McShane e della bellissima Raquel Welch che non ho mai apprezzato a fondo come attrice, rivedendola sullo schermo torna in mente il perché della sua fama negli anni 80: uno splendore. L'incedere del film è classico, presentazione dei personaggi dopo l'incipit delittuoso, il gioco che desta sospetti, movimenti, indizi, personaggi fuori campo, sceneggiatura a orologeria (di Anthony Perkins, il Norman Bates di Psycho) e climax finale con svelamento del colpevole. Alla fine anche se il film non è sempre scoppiettante, la dinamica prende e si vuole scoprire chi abbia ucciso Sheila. Ma non solo questo, e tutto il resto lo scoprirete se mai guarderete questo film.

Il pubblico di riferimento per Un rebus per l'assassino è abbastanza preciso, chi ama il Cinema dei 70 e le caratteristiche di cui sopra potrebbe trovare in questo film un modo per trascorrere piacevolmente un paio d'ore, interessante inoltre il fatto che molti dei personaggi presenti nel film fossero ispirati a personalità del mondo del Cinema in auge in quegli anni e dalle quali gli sceneggiatori presero spunto per tratteggiare i caratteri dei personaggi.

giovedì 8 marzo 2018

IL MAGNIFICO FUORILEGGE

(di Mauro Boselli e Stefano Andreucci, 2017)

Con Il magnifico fuorilegge si giunge al termine della lunga carrellata sui Texoni finora prodotti dalla Sergio Bonelli Editore nel corso di questi trent'anni; il primo albo speciale, Tex il grande, risale infatti al 1988 e fu opera portata a termine dall'immarcescibile Claudio Nizzi con i disegni di Guido Buzzelli. Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora, il Texone tuttavia gode ancora di buona salute grazie al fascino dei nomi di richiamo arruolati di volta in volta per prendersi cura della parte grafica dell'albo e grazie alle tavole giganti sempre di fortissimo impatto. Quest'anno si taglia l'importante traguardo dei 30 con l'uscita prossima ventura che salvo eccezioni dovrebbe cadere come al solito in Giugno.

A un passo dal trentesimo anniversario in Bonelli, grazie alla sceneggiatura dell'ormai veterano Boselli, si decide di ricorrere al flashback per narrare un'avventura giovanile di Tex ambientata all'epoca in cui il Nostro era ancora considerato dalle autorità un (magnifico) fuorilegge. A illustrarla viene chiamato Stefano Andreucci, autore già noto ai fan della Bonelli grazie ai suoi lavori su Dampyr e Zagor. Nonostante l'impeccabile lavoro portato a termine da Andreucci sulle tavole di questo Texone, a risaltare è proprio la decisione di portare sotto i riflettori un Tex giovane mai visto prima tra le pagine dell'albo gigante. L'occasione si presenta grazie a un bivacco, questa volta non ci sono nemici da affrontare, da ammazzare c'è solo il tempo, così Tex, davanti a un fuoco, racconta al suo pard Carson e al figlio Kit di quella volta in cui incontrò il giovane Will Kramer e tutta la feccia del villaggio di Robbers' Nest.

Forse non tutti sanno che... in origine Tex si fece una bella fama di fuorilegge in seguito alla sparatoria di Culver City, episodio scatenato dal desiderio di vendetta nato nel futuro ranger dopo l'omicidio del fratello Sam, è lo stesso Tex a raccontarci di come però la cosa fu usata da una manica di farabutti per addossare al giovane anche colpe a lui estranee, cosa che un caratterino difficile come quello di Tex non poteva di certo digerire. È proprio nel tentativo di porre rimedio a questo torto che la strada di Tex incontrerà quella del giovane Will Kramer, un buon diavolo, abile con la colt ma ancora immaturo e troppo desideroso di mettersi in mostra, e quella dei desperados di stanza a Robber's Nest, un vero covo di delinquenti dove regna un'anarchia controllata solo dai comandanti di due fazioni avverse, i loschi Schirmer e Mendoza.

È un'ottima sceneggiatura quella di Boselli che ci racconta le peripezie di un giovane Tex Willer per riabilitare almeno in parte il suo nome, Il magnifico fuorilegge è un racconto di stampo classico, dove risaltano valori come onore e amicizia ma dove aleggia anche l'ombra del tradimento. Andreucci disegna tavole spettacolari che donano a Tex un taglio molto moderno, la versione giovane del protagonista fa ben risaltare l'arroganza e la sicumera di un tipo duro in giovane età, le linee sicure richiamano alla mente anche un certo tipo di fumetto americano (mi vengono in mente i Kubert figli ad esempio), la scansione della narrazione risulta molto dinamica e c'è anche una buona varietà di tipi fisici, compresa una certa dimestichezza con la sensualità femminile. Si attende ora fiduciosi il Texone del trentesimo anniversario.


martedì 6 marzo 2018

DIO ESISTE E VIVE A BRUXELLES

(Le tout nouveau testament di Jaco Van Dormael, 2015)

Dio è un rozzo bastardo, gretto e meschino e vive a Bruxelles. In principio infatti Dio non creò il cielo e la terra come tutti pensano, Dio semplicemente si annoiava a morte e così, saltando tutte le tappe, creò Bruxelles. Creò le strade, gli alloggi, i cinema, ma ancora mancava qualcosa che alleviasse il suo tedio divino. Provò a popolare la città con giraffe, galline, tigri e struzzi, ma tutto ciò non funzionava, nulla lo divertiva. Allora creò l'uomo e le cose andarono meglio. Creò poi la donna, ancora meglio. Tutti questi tentativi solo per avere qualcuno che valesse la pena tormentare, qualcuno da far soffrire, qualcuno da aizzare contro qualcun'altro per ottenere discordia, guerre, sofferenze... insomma del sano intrattenimento per un Dio onnipotente dalle vedute ristrette. Ora capita che Dio (Benoit Poelvoorde) non fosse proprio solo, in uno squallido alloggio ammobiliato senza porte d'entrata né d'uscita, esso vive con una moglie sottomessa (Yolande Moreau), appassionata di sport e di figurine di baseball, un figlio che si è dato, arrivederci e grazie, di nome (ovviamente) J.C. (David Murgia), e una figlia di cui nessuno parla mai, la piccola Ea (Pili Groyne). Il bastardo domina le vite degli uomini scrivendole al pc, ideando sempre nuove brutture da propinare ai suoi "figli". A questa situazione Ea si ribella, su consiglio del più celebre fratello J.C. che le appare in forma di soprammobile in miniatura, decide di scendere sulla Terra (uscire dall'alloggio in pratica) e trovare sei nuovi apostoli, così da arrivare a un totale di diciotto, numero amato dalla mamma, e scrivere il nuovo Nuovo Testamento.

Dio. Ci ha proprio fatti a sua immagine e somiglianza.

Dio esiste e vive a Bruxelles è pieno di trovate spassose, battute gustose e una serie di situazioni surreali, ora comiche, ora tenere, che rendono il film un oggetto inusuale e particolarmente riuscito. Anche la costruzione della vicenda non è perfettamente lineare, si esplora l'esistenza di Dio e della sua famiglia in una linea narrativa che in seguito darà vita a sei piccole sottotrame, una per ognuno degli apostoli scelti a casaccio da Ea che come prima azione per sovvertire l'ordine creato dal padre decide di comunicare (tramite un banale sms) a tutti gli uomini la data della loro morte, cosa che destabilizzerà ogni equilibrio. Tra gli apostoli scelti da Ea ci sono Jean-Claude (Didier De Neck), un uomo abbruttito dal suo lavoro, il killer François (François Damiens), l'agiata e triste Martine (Catherine Deneuve), la bella Aurélie (Laura Verlinden) dal braccio in silicone, il piccolo Willy (Romaine Gelin), prossimo alla morte e l'erotomane Marc (Serge Larivière). Un gruppo ben assortito, non c'è che dire.

A volte si avverte una sensazione di frammentarietà nella narrazione messa in scena da Jaco Van Dormael, ben contrastata però dall'assurdità di alcune situazioni, da alcune trovate davvero indovinate e da almeno un paio d'attori inappuntabili, e penso principalmente a Poelvoorde, ottimo nei panni di questo Dio in ciabatte e vestaglia, fancazzista e cinico, e alla svampita Moreau, capace di restare abilmente sottotono fino alle battute finali del film. Oltre alla figura ribelle di Ea, sarà proprio quella della madre a dare una svolta a tutta l'umanità in uno sviluppo femminista che ancora una volta, come spesso accade nel Cinema più recente, ci mostra come la via verso la salvezza sia quella tinta di rosa, come la mano femminile, lontana dalle violenze e dalle bassezze maschili, possa portare a un mondo nuovo, più dolce e armonioso, semplicemente più felice. Se poi aggiungiamo quel pizzico di decisione che spesso alle donne non manca (anzi), forse poco sottolineato nel film di Van Dormael, potremmo avere sotto il naso la ricetta per il cambiamento, già compilata e pronta all'uso.

venerdì 2 marzo 2018

BLACK PANTHER

(di Ryan Coogler, 2018)

Nessuno ce l'aveva detto ma in casa Marvel hanno deciso di rilanciare il fenomeno della blaxploitation con l'arrivo nelle sale dell'ultimo (solo in ordine di tempo) capitolo del Marvel Cinematic Universe: Black Panther. Pantera Nera è noto ai fan della Marvel per essere stato il primo supereroe di colore (nero ovviamente) della casa delle idee, creato nel 1966 dai soliti Stan Lee e Jack Kirby sull'onda della crescente attenzione per i diritti delle minoranze. Black Panther è l'ennesimo buon film realizzato dai Marvel Studios, rientra a pieno titolo nel segmento del cinema d'intrattenimento d'azione, classico cinecomics ben realizzato che ovviamente non ha aspirazioni da Oscar: peccato, sarebbe stato una bella botta ai movimenti Oscarsowhite e simili. Ciò che più salta all'occhio infatti, e a pensarci bene è strano e deprimente che sia così, è proprio come Black Panther sia un film quasi completamente nero, con attori di alto livello e una costruzione che non sfigura davanti agli altri prodotti Marvel. E se questo salta subito all'occhio forse vuol dire che davvero non solo gli Oscar, ma tutto il cinema americano è troppo so white, in un contesto come questo, aggravato dalla situazione politica statunitense, dal presidente biondo platino e dai fatti di cronaca ai danni della popolazione nera che si sono susseguiti con una certa regolarità anche (purtroppo) nell'era Obama, anche un film disimpegnato come questo può assumere una valenza politica e sociale positiva. Tutti neri dicevamo, o quasi. Un bellissimo cast, il protagonista Chadwick Boseman l'abbiamo già conosciuto in Capitan America: Civil War, per i fan della serialità televisiva c'è la grandissima Danai Gurira, la Michonne di The Walking Dead, che qui interpreta il comandante delle Dora Milaje, il gruppo scelto di guerriere che hanno il compito di proteggere re T'Challa, la Pantera Nera (Boseman). Non servono presentazioni per Forest Whitaker, fedelissimo del re, e neanche sul versante femminile per Angela Bassett, madre del re. E ancora Michael B. Jordan, Letitia Wright (Black Mirror), Lupita Nyong'o (anche negli ultimi Star Wars), Winston Duke e Daniel Kaluuya: tutti bellissimi volti neri. Ai visi pallidi rimangono il ruolo (decisamente più spassoso nei fumetti) dell'agente Everett Ross (Martin Freeman) e quello del fetente Ulysses Klaue (Andy Serkis). Black Power, le Pantere sono tornate!


Per il resto Black Panther è il film che ormai ti aspetti dalla Marvel, ben realizzato, divertente, con un'ottima presentazione dei personaggi, un bel mix di recitazione ed effetti speciali, ironia e coinvolgimento emotivo. Pilota automatico o quasi sulla struttura del film, nuove ambientazioni, nuovi spunti, azione, insomma... c'è tutto. Black Panther è il classico film che piacerà a chi ama questo genere, probabilmente risulterà più o meno indifferente a tutti gli altri. Uno dei migliori film della Marvel come si dice qua e là in rete? No, non lo è, non esageriamo.

Intanto diciamo che come diversi altri film del genere anche questo Black Panther è luuuuuungooooo, riesce comunque a non annoiare nonostante siano diverse le sequenze dedicate alla tradizione del popolo wakandiano, alla faccenda del vibranio, all'isolazionismo della nazione e a tutta una serie di questioni politiche che tolgono un po' di spazio all'azione vera e propria. È questo un male? A mio avviso no, è giusto, soprattutto per personaggi minori come la Pantera, narrare e illustrare il contesto, è un po' quello che rende i film Marvel migliori di quelli della DC (Batman esclusi ovviamente). Purtroppo l'impressione, nonostante il film ribadisco mi sia piaciuto parecchio, è che Pantera Nera ancora non abbia le stesse potenzialità per diventare al Cinema un personaggio carismatico come l'Iron Man di Robert Downey Jr, divertente e capace di catturare un pubblico eterogeneo come fanno i Guardiani, frizzante come Spidey o anche più semplicemente icona action come i vari Cap, Hulk o Thor. Bisogna lavorarci sopra ancora un pochino, ok essere la bandiera dei fratelli neri (che a livello di incassi è già un bel colpo), però bisogna spingere ancora un po' per guadagnarsi un posto d'onore negli Avengers.


Mi sembra buona la scelta del regista Ryan Coogler (nero) che, tecnica a parte, mi sembra abbia l'occhio giusto per raccontare al meglio le tematiche relative all'oppressione e alle problematiche dei neri, soprattutto quelli d'America, forse la sequenza iniziale al campo da basket è una delle migliori dell'intero film. Raccontato il Wakanda e l'origine del personaggio una deriva più urbana legata al territorio statunitense potrebbe essere ancor più nelle corde del regista. Una bella trasferta di lavoro in solitaria per Pantera?

PS: la locandina del film la trovo particolarmente brutta, ma perché non tornare a disegnarle come si faceva una volta? Per i cinecomics poi la cosa avrebbe ancora più senso.

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