sabato 28 settembre 2019

C'ERA UNA VOLTA A... HOLLYWOOD

(Once upon a time in... Hollywood di Quentin Tarantino, 2019)

È come se tutto ciò che rimane fosse il Cinema, l'ambiente e il mondo dentro cui ci piace stare, un'arte al cospetto della quale, proprio come già accadeva in Bastardi senza gloria, anche la realtà e la Storia si piegano. In C'era una volta a... Hollywood ci sono delle storie, c'è la Storia, ma è come se tutto fosse cornice e pretesto per l'atto d'amore finora più sentito e sincero di un regista che prima di una professione omaggia e si dichiara perso completamente per quella che è la sua più grande e pura passione. Questo approccio del regista, per chi non ha un amore sincero e forte per il Cinema e a chi ne conosce distrattamente solo la produzione più recente e moderna, potrebbe sembrare un limite o il viatico per un viaggio senza meta, o quantomeno verso una meta raggiunta prendendo un giro molto, molto largo. Ma se il Cinema lo amate, ogni sequenza, ogni divagazione, avrà il suo peso, piccolo o grande che sia, e saprà ricompensarvi, per tutta una serie di motivi diversi, a partire dalla piccola citazione cinefila fino ad arrivare alla prova gigantesca di due attori di razza, riempiendo di sostanza due ore e quaranta minuti che voleranno via in un attimo.

C'era una volta a... Hollywood, oppure potremmo leggere C'era una volta... Hollywood, senza la preposizione semplice "a". Il nuovo film di Quentin Tarantino è anche una ricostruzione di Hollywood, magari ingentilita e filtrata da occhi adoranti, in un dato momento storico - la fine del decennio dei Sessanta - anni in cui si svilupparono i movimenti legati al fenomeno hippie, ideali di pace e amore presto traviati e corrotti dalla violenza che prenderà piede nel decennio successivo. Ma nel '68 c'è ancora speranza, c'è ancora modo di sognare, e il Cinema cos'è se non la porta verso sogni ed emozioni tutte da provare? In una delle scene più belle del film si vede una giovane Sharon Tate (Margot Robbie), emozionata, orgogliosa nel senso più buono del termine, che si riguarda sul grande schermo di una sala buia in The wrecking crew, film con Dean Martin, ed è bellissimo coglierle in viso la gioia per le risate della gente seduta in sala con lei, l'adorazione per quella forma d'arte così giovane e bella (com'era lei, com'è ora la Robbie). Per lo spettatore la ricostruzione di quegli anni è impagabile: messa in scena, costumi, veicoli, tutti i dettagli sugli spettacoli nei teatri e nei Cinema di una Los Angeles passata catapultano in un mondo diverso, un'immersione totale nel passato. Protagonisti di questo viaggio nel tempo due attori sempre più bravi, Brad Pitt e Leonardo Di Caprio, circondati da un cast di gran lusso (la Robbie ma anche Pacino e Hirsch e, altra magia del Cinema, il povero Luke Perry) insieme ad alcuni degli amori del regista: Michael Madsen, Kurt Russell, Bruce Dern.


La vicenda è una storia di Cinema. Rick Dalton (Leo Di Caprio) è un attore che ha fatto successo con una vecchia serie western, Bounty Law, e che ora vive più che altro di comparsate in altri serial dove interpreta solitamente il cattivo di turno. La situazione inizia a deprimerlo, a rincuorarlo il suo amico più fedele, Cliff Booth, da sempre la sua controfigura, un ottimo professionista radiato però da parecchie produzioni per il suo carattere affabile ma spesso imprevedibile (non è da tutti andarsi a cercare rogne con Bruce Lee). Inoltre l'agente Marvin Schwartz (Al Pacino) prospetta a Dalton una parabola discendente poco incoraggiante e gli offre un'unica soluzione: andare a girare gli spaghetti western a Cinecittà. Ma per Dalton quella roba è poco più che merda, la sua depressione aumenta ma un giorno l'attore scopre che i suoi nuovi vicini di casa sono la bellissima Sharon Tate e il regista del momento, un giovane Roman Polanski (Rafal Zawierucha), vuoi vedere che da cosa nasce cosa... Le vicende di Rick e Cliff faranno rivivere la Hollywood di quegli anni e incroceranno la strada con la Storia, quella di Sharon e della Manson family.



Nel mezzo di questo sviluppo, che avrà un epilogo molto tarantiniano, quello a cui assistiamo sono frammenti di Cinema, non c'è altro modo per definire questa nona opera del regista, frammenti girati e recitati con passione travolgente, non si contano le citazioni al Cinema di genere (quello italiano si ritaglia un bello spazio), Rick Dalton finisce addirittura dentro La grande fuga di Sturges, attori noti e meno noti, vivi e morti (interpretati da loro stessi o da qualcun'altro) finiscono nel film in un cortocircuito che restituisce una sola parola: passione. C'era una volta a... Hollywood è il giocattolo definitivo di Quentin Tarantino, un giocattolo pieno di riferimenti e buona musica che di bello ha il grande pregio di poter diventare il giocattolo di tutti ed essere condiviso, proprio come un'emozione in una sala buia. Questo è, non hanno troppa importanza la trama, la Storia... o meglio, ce l'hanno, ma tutto nell'ottica di (re)immaginare un'industria, un'arte e una passione che ancora oggi ci accomunano in molti. Di questa passione, di questo club esteso, Tarantino potrebbe esserne semplicemente il Presidente.


PS: ci vorrebbe poi un trattato sul come Tarantino abbia messo in scena il film: riprese, location, citazioni, riferimenti, casting, etc., etc..., sicuro che prima o poi qualcuno provvederà.

mercoledì 25 settembre 2019

KEEN EDDIE

Non sono uno studioso di serialità televisiva, purtroppo pur volendo non avrei il tempo materiale per dedicarmi come vorrei all'argomento e a questa splendida forma d'intrattenimento. Ciò nonostante mi sono fatto l'idea, avvalorata da pareri più competenti del mio e rigettata da altri, che la serialità moderna, quella di cui noi tutti facciamo ampio consumo, si possa per convenzione far risalire al 2004, almeno per quel che riguarda la percezione che abbiamo oggi delle serie tv, alimentata dall'aspettativa dello spettatore verso un intrattenimento di altissima qualità e dalla fidelizzazione inscalfibile alle serie preferite che questo nuovo corso è riuscito a instillare nel pubblico. Nel frattempo sono cambiati i modi di fruizione, sono arrivate le piattaforme streaming, ha preso piede il binge watching e via di questo passo, il contesto è ora diverso, ma questo è un altro discorso. Perché proprio il 2004 allora? Perché in quell'anno sono arrivati diversi prodotti di qualità destinati a rivoluzionare l'idea del vecchio telefilm (cosa già fatta da altri prima, per carità) ma soprattutto capaci di fidelizzare milioni di spettatori nel corso degli anni in un momento storico in cui ancora si guardavano due puntate a settimana del nostro show preferito e poi si aspettava un'altra settimana in attesa dei nuovi sviluppi. Questa attesa spasmodica, questa sensazione, per me ha un solo nome: Lost. Sappiamo tutti cosa ha significato Lost per l'intrattenimento seriale, ma nel 2004 arrivarono almeno altri due show, con formule diverse dal primo, che incollarono gli spettatori alle loro poltrone: Desperate housewives e Dr. House. Questi sono stati tra i primi prodotti a creare una fidelizzazione di massa in un momento in cui stava nascendo un fenomeno più ampio, uno spostamento generale verso una tv di forte qualità e di ancor più forte presa, in più quell'anno non dimentichiamo vide l'uscita di Deadwood, 4400, la nuova Battlestar Galactica, la Shameless inglese... Certo, prima c'erano state Twin Peaks (il mio serial preferito da sempre) e X-Files (ha retto al passare del tempo?), ma entrambi sono stati degli unicum nei loro anni, circondati da prodotti ben più tradizionali. Poi all'inizio dei 2000 c'era stato qualche ottimo tentativo, sicuramente apripista della nuova serialità, che ancora non era riuscito a scatenare quel coinvolgimento di massa (Six feet under per esempio, 2001) o addirittura era rimasto relegato in una piccola nicchia (Carnivale, 2002), J J Abrams faceva le prove con l'accattivante Alias, Heroes ci provava solo per accartocciarsi presto su se stessa, The Shield e The Wire iniziavano a lasciare il segno, 24 sperimentava. I segnali c'erano tutti, però è dal 2004 a mio avviso che la serialità è definitivamente cambiata garantendoci negli anni successivi migliaia di ore di sano divertimento. Ma tutto questo cosa c'entra con Keen Eddie?


Beh, forse poco o niente, tutto questo era un preambolo per contestualizzare, per dire che facendo solo un piccolo passo indietro nel tempo (Keen Eddie è del 2003) possiamo recuperare prodotti divertenti e ben confezionati che sembrano però provenire da un'altra epoca, un'epoca in cui la trama orizzontale era labile o pressoché inesistente, dove solo una lieve traccia univa i vari episodi spostando di pochi millimetri vita e caratteri dei protagonisti, un'epoca dove vigeva ancora il tormentone che di puntata in puntata si riproponeva, rassicurante e spesso anche divertente. Keen Eddie nel 2003 sembrava un prodotto moderno, sicuramente derivativo ma al passo coi tempi, guardava dichiaratamente ai primi grandi esiti di un Guy Ritchie in splendida forma, a quei Lock & Stock e The snatch che tanto hanno caratterizzato il Cinema inglese di fine 90. La serie ideata da J. H. Wyman (Fringe, Almost human) è di produzione statunitense ma completamente girata e ambientata a Londra, lo stile applicato alla regia dei vari episodi così come il montaggio guardano ai film citati poc'anzi, scene velocizzate, stacchi di montaggio repentini, musica in gran parte elettronica con una colonna sonora che contribuisce a dettare un ritmo sostenuto, vivace, assecondando proprio una precisa scelta stilistica effettuata su immagini e scansione dei tempi (nel pilot compaiono anche le musiche degli Orbital). Quello che sembrava un serial all'avanguardia o quanto meno moderno nel 2003, pur rimanendo piacevole, può apparire oggi completamente sorpassato non potendo contare su quel legame stretto tra i vari episodi e su una trama complessiva capace di creare la "fame" da nuova puntata che i serial odierni sfruttano per aumentare i loro spettatori e non farli andar via. Eppure qualche anno fa Keen Eddie sembrava così cool...


Eddie Arlette (Mark Valley) è un poliziotto di New York che sta seguendo un caso e che a causa delle conseguenze dello stesso è costretto a trasferirsi a Londra e collaborare con Scotland Yard. Per una serie di vicissitudini l'agente si fermerà a Londra in forza alla squadra del sovrintendente Johnson (Colin Salmon) dove instaurerà un bel rapporto con il collega Monty Pippin (Julian Rhind-Tutt). Eddie condivide in maniera forzata un appartamento con la bella Fiona (Sienna Miller), figlia del proprietario, con la quale all'apparenza c'è un'idiosincrasia incolmabile, lei acidula, lui che non molla il colpo. A peggiorare le cose c'è Pete, il Bull Terrier di Eddie. Ogni episodio presenta il caso del giorno, vicende solitamente strampalate nelle quali la risoluzione degli enigmi non interessano minimamente o sono palesi fin da subito, quello che conta è la messa in scena di situazioni e personaggi sui generis, dementi o forzati, utile a creare momenti paradossali e divertenti. Di puntata in puntata si sviluppa il rapporto d'odio misto a un pizzico d'attrazione tra Fiona, una Miller giovane alle sue prime prove, ed Eddie, si gioca con il contrasto tra lo yankee rozzo e i modi raffinati dei colleghi inglesi (ma solo all'apparenza, Pippin è tutt'altro che un tipino a modo) e sul tormentone legato al personaggio di Moneypenny (Rachael Buckley), la segretaria ammiccante di Johnson che riesce a scatenare in Eddie stordenti fantasie lussuriose.

Purtroppo il serial non andò bene e venne cancellato dopo la prima stagione, non abbiamo avuto così modo di vedere come si sarebbero evoluti i vari rapporti tra i personaggi, alcuni di questi (il fidanzato di Fiona ad esempio) si perdono completamente per strada, e quali novità c'erano in serbo per Eddie Arlette. Vidi la serie una prima volta l'anno di uscita e questa sembrava davvero un bel prodotto, abbastanza fresco e divertente, non è invecchiata benissimo forse e al pubblico di oggi potrebbe fare un effetto diverso; nonostante i ricordi piacevoli legati a Keen Eddie, rivedendolo ora ammetto di aver faticato un po' a guardare più di una puntata per volta. È possibile che una quindicina d'anni abbiano cambiato così tanto il nostro modo di percepire storie e televisione?

lunedì 23 settembre 2019

AUGURI PER LA TUA MORTE

(Happy death day, di Christopher Landon, 2017)

Nell'anno del Signore 2017 girare un film che non fosse derivativo non era cosa semplice, per il Cinema si è prodotto tanto e il numero di film in uscita ogni settimana continua a lievitare, l'originalità inizia a essere impresa assai ardua; così Christopher Landon decide senza troppe fisime mentali di sguazzare nel derivativo e di usare il CTRL C/CTRL V come cifra stilistica (almeno sul piano delle idee) se non proprio come filosofia portante del suo film. Quello che ne esce è un prodotto che, almeno per chi scrive, si rivela parecchio divertente. Si, ok, magari il meccanismo alla base di Auguri per la tua morte lo conosciamo già in molti (ma non tutti, ci sono sempre giovani ignari per motivi anagrafici), l'espediente di narrare la stessa giornata più e più volte apportandole piccole variazioni l'hanno usato più registi, da Harold Ramis con il suo Ricomincio da capo in avanti, così come abbiamo già visto assassini mascherati, belle ragazze in pericolo di vita minacciate dal maniaco di turno, l'ambientazione da college americano e via discorrendo... Auguri per la tua morte non ci risparmia nessuno di questi cliché, anzi se ne bea amalgamandoli usando più di un registro, variazioni di tono che passando dal teso (senza mai esagerare) al comico permettono al film di scorrere in maniera fluida e piacevole.

Tree (Jessica Rothe), una ragazza molto bella e dalla vita "vivace" si sveglia nel letto di Carter (Israel Broussard), un bravo ragazzo che frequenta il suo stesso college. Lasciata la stanza di quello che per lei è un perfetto sconosciuto Tree incontra una specie di ex, torna nell'edificio dove abita con le sue consorelle, ha qualche scambio di battute con un paio di loro, si prepara per la festa della sera e a fine giornata viene uccisa da un uomo che indossa la maschera della mascotte della squadra del college. Il mattino dopo Tree si risveglia nel letto di Carter, fa le stesse cose del giorno prima con alcuni dettagli differenti, inizia ad avvertire una strana sensazione di deja-vu, poi la sera viene uccisa. E ancora, e ancora, tutto da capo, ogni giorno Tree muore, acquisendo però di volta in volta nuova consapevolezza e nuovi elementi che le permetteranno di iniziare a combattere per cambiare quello che sembra un finale già scritto (dallo stesso Landon e da Scott Lobdell, noto scrittore di fumetti).


Niente di nuovo sotto il sole ma il film è ben costruito, la struttura è ben più di un omaggio al genere slasher, con la bella ragazza peccaminosa punita (qui più e più volte) dal killer mascherato, una maschera da bimbo deforme o qualcosa di simile. Al classico dell'horror si unisce la ricerca dell'indizio che per esclusione possa portare a un eventuale colpevole, e sarà proprio Tree la prima detective che di morte in morte tenterà di dipanare la matassa intricata (ma neanche tanto) in cui si trova catapultata. Si aggiunge anche la love story in salsa teen, mai melensa e parecchio sui generis con Carter che di volta in volta si trova sempre più coinvolto nella storia di quella ragazza che in fin dei conti potrebbe rivelarsi davvero adorabile. Jessica Rothe è perfetta per il ruolo, accattivante, piena di fascino e a suo agio nei passaggi più dementi, il resto del cast è un buon supporto per un film che a dirla tutta non richiede proprio doti da Actor Studio. A conti fatti, il tutto nella stessa giornata, Auguri per la tua morte è anche un racconto di formazione che grazie a numerose morti e alla necessità di trovare sempre nuova forza, altro coraggio e soprattutto nuova conoscenza, della situazione contingente ma anche di sé, permetterà a Tree di crescere e di arrivare a fine percorso come una donna diversa, sicuramente migliore. Ma per quanto?

Auguri per la tua morte è un film buono per passare una serata divertente senza pretese, è un horror che non fa paura ma appena me ne capiterà l'occasione non mancherò di dare un'occhiata anche al suo sequel.


venerdì 20 settembre 2019

ROCKY BALBOA

(di Sylvester Stallone, 2006)

Con Rocky Balboa Sylvester Stallone torna al suo personaggio di punta dopo un'attesa durata ben sedici anni; il film è il sesto episodio della saga dedicata allo stallone italiano, una ripresa che si è fatta attendere a lungo e che all'epoca della sua uscita giunse quasi inaspettata, soprattutto alla luce di una filmografia precedente molto più serrata, una media di un film ogni tre anni, cinque tra l'episodio IV e l'episodio V. È passato molto tempo, per l'attore/regista ma anche per il suo personaggio, i segni degli anni si vedono sul volto di Stallone ma si percepiscono più che altro nel cuore, nello sviluppo di un character che è sempre stato un inno alla forza, al sentimento e all'etica dell'uomo. Lo scorrere inesorabile del tempo si sente nell'atmosfera del film; Rocky Balboa è fatto (oltre che della materia di cui sono fatti i sogni) da un 5% di nostalgia, da un 25% di motivazione e ricerca e da un buon 70% di malinconia e Stallone sa benissimo, in questo caso sia come attore ma principalmente in quanto regista, come mettere a segno i colpi e far fruttare al massimo questo sentimento che più della forza, più della vicenda pugilistica, riesce a garantire un ritorno di Rocky emozionante e lontano dal macchiettismo (e il rischio era forte). Il film, considerato anche alla luce del quarto episodio dell'altra saga resa celebre da Stallone, quel John Rambo datato 2008, dimostra come per il buon vecchio Sylvester la seconda metà degli anni zero del nuovo millennio abbia rappresentato un momento di ottima vena creativa, una sorta di ritorno di un divo intelligente legato a un immaginario del passato che continua a meritare tutto il nostro rispetto. La prima parte del film è ottimo Cinema, la malinconia che tormenta il protagonista riesce ad arrivare e a colpire lo spettatore in maniera diretta e fortissima: la carriera e la fama sono alle spalle, Adriana (Talia Shire) non c'è più e ha lasciato in Rocky un vuoto incolmabile, il rapporto con Paulie (Burt Young) non sempre è idilliaco e ancor meno facile è quello con il figlio Robert (Milo Ventimiglia) che sente ancora troppo forte l'ombra del padre. La regia di Stallone inquadra alla perfezione quel dolore sottile e costante che permea l'uomo, una condizione che traspare nelle riprese notturne di una città e di un quartiere in disfacimento, nel volto ormai sfatto di un uomo solo seduto davanti a una tomba, nelle note rallentate di un tema celebre, nelle prime parole del film , "il tempo va sempre più in fretta", nell'assenza di un figlio in fuga, nei passaggi sulla povera gente di Philly. I toni scelti dalla fotografia di Clark Mathis assecondano questo incedere malinconico di un uomo ancorato al passato ma che ha dentro ancora acceso il lume del riscatto, un lume che prenderà di nuovo vita anche grazie all'incontro con Marie (Geraldine Hugues), una vecchia conoscenza di Rocky. Il cuore vero del film è questo, poi c'è sicuramente altro, ci sono gli insegnamenti sempre validi sul credere nelle proprie possibilità, quelli legati all'impegno e al sudore necessari per trovare il proprio posto nel mondo, il riscatto, la genuinità e l'umiltà, tutte cose delle quali Rocky è da sempre portavoce, e non manca tutto un impianto nostalgico che vede Rocky ripercorrere la famosa scalinata, prendere a pugni tagli di bovino e allenarsi sulle note della celebre colonna sonora della saga. Il tutto in previsione di un ritorno sul ring, un ritorno motivato dall'esigenza di sentirsi ancora una volta vivo. L'occasione si presenta da subito di alto profilo, i manager del campione del mondo dei massimi, Mason Dixon (Antonio Tarver), vedono nella volontà di tornare sul quadrato dello stallone italiano l'occasione per organizzare un evento che potrà ridare popolarità al campione, messo da parte dal pubblico a causa della mancanza di spettacolo nei suoi incontri che solitamente finiscono dopo pochi secondi per la schiacciante superiorità di Dixon nei confronti dei suoi avversari. Purtroppo il giovane Dixon non ha nell'economia del film il giusto spazio, rimane un avversario sulla carta temibile ma anonimo, caratterizzato più che altro dal fatto di non aver mai trovato sulla sua strada un avversario degno di questo nome e quindi capace anche di farlo crescere e di far capire al campione quanto gli incontri sudati possano dargli in termini di esperienza, un'esperienza che arriverà a breve insieme alle castagne di Rocky Balboa. L'incontro finale è girato cercando di dare più veridicità possibile alle immagini, una nitidezza che richiama il digitale più moderno e le riprese dei veri incontri di boxe, una scelta estetica che stacca (e cozza) con il resto del film e che se ne garantisce un più alto tasso di realismo ne ammacca un po' la poesia triste della parte iniziale che a mio avviso rimane di altissimo livello. In Rocky Balboa ci sono tutte le caratteristiche che ci hanno fatto amare il personaggio nel corso degli anni e che vanno a creare un ottimo ultimo tassello prima del rilancio con la saga di Creed.

martedì 17 settembre 2019

TED

(di Seth MacFarlane, 2012)

L'esordio dietro la macchina da presa di Seth MacFarlane è un'accozzaglia di elementi diversi. Ted parte come uno di quei film del filone fantastico per adolescenti tanto in voga negli anni 80, decennio in cui sono ambientate le prime sequenze, con un ragazzino (Bretton Marley) che incontra il suo momento magico: il suo regalo di Natale, l'orsacchiotto Ted, prende vita e diventerà da lì in avanti il suo migliore amico. Per sempre. In cameretta poster di Indiana Jones, citazioni a E.T., un effetto nostalgia che però dura poco. Poi c'è tutto il cuore della faccenda, perché il protagonista John Bennett (Mark Whalberg), cresciuto (per modo di dire) e ormai trentacinquenne, è un cazzone affetto dalla sindrome di Peter Pan che ama passare le giornate in compagnia del suo orsetto, un pupazzo di peluche sboccato, irriverente (ma neanche troppo), strafatto e portatore sano di tutti i vizi che potrebbero attrarre un quattordicenne maschio in tempesta ormonale, linguaggio colorito compreso. Quello che piace in Ted è questo aspetto qui, le situazioni, le battute e le volgarità inanellate dall'orsetto sono parecchio divertenti e garantiscono allo spettatore di farsi quattro risate (e anche più) guardando un film tutto sommato piacevole che sicuramente non poggia le fondamenta sulla trama o sulla costruzione dei personaggi che risultano credibili quanto l'orsetto stesso. Poi c'è il risvolto rosa; John è innamorato della ragazza con la quale sta ormai da quattro anni, la bella Lori (Mila Kunis), ma la sua amicizia e convivenza con Ted impedisce al rapporto tra John e Lori di decollare veramente, c'è sempre per John un'occasione di dimostrarsi immaturo e di deludere la sua dolce metà che episodio dopo episodio inizia realmente a perdere la pazienza e a pretendere una scelta definitiva (tipo "o quell'orsetto o me, il mondo è troppo piccolo per tutti e due"). Si aggiunge inoltre un risvolto più dinamico con la coppia di disadattati composta da un padre psicolabile (Giovanni Ribisi) e dal suo figlioletto cicciottello e prepotente (Aedin Mincks) che vorrebbero Ted, che oltre ad essere un orsetto parlante è anche una celebrità, tutto per loro.


Tutti questi aspetti si amalgamano più o meno bene allo scopo di mettere in mostra un minestrone di buoni sentimenti, tra amore e amicizia maschile da buddy movie, e soprattutto una serie di gag, battute e scene comiche effettivamente spassose, l'idea di questo orsetto sboccato e sessuomane (pur in assenza di organi genitali) non sarà rivoluzionaria ma garantisce una bella dose di sane risate, senza che Ted si dimostri nemmeno troppo scorretto, ma soltanto triviale e cazzaro. Umorismo scatologico, riferimenti sessuali, situazioni da fattoni si uniscono a un mare di citazioni che, Griffin a parte (creazioni dello stesso Seth MacFarlane) vedono il loro apice nella presenza di Sam J. Jones, l'attore qui nei panni di sé stesso che negli 80 interpretò il mitico Flash Gordon nell'omonimo film (s)cult su musiche dei Queen.

Inutile cercare in Ted argomenti, chiavi di lettura o anche solo una storia decente, il film è costruito per far ridere e divertire grazie al contrasto tra il tenero orsetto e le volgarità che gli escono dalla bocca, tutto qui, e funziona, le sequenze divertenti sono davvero molte, per alcune si ride proprio di gusto. Alla fine si rimane soddisfatti di aver assistito alla storia dell'amicizia di questi due imbecilli che formano una coppia davvero riuscita, talmente riuscita da aver generato un sequel e incassi da leccarsi le dita (e chissà cosa tirerebbe fuori Ted su quest'ultima affermazione!).

domenica 15 settembre 2019

EX_MACHINA

(di Alex Garland, 2015)

Ex_Machina potrebbe essere un episodio lungo della serie Black Mirror, il tema del film ben si sposerebbe alle riflessioni che il serial di Charlie Brooker suscita ormai da anni, pur non raggiungendo mai i vertici di angoscia e disturbo che Black Mirror ha saputo regalarci nel corso delle sue stagioni. Il risultato finale ottenuto da Garland è comunque parecchio interessante. Il punto focale del film è lo sviluppo di un'intelligenza artificiale, una macchina capace di comportarsi, ragionare ed evolvere nei suoi modelli comportamentali e cognitivi proprio come potrebbe fare un essere umano, e allo stesso tempo avere coscienza di sé stessa, consapevolezza quindi di essere una macchina, simile all'umano ma anche molto diversa. Il tema è intrigante, la scelta di Garland di ambientare l'intera vicenda in uno spazio delimitato, per quanto questo sia ampio, rende l'atmosfera claustrofobica il giusto, scelta che unita al minimalismo e alla freddezza del design dei luoghi aiuta a creare quel filo di tensione che emerge in alcuni passaggi del film, un  prodotto molto cerebrale, fatto di dialoghi e ragionamenti e che accelera fino a sfociare nell'azione solo al culmine dell'intera vicenda.

Caleb Smith (Domhnall Gleeson) è un programmatore di talento che lavora per il più importante motore di ricerca al mondo, Bluebook, sviluppato da una compagnia al capo della quale c'è l'enigmatico Nathan Bateman (un poco riconoscibile Oscar Isaac). Il ragazzo ha la fortuna di vincere un concorso aziendale il cui premio è una settimana di soggiorno nell'esclusiva tenuta dispersa in mezzo alle montagne di Bateman (nome scelto non a caso?) durante la quale il giovane potrà fare la conoscenza del suo capo, una sorta di guru delle moderne tecnologie. L'interesse per il premio cresce non appena Caleb scopre in realtà di essere stato scelto per testare un'intelligenza artificiale creata da Nathan, un costrutto meccanico di nome Ava (Alicia Vikander) con una "mente" realizzata grazie all'immenso accumulo di dati e conoscenze che il suo creatore ha acquisito, anche in maniera poco lecita, attraverso Bluebook (altro nome poco casuale). Così, seduta dopo seduta, Caleb inizia a conoscere e a inquadrare Ava e poco alla volta anche il suo capo, un tipo tutt'altro che banale, di contro Ava, A.I. avanzatissima inizia a conoscere e a inquadrare Caleb. Dopo i primi giorni, accadimenti particolari e momenti rivelatori iniziano a far crescere in Caleb un sentimento di preoccupazione che troverà riscontro nel futuro sviluppo degli eventi.


Ex_Machina, film dai ritmi pacati e ben bilanciati, è un miscuglio di tensione, aspettative ed elucubrazioni sulle dinamiche alle quali stiamo assistendo, data per buona la posizione di Caleb che seguiamo fin dall'inizio del film, cosa vuole realmente Nathan Bateman?, cosa "prova" Ava?, sempre che sia già capace di provare qualcosa, e cosa "sente" Kyoko (Sonoya Mizuno), A.I. di altro tipo, modello precedente ad Ava? Garland è bravo a gestire i tempi, instillare dubbi, far serpeggiare un filo di tensione che accompagna l'evolversi della vicenda tenendo in sospeso lo spettatore, nel fare questo propone temi e riflessioni che toccano tutti, dal dilemma ormai assodato della perdita della privacy e dei nostri dati a favore di enormi social che li utilizzano in maniera poco chiara, fino alla creazione di nuove forme di vita e conseguente sostituzione del ruolo dell'uomo a quello di Dio (o più banalmente di Madre Natura). È giusto sperimentare determinate vie nel nome del progresso? È eticamente accettabile? E soprattutto, sapremmo gestirne i risultati? A quest'ultima domanda la risposta è retorica ed è ovviamente no.

Come si diceva in apertura un film alla Black Mirror, serie alla quale Domhnall Gleeson ha effettivamente partecipato tra l'altro, che sviluppa un tipo di argomento affascinante e di sicuro interesse, confezionato in maniera impeccabile ed elegante (nomination all'Oscar per gli effetti speciali), supportato da un cast in tono con l'ambiente con un Oscar Isaac in deroga che si prende il ruolo di scheggia impazzita. Non male, un buon tassello da inserire nel filone della fantascienza cerebrale così in voga in epoca moderna.

sabato 14 settembre 2019

DELIRIOUS - TUTTO È POSSIBILE

(Delirious di Tom DiCillo, 2006)

Il bello del Cinema è anche scoprire il film che non ti aspetti... quel titolo minore, magari frutto di un progetto indipendente lontano dalle grandi majors, un film che ti eri appuntato con lo scopo di andarlo a recuperare più avanti e che una volta arrivato il momento della visione nemmeno ti ricordi più di cosa parla, chi ci recita, chi l'ha diretto e perché l'avevi annotato. E poi lui ti sorprende; magari non è un capolavoro, però è uno di quei film che ti fanno spegnere il televisore con il sorriso sulle labbra e con quella sensazione di appagamento capace di farti andare a dormire più leggero e un po' più pieno. Ecco, con Delirious - Tutto è possibile è proprio quel che mi è capitato. Ammetto con aria colpevole di non essermi mai avvicinato prima d'ora al lavoro di Tom DiCillo, regista non troppo prolifico (almeno al Cinema, sette film in quasi vent'anni) e che ha siglato opere non troppo note, eccezion fatta forse per  l'esordio Johnny Suede, una delle prime interpretazioni del futuro divo Brad Pitt.

Delirious è una commedia amarognola girata con pochi mezzi ma con un bel cast, DiCillo offre una visione laterale di New York, in bilico tra la mondanità dello star system e lo squallore colorato e vivo di chi a quella mondanità gira intorno, come uno dei protagonisti della storia, il paparazzo Les Galantine (bellissimo nome) interpretato al solito in maniera sublime da Steve Buscemi. Indubbiamente quello del regista è un bello sguardo sulla città ma anche sul mondo dorato (per alcuni versi) dello spettacolo, capace di attrarre così come di creare incomprensioni e invidie.


Durante uno degli appostamenti di Les (Steve Buscemi), in attesa di fotografare la cantante pop K'harma (Alison Lohman) con l'attuale fidanzato, il paparazzo squattrinato incontra Toby (Michael Pitt), un giovane senzatetto dai modi dimessi e gentili. Nasce un'amicizia particolare, Toby si installerà nella piccola casa di Les lavorando gratuitamente per lui come assistente. Ai due capiterà subito un colpo fortunato che permetterà a Les di guadagnare un po' di soldi e aprirà loro qualche porta per frequentare più da vicino il mondo dello spettacolo. Toby così conoscerà casualmente proprio K'harma della quale si innamorerà corrisposto e, grazie alla direttrice di casting Dana (Gina Gershon), riuscirà ad avere la sua possibilità per lasciarsi alle spalle la sua vita misera. Questo purtroppo creerà tensioni e dissapori tra i due amici che nel frattempo, a modo loro, avevano costruito un legame profondo.


Sono parecchi gli spunti interessanti del film, a partire dal gusto delle riprese sulle location di DiCillo, fino ad arrivare alla costruzione calibrata dei personaggi e dei rapporti tra loro. Se il mondo delle celebrità è sempre presente (bel cameo di Elvis Costello), questo più che altro si fa sfondo per la storia di amicizia tra il riottoso Les e il tenero Toby. Il primo cerca approvazione per il suo lavoro, prima di tutto da sé stesso, un impiego disprezzato dalle star ma anche dai suoi stessi genitori che gli offre una vita ai margini e puzza di fallimento (e hai voglia a dire che le star non sono meglio di noi), il secondo cerca un po' di purezza, amicizia, magari la possibilità di fare l'attore, un sogno quasi infantile, e anche un posto dove dormire. Gli alti e bassi di questo rapporto d'amicizia (non è che sei gay?) danno tono a una pellicola resa viva da due attori opposti e ugualmente in parte, ci sono sentimenti forti ma anche tradimenti e amarezza, passaggi divertenti e almeno una sequenza con la giusta carica di tensione. Delirious - Tutto può succedere è un film indipendente che con la sua genuinità può arrivare a sorprendere, con garbo e misura passando da un incontro che, almeno per un po', lenirà le solitudini di due uomini parecchio diversi tra loro regalandogli momenti e ricordi che resteranno vivi per sempre.

mercoledì 11 settembre 2019

L'UOMO D'ACCIAIO

(Man of steel di Zack Snyder, 2013)

Nel 2013, con un ritardo di circa un lustro sui concorrenti della Marvel, anche in casa DC Comics si sente il bisogno di dare ordine alle uscite cinematografiche aventi per protagonisti i personaggi della prestigiosa casa editrice di fumetti; nasce così, in maniera un poco frettolosa, il DC Extended Universe, e chi altri se non il primo supereroe della storia poteva essere il candidato perfetto per sobbarcarsi oneri e onori di questo importante esordio? Con questa operazione in casa DC si inizia così a inseguire, per ora in maniera affannosa e poco lucida, la strada tracciata dal colosso Marvel/Disney, un universo condiviso per Superman, Batman e soci con potenzialità infinite e tutto da costruire. Si parte con la narrazione delle origini di Superman, una scelta forse obbligata che si presenta però con un grosso carico di "già noto", storia e nemici (Zod e soci) visti e rivisti, fattore novità ridotto di parecchio. Comunque diamo atto che pubblico nuovo potrebbe sempre essercene, qualche alieno (di Krypton magari) che non conosce la storia dell'uomo d'acciaio anche, accettiamo che un punto di partenza bisognava pure trovarlo e diciamo quindi che va bene così, l'importante in fondo è sempre partire con il piede giusto.

Peccato che, concesso l'impianto visivo notevole, L'uomo d'acciaio offra più di due ore di noia con solo qualche sprazzo d'interesse qua e là. A Russell Crowe è affidato il compito di far dimenticare il Jor-El di Marlon Brando, compito non facile ma che l'attore australiano adempie di gran mestiere, complice uno spazio più ampio e una presentazione della distruzione di Krypton più corposa e resa possibile grazie agli effetti digitali che, come già sappiamo, Zack Snyder è in grado di maneggiare con sapienza, soluzioni che non stonerebbero nei migliori film di fantascienza. Interessante anche Henry Cavill nel ruolo di Superman, il physique du role non manca e anche il volto sembra proprio quello giusto, peccato che Supes alla fine dei conti sia sempre il solito bamboccione puro e duro capace di far calare il latte alle ginocchia un poco a tutti, tranne che a Lois Lane (Amy Adams, una garanzia). Menzione per Michael Shannon, uno Zod bastardissimo e un'interpretazione di livello, cosa al quale l'attore negli anni ci ha ormai abituati. Il cast è inappuntabile, ci sono anche Laurence Fishburne nei panni di Perry White, un'ottimo Kevin Costner (papà Kent) e Diane Lane (mamma Kent), le premesse sono ottime. Purtroppo cala la palpebra, c'è poco da fare, in questo caso repetita non juvant, lo sviluppo è telefonatissimo e la vicenda di questo Superman non appassiona.


Dal punto di vista della realizzazione onore al merito a Zack Snyder che se non riesce a tenere lontana la noia costruisce almeno delle sequenze belle da vedere, una su tutte la distruzione di Metropolis caricata del giusto pathos. Il film patisce a mio avviso l'assenza dell'alter ego Clark Kent che vediamo solo da bambino in diversi flashback, ma il giornalista, il ridicolo espediente dell'uso degli occhiali per celare un'identità, mancano e azzoppano il personaggio, fortunatamente la scena finale sorride ai personaggi e a noi spettatori, regalando un momento d'intesa tra la Adams e Cavill e una strizzata d'occhio ai fan che aspettavano l'arrivo dell'alter ego sfigato. Titoli di coda e quel che resta è poca cosa.

Non si riesce a capire come, Batman a parte (e intendo Nolan a parte), i personaggi DC non riescano a trovare una giusta interpretazione nel Cinema moderno, eppure c'è in ballo un potenziale iconico di molto superiore a quello in possesso in casa Marvel, un potenziale fino ad ora inespresso (mi riservo un dubbio su Aquaman e Shazam che non ho ancora avuto modo di vedere). Purtroppo L'uomo d'acciaio, visto a posteriori, conferma il detto "il buon giorno si vede dal mattino" e purtroppo sappiamo che finora per il Dc Extended Universe non è stata proprio una bella giornata.

martedì 10 settembre 2019

IL SEME DELLA DISCORDIA

(di Pappi Corsicato, 2006)

Pappi Corsicato per mettere in scena Il seme della discordia sceglie Napoli, la sua città natale, rendendola per una volta internazionale, svincolata dai luoghi comuni associati al territorio, adoperando come set le architetture moderne del Centro Direzionale il regista dona alla vicenda un tocco universale grazie al quale la storia narrata potrebbe essere trasportata e rivissuta ovunque. Anche la recitazione degli attori segue questa direttiva, nulla nelle azioni e soprattutto nella vulgata dei protagonisti riconduce a Napoli gli avvenimenti che si susseguono in video. Il tutto è tratto molto, molto liberamente dal romanzo La marchesa di O... scritto nel 1808 da Heinrich Von Kleist.

Fin dalle prime sequenze il film di Corsicato assume i toni dell'ode alla donna, alla bellezza femminile, in particolare ogni inquadratura magnifica la deliziosa presenza di Caterina Murino, una musa discreta e generosa allo stesso tempo, interprete capace, questo è fuor di dubbio, ma di una bellezza talmente accecante e sottolineata da mettere un poco in ombra tutto il resto. In maniera diversa, a quest'ode piena d'amore contribuiscono anche Martina Stella, Isabella Ferrari ed Eleonora Pedron (e non solo loro), le spettatrici si consoleranno con la presenza di Alessandro Gassmann. Ciò che più funziona nel film di Corsicato è proprio l'impianto visivo, un misto di immagini che spostano l'attenzione dello spettatore dalla realtà della vicenda, anche gretta in alcuni passaggi, a una dimensione più onirica, quasi fiabesca. La scelta dei costumi richiama molto lo stile in voga negli anni 60 (ma la vicenda è ambientata ai giorni nostri), le prime scene con un fiorire di gambe femminili, tacchi e gonne svolazzanti portano alla memoria un Cinema d'altri tempi (qualcuno dice Truffaut), la costruzione degli ambienti è studiata per colpire l'occhio, i passaggi più surreali mettono in moto la fantasia, ma sopra a tutto ci sono queste donne bellissime, una Murino magnifica che calamita ogni attenzione.


Vera (Caterina Murino) gestisce una boutique d'abbigliamento insieme alla madre (Valeria Fabrizi), ne sta per aprire un'altra, il marito (Alessandro Gassmann) è un venditore di fertilizzanti sempre fuori per lavoro, il loro rapporto si trascina stanco tra le pressioni della madre/suocera che non vede l'ora di avere un nipotino che sembra non arrivare mai. Vera è bellissima e fedele al marito, ammirata da tutti, soprattutto da Gabriele (Michele Venitucci), una sorta di poliziotto di quartiere del Centro Direzionale. Cedendo alle insistenze della madre di Vera la coppia acconsente a sottoporsi ai test di fertilità; mentre Mario (il marito) si scopre sterile, Vera si ritrova incinta senza aver avuto rapporti estranei al matrimonio.

Diciamocelo subito e fuori dai denti, il film non offre grandi motivi per farsi ricordare nonostante un velo di mistero cresca pian piano mentre ci si avvicina al finale della storia, un mistero che con un pelo d'attenzione qualsiasi spettatore può dipanare in pochi secondi. Resta una storia piacevole messa in scena da un bel cast, i pregi sono tutti estetici, Il seme della discordia riempie gli occhi ma lascerà poco segno in testa, cuore e pancia. Poco male, ogni film può trovare un suo scopo, quale che esso sia, evitando il becero e la banalità (e qui fortunatamente non troviamo né l'uno né l'altro) basta saper scegliere e cogliere il momento giusto per apprezzare ciò che ogni opera ci offre.

lunedì 9 settembre 2019

INDIVISIBILI

(di Edoardo De Angelis, 2016)

Storia di un amore tra sorelle in un territorio abbandonato e ferito. Siamo a Castelvolturno, litorale campano poco lontano dal Golfo di Gaeta: Viola (Angela Fontana) e Daisy (Marianna Fontana) sono due gemelle siamesi adolescenti, unite all'altezza del bacino. Nella loro zona le due sorelle sono delle piccole celebrità, l'ignoranza e la superstizione del popolino locale, composto da disperati e immigrati, fa sì che le due ragazze siano viste come una specie di segno divino, una mistura tra il freak beneaugurante e il vero e proprio fenomeno religioso, aspetto questo alimentato dall'interessato parroco della zona (Gianfranco Gallo), un uomo dalla fede scarsa ma dalla testa fina, capace di sfruttare miserie e credenze degli ultimi del luogo. Ma non è solo Don Salvatore a giovare della fama delle due ragazze, Viola e Daisy sono anche due brave cantanti ben inserite nel fenomeno neomelodico tutto campano, un entourage familiare le segue, garantisce loro una vita migliore di quella di molte persone che stanno loro attorno, ma le sfrutta anche inesorabilmente. Il padre Peppe (Massimiliano Rossi) è un uomo triste che vede nell'handicap delle figlie la possibilità di fare soldi, scrive per loro i testi delle canzoni e si ritiene un poeta, la madre Titti (Antonia Truppo) è una debole mezza sfatta che tira avanti quasi per abitudine, più sveglio lo zio giovane Nando (Marco Mario de Notaris), una sorta di manager per le Indivisibili. Durante il loro tour tra battesimi, matrimoni ed eventi religiosi, Viola e Daisy hanno modo di incontrare diverse persone interessate a loro per motivi disparati, uno di questi, il Dottor Fasano (Peppe Servillo), svela alle due ingenue ragazze che la loro condizione è del tutto reversibile e che una semplice operazione potrebbe garantire loro la possibilità di una vita normale. Le ragazze, Daisy in primis che tra le due è la più intraprendente e desiderosa di vita, capiscono che la famiglia pur di sfruttarle le ha condannate a un'esistenza limitante negandogli le comuni esperienze alle quali vanno incontro le coetanee della loro età.


Edoardo De Angelis ci racconta attraverso la vicenda delle due sorelle una Campania povera, ferita e abbruttita, una terra di immigrazione, fatiscenza e squallore edilizio per una volta lontana dalle mani avvolgenti della malavita che in questo film non trova posto. La situazione, umana e contingente, comunque non è delle più allegre. La vita, quella vera e positiva, sta proprio nel cuore di Daisy e Viola, nell'amore infinito che hanno una per l'altra, soprattutto Viola, che più timorosa si aggrappa alla forza della sorella, una ragazza che non si fermerà davanti a nulla pur di ottenere quella vita piena che tanto desidera. Ma per poterlo fare le decisioni devono essere comuni, i gesti devono essere comuni e ogni azione deve compiersi contro il volere di una famiglia che sulla disgrazia delle due giovani ha campato per troppi anni.


Con Indivisibili il Cinema italiano trova due bellissime interpreti, le sorelle Fontana sono una piccola grande rivelazione, alcune sequenze del film grazie alla loro bravura toccano il cuore e fanno sperare in una carriera interessante per entrambe le giovani attrici. Il regista ha un bellissimo sguardo sulle sue protagoniste, le carezza senza mai mettere da parte gli altri personaggi tratteggiati sempre in maniera interessante, tramite Viola e Daisy però De Angelis ci mostra soprattutto un contesto, un territorio martoriato al quale servirebbero più e più interventi, luoghi abbandonati a loro stessi inevitabilmente motori di vite tragiche e ai margini. Molteplici gli spunti di interesse: i legami familiari, la disabilità, i moti adolescenziali, l'attrazione (anche sessuale) verso il diverso e soprattutto il bellissimo rapporto tra due sorelle inseparabili.

Indivisibili è l'ennesima dimostrazione che a volerlo cercare un Cinema diverso (dalla commedia sbracata) c'è anche qui da noi.

venerdì 6 settembre 2019

HUNGRY HEARTS

(di Saverio Costanzo, 2014)

Negli ultimi quindici anni Saverio Costanzo si è affermato come uno dei registi di maggiore interesse nel panorama nostrano, stupisce fin dai tempi dell'esordio con l'inaspettato Private, una storia privata di nome e di fatto, un privato al quale Costanzo ritorna con il più recente Hungry hearts. Se Private fu l'esordio che proprio non ti aspetti da un autore italiano, realizzato con pochi mezzi e tanto, tanto coraggio, dieci anni più tardi il regista continua a raccontarci storie per nulla scontate, pur rimanendo tra le mura del domestico, dimensione dalla quale è possibile tirar fuori grandi film (Carnage di Polanski è lì a ricordarcelo) ma con la quale è anche facile prendersi dei rischi.

Scena iniziale (da applausi). Un ristorante cinese, Jude (Adam Driver) e Mina (Alba Rohrwacher, compagna di vita dello stesso Costanzo) rimangono bloccati nel bagno per diverso tempo, situazione imbarazzante, soprattutto per lui, che contro ogni aspettativa si trasformerà in una bella storia d'amore. Con questa prima inquadratura, senza stacchi, Costanzo ancora una volta dimostra una grande sensibilità per gli spazi circoscritti, chiusi, all'interno dei quali si muove con un'eleganza naturale, poco importa che si sia in una casa in territorio di guerra o in un cesso puzzolente di un ristorante di una grande metropoli. La storia si evolve, un rapporto duraturo, un matrimonio, la famiglia, un figlio in arrivo, forse nel momento non proprio giusto, almeno per Mina. La novella madre in qualche modo perde il baricentro, il suo equilibrio vacilla, dopo aver consultato per gioco una specie di veggente la donna si convince che il suo sarà un bambino indaco, un bimbo in qualche modo "speciale". Ma di speciale, e non in senso positivo, ci sarà solo l'amore di una madre che in maniera morbosa e incosciente riversa sul bambino tutta una serie di sue convinzioni e fissazioni che finiranno per rivelarsi deleterie per il figlio: niente medici, niente carne, oli, semi, nessuna esposizione all'esterno e via dicendo. In tutto questo sembra che Jude, marito e padre innamorato, non possa avere voce in capitolo, ma nonostante l'amore per la moglie il dovere genitoriale dell'uomo finirà per prendere il sopravvento.


Quello che ci racconta Costanzo, a prescindere dai discorsi su devianze alimentari e simili, è la costruzione di un nucleo familiare che sbanda con l'arrivo del figlio, un bambino che viene vissuto senza la lucidità e l'amore sano che su un essere così indifeso dovrebbero essere riversate senza artifici e riserve, il rapporto di Mina con il bambino presto diventa esclusivo, totalizzante, così da escludere non solo il marito da una sana vita di coppia ma anche lo stesso e il resto della famiglia dalle scelte riguardanti la crescita del bambino. È un discorso molto delicato e interessante quello del rapporto genitoriale, in questo caso autoriferito, vissuto per appagare bisogni propri più che quelli dei figli che, come recita un ritornello noto, non ci appartengono ma dei quali abbiamo il compito di prenderci cura. Da spazio d'amore la casa si trasforma poco a poco in un luogo insicuro, minaccioso, terra di tensione, sotterfugio e contrasto, il focolare domestico si raffredda, lo sguardo di Costanzo deforma con una serie di inquadrature sghembe le figure di un padre e di una madre che paiono creature mostruose, aliene, prive delle caratteristiche rassicuranti che per un bambino dovrebbero essere punto fermo e riferimento. In questo la costruzione dei personaggi da parte di Driver, più a suo agio in film come questo che non nelle saghe spaziali, e della Rohrwacher, sono un valore aggiunto imprescindibile per annegare situazioni anomale in un mare di normalità.

Un racconto teso, pieno, denso e ancora una volta privato, una riflessione sul deragliamento del quotidiano. Le paure della porta accanto.

lunedì 2 settembre 2019

LEBANON

(di Samuel Maoz, 2009)

Negli ultimi decenni sono stati prodotti numerosi film che ci hanno mostrato la guerra e gli orrori a questa legati sotto gli aspetti più diversi: dagli abusi dei soldati narrati in Redacted di De Palma allo stress post traumatico dei reduci di American Sniper di Eastwood, dalla resistenza del privato ne Il giardino di limoni di Riklis fino alle tragedie della popolazione civile in Sotto le bombe di Aractingi, passando per The hurt locker della Bigelow, Green Zone di Greengrass e da una pletora di altri titoli ancora. In ognuno di questi film, sviluppato in maniera diversa, si assorbe, anche inconsciamente volendo, un messaggio che della guerra e della sua disumanità ci fa avere orrore, un messaggio che dunque è sempre utile ripetere, a fini educativi (universalmente validi) e con scopi conoscitivi, questi sì differenziati a seconda del film che si va a vedere. Nel calderone affollato dei film di guerra Lebanon si ritaglia un posto d'onore, il film Leone d'Oro a Venezia è uno degli esiti più interessanti del filone, sia per le scelte di regia inusuali e molto riuscite, sia per i contenuti morali legati alla sfera delle emozioni dei protagonisti del film.

Lo scenario è quello della prima guerra del Libano, 1982. Agli ordini dell'ufficiale Jamil (Zohar Shtrauss) ci sono quattro ragazzi di leva, tutti componenti dell'equipaggio di un carro armato dell'esercito israeliano. Schmulik (Yoav Donat) è l'ultimo arrivato, il novellino incaricato di far fuoco e di attivare le armi del carro, compito delicato in quanto il ragazzo dovrà coprire l'avanzata del drappello di fanteria che procede allo scoperto. Assi (Itay Tiran) è il capocarro, quello che dà gli ordini, un giovane con poco carattere, Hertzel (Oshri Cohen) è l'uomo di fatica, carica le armi, carattere ribelle ma anche il più lucido del gruppo, Ygal (Michael Moshonov) è il pilota del carro. In poco tempo quella che doveva essere una serie di piccole missioni volte a far attraversare alla pattuglia diversi centri abitati si trasforma in un vero e proprio scenario d'orrore, sempre più incerto e pericoloso e psicologicamente insostenibile.


La scelta del regista è forte, Maoz ci narra l'intera vicenda dall'interno dell'abitacolo del carro, un luogo poco illuminato, sporco, spesso in movimento e poco stabile, uno spazio claustrofobico nel quale dovranno convivere quattro paure, tutto quello che accade all'esterno lo vediamo attraverso il puntatore del carro, anche questo con una visibilità molto ridotta, uniche concessioni al mondo fuori sono la prima e l'ultima inquadratura del film su un campo di girasoli. Anche i contatti con il comandante della truppa e con un altro paio di personaggi avvengono sempre grazie all'ingresso di questi nel carro, nulla di ciò che accade fuori viene ripreso se non passando dal puntatore di Schmulik. Ottima la regia di Maoz che costretto in spazi angusti riesce a inventare anche qualche bella trovata, qualche bel movimento di macchina, vedi ad esempio una delle primissime sequenze, l'ingresso nel carro di Schmulik, ripreso dal basso in quello che sembra un carro allagato d'acqua, si scopre subito una visuale ingannevole, un solo centimetro d'acqua sul fondo del carro e la macchina piazzata a dovere dona alla scena un effetto spiazzante, così tra piccoli accorgimenti e piani ravvicinatissimi sui protagonisti Maoz porta a casa una sfida non così facile da vincere con ottimi risultati. Ottimo lavoro psicologico sui personaggi, ragazzi giovani e inesperti che si trovano a rischiare la vita senza sapere per cosa e nella situazione di dover decidere in pochi secondi se uccidere o meno quello che sembra il loro nemico, a volte ragazzi, donne, vecchi, civili innocenti. Poi ci sono la coscienza, il rimorso, l'orrore, la paura, il legittimo desiderio di tornarsene semplicemente a casa. Dietro l'angolo la follia che aspetta.


Ottima direzione di un cast indovinato, tensione palpabile, dilemmi morali a profusione e quello che è il sentimento più comune che si evince da molti film di questo tipo: un'ingiusta e ingiustificata, folle e irricevibile passione della razza umana per la guerra che continua a rovinare vite in maniera impietosa e indiscriminata. Concetto noto che in Lebanon viene presentato in maniera molto forte (non mancano diversi pugni allo stomaco) attraverso le esperienze di quattro ragazzi, tramite i loro dialoghi, il terrore, la paura, il rimorso. Un film non solo necessario ma anche pregevole dal punto di vista artistico.

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