venerdì 20 settembre 2019

ROCKY BALBOA

(di Sylvester Stallone, 2006)

Con Rocky Balboa Sylvester Stallone torna al suo personaggio di punta dopo un'attesa durata ben sedici anni; il film è il sesto episodio della saga dedicata allo stallone italiano, una ripresa che si è fatta attendere a lungo e che all'epoca della sua uscita giunse quasi inaspettata, soprattutto alla luce di una filmografia precedente molto più serrata, una media di un film ogni tre anni, cinque tra l'episodio IV e l'episodio V. È passato molto tempo, per l'attore/regista ma anche per il suo personaggio, i segni degli anni si vedono sul volto di Stallone ma si percepiscono più che altro nel cuore, nello sviluppo di un character che è sempre stato un inno alla forza, al sentimento e all'etica dell'uomo. Lo scorrere inesorabile del tempo si sente nell'atmosfera del film; Rocky Balboa è fatto (oltre che della materia di cui sono fatti i sogni) da un 5% di nostalgia, da un 25% di motivazione e ricerca e da un buon 70% di malinconia e Stallone sa benissimo, in questo caso sia come attore ma principalmente in quanto regista, come mettere a segno i colpi e far fruttare al massimo questo sentimento che più della forza, più della vicenda pugilistica, riesce a garantire un ritorno di Rocky emozionante e lontano dal macchiettismo (e il rischio era forte). Il film, considerato anche alla luce del quarto episodio dell'altra saga resa celebre da Stallone, quel John Rambo datato 2008, dimostra come per il buon vecchio Sylvester la seconda metà degli anni zero del nuovo millennio abbia rappresentato un momento di ottima vena creativa, una sorta di ritorno di un divo intelligente legato a un immaginario del passato che continua a meritare tutto il nostro rispetto. La prima parte del film è ottimo Cinema, la malinconia che tormenta il protagonista riesce ad arrivare e a colpire lo spettatore in maniera diretta e fortissima: la carriera e la fama sono alle spalle, Adriana (Talia Shire) non c'è più e ha lasciato in Rocky un vuoto incolmabile, il rapporto con Paulie (Burt Young) non sempre è idilliaco e ancor meno facile è quello con il figlio Robert (Milo Ventimiglia) che sente ancora troppo forte l'ombra del padre. La regia di Stallone inquadra alla perfezione quel dolore sottile e costante che permea l'uomo, una condizione che traspare nelle riprese notturne di una città e di un quartiere in disfacimento, nel volto ormai sfatto di un uomo solo seduto davanti a una tomba, nelle note rallentate di un tema celebre, nelle prime parole del film , "il tempo va sempre più in fretta", nell'assenza di un figlio in fuga, nei passaggi sulla povera gente di Philly. I toni scelti dalla fotografia di Clark Mathis assecondano questo incedere malinconico di un uomo ancorato al passato ma che ha dentro ancora acceso il lume del riscatto, un lume che prenderà di nuovo vita anche grazie all'incontro con Marie (Geraldine Hugues), una vecchia conoscenza di Rocky. Il cuore vero del film è questo, poi c'è sicuramente altro, ci sono gli insegnamenti sempre validi sul credere nelle proprie possibilità, quelli legati all'impegno e al sudore necessari per trovare il proprio posto nel mondo, il riscatto, la genuinità e l'umiltà, tutte cose delle quali Rocky è da sempre portavoce, e non manca tutto un impianto nostalgico che vede Rocky ripercorrere la famosa scalinata, prendere a pugni tagli di bovino e allenarsi sulle note della celebre colonna sonora della saga. Il tutto in previsione di un ritorno sul ring, un ritorno motivato dall'esigenza di sentirsi ancora una volta vivo. L'occasione si presenta da subito di alto profilo, i manager del campione del mondo dei massimi, Mason Dixon (Antonio Tarver), vedono nella volontà di tornare sul quadrato dello stallone italiano l'occasione per organizzare un evento che potrà ridare popolarità al campione, messo da parte dal pubblico a causa della mancanza di spettacolo nei suoi incontri che solitamente finiscono dopo pochi secondi per la schiacciante superiorità di Dixon nei confronti dei suoi avversari. Purtroppo il giovane Dixon non ha nell'economia del film il giusto spazio, rimane un avversario sulla carta temibile ma anonimo, caratterizzato più che altro dal fatto di non aver mai trovato sulla sua strada un avversario degno di questo nome e quindi capace anche di farlo crescere e di far capire al campione quanto gli incontri sudati possano dargli in termini di esperienza, un'esperienza che arriverà a breve insieme alle castagne di Rocky Balboa. L'incontro finale è girato cercando di dare più veridicità possibile alle immagini, una nitidezza che richiama il digitale più moderno e le riprese dei veri incontri di boxe, una scelta estetica che stacca (e cozza) con il resto del film e che se ne garantisce un più alto tasso di realismo ne ammacca un po' la poesia triste della parte iniziale che a mio avviso rimane di altissimo livello. In Rocky Balboa ci sono tutte le caratteristiche che ci hanno fatto amare il personaggio nel corso degli anni e che vanno a creare un ottimo ultimo tassello prima del rilancio con la saga di Creed.

2 commenti:

  1. Brividi al suo finale, più di quelli del film stesso, un film però con un'idea e con uno scopo ammirevoli, quindi salvabile ;)

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    1. Sorvolando sulla credibilità dell'incontro (esperienza quanto vuoi, però...) a me il film è piaciuto, onesto sui contenuti e con uno sguardo malinconico che ho apprezzato molto soprattutto da un regista che sulle spalle inizia a portarsi i suoi anni.

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