mercoledì 30 novembre 2022

SEGRETI E BUGIE

(Secrets & lies di Mike Leigh, 1996)

Mike Leigh è un regista di cui si parla poco, situazione favorita dallo stesso Leigh, uomo che ama poco i riflettori. Eppure il regista inglese non è proprio l'ultimo arrivato, classe '43 Leigh è stato riconosciuto e pluripremiato dall'intero mondo del cinema: diverse candidature agli Oscar (ma nessuna vittoria), Palma d'oro a Cannes proprio per questo Segreti e bugie e premio per la miglior regia per Naked sempre sulla Croisette, nel '72 vince il Pardo d'oro a Locarno per Bleak moments, un Leone d'oro a Venezia per Il segreto di Vera Drake nel 2004 (il film gli valse anche il Bafta) e il Premio Fipresci per Belle Speranze nel 1988, altri due Bafta sempre per Segreti e bugie come miglior film e come miglior sceneggiatura, premio fantastico se pensiamo che il regista in più interviste ha confermato di lavorare senza una vera e propria sceneggiatura, metodo applicato anche per Secret & lies. Una direzione spontanea e libera degli attori è proprio tra i punti fermi del lavoro del regista che racconta le sue storie cercando un'adesione alla realtà e reazioni sincere da parte dei componenti del suo cast, attori che nel caso di questo film confermano tutte le migliori aspettative di Leigh, la protagonista Brenda Blethyn (a chi il nome non dicesse nulla è la protagonista anche di L'erba di Grace) si porta a casa per la sua interpretazione un Bafta, il Golden Globe e il premio per la migliore attrice a Cannes. Detto questo rimane il fatto che, forse, di Mike Leigh si parli troppo poco.

Londra. La giovane Hortense (Marianne Jean-Baptiste), un'optometrista di colore, assiste al funerale di sua madre, il papà è già mancato da tempo. La dolorosa perdita scatena in Hortense il bisogno di mettersi alla ricerca della sua madre biologica; Hortense è infatti stata adottata e i suoi genitori, una coppia che l'ha riempita di amore e possibilità, avevano rivelato la cosa alla figlia già quando era ancora in tenera età. Dopo diverse ricerche la strada di Hortense incrocerà quella della famiglia Purley; Cynthia (Brenda Blethyn) è una donna timorosa, insoddisfatta e che recrimina per la sua vita misera, costretta in un lavoro da operaia che non le piace, in una casa che è ancora quella dei suoi genitori e che mostra segni di fatiscenza e decadimento. Sua figlia Roxanne (Claire Rushbrook), impiegata come spazzina per il comune di Londra, è spesso irosa, scontrosa e non riesce ad avere un rapporto duraturo anche se in questo periodo sembra avere un ritorno di fiamma per il suo Paul (Lee Ross), un ragazzo impiegato nella costruzione di ponteggi. Cynthia prova anche un po' di risentimento verso il fratello Maurice (Timothy Spall), un fotografo con un'attività che gira molto bene e che gli ha permesso di prendere una bella casa e fare il salto di qualità, ma anche per Maurice la vita non è tutta rose e fiori, in crisi con la moglie Monica (Phyllis Logan) che da tempo si porta dentro un dolore che, marito a parte, non ha mai confessato alla sua famiglia. L'incontro tra Cynthia e Hortense sarà l'occasione per tutti di dare una svolta a una situazione familiare che crea solo dolore e per alzare il velo su numerosi segreti e bugie che per troppo tempo hanno accompagnato la vita di queste persone comuni.

Dramma intriso di dolore fino al midollo, Segreti & bugie presenta un ritratto familiare toccante e gestito con una naturalezza fuori dal comune; la scelta adottata dal regista, che si conferma prima di tutto un grande direttore d'attori, di non chiudere la sceneggiatura ma di dare aria all'improvvisazione e allo sviluppo in itinere del film in fin dei conti paga e presenta alla cassa una narrazione del tutto compiuta che non lascia spazio a grandi critiche sulla costruzione, anzi. Il cast è prezioso e composto da grandi professionisti come Spall e la Logan (chi ha visto Downton Abbey la riconoscerà come la signora Hughes), sugli scudi la bravissima Blethyn che in alcuni passaggi rischia solo di farsi prendere un po' la mano. Calibrato lo sviluppo dei personaggi all'interno di un minutaggio importante, alcune digressioni vivacizzano l'incedere della narrazione. La regia di Mike Leigh non è mai invasiva, si avvale di alcuni accorgimenti per dare fiato alla linea d'azione principale (i vari stacchi per le fotografie di Maurice ad esempio), non sta troppo addosso ai protagonisti facendoli interagire al meglio tra di loro e con lo scarno paesaggio fatto di sobborghi (benestanti e poveri) e location da una Londra anonima. Ciò che colpisce è il naturale sviluppo di rapporti e sentimenti, una tela di sofferenza che si dipanerà solo sul bellissimo finale, durante un pranzo per il compleanno di Roxanne dove la famiglia, forse per la prima volta dopo tantissimo tempo, si troverà riunita per davvero.

domenica 27 novembre 2022

L'ONDA

(Die welle di Dennis Gansel, 2008)

Tutto nasce nel 1967 quando il professore di storia californiano Ron Jones, insegnante in una scuola superiore di Palo Alto, mise in atto un esperimento per far capire ai suoi studenti come fosse stato possibile nella Germania nazista che una moltitudine di persone abbia potuto seguire un leader folle come Hitler dando vita a una piaga umanitaria immane come l'Olocausto. L'esperimento si svolse nell'arco di una settimana e venne prontamente fermato dallo stesso professore quando questi si rese conto di non riuscire più a controllarlo dato il numero elevato di studenti che aderirono e che, a sorpresa, si estese ben oltre i confini della classe del professor Jones (spiegheremo nella trama del film in cosa questo consistesse). Nel 1981 lo scrittore Todd Strasser, ispirandosi proprio all'esperimento di Jones che all'epoca era stato denominato Terza Onda, pubblicò il romanzo per ragazzi The wave che riprendeva e ampliava i temi della peculiare esperienza che fecero quegli studenti del 1967. Da qui nacque un adattamento per la televisione tedesca e solo più tardi, nel 2008, arriva finalmente il film L'onda di Dennis Gansel, regista tedesco classe '73 che in seguito ne produrrà anche una serie televisiva. Il film mosse parecchio interesse sia nel pubblico che tra gli esponenti della critica, incassò una cifra ragguardevole e ottenne visibilità anche all'estero essendo stato selezionato dal Sundance e preso in considerazione dalla Germania per la candidatura agli Oscar, passò invece La banda Baader Meinhof di Uli Edel, scelta tutto sommato condivisibile.

Il professor Wenger (Jürgen Vogel) è un insegnante moderno: i suoi alunni lo chiamano per nome, in classe sfoggia un abbigliamento molto casual e riesce a rendere le sue lezioni più interessanti di quelle di altri colleghi più istituzionali e barbosi. Wenger si sta preparando per la "settimana a tema", un progetto scolastico durante il quale il prof. ha in mente di parlare ai suoi alunni dell'anarchia, un'ideale al quale il professore si sente in qualche modo affine. Per una serie di motivazioni Wenger si troverà a dover parlare invece di autocrazie e sistemi dittatoriali, argomento di fronte al quale i suoi studenti dimostrano di non credere possibile che la Germania, dopo l'esperienza nazista, possa ricadere nello stesso errore. Il professore allora inizia con i ragazzi a costruire una specie di gioco di ruolo che durerà per l'intera settimana, un esperimento basato sulla disciplina, sull'obbedienza (all'insegnante in questo caso), sulla cooperazione, sull'appartenenza, sull'uguaglianza e sullo spirito di gruppo. La classe si troverà in pochissimo tempo a trasformarsi in un corpo coeso che, a parte qualche piccola eccezione, aderirà a un movimento con tanto di divise, simboli e saluti distintivi del quale molto presto anche persone esterne vorranno far parte. Oltre alle discussioni in classe le attività del movimento, denominatosi l'Onda, proseguiranno anche oltre l'orario scolastico, nel gruppo qualcuno troverà finalmente l'accettazione che prima non aveva mai sperimentato, altri ci vedranno la forza del collettivo che si ribalterà anche nelle prestazioni della squadra di pallanuoto della scuola allenata dallo stesso Wenger, il professore ci vedrà uno stimolo e un esperimento funzionante. Proprio l'ampliarsi del progetto però impedirà a Wenger di poterlo tenere sotto controllo e per qualcuno i confini dello stesso si dimostreranno essere poco chiari.

Gansel parte dall'esperimento di Jones per poi ampliare il concetto e drammatizzarlo al fine di poter costruirci un film attorno, si prende ovviamente molte libertà, ne amplifica le conseguenze e affonda il colpo per sottolineare una tesi, nel farlo ne esce un film indubbiamente non perfetto, toccato da alcune scelte "facili" e gestite in maniera molto semplice dal punto di vista narrativo, tutte imperfezioni che però nulla tolgono all'interessante concetto che sta alla base del film e dell'esperimento, ottimo spunto per discussioni scolastiche, come fatto in origine da Jones ma anche dalle scuole tedesche che spesso hanno adottato il libro The wave per le letture con i ragazzi. Dal punto di vista formale Gansel alterna sequenze girate in maniera più classica a sprazzi di regia più moderna che donano ritmo e stacco alla narrazione, si apre con il prof. che si reca a scuola a ritmo di Rock n' roll high school dei Ramones in un'opening scene molto vivace, anche la sequenza durante la quale i componenti dell'Onda diffondono il loro simbolo per la città è decisamente dinamica; ma il nodo d'interesse del film è di contenuto, riguarda lo sviluppo di uno spirito di corpo da parte di questi studenti che iniziano a dare molto credito al loro professore (che in questo caso esercita i poteri di leader di un movimento), un insegnante che mette da parte le sue t-shirt dei Ramones e dei Clash per uniformarsi al gruppo. Si assiste a un emergente impegno dei ragazzi verso la disciplina, la solidarietà di corpo, un incremento dell'identificazione nel gruppo stesso, l'espandersi dell'iniziativa collettiva; di contro si manifestano anche fenomeni di esclusione nei confronti di chi non si vuole uniformare, l'attrito con gruppi esterni, l'estremizzazione degli insegnamenti e la totale devozione da parte di chi al di fuori del movimento non ha molto per cui esser felice. In diverse dinamiche il film stona, alcune delle critiche mosse al film di Gansel hanno pieno fondamento, nell'insieme L'Onda rimane però un'ottimo spunto di riflessione sulle possibilità di controllo delle masse e sulle leve che i sistemi dittatoriali tendono a usare per arrivare a enormi numeri di persone. L'Onda è uno di quei film da vedere, poi ognuno si costruirà la sua opinione, però un segno l'opera lo lascia e forse tanto basta per iniziare a pensare.

venerdì 25 novembre 2022

GLI OCCHI DEL DRAGO

(The eyes of the dragon di Stephen King, 1984)

Libro molto atipico all'interno della bibliografia di Stephen King nonostante contenga tra le sue pagine diverse strizzate d'occhio ad altre opere del Re, a partire dal nome di uno dei protagonisti, quel Flagg che richiama il più celebre Randall Flagg de L'ombra dello scorpione (e forse è la stessa entità maligna), fino ad arrivare a diversi punti di contatto con la saga della Torre Nera. Gli occhi del drago non è un romanzo horror ma viene ascritto al genere fantasy e anche di questo filone narrativo non presenta poi troppe caratteristiche: il drago del titolo è un mero pretesto narrativo e compare in una sequenza brevissima di una, forse due pagine, il drago in sé non riveste nessuna importanza nell'economia del racconto, di fantasy rimane solo la figura dello stregone Flagg, anche questa gestita senza troppo calcare la mano sul versante del fantastico; il romanzo si potrebbe definire una favola oscura dal sapore medievale con un tocco di magia (rigorosamente nera). Target adolescenziale, il libro fu concepito quando la figlia di King, Naomi Rachel, era ancora piccola e per lei il padre imbastì una storia leggibile, priva dei risvolti paurosi dei suoi romanzi più celebri, ne esce un libro con una trama molto lineare, godibile ma anche privo di grandi sorprese e punti di particolare interesse, una buona lettura per pre-adolescenti o una bella occasione per affrontare un romanzo con i propri figli se questi ancora sono nell'età giusta. Pare tra l'altro che, viste le critiche ricevute dai fan per questa pubblicazione, per tutta risposta King scrisse Misery, romanzo dove il protagonista era lo scrittore Paul Sheldon, tenuto in ostaggio da una fan psicopatica e costretto a scrivere ciò che la sua fan desiderava.

Siamo nel regno di Delain, un regno prospero dove re Roland, un sovrano mite e giusto, regna con benevolenza e anche una certa dose di indolenza per le maniere e le incombenze che a un regnante sono richieste. Roland è un uomo buono che ha a cuore la vita dei suoi due figli maschi, orfani di madre, una donna meravigliosa morta nel dare al mondo il suo secondogenito. Il maggiore dei due fratelli, Peter, è l'erede al trono designato e nei giorni della sua crescita già si può intravedere il futuro re, un uomo che con tutta probabilità si rivelerà essere molto forte, più del padre, giusto, coraggioso e intraprendente. Il minore, Thomas, vive un po' nell'ombra del fratello, cova un po' di invidia e di risentimento ma in fondo anche lui vuole bene al padre e, magari senza troppo dimostrarlo, anche al fratello. A incrinare un po' quello che potrebbe essere un ottimo equilibrio c'è lo stregone di corte Flagg, un uomo cattivo e manipolatorio che funge da consigliere di re Roland e che per il futuro del regno vede molto bene Thomas come regnante, più debole, insicuro e manipolabile di Peter; lo scopo recondito di Flagg è quello di creare malessere e mandare in un prossimo futuro l'intero reame in rovina, per puro gioco di malvagità, per far questo studierà un piano per far sì che il futuro di Peter non sia quello che dovrebbe portarlo a poggiare le sue natiche regali sul trono di Delain.

Se ne Gli occhi del drago si cercano gli elementi che hanno reso Stephen King il Re del brivido è facile che si possa rimanere delusi perché questi elementi semplicemente qui non ci sono. Non solo non siamo nel campo dell'horror e del perturbante, non è presente segno di inquietudine alcuno e la narrazione è in effetti più adatta a un pubblico giovane, tra le pagine di questo libro non si avverte nemmeno la presenza dello stile di King, quello che al di là delle trame lo rende a pieno titolo un grande scrittore oltre che ottimo narratore, caratteristica quest'ultima che, una volta inquadrati target e il tipo di libro al quale ci troviamo di fronte, in fondo gli si può riconoscere anche per quest'opera. Manca quella sensibilità nella descrizione dei luoghi, della realtà che in King esce così bene dalle sue pagine, i ragazzi protagonisti del romanzo sono scritti in maniera semplice, anche il giovane Thomas che avrebbe potuto essere sviscerato molto più di quanto si è fatto sembra rimanere poco approfondito, poco affrontato, e sappiamo che King altrove ha scritto adolescenti e adolescenze meravigliose, lo stile di scrittura è piano, compare qua e là (ma nemmeno troppo) quel suo vezzo di anticipare i cattivi eventi a venire, troppo poco per vederci il grande King che in tanti amano. Quello che rimane a parer mio è un buon libro da leggere con i propri figli, un buon romanzo per ragazzi (anche se oggi c'è una scelta infinita per loro e potrebbero preferire altro), per chi non lo avesse ancora letto e fosse alla ricerca del Re... beh, in questo caso meglio guardare altrove.

mercoledì 23 novembre 2022

BLACK PANTHER: WAKANDA FOREVER

(di Ryan Coogler, 2022)

Non dev'essere stato semplice per nessuno lavorare a questo Wakanda forever dopo la prematura scomparsa di Chadwick Boseman, l'interprete nei film precedenti del personaggio di Pantera Nera. La Pantera è morta, l'eroe ci ha lasciati sul serio questa volta, non come accade nei fumetti dove i lettori sanno che tanto, prima o poi, in un modo o nell'altro, i loro beniamini torneranno. In alcuni passaggi del film la commozione arriva forte anche allo spettatore, sui titoli di testa, verso il finale, ci sono momenti in cui il ricordo del re del Wakanda si concretizza in un silenzio quasi totale, come se si volesse offrire il classico minuto (è molto meno in realtà) di raccoglimento per un uomo che per il cast, per il regista, per le maestranze è stato un amico e un collega con il quale si sono divise tante ore di lavoro, delle belle esperienze e il successo di grandi proporzioni che era stato il primo Black Panther. Questo sentimento di perdita ci accompagna per l'intera durata di questo Wakanda forever grazie al personaggio di Shuri che non riesce a venire a patti con la morte del fratello, un dolore purtroppo reale e che ben traspare nel riversarsi dalla realtà alla finzione. Tanti meriti anche a una produzione che ha dovuto cambiar rotta e ricostruire l'intero progetto, riuscendo a dare un senso profondo a questo sequel a parere di chi scrive superiore anche al grande successo del suo predecessore. Felici (per modo di dire, credo le avrebbe evitate volentieri) le scelte di Ryan Coogler che riesce a dare ancora una volta significato e profondità a un film che avrebbe potuto essere un'opera di semplice intrattenimento.

Re T'Challa (Chadwick Boseman) è morto, la sorella Shuri, nonostante tutta la tecnologia del Wakanda e le sue ampie conoscenze scientifiche, non è riuscita a trovare una cura per la malattia dell'amato fratello. Il Paese inoltre, retto dalla regina Ramonda (Angela Bassett) continua a subire incursioni da fazioni avverse in cerca del segreto del vibranio, prezioso metallo disponibile solo nella piccola ma potente nazione africana. Nonostante i ripetuti attacchi la regina Ramonda si mostra dura ma ancora paziente nei confronti dei paesi occidentali, intanto gli Stati Uniti, tramite un apparecchio progettato dalla giovane studentessa Riri Williams (Dominique Thorne), trovano un giacimento di vibranio sepolto in fondo al mare, nel tentativo di recuperarlo infastidiscono il regno di Talocan e il suo sovrano, il principe Namor (Tenoch Huerta) che prontamente contrattacca. Seppur potenzialmente uniti da una comune avversione per i paesi stranieri interessati alle loro risorse, il regno di Talocan e il Wakanda si troveranno a doversi fronteggiare a causa di visioni opposte in ambito di politica internazionale e soprattutto in merito alle sorti della giovane Riri, inconsapevole motore dei guai passati dalla gente di Namor. Quando la situazione inizia a farsi pesante il Wakanda si trova coinvolto in una guerra contro un nemico formidabile, la principessa Shuri medierà la sua passione per le tecnologie moderne con le per lei vetuste tradizioni del Wakanda. Una nuova Pantera sta per nascere?

Arduo il compito di Coogler che si trova a dover rifondare un personaggio che, grazie al successo del primo Black Panther, era assurto a rango di simbolo per il pubblico afroamericano, che era stato legato al movimento Black Lives Matter e che era un po' l'emblema dell'orgoglio nero in un momento politicamente difficile negli U.S.A., Paese che si (ri)scopriva profondamente razzista e spietato nei confronti delle minoranze. Il regista di Oakland dirige una narrazione che per più o meno due ore fa a meno del suo simbolo principale, della Pantera, si concede tutto il tempo che ci vuole per mostrare il dolore e la sofferenza e intanto costruisce. Costruisce uno scenario profondamente femminista, profondamente nero. La regina Ramonda, una fortissima Angela Bassett, è protagonista di una sequenza bellissima dove con coraggio umilia il comportamento delle nazioni occidentali ponendo una questione rilevante: a parti invertite come avrebbero sfruttato i paesi occidentali la potenza del vibranio? Negli occhi dei premier stranieri può solo passare un (falso) velo di vergogna. Si rincara la dose con il discorso sulla predazione delle risorse, sempre attiva (anche oggi) nei confronti dei paesi in via di sviluppo. I personaggi femminili sono centrali, positivi, forti come non sono quasi mai quelli maschili, abbiamo qui l'esordio di un potentissimo Namor, uomo però fallace e troppo incline alla violenza, ben bilanciato però dall'esordio dell'ennesima eroina positiva, quella Riri Williams destinata anche in futuro a vestire i panni (l'armatura in realtà) tagliati su tecnologia Stark. Lo scenario è politico, ci sono nazioni in guerra, potenze alle loro spalle ad attendere di avvantaggiarsi della situazione, c'è l'attenzione alle minoranze; il discorso sul "popolo nero" è implicito e Coogler, come già fatto in misura minore con Creed, riesce a veicolarlo molto bene anche attraverso un film di supereroi e si conferma, insieme ad altri autori come Jordan Peel ad esempio, una delle voci più attente alla questione razziale. Sul piano puramente action il film è più che piacevole, interessante la versione data di Namor che però potrebbe fare un po' storcere il naso ai vecchi fan di casa Marvel (non è davvero necessario fare un qualche tipo di swap proprio per tutti i personaggi, alla fine rispettare la tradizione non sempre è una cosa su cui sputarci su), nel complesso Black Panther: Wakanda Forever è un ottimo antidoto per dimenticarci l'inguardabile ultimo Thor.

lunedì 21 novembre 2022

GLI ORRORI DEL CASTELLO DI NORIMBERGA

(di Mario Bava, 1972)

Da molti considerato tra i migliori autori del nostro giallo/thriller e del filone horror italiano a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, Mario Bava è fuor di dubbio tra i registi che hanno lasciato un segno nel nostro cinema di quegli anni, aprendo le porte dei generi ad autori arrivati dopo di lui che poi ne supereranno la fama (pensiamo al solo Dario Argento ad esempio). Gli orrori del castello di Norimberga, come è facile intuire dal titolo (Baron blood per l'estero) è proprio uno dei tasselli del corpo d'opera horror di Mario Bava, qui supportato dalle musiche di Stelvio Cipriani e da un bel lavoro sulla fotografia del quale si incarica lo stesso Bava, tutti elementi che rientrano nel nobile artigianato del cinema di genere italiano tanto in voga in quegli anni (qui siamo nei primi 70). Non tra le opere più conosciute e meglio riuscite di Bava, Gli orrori del castello di Norimberga rimane comunque un buon esempio di quel cinema bis che nel corso del tempo ha trovato orde di estimatori, spesso a posteriori, e che non manca, come in questo caso, di mostrare ingegno e buone trovate visive, realizzate con poco ma capaci di sopperire a passaggi di sceneggiatura frettolosi o in generale a una fase di scrittura non sempre così forte o all'altezza di produzioni più blasonate.

Nonostante il castello del titolo richiami la città tedesca qui siamo in Austria dove risiede il professore universitario Karl Hummel (Massimo Girotti). Il professore viene raggiunto da un suo giovane nipote, Peter Kleist (Antonio Cantafora) il quale vorrebbe approfittare della visita allo zio per studiare la singolare storia di un vecchio avo del quale Peter è un diretto discendente; questi era il vecchio proprietario del castello di Norimberga, ora in fase di ristrutturazione e di studio, il Barone Otto Von Kleist (Joseph Cotten) il quale, sembra, in vita fosse stato un feroce assassino poi maledetto da una strega, una maledizione che portò il Barone a morire tra atroci sofferenze, piagato nel corpo come lo era nella mente. Tra le antiche carte di famiglia Peter ha trovato una pergamena che descrive l'incantesimo per riportare in vita il Barone e quello per farlo tornare nuovamente nel mondo dei più, ne parla con lo zio e con la bella Eva Arnold (Elke Sommer), una studiosa che sovrintende ai lavori di restauro del castello. Così per scherzo, nella stanza in cui morì bruciato il Barone, Peter ed Eva compiono il rito per portare indietro l'antenato del giovane, purtroppo per loro, e non solo, la vecchia pergamena non è solo il viatico per un'innocuo e macabro scherzo bensì il tramite per spalancare le porte sull'orrore.

Come già fatto con La ragazza che sapeva troppo Bava apre il film con una sequenza di volo, quella dell'aereo con cui Peter arriva in Austria; le musiche di Cipriani sono qui allegre e riportano alla mente le soluzioni più leggere e frivole in voga negli anni 70 (e successivi) in tema di score musicali, oltre a dare una connotazione temporale molto precisa il lavoro di Cipriani anticipa anche un poco i toni scanzonati con i quali da principio i protagonisti prendono tutta la faccenda della pergamena e della maledizione. Fin da subito Bava adotta movimenti di regia interessanti e vivaci, se dal punto di vista della scrittura e appunto dei toni il film appare "leggero" da quello formale è innegabile che il regista e fotografo anche qui abbia messo impegno e mestiere a disposizione della produzione, denotando un certo talento che non si può non riconoscergli. La Sommer illumina la scena quanto e più della fotografia di Bava, splendida comprimaria che compensa con un volto angelico una recitazione tutto sommato ordinaria, ci regala anche una versione in abito tradizionale che si sposa con i primi toni meno cupi del film. Nei momenti salienti Bava e Cipriani riescono a creare quel giusto tocco di tensione aiutati da scenografie interessanti, gli interni del castello in primis, si lavora molto bene con l'uso delle luci, della nebbia (a volte fin troppo invasiva), con gli oggetti di scena come il quadro del conte e con il trucco dello stesso Barone, avvolto in mantello e cappello a tesa larga d'epoca, sfigurato orrendamente e visibile sempre solo di sfuggita. Non manca nemmeno il product placement con un bel distributore di Coca Cola all'interno del secolare castello. Gli orrori del castello di Norimberga pecca un po' in fase di scrittura, alcuni passaggi sono affrettati, non ci sono momenti truci ne troppe concessioni all'orrore, non ci si spaventa mai. Nel complesso il film rimane un pezzo di quella nostra storia del cinema (di serie b) che ogni tanto si ripercorre volentieri, magari non ci si trova il guizzo particolare ma almeno ci permette di tornare alle atmosfere e all'artigianato di quei tempi che tutto sommato non erano poi così male.

venerdì 18 novembre 2022

SUSSURRI E GRIDA

(Viskningar och rop di Ingmar Bergman, 1972)

Il cinema di Ingmar Bergman non è mai facile, è un cinema che ti entra sottopelle e continua a scavare ben oltre la fine della visione, è un cinema nel quale non sempre è possibile entrare di primo acchito, cosa che capita anche con questo, peraltro bellissimo, Sussurri e grida. Richiede impegno, attenzione, riflessione e rielaborazione il cinema di Ingmar Bergman, è un cinema che diventa Cinema, soprattutto quando sembra di far fatica a capirlo, a sentirlo, ma poi tutto si costruisce, tutto si compie ed esplode l'ammirazione, la comprensione (anche accompagnata dal legittimo dubbio) e nasce la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di fuori dal comune, di lontano dalle rotte trafficatissime della banalità, del visto e rivisto e dell'inutile. Come per altre sue opere, anche con questo Sussurri e grida, Bergman affronta temi importanti e a lui cari come il rapporto con la morte, quello con la religione, la condizione borghese e l'universale condizione in cui riversa l'animo umano di fronte alla sofferenza, al lutto, al trapasso o più semplicemente di fronte al rapporto tra consanguinei, conoscenti o consorti. Tutto è soppesato in un film formalmente impeccabile, visivamente perfetto ma anche molto molto duro nei contenuti, quasi spietato nei confronti di alcuni suoi protagonisti.

In una grande casa di campagna si ritrovano tre sorelle, Agnese (Harriet Andersson) che sta morendo di cancro ed è alle fasi terminali della malattia, Karin (Ingrid Thulin) e la più giovane Maria (Liv Ullmann). In realtà è Anna (Kari Sylwan), la domestica, a prendersi veramente cura di Agnese, l'unica a provare dolore, compassione e solidarietà per la donna malata, le due sorelle sono invece molto fredde tra di loro e nei confronti di Agnese; Maria è una donna superficiale, che in fretta dimentica, più interessata a insidiare il dottore della malata (Erland Josephson), con il quale ha già avuto dei trascorsi in passato, che non a occuparsi della sorella morente, Karin è un blocco di ghiaccio che dentro di sé cova rancore, soprattutto nei confronti di Maria, non ha più nessun tipo di rapporto con il marito Fredrik (George Arlin) ed è in procinto di far esplodere il suo odio represso. In questa situazione di glaciale ostilità Anna sembra essere l'unico nodo positivo all'interno di dinamiche decadenti, una donna semplice che trova conforto nella religione, nel contatto fisico e nella memoria di una figlia prematuramente scomparsa che forse rivede attraverso la sofferenza di Agnese. Nonostante i malumori emergano in diverse misure, sembra che le risoluzioni non siano affatto a portata di mano.

Strepitoso sotto il punto di vista formale, Sussurri e grida vince l'Oscar per la migliore fotografia grazie al lavoro superbo di Sven Nykvist, collaboratore abituale del regista svedese, il colore rosso domina su tutto, dalle pareti, dai tappeti, dalle tende della casa di famiglia fino ad arrivare alle numerose dissolvenze tra una scena e l'altra, un impianto carminio da far invidia al Film rosso di Kieslowski, in contrappunto il bianco dei ricordi, il nero del momento luttuoso: passioni, candore, morte, in un'insieme estetico che vale da solo l'intero film, e poi c'è tutto il resto, e poi c'è la ciliegina sulla torta, il rosso della meravigliosa Liv Ullmann. Con pochi flashback e diversi tratteggi Bergman delinea caratteri e temi, l'astio antico di Karin nei confronti di Maria che sembra a un certo punto ripianarsi per poi tornare da capo, nell'impossibilità di queste protagoniste di cambiare, di evolvere, di lasciarsi alle spalle abitudini deleterie, ricordi radicati. La proletaria Anna, guarda caso, è l'unica a esprimere una pietas sincera, uno slancio verso il divino con ben in mente il ricordo della figlia persa, queste figure femminili complesse sono in contrapposizione a quelle maschili, pallide e inutili, con un po' di attenzione solo per la figura del dottore che gode di una bella sequenza nella quale si esibisce in una critica a Maria analizzandole il viso e i tratti. Torna il tema della religione, in età adulta Bergman abbandona le sue convinzioni di gioventù e qui ci mostra un sacerdote dotato di una fede poco convinta, che chiede intercessione all'anima della morta, una donna dotata in vita di una fede più forte della sua evidentemente. Nella costruzione delle protagoniste Bergman intesse passaggi di grande caratura, pensiamo al tentativo di riavvicinamento tra le due sorelle, i tentativi di contatto fisico tra le due, il dolore di Karin che arriva all'autolesionismo, i sussurri e le grida della morente, tutte sequenze che lasciano il segno in un film che cresce poco a poco per lasciare un ricordo duraturo. Tra i migliori film di Bergman?

lunedì 14 novembre 2022

LE LIVRE D'IMAGE

(di Jean-Luc Godard, 2018)

Difficile giudicare un film come Le livre d'image, ultima opera dell'ormai compianto Jean-Luc Godard; i famosi Cahiers du Cinéma lo posizionano nell'anno d'uscita al primo posto tra i film migliori dell'annata, giudizio in parte anche prevedibile vista l'importanza che lo stesso Godard ha rivestito per i Cahiers dei quali è stato rinomato collaboratore, senza contare quanto materiale l'autore ha fornito nel corso degli anni con le sue opere per i recensori suoi contemporanei e poi più giovani che hanno potuto discettare sul nuovo cinema francese, quella Nouvelle Vague che lo stesso Godard ha contribuito a fondare e definire e poi, per decenni, sulle nuove derive del Godard moderno, continuo sperimentatore che nella sua ultima fase di carriera abbandona completamente, come in quest'opera, la forma cinema alla quale la maggior parte di noi è abituato e alla quale la maggior parte delle opere e dei registi ci hanno abituati. È anarchia completa quella che Godard riversa nel suo Le livre d'image, una compilazione libera di sequenze prese dalla storia del cinema ma non solo, stralci di film accompagnati dalla musica e dalle parole dello stesso autore, alternati a quadri e opere d'arte, temi e riflessioni, il tutto in una concezione di elaborazione dell'immagine, va da sé tramite montaggio essendo Godard, a volte ostica, altre sfiziosa, per un film per soli eletti ben disposti verso questo tipo di operazione.

Non c'è trama, non c'è storia (ma c'è Storia), non c'è racconto, non almeno nella sua forma più canonica. Perché con l'alternarsi delle immagini una sorta di racconto c'è, in parte è quello dello scorso secolo, delle immagini che ci hanno accompagnato, grazie al cinema ma non solo, e anche, e forse soprattutto, delle brutture che hanno funestato il nostro passato ancora recente, le tragedie o anche solo le situazioni molto difficili che non solo Stati, uomini e politica non hanno saputo (voluto) gestire ma che anche le immagini hanno forse più immortalato che non raccontato con fine conoscitivo, partecipato, se non a posteriori, a prendere forma di semplici racconti. Ma queste sono solo ipotesi, elucubrazioni prive di grandi appigli perché è quasi impossibile capire l'intento di Godard fino in fondo, come è finanche difficoltoso capire se l'intento ci sia davvero o tutto si riduca a sola (nobile quanto si vuole) sperimentazione di montaggio, gioco d'immagini e d'accostamenti, ennesima variazione sul tema, sulle forme che il cinema può prendere.

L'approccio di Godard alle immagini, in opere come questo Le livre d'image, è di pura costruzione, narrativo in maniera relativa, a tratti inafferrabile, è un prodotto questo che richiede (senza preoccuparsene troppo) una certa qual dose di affinità da parte dello spettatore per essere goduto appieno, una passione per la sperimentazione che, almeno a questi livelli, chi scrive ammette di non avere. Non mancano momenti, accostamenti, messi qui su schermo da Godard, capaci di catturare l'attenzione e che potrebbero sorprendere chiunque, c'è il piacere di riconoscere film e sequenze come c'è la possibilità di apprezzare la forma dell'opera, i colori saturi di alcune splendide immagini ad esempio, è molto probabile però che in molti spettatori (che probabilmente nemmeno proveranno a confrontarsi con questo tipo di filmati) si crei anche rifiuto, stanchezza e disinteresse di fronte a un percorso, seppur breve, di decifrazione quasi impossibile. E nel caso di Godard non è valido nemmeno il motto "per molti ma non per tutti", almeno in questo caso, più facilmente traducibile in "per pochi anche se non proprio per nessuno". Film difficile, ostico e appetibile proprio per amanti dell'esperimento e del "non narrativo", lo si guarda perché è Godard (che al cinema ha dato molto), perché è la sua ultima opera, però, come si suol dire, uomo avvisato...

sabato 12 novembre 2022

OLTRE L'INVISIBILE

(Time and again di Clifford D. Simak, 1951)

Clifford D. Simak è stato uno dei promotori della narrativa di fantascienza degli anni 50; la sua esperienza come scrittore di genere inizia già nei primi anni 30 (le prime pubblicazioni su rivista sono del 1931), ma è proprio nei 50 che l'immaginario collettivo incontra in ampia misura, negli Stati Uniti ma non solo, il fantastico e la fantascienza; Simak è lì dagli albori del periodo d'oro del genere, scrive ormai da tempo e lo fa anche per vivere in veste di giornalista per diverse testate del Midwest, è proprio con questo Oltre l'invisibile che Simak riesce a ottenere un'ampia fama nel ruolo di scrittore di romanzi, il libro esce nel 1951 con il titolo Time and again. Potremmo ora aprire una breve digressione sulla scelta del titolo italiano in tutta onestà poco significativo dei contenuti dell'opera; Oltre l'invisibile vuol dir tutto e non vuol dir niente, dà giusto un vago senso di remoto, di lontananza che può far gioco per un romanzo di fantascienza dove le distanze siderali non mancano ma in realtà coglie poco dello spirito dello scritto, molto più indovinato e affascinante quel Time and again che riflette al meglio il ruolo del tempo (dei viaggi nel tempo) protagonisti in questo romanzo. Sono molti gli spunti presenti in questo romanzo, un insieme di elementi che a fine lettura lascia l'impressione di non essere mai stato messo a fuoco a dovere, pur offrendo nel complesso una lettura piacevole e veloce.

Siamo in un futuro remoto, l'umanità ha colonizzato mondi e galassie e ancora continua la sua esplorazione nello spazio. Una sola stella, tra quelle conosciute, risulta ancora impenetrabile alla razza umana che non è in grado di oltrepassare quello che sembra essere una sorta di schermo protettivo a difesa di 61 Cygni, astro verso il quale l'ultimo esploratore ad essere inviato dai terrestri è stato Asher Sutton, anche lui schiantatosi contro le protezioni di Cygni e mai tornato sulla Terra. Quando vent'anni più tardi, a sorpresa, Sutton ritorna, sul nostro pianeta inizia a esserci un po' di scompiglio, numerosi sorgono gli interrogativi: cosa ha fatto Sutton su Cygni per tutti questi anni? Come ha fatto a superare le protezioni della stella? E soprattutto, come ha fatto Sutton a rientrare sulla Terra a bordo di una navicella che a detta degli scienziati non avrebbe potuto in alcun modo affrontare il viaggio da 61 Cygni al pianeta azzurro? Ma sulla Terra, in un tempo dove i viaggi nel tempo sono possibili, non tutti vedono di buon occhio il ritorno di Sutton, anche perché sembra che sarà proprio lui a scrivere un libro fondamentale che potrebbe modificare gli equilibri di potere tra umani e androidi, esseri senzienti creati dagli umani stessi a loro immagine e somiglianza, distinti solo da un codice a barre e dalla mancanza di possibilità di procreare. Ma per Asher Sutton il rapporto tra umani e androidi non potrà più essere visto nello stesso modo, anche perché su 61 Cygni Sutton ha trovato "il destino", non il suo destino bensì la vera e propria personificazione di quello che per i terrestri era finora solo un concetto astratto.

È proprio il concetto di "destino" come esseri senzienti, definiti da Simak come "astrazioni simbiontiche", a essere molto affascinante, una guida concreta che porta il protagonista a divenire un essere diverso da quello che era prima, ancor più consapevole di come le cose dovrebbero girare nell'universo e di quanto sia infelice la scelta della sopraffazione e dell'unicità portata avanti da molti di quei terrestri che Sutton si troverà ad affrontare nel momento del ritorno a casa. Ma sono molti gli spunti inseriti nel romanzo che però faticano a trovare pieno compimento, sarebbe stato utile un romanzo con una foliazione maggiore per mettere bene a fuoco tutti gli elementi presenti in Oltre l'invisibile. Considerato tra i maggiori esponenti della fantascienza umanista, Simak lavora molto sulla contrapposizione tra uomo e androide, una razza quest'ultima che ha ormai acquisito consapevolezza ma che viene vista dall'uomo ancora come mera proprietà, non mancano le riflessioni sull'accettazione e sull'inclusività concatenate a quello che è l'aspetto rurale dei romanzi dell'autore, qui Sutton, in un viaggio nel passato, ritrova momenti di pace in una fattoria isolata, nella fatica dei campi e nella vita semplice di campagna. Ci sono poi i viaggi nel tempo e i possibili paradossi sulla scrittura dello stesso libro che Sutton scriverà/ha già scritto. Nel complesso impianto molto valido, spunti di gran fascino e lettura piacevole, manca però una costruzione forte, a volte l'impressione è che tutto diventi un poco evanescente, si rimane così a fine libro con quella punta di amaro in bocca, per come un ottimo romanzo sia in fondo sfumato, perso pian piano tra le pagine...

giovedì 10 novembre 2022

LOOKING FOR VENERA

(Në kërkim të venerës di Norika Sefa, 2021)

Looking for Venera è il primo lungometraggio di finzione della regista kosovara Norika Sefa, autrice con alle spalle diversi corti e qualche documentario; il film è stato premiato al Festival di Rotterdam dello scorso anno con il Premio della Giuria. Sempre interessante immergersi in filmografie poco battute, fruire del lavoro di autori esordienti provenienti da paesi dove non è presente una produzione cinematografica molto nutrita o dai quali questa produzione incontra delle difficoltà ad arrivare fino da noi (in questo alcune piattaforme moderne ci stanno aprendo molti orizzonti, questo allo streaming va riconosciuto, è un servizio del quale in sala spesso non si può usufruire). L'opera prima della Sefa è un film di un certo interesse, anche formale se vogliamo, al quale però manca qualcosa per lasciare il segno e far sì che lo spettatore imprima nella mente il nome della regista in modo da tenerne d'occhio le mosse future. È proprio il contesto poco usuale, nuovo e non inflazionato ad affascinare in misura maggiore in Looking for Venera, la microsocietà familiare kosovara qui ritratta porta in sé i germi di possibili riflessioni su un'istituzione patriarcale e maschile (maschilista) tutta da rielaborare, manca però quello spunto capace di attirare a sé lo spettatore in maniera completa, il rischio è anche quello di creare una certa diffidenza verso prodotti che possono sembrare a noi più lontani (più come abitudine spettatoriale che non come reale distanza, il Kosovo è dietro l'angolo) inducendo magari lo spettatore meno curioso (e capitato di qua per caso a questo punto) a non tentare ulteriormente di percorrere la stessa via o una strada simile a questa.

Venera (Kosovare Krasniqi) è un'adolescente che vive in un villaggio del Kosovo vicino alle montagne, la ragazza abita in una casa troppo piccola e troppo affollata: con lei infatti ci sono la mamma Nora (Erjona Kakeli) e il papà Luan (Basri Lushtaku), almeno altri due fratelli più piccoli (ma nell'andirivieni di persone nella casa si perde un po' il conto), la nonna paterna (Fatushe Nushi), i vicini di casa, parenti e amici del padre che affollano a fasi alterne l'abitazione. Venera segue un corso di inglese da un'insegnante privata, un corso al quale partecipano molti ragazzi, anche il luogo di studio è sempre affollato, qui Venera fa amicizia con la sua coetanea Dorina (Rozafa Celaj) nonostante (o forse proprio per questo) le due ragazze siano molto diverse l'una dall'altra. Venera è una ragazza molto chiusa, timida, parla poco e subisce una vita familiare molto severa e di stampo patriarcale, dove ogni piccolo scarto sembra essere giudicato fuori luogo e inammissibile; Dorina è invece molto più libera e vitale, cerca di divertirsi e fare esperienze compatibilmente al poco (quasi nulla) che la città offre. Un giorno Venera, tornando a casa per le montagne, vede Dorina fare sesso con il suo ragazzo, da quel momento il legame tra le due giovani si intensifica e anche Venera, spinta dalla stessa Dorina, inizierà a cercare un'autoaffermazione nelle semplici cose della vita: un'uscita serale, una festa, un ragazzo, un vestito, magari il sesso, tutte cose che in casa sua non sono affatto ben viste.

Il film di Norika Sefa ci mostra una realtà che si porta ancora sulle spalle le conseguenze della guerra, con una cittadina che non offre nulla (e che la regista ci mostra solo per piccoli scorci di strade, fabbriche abbandonate, luoghi desolati), dura e non accogliente; a questa atmosfera già lugubre, per Venera si aggiunge una situazione familiare dalla mentalità molto chiusa che non le permette di sbocciare, di uscire da un guscio di silenzi e di anaffettività. Il nodo di Looking for Venera è universale, è il momento della crescita, della ribellione dell'adolescente, visto però in un contesto in cui l'affrancarsi dai genitori diventa davvero difficile, nella fattispecie grazie all'inospitalità dei luoghi, dettata dal contesto storico a dir poco brutale, ma soprattutto a causa di un padre di famiglia poco aperto e a una madre succube del marito (comunque non violento e per alcuni versi anche bonario). La Sefa gioca molto sulle inquadrature strette, pochi primi piani ma anche poca aria nelle immagini, scelta che acuisce il senso di claustrofobia dettato da questi luoghi affollati, dalla mancanza totale di privacy, l'incedere della narrazione è scarno, proprio come quei luoghi del Kosovo, arido come sembrano alcuni cuori che forse lo sono solo in apparenza, magnifica a questo proposito la scena in cui mamma e figlia ballano insieme di una danza liberatoria (che dura poco), il padre invece più concreto si dedica di continuo alla costruzione di una porta che sembra però non vedere mai la sua giusta collocazione. In questo scenario il coming of age, l'incontro con l'altro sesso, l'apertura grazie a un'amica verso un nuovo pensare. Esordio nel lungo di finzione interessante per Norika Sefa, anche perché produzioni kosovare (e macedoni) come questa non si ha la possibilità di vederne molte, manca ancora qualcosa affinché la visione si trasformi da interessante a partecipe, avvolgente e coinvolgente (escluse alcune sequenze molto ben riuscite), Looking for Venera è però un bel trampolino di lancio, sperando in una crescita costante della regista kosovara.

martedì 8 novembre 2022

ENOLA HOLMES 2

(di Harry Bradbeer, 2022)

La nuova produzione di punta di Netflix, almeno per quel che riguarda questi ultimi giorni, ricalca la formula già adottata per il primo film della serie intitolato semplicemente Enola Holmes e ispirato come quest'ultimo ai libri scritti da Nancy Springer: The Enola Holmes Mysteries. Questo sequel presenta gli stessi pregi e gli stessi difetti del film precedente e più che una sorpresa si rivela quindi essere una solida conferma, sia per la piattaforma che probabilmente lo vedrà diventare un nuovo successo, sia per i fan del primo episodio che qui ritroveranno (quasi) tutti gli elementi che avevano apprezzato nella prima avventura della sorellina minore del mitico Sherlock Holmes. L'unica assenza sembra essere quella del personaggio di Mycroft Holmes interpretato nella prima uscita pubblica di Enola da un Sam Claflin qui escluso dalla sceneggiatura, per il resto sia il cast, sia le ambientazioni, sia lo stile narrativo e la cadenza di ritmo riprendono quanto già visto in Enola Holmes. Siamo quindi di fronte a un film per ragazzi, una variazione dell'intramontabile fascino capace di emanare dalla figura di Holmes, qui traslato al femminile e adattato alle generazioni dei giovani d'oggi facendo leva in maniera intelligente sulla presenza dell'amatissima Millie Bobby Brown, già star della serie Stranger Things anch'essa targata Netflix.

Dopo gli eventi narrati nel film precedente la sorella minore di Sherlock Holmes (Henry Cavill), Enola (Millie Bobby Brown), decide di aprire una sua agenzia investigativa, ma la giovane età della ragazza e la poca esperienza nel campo non le permettono di far ingranare a dovere la sua attività. Quando si avvicina ormai il quasi inevitabile momento della resa, nell'ufficio di Enola Holmes si presenta la piccola Bessie Chapman (Serrana Su-Ling Bliss), una bambina che lavora in una fabbrica di fiammiferi e che denuncia la scomparsa della sorella adottiva Sarah (Hannah Dodd), anche lei impiegata come operaia nella stessa fabbrica. Nonostante la bimba non abbia di che pagare i servizi dell'investigatrice, Enola accetta il caso di buon grado e riesce a farsi assumere nella fabbrica di fiammiferi per iniziare le indagini che la porteranno sulle orme di un'altra fiammiferaia, Mae (Abbie Hern). Da quel momento una serie di indizi e di intuizioni porteranno Enola a convincersi che dietro la sparizione di Sarah ci sia effettivamente qualcosa di molto losco, le sue indagini la porteranno a collaborare sia con l'amato Lord Tewkesbury (Louis Partridge) che con il suo stimato ed esperto fratello Sherlock il quale sta indagando a sua volta su una serie di frodi finanziarie, caso che finirà per collidere con quello seguito dalla sua vivace sorellina. Nel momento del bisogno i due potranno contare anche sull'aiuto di mamma Eudoria (Helena Bonham Carter).

L'unico elemento che può spostare un poco gli equilibri di gradimento tra quest'opera e la precedente è qui l'assenza del fattore "novità", le caratteristiche sono più o meno le stesse già viste in Enola Holmes; c'è però un bel riferimento a un fatto storico reale, lo sciopero delle fiammiferaie inglesi che si batterono per la tutela della loro salute nel 1888, un raccordo con il reale che in un film per ragazzi non può che far bene. Per il resto tutto è già noto, si spinge molto il pedale sull'indipendenza femminile, Enola qui apre il suo studio personale, da sola, anche se viene molto valorizzata la necessità della collaborazione, del fiorire completamente attraverso l'aiuto di persone valide e positive (qui Sherlock, Lord Tewkesbury, mamma Eudoria, il personaggio di Edith interpretato da Susie Wokoma). Tutti i maggiori protagonisti, tutti quelli più in gamba, sono qui donne, Sherlock a parte che comunque rimane abbastanza marginale, Bradbeer costruisce il film sull'immagine della Brown, brava a tenere la scena e sempre più propensa ad ammiccare allo spettatore rompendo la quarta parete. La costruzione dell'intrigo, la scoperta degli indizi, la plausibilità dello sviluppo dell'intreccio hanno qui poca importanza, le varie scoperte di Enola sono abbastanza campate per aria, il film gioca su un buon ritmo, una bella ricostruzione d'epoca (non necessariamente precisa ma di indubbio fascino) e una protagonista che può piacere ai giovani e magari anche a diversi adulti (chi vi scrive non è particolarmente entusiasta del film, consapevole di non esserne il target di riferimento). Nell'ottica del "film per ragazzi" questo si rivela essere un discreto secondo capitolo che finirà quasi sicuramente per piacere ai più.

domenica 6 novembre 2022

VENOM

(di Ruben Fleischer, 2018)

Come ormai sanno benissimo i fan della Marvel Comics e anche buona parte dei sostenitori del solo universo cinematografico messo in piedi dai Marvel Studios (ormai Disney) e che ha preso il nome di Marvel Cinematic Universe, la questione dei diritti di sfruttamento al cinema degli eroi Marvel è (ed è stata ancor di più in passato) materia complicata assai. Senza voler riassumere tutta la trafila di questioni legali di cui si è ampiamente discusso in diverse occasioni, basti sapere che la Sony ha ancora in mano i diritti di sfruttamento dei personaggi e delle idee legati alla figura di Spider-Man (e Venom è uno di questi); per quel che riguarda l'amichevole arrampicamuri di quartiere si è trovato un accordo tra la Sony stessa e i Marvel Studios per far rientrare Spidey (quello di Tom Holland ma non solo) all'interno del MCU, operazione con tutta probabilità di gran convenienza per entrambe le parti che possono così spartirsi le fette di una torta molto, molto grande. Discorso diverso per i personaggi a latere del mondo di Peter Parker con i quali la Sony ha in programma, un programma che sta già realizzando, di sviluppare una sorta di universo narrativo secondario dove personaggi come Venom, Morbius e in futuro Kraven il cacciatore e altri ancora potranno trovare posto: il Sony's Spider-Man Universe. Questione complessa, immagino i fan avrebbero piacere di vedere tutti i personaggi Marvel passare in mano ai Marvel Studios, aspettiamo ancora un vero esordio per i brand che erano finiti in mano alla 20th Century Fox (Fantastici 4, X-Men) e che ora la Disney ha acquistato, difficilmente però la Sony mollerà a cuor leggero quella che potenzialmente è ancora una gallina dalle uova d'oro (ci saranno invece quasi certamente altre collaborazioni). Così tocca proprio a questo Venom inaugurare quello che sulla carta avrebbe potuto essere un universo narrativo parecchio oscuro (Venom, Morbius, Kraven... non proprio degli allegroni) ma che almeno con questo primo capitolo si rivela essere molto più innocuo di quel che ci si potesse aspettare.

Carlton Drake (Riz Ahmed) è un multimilionario a capo di un impero industriale all'avanguardia, le sue attività comprendono anche l'esplorazione spaziale. Al ritorno da una delle sue missioni esplorative nel cosmo, una delle navicelle della Life Foundation torna sulla Terra portando alcuni esemplari extraterrestri, una sorta di simbionti che per sopravvivere alle condizioni terrestri necessitano di legarsi a un corpo ospite. Non tutti gli umani sono però in grado di sopportare l'unione con uno di questi simbionti, organismi alieni che spesso provocano la morte del corpo che li ospita; incurante di tutto ciò Drake continua la sperimentazione causando quindi la morte di numerosi "volontari". Eddie Brock (Tom Hardy) è invece un giornalista d'inchiesta molto attivo sui social, ha l'occasione per intervistare proprio Drake, sotto raccomandazione del giornale per cui lavora di trattare l'eminente personalità (e finanziatore del giornale) con i guanti bianchi, cosa che Eddie ovviamente non farà, perdendo così tutto: casa, lavoro, fidanzata (Michelle Williams). Quando per Eddie si presenterà l'occasione di trovare delle prove sulle sporche manovre portate avanti da Drake, sarà proprio il giornalista a legarsi accidentalmente a uno dei simbionti, Venom, diventando contro la sua volontà una sorta di (anti)eroe dai poteri (e dalla fame) decisamente interessanti.

In questa trasposizione molto del fascino del personaggio Marvel si è perso, il fatto di non aver potuto legare (o di non aver voluto, poco importa) l'origine del personaggio alla storia di Spider-Man ha reso il Venom di Tom Hardy molto meno interessante della sua controparte cartacea. Nel mondo dei fumetti inizialmente quello che solo più avanti conosceremo come Venom sembra essere semplicemente un nuovo costume dell'Uomo Ragno proveniente da un pianeta alieno, sarà Reed Richards dei Fantastici 4 a scoprirlo senziente; una volta ripudiato da Peter Parker perché cosa viva e anche pericolosa, il simbionte si legherà a Brock che già di suo odia Peter Parker (per motivi che non stiamo a spiegare) sfruttando questo odio per diventare il nemico numero uno di Spider-Man, un nemico che per popolarità, grazie anche alle matite innovative di Todd McFarlane, rivaleggerà anche con il classico Green Goblin. Questo contrasto è inesistente nel film, Spider-Man nemmeno compare, fatto che costringe gli sceneggiatori e il regista Ruben Fleischer a confezionare una storia molto più semplice e meno stratificata che deve ripiegare su una sorta di buddy movie "a solo" ricreando le dinamiche da strana coppia tra Eddie Brock (personaggio molto ripulito rispetto all'originale) e Venom affidandole a Tom Hardy e alla computer grafica, dinamiche a tratti anche divertenti ma che non lasciano troppo a un film tutto sommato trascurabile e di scarso interesse. Ruben Fleischer è anche bravo, alcune sequenze action sono davvero ben dirette, Tom Hardy lo conosciamo ma diciamo che qui il suo talento, di solito strepitoso, non viene espresso al meglio, troppo lunga la parte introduttiva che, non mettendo in campo nulla di troppo profondo, si poteva accorciare, purtroppo anche quando finalmente compare Venom i momenti di giubilo non si presentano, il film viene presto archiviato tra i superflui e presto dimenticabili. Peccato, il personaggio avrebbe meritato di meglio. Resta sempre valido l'assunto che per i fan del genere una visione può valer la pena, anche tra i cinecomics c'è molto, molto di meglio, ma se appunto il genere piace...

sabato 5 novembre 2022

OSLO, 31. AUGUST

(di Joachim Trier, 2011)

Non di soli Lars von vivono i Trier, ci sono per fortuna anche i Joachim (lo so, lo so, perdonatemi...). Joachim Trier è un regista danese (come Lars von) nato a Copenaghen (come Lars von), classe 1974, una ventina d'anni più giovane del suo illustre quasi omonimo quindi. L'esordio del regista risale al 2006 con Reprise, film che insieme a questo Oslo, 31. August e al recente La persona peggiore del mondo va a comporre un'ideale trilogia della capitale norvegese. Perché non Copenaghen? Come mai Oslo, 31. August visto che il film è tratto da un libro francese, scritto da un autore francese e ambientato a Parigi? Magia del cinema, dei cortocircuiti creati da ispirazioni e necessità, dall'universalità di temi, dal personale vissuto da ogni singolo artista che lo lega in particolare a qualche luogo, o forse, chissà... il libro in questione peraltro è Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, pubblicato nel 1931 (e già tradotto in immagini da Louis Malle) ma arrivato in Italia solo nel '63. Quindi siamo nel corpo centrale di questa ideale trilogia che vede nei panni del suo protagonista sempre l'attore norvegese Anders Danielsen Lie.

Anders (Anders Danielsen Lie) è un trentaquattrenne che sta seguendo un percorso di recupero a causa di una seria dipendenza dalle droghe (di ogni tipo) e dall'alcool; i suoi problemi hanno provocato dei seri fastidi ai suoi genitori e hanno incrinato il rapporto con sua sorella, tutti personaggi che nel film non vediamo praticamente mai. Anders ha ora la possibilità di recarsi a Oslo per sostenere un colloquio di lavoro, il programma gli ha procurato un contatto per un impiego molto interessante come aiuto editor per un giornale della capitale norvegese; Anders ha un certo talento con le parole, qualche buona esperienza alle spalle, il suo percorso di recupero sta andando bene e l'occasione non è affatto miserabile come quelle a cui si pensa quando si è appena usciti da un periodo devastante, anzi. Gli anni difficili hanno però lasciato un segno profondo nel giovane che prima di potersi giocare la sua nuova occasione tenta il suicidio. Non avendo il coraggio di portare a termine l'insano gesto, Anders torna in comunità, cerca di riprendersi e parte per Oslo per sostenere il colloquio. Qui passa prima a trovare l'amico Thomas (Hans Olav Brenner) ormai papà e sposato con Rebecca (Ingrid Olava), i tempi delle serate pazze sono passati, i momenti più emozionanti nella vita di Thomas sono le sessioni di gioco a Battlefield, Anders coglie l'occasione per sfogare il suo malessere, l'idea di essere arrivato a trentaquattro anni e aver sprecato tutto, di aver fatto male alle persone a lui vicine, lo fanno entrare in una spirale di autoannientamento che metterà a repentaglio anche la sua occasione di riscatto. Poi la sera, gli amici, le tentazioni...

Film di lucido e freddo malessere, dove una mancanza di direzione e di prospettiva diventa cronica impedendo anche a un giovane capace, di bell'aspetto e di buona famiglia di trovare un equilibrio, seppur precario, e un posto all'interno di una società che in fin dei conti non lo sta respingendo. Anders è un protagonista smarrito, che non riesce a vedere un futuro, spezzato da un presente o da un passato confuso, autolesivo eppure capace in qualche modo di attrarre ancora il mondo (la ragazza conosciuta in città), con tutte le potenzialità intatte ma all'apparenza destinate a infrangersi e spezzarsi. In apertura e lungo la durata del film Oslo è coprotagonista in una certa misura di questo viaggio lungo un giorno o poco più, ma anche il rapporto con la città è ambiguo, non netto, Anders sembra mancare di punti fermi nonostante i successi ottenuti con il programma di recupero e noi, come spettatori, viviamo un malessere che ci sembra inspiegabile, con fredda angoscia e impotenza, come può capitare nella vita, anche l'ambiente esterno non riesce a permeare nell'animo di questo protagonista che ha un'immersione nella realtà contigua, forse anche alterata, nella bella scena del bar dove Anders è avvolto da frammenti di vita altrui, quelli che lui non riesce più a creare, ma nemmeno vedere come possibili, per se stesso. Trier si muove bene grazie anche all'ottima prova di Anders Danielsen Lie, bel volto capace di tenere in piedi il film da solo, il regista ci accoglie e ci congeda con due scene molto significative, forti, emblema di una condizione universale, molto sentita nei paesi scandinavi, che porta alcune persone a un'esistenza di infelicità, non sempre e non per forza dettata da condizioni contingenti avverse.

martedì 1 novembre 2022

LA NOTTE DEI GIRASOLI

(La noche de los girasoles di Jorge Sánchez-Cabezudo, 2006)

Opera prima per Jorge Sánchez-Cabezudo (a parte il corto La gotera) che dopo questo bell'esordio si dedicherà più che altro a regie per serie televisive, un po' un peccato visto l'esito ottenuto con questo La notte dei girasoli, un ottimo noir, atipico, girato tra sperduti paesini dell'entroterra spagnolo e che gode di un lavoro di scrittura calibratissimo e di ottima fattura, sceneggiatura a cura dello stesso regista e sviluppo dei personaggi di grande spessore e credibilità, per un insieme gestito da attori sconosciuti che riescono a creare un gruppo di grande efficacia diretto magistralmente dallo stesso Sánchez-Cabezudo. Passato inosservato agli occhi del grande pubblico, il film è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2006 nelle Giornate degli Autori, raggiunge anche la distribuzione in Italia ma poi purtroppo cade in maniera repentina in un dimenticatoio che non avrebbe meritato tanto che oggi La notte dei girasoli non risulta disponibile sulle maggiori piattaforme streaming e per la visione dello stesso è necessario orientarsi verso il supporto fisico. 

La notte dei girasoli segue le vicende di vari personaggi destinati a incrociarsi. In un paesino rurale della Spagna viene scoperta una nuova grotta da quello che a prima vista sembra un po' il tonto del villaggio, un ragazzo timido e all'apparenza non troppo sveglio, Beni (Fernando Sánchez-Cabezudo) al quale piacerebbe che alla grotta venisse dato il suo nome. Il sindaco del villaggio per suo conto spera che nella grotta venga ritrovata qualche forma di attrattiva artistica per rilanciare il paese che si sta progressivamente spopolando. Per indagare su questa possibilità vengono chiamati dalla città degli speleologi, nel frattempo alla radio viene data la notizia del ritrovamento del cadavere di una ragazza, stuprata e assassinata. Esteban (Carmelo Gómez) è uno degli speleologi che dovrà recarsi a esplorare la grotta, prima di partire si scusa con sua moglie Gabi (Judith Diakhate) alla quale aveva promesso un week end tranquillo insieme, anche perché la coppia ha delle importanti decisioni finanziarie da prendere per il futuro della loro vita insieme. Per un caso fortuito l'altro speleologo che avrebbe dovuto affiancare Esteban non si presenta, viene così reclutato in fretta e furia Pedro (Mariano Alameda) che verrà accompagnato sul luogo proprio da Gabi che farà così una sorpresa al suo Esteban. In paese i riferimenti, oltre al sindaco, sono il comandante del posto di polizia locale Amadeo (Celso Bugallo) e il suo collega più giovane Tomas (Vicente Romero) che di Amadeo è il genero avendone sposato la figlia Raquel (Nuria Mencía). Nella parte vecchia del paese, di strada per la grotta, sono rimasti solo il tocco Amos (Walter Vidarte) e l'irascibile e scorbutico Cecilio (Cesáreo Estébanez), due anziani che sono come cane e gatto, sempre in conflitto per qualcosa. Di passaggio in paese anche un venditore di filtri per aspirazione (Manuel Morón). Tra tutti questi personaggi si innescheranno delle relazioni che porteranno a un secondo omicidio e allo scoperchiarsi dei veri valori di ognuno, delle paure, della propensione a cogliere le opportunità e i compromessi che la situazione offrirà loro.

È necessario parlare de La notte dei girasoli senza troppo svelare onde evitare di rovinare qualche sorpresa a chi guarderà il film; tutto si gioca su due piani: una bella costruzione con un ottima gestione di tempi e incastri e un discorso sull'etica dell'uomo, sulle scelte che si fanno quando si è posti di fronte a una situazione spinosa dalla quale si potrebbe uscire con molto danno, allora anche le figure all'apparenza più integerrime potrebbero vacillare. Jorge Sánchez-Cabezudo costruisce la sua storia in sei distinti capitoli, ognuno dei quali narra una differente prospettiva e va a incastrarsi per mezzo di un'accavallamento di tempi ed eventi con gli altri segmenti, andando a creare un tutt'uno molto coerente e decisamente semplice da fruire (non siamo di fronte a un film cervello, la visione risulta sempre lineare e molto agevole). La fotografia gioca molto con i toni del giallo, dell'ocra, del nero, del marrone, richiama i colori dei girasoli e dona un tratto omogeneo alla pellicola molto efficace, sia nei diurni che nei passaggi un poco più scuri, ottimo il cast di attori tra i quali non spiccano grandi nomi ma all'interno del quale ogni singolo componente sembra essere stato scelto con la giusta misura. Ne esce un noir molto intrigante, fuori dagli schemi e dai luoghi noti ma che non ha molto da invidiare a opere più blasonate, peccato che il recupero di questo film spagnolo, tutto sommato recente, non sia così facile da effettuare.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...