domenica 31 gennaio 2021

L'OMBRA DELLA PAURA

(Under the shadow di Babak Anvari, 2016)

Il Cinema iraniano torna spesso alla storia recente del Paese, anche in questo film di Babak Anvari, un horror dal sapore molto classico, la narrazione non si può scindere dal contesto sociopolitico. Siamo negli anni 80 in Iran, la nazione vive la sua radicalizzazione religiosa dopo un periodo di moderata apertura, è in corso una guerra con l'Iraq destinata a durare anni e che già si può considerare l'anticamera della guerra del Golfo, prima del coinvolgimento diretto degli U.S.A. e dell'invasione del Kuwait. In questo scenario che inizia a destare grosse preoccupazioni per tutti gli abitanti di Teheran, Shideh (Narges Rashidi) cerca di riprendere il suo corso di studi all'Università abbandonato qualche anno prima, in modo da poter finalmente diventare medico ed esercitare la professione. Purtroppo il regime in Iran è mutato negli ultimi anni e la sua domanda viene ripetutamente respinta, sono malvisti i suoi slanci rivoluzionari di qualche anno prima e la pretesa per una donna d'essere indipendente e dedicarsi alla professione di medico. Dopo l'ennesimo rifiuto, questa volta definitivo, Shideh torna a casa carica di rabbia e frustrazione, stato d'animo che inciderà negativamente nei rapporti con il marito Iraj (Bobby Naderi), lui medico abilitato, e in parte con la figlia Dorsa (Avin Manshadi).

Quando la guerra irrompe a Teheran e la situazione si complica, Iraj viene precettato dallo Stato per andare a servire come medico al fronte, prima della sua partenza l'uomo cerca di convincere la moglie ad andar via dalla città con la bambina e rifugiarsi in casa dei suoceri in campagna, ma Shideh che vede anche in questa richiesta una mancanza di fiducia e una minaccia alla sua indipendenza, con eccessivo orgoglio e senza valutare troppo bene i rischi (legati alla guerra ma non solo) decide di rimanere a casa sua nell'intento di dimostrare di potersi prendere cura di Dorsa anche da sola; la bambina intanto compensa la mancanza del padre, ormai partito verso la prima linea, con un attaccamento fortissimo alla sua bambola Kimia. Giorno dopo giorno Dorsa diviene sempre più inquieta, non riesce a dormire, ha paura a stare sola, in più uno strano bambino gli racconta che cosa sono i Djinn. Quando un missile colpisce il palazzo dove vivono Shideh e Dorsa questo sembra non portare con esso solo l'orrore profondo della guerra...

È un bell'horror L'ombra della paura, punta molto sul versante psicologico, non adopera effettacci, rientra in un canone molto classico basato sulla progressiva costruzione della tensione che sfoga ripetutamente grazie all'utilizzo del jumpscare, girato presumibilmente con un budget ridotto, Babak Anvari e la sua cerchia di collaboratori sono bravissimi a usare mezzi poveri per creare effetti inquietanti, un intonaco crepato, un lenzuolo a fantasia, finestre, scantinati, le maestranze riescono a massimizzare il poco che hanno creando una tensione costante che rende il film molto godibile. Chiara la metafora politica, in fondo Shideh è prigioniera a casa sua, minacciata da forze soverchianti, a riprendere per tutto il film il tema della prima sequenza, i diritti negati, soprattutto alle donne, da un regime contro il quale è impossibile combattere, resta l'ipotesi della fuga, anche questa altamente rischiosa. Sono diverse le scene che richiamano alla condizione dell'Iran di quegli anni, Anvari tiene in equilibrio sia il lato supernaturale, del quale lo spettatore attende il manifestarsi a più riprese, sia la vicenda storico politica.

Film indubbiamente intelligente, ben giostrato con i mezzi a disposizione: un'urgenza, alcune idee, mestiere, passione e il risultato che ne viene fuori è di tutto rispetto, bei volti nel cast per una cinematografia che sarebbe tutta da approfondire. 

sabato 30 gennaio 2021

B.P.R.D. - IL GIARDINO DELLE ANIME

(B.P.R.D.: The garden of souls di Mike Mignola, John Arcudi e Guy Davis, 2007)

Finalmente Mignola e Arcudi tirano fuori Abe Sapiens da quel limbo di apatia depressiva in cui era piombato nel corso dei volumi precedenti, ne Il giardino delle anime è proprio Abe il vero protagonista spalleggiato da un diffidente ma tutto sommato paziente e disponibile Capitano Daimo. Come già accaduto per Hellboy, come sta accadendo in questi volumi per Daimo e come accade a turno un po' a tutti gli elementi del B.P.R.D., giunge il momento anche per Abe di fare i conti sul serio con il proprio passato, elemento fondamentale nella narrazione di tutti i personaggi imbastiti da Mignola.

Si torna quindi in epoca vittoriana, a Londra nel 1859, all'esistenza di quel Langdon Everett Caul che si è già appurato essere stato l'incarnazione precedente di Abe Sapiens, un'esistenza della quale purtroppo il Nostro non serba grandi ricordi. Nella residenza di Lord Minnbrough si tiene una "cerimonia di srotolamento", una serata durante la quale, davanti a studiosi e appassionati, si srotola una vera mummia ritrovata a Tebe, allo scopo di esaminarne lo stato di conservazione. Per Langdon, americano, è l'occasione per incontrare i membri inglesi della società di studio alla quale anche lui appartiene, la serata finirà con una sorpresa sconvolgente: la vecchia mummia prende vita e, si apprenderà in seguito, troverà il suo posto nella società londinese dell'epoca.

Dopo questa fase introduttiva che consente a Guy Davis di mostrare ancora una volta il suo talento incredibile per le atmosfere vittoriane, qui tratteggiate con grande maestria e colorate con un virato al seppia decisamente attraente, Mignola e Arcudi costruiscono nel presente il grosso della storia sui personaggi di Abe e Daimio senza mai dimenticare di portare avanti le sottotrame legate agli altri protagonisti della serie. Dopo l'ultimo saluto a Roger, ad Abe viene recapitato un pacco contenente un oggetto appartenuto a Langdon Caul, al suo interno una mappa sulla quale è evidenziata la località di Balikpapan in Indonesia. È così che, senza nessun indizio preciso, Abe si recherà in Indonesia alla ricerca del suo passato, accompagnato da un ignaro Daimio che nel frattempo sta tentando di esorcizzare i suoi demoni tramite sedute molto dolorose condotte da una specie di guaritore asiatico. Alla sede del Bureau intanto Liz Sherman continua ad avere delle premonizioni funeste sulla fine del mondo mentre Johann Krauss, frugando negli archivi del Bureau, scopre un inquietante segreto sul passato di Daimio.

In Indonesia Abe Sapiens ritroverà i vecchi compagni, di cui non serba ricordo, che invece di esseri anfibi hanno attraversato le epoche in involucri metallici, un folle piano nelle loro menti e l'ambizione di tornare umani. Volume che si attendeva ormai da un po', nell'economia della serie il passato di Abe stava iniziando a diventare una presenza ingombrante, qui finalmente ben sviluppata e in parte risolta, ora è il passato di Daimo a preoccupare, la questione esploderà nel successivo volume: Campo di battaglia.

mercoledì 27 gennaio 2021

TOMMASO

(di Abel Ferrara, 2019)

È un piacere tornare dopo diversi anni al Cinema di Abel Ferrara, regista da sempre lontano da tutti i circuiti mainstream, piazzato in gioventù sul piedistallo che si riserva a quegli artisti meno acclamati di altri dal grande pubblico e anche per questo affascinanti, circondati da quell'aria maudit, capaci di andare controcorrente e regalare film forti all'interno dei quali è possibile scovare (e scavare) le debolezze dell'animo umano, le sue laceranti dipendenze alle quali lo stesso Ferrara per lungo tempo ha pagato pegno. In questo ambito Ferrara, a prescindere dagli invaghimenti giovanili di chi scrive, lascia testimonianze di altissimo livello, dopo l'esordio nel 1977 con il porno 9 lives of a wet pussy, il regista newyorkese (di origine campana) sigla alcuni film che con gli anni si sono ritagliati una certa fama, per ricordarne alcuni citiamo almeno The driller killer, L'angelo della vendetta, Fratelli, Kings of New York, The addiction - Vampiri a New York e il più celebre di tutti: Il cattivo tenente rifatto in epoca più moderna da Werner Herzog con Nicholas Cage al posto di Harvey Keitel, un remake che per ora mi sono rifiutato di guardare.

A più di vent'anni di distanza da quei film, con Tommaso ritroviamo un Abel Ferrara che ancora ci racconta le sue dipendenze, le sue difficoltà nell'affrontare la vita quotidiana, lo fa però mettendo da parte le metafore (i vampiri di The addiction per esempio) e portando in piazza, alla luce del sole, un sentito e sincero esame di coscienza con un film autobiografico nel quale il protagonista, il sodale Willem Dafoe, è semplicemente Ferrara in un corpo diverso, con un nome diverso, tanto che a recitare nei ruoli della compagna Nikki e della figlia DeeDee ci sono proprio la moglie di Ferrara, Cristina Chiriac e sua figlia Anna. La camera del regista riesce a restituire un'aura di veridicità al racconto nonostante lo spettatore sappia benissimo che pur nel narrare più sincero, inscenato con autentica aderenza ai fatti e massima onestà nelle intenzioni, nel Cinema sta la finzione, sappiamo che Dafoe non è realmente Ferrara, che lo sguardo dell'autore incide sul risultato, eppure entriamo in una storia quotidiana e la bolliamo come vera, aiutati forse dall'ambiente, una Roma quantomai alla portata del passante occasionale, del cittadino, lontana dai luoghi da cartolina nonostante qualche bello scorcio (è pur sempre Roma, sarebbe impossibile il contrario), nelle passeggiate di Tommaso, nei pomeriggi ai giardini con DeeDee, nelle soste nei bar del quartiere, emerge una semplice quotidianità abitata con grande naturalezza da un regista di successo (certo, non è Spielberg, ma comunque...).

Tommaso è un regista americano trasferitosi a Roma che sta lavorando alla fase di scrittura del suo prossimo film, le sue giornate passano tra i doveri di padre e di marito nei confronti della piccola DeeDee e della moglie Nikki e una serie di altre attività ricorrenti: il corso di italiano per imparare sempre meglio la lingua del paese delle sue origini, quello di recitazione che invece tiene come docente a un nutrito gruppo di giovani ragazze e ragazzi, gli incontri con gli alcolisti anonimi, forza trainante per mantenere l'impegno di non ricadere in dipendenze ormai sepolte nel passato, i momenti di meditazione e soprattutto i piccoli bisticci quotidiani con una moglie molto più giovane di lui, in cerca di un'identità precisa, di una forma di libertà che provoca in Tommaso preoccupazioni e gelosie.

Commuove la forte determinazione di Tommaso/Abel nel non ricadere negli errori del passato e nel dare a questa bambina tutto ciò di cui ha bisogno, soprattutto sotto il punto di vista della presenza, come a redimersi da vecchi errori fatti nei confronti di altre persone abbandonate in passato, Tommaso è uno scavo continuo nel momento, nella vita, nel susseguirsi dei giorni, per trovare un difficile equilibrio esistenziale che deve tener conto dei rimorsi, dei demoni interiori, delle gelosie, delle altrui necessità, dell'arte, dell'energia attraente del sesso (e delle altre donne) che qui si sostanzia in sequenze oniriche più che nel rapporto con una moglie bella e giovane ma spesso distante. Lo stile di ripresa adottato è quello di prossimità, siamo come spettatori molto spesso vicini a Tommaso, lo inseguiamo nelle sue passeggiate, nei suoi spostamenti, le scelte stilistiche di Ferrara ci proiettano dentro la storia, accanto ai protagonisti, è questa un'opera di una sincerità disarmante che non può che farci affezionare ancora un po' di più a un regista, meglio a un uomo, che anni fa era altro e che amavamo per i suoi vizi e che ora si lascia amare nel suo tentativo di abbandonarli e tenerli lontani. Come molti degli esiti del regista newyorkese anche questo Tommaso non è riuscito a catturare il grande pubblico, probabilmente un'opera del genere non è neanche troppo interessata a farlo.

lunedì 25 gennaio 2021

PIECES OF A WOMAN

(di  Kornél Mundruczó, 2020)

Kornél Mundruczó è un nome pressoché sconosciuto al grande pubblico sebbene Pieces of a woman sia già il suo ottavo lungometraggio. Mundruczó cesella almeno mezz'ora di grandissimo Cinema, maiuscolo, coinvolgente, tesissimo, seguito da un'ora e mezza di elaborazione della perdita in una delle opere più dolorose e sofferenti viste negli ultimi anni. Si apre con circa trenta minuti di pianosequenza durante i quali assistiamo, in maniera compressa ma con il dono della naturalezza, al travaglio e al conseguente parto di Martha (Vanessa Kirby); è un'immersione totale, la sequenza (meravigliosa) risulta carica di tensione, capace di trasmettere tutta l'agitazione, il dolore, la preoccupazione di questo parto pianificato per essere affrontato in casa alla fine del quale qualcosa purtroppo andrà storta, Martha e il suo compagno Sean (Shia LaBeouf) perderanno la loro bambina.

Sean di lavoro costruisce ponti, l'uomo è in agitazione per l'arrivo della sua prima figlia, insieme a Martha hanno deciso di far nascere la bambina in casa con l'aiuto dell'ostetrica Barbara con la quale hanno seguito il corso pre-parto. Quando arriva il momento e Martha rompe le acque, l'ostetrica di fiducia è purtroppo bloccata da un altro impegno, manda così a casa della coppia una collega esperta, Eva (Molly Parker), con la quale Martha porta avanti il travaglio fino alla nascita e alla conseguente morte per insufficienza cardiaca della bambina. Quando i soccorsi dichiarano il decesso della neonata sulla coppia si abbatte un muro di dolore e di sofferenza le cui ripercussioni cadranno prima di tutto su Martha, poi sul futuro della coppia, infine sulla famiglia d'origine di lei che tenterà di rifarsi su Eva.

Pieces of a woman è tanto bello quanto straziante, Vanessa Kirby offre una prova splendida che la porterà senz'altro alle candidature dell'Academy, luminosa e bellissima lungo tutta la durata del parto per poi andare a spegnersi nel dolore dei mesi successivi. La narrazione è cadenzata, l'inquadratura di uno dei ponti sui quali ha lavorato Sean, mese dopo mese, scandisce il tempo, i ghiacci del fiume sottostante si sciolgono mentre l'elaborazione del lutto da parte di Martha matura passo dopo passo, prendendosi tutto il suo tempo, facendosi strada nel dolore di una madre senza più figlia e che pezzo dopo pezzo perde i suoi punti di riferimento, buoni (Sean) o cattivi (la madre Elizabeth) che siano. Mundruczó compie un lavoro incredibile con il pianosequenza iniziale, non solo dal punto di vista tecnico quanto più che altro da quello emotivo, la partecipazione dello spettatore è altissima, quasi insostenibile, minuti memorabili che si stempereranno in una narrazione più classica nella parte restante del film, molto matura anche la prova di LaBeouf ma è la Kirby che compie qualcosa di davvero eccezionale. Seppur didascalico in alcune scelte simboliche (l'acqua appunto, l'ultima scena) la coppia formata da regista e sceneggiatrice (Kata Wéber, compagna di Mundruczó) compone tanti ottimi momenti, esemplare il discorso della madre Elizabeth (Ellen Burstyn, candidatura tra le non protagoniste?) che tenta di scuotere la figlia dal suo dolore rimembrando le sofferenze della nonna perseguitata dai nazisti, o quello del breve resoconto processuale in cui è coinvolta anche l'ostetrica (forse) negligente. La protagonista è chiamata a compiere il suo percorso senza lasciarsi influenzare da tutti gli elementi esterni pronti a dirle, magari a imporle, tramite quali scelte sia meglio affrontare il dolore, ognuno convinto di poter conoscere almeno parte della via verso la guarigione. Ma come "ha sentito dire" il cognato di Martha, Chris (Benny Safdie), "il tempo guarisce tutte le ferite", banalità, ma che sia davvero questa l'unica medicina per una ferita insanabile?

venerdì 22 gennaio 2021

ANTEBELLUM

(di Gerard Bush e Christopher Renz, 2020)

Quando si parla di film come Antebellum sorge sempre il dilemma di quanto raccontare e cosa anticipare, onde evitare il rischio di bruciare alcune svolte narrative a chi ancora deve approcciarsi alla visione: spiattellare più o meno tutto o tentare d'essere enigmatici? Odiando gli spoiler cercherò di seguire questa seconda via, in modo da non rovinare lo spettacolo a nessuno.

Siamo nel Sud degli Stati Uniti al tempo della Guerra di Secessione. Una grande residenza padronale troneggia sulle piantagioni di cotone; qui oltre a un cospicuo numero di schiavi neri è acquartierato un reggimento dell'esercito confederato. Le condizioni degli schiavi sono terribili, i soldati del comandante Jasper (Jack Huston) crudeli, gli uomini e le donne che tentano la fuga vengono picchiati selvaggiamente, marchiati a fuoco o puniti con la morte, a chiudere il quadro la barbara usanza di bruciarne i corpi in un casino di mattoni visibile a tutti. Non si risponde ai soldati, men che meno a Blake Denton (Eric Lange), maggiore autorità della piantagione, non si parla se non sotto diretto ordine dei sudisti, non si canta, non si comunica tra schiavi, non si ha diritto a stare male, si subisce senza nessun motivo e senza nessuna scappatoia possibile. Un'inferno di umiliazione ancor peggiore per le donne costrette a sottostare ai capricci e agli abusi dei soldati, la giovane e bella Eden (Janelle Monáe) viene scelta per allietare l'esistenza di Denton, in testa solo l'idea di fuggire senza però prendersi inutili rischi, Eden sa bene cosa questi comportino in caso di fallimento, ma l'impresa non è affatto semplice, la guerra sembra lontana, la piantagione isolata, delle giacche blu nemmeno l'ombra. La svolta inizia a prendere forma con l'arrivo di carne fresca, nuovi schiavi tra i quali c'è la giovanissima Julia (Kiersey Clemons), sarà proprio la sofferenza di Julia l'innesco per mettere in moto gli eventi e tentare finalmente la fuga.

Presente. Veronica Henley è una scrittrice di fama mondiale, paladina dei diritti dei neri, delle donne nere in particolar modo, porta avanti il suo impegno attraverso le sue opere e con le conferenze rivolte a un pubblico prevalentemente di afroamericani, discorsi mirati al risveglio e all'accantonamento dell'atteggiamento mite troppo spesso tenuto dalle vittime di discriminazione e di gesti razzisti, anche piccoli, ma continui, quotidiani, reiterati, capaci di volgere al peggio anche le giornate di una donna di successo come Veronica. Ovviamente la sua è una battaglia che diverse personalità bianche trovano scomoda e fastidiosa, gli impegni di Veronica si succedono fino a che una serie di strani eventi inizia a verificarsi intorno alla sua persona. Da qui la situazione precipita.

Antebellum è uno di quei film necessari nel contesto storico attuale, veicolo di sensibilizzazione che potrebbe andare di pari passo, insieme ad altri film similari, con il movimento Black Lives Matter, seppur imperfetto, se riuscisse a far passare il suo messaggio e a farlo entrare anche solo in una zucca vuota di quei razzisti che appestano l'America (e non solo) il film avrebbe svolto in pieno il suo compito, purtroppo ci crediamo poco. Dal punto di vista artistico Antebellum è un bel film, godibile, lo si guarda con piacere e curiosità anche se tirando le somme si ha sempre l'impressione che Gerard Bush e Christopher Renz abbiano attinto qua e là per costruire la loro storia. Senza troppo rivelare diciamo che il meccanismo sui cui è costruito Antebellum ricorda molto da vicino quello di un altro celebre film di un regista non americano che lavora a Hollywood (a voi indovinare di chi si tratta, anche se il parallelo è lampante), in genere il sapore di derivativo e già visto aleggia incombente, l'altro riferimento ovvio è quello alle due recenti opere di Jordan Peele, Scappa - Get out e Noi, il tema di fondo è lo stesso ma qui manca il talento di Peele, più ironico, più sottile, più strutturato sui generi (quello horror in particolare) indubbiamente più personale. Non mancano però i punti di forza, il pianosequenza iniziale introduce bene la vicenda con un crescendo drammatico enfatizzato dall'opening track dello score musicale, l'indignazione colpisce subito lo spettatore e non lo lascia più per l'intera durata del film (scopo raggiunto). Nel dipanarsi della vicenda la curiosità e la tensione tengono viva l'attenzione, le svolte nel plot non sono nuove ma comunque molto funzionali, i personaggi, protagonista a parte, forse un po' troppo monodimensionali (voglio sperare che, seppur razzisti e radicati in una società schiavista, i sudisti non fossero proprio tutti dei completi pezzi di merda), Janelle Monáe è molto brava (e davvero molto bella), a parte lei nelle scelte di casting non c'è nulla di davvero rilevante, teniamo conto però che trattasi sempre di un esordio nel lungometraggio per i due registi/sceneggiatori, in quest'ottica non si può che essere speranzosi per i prossimi progetti di questo duo ormai sdoganato verso produzioni importanti.

giovedì 21 gennaio 2021

I MORTI NON MUOIONO

(The dead don't die di Jim Jarmusch, 2019)

Fiumi d'inchiostro e cataloghi infiniti d'immagini hanno inondato e rielaborato gli zombi di Romero nel corso dei decenni, giunge ora il tempo anche per Jim Jarmusch di dire la sua sull'argomento, il regista di Akron sceglie di farlo giocando, divertendosi come un pazzo allestendo un film che è un coacervo di citazioni, trovate assurde e slanci metatestuali altrettanto bislacchi che vanno a comporre una storia che non amplia di molto il discorso, anzi, ma che non può che risultare dannatamente divertente. The dead don't die (che bello il titolo originale, provate a pronunciarlo ad alta voce) non presenta l'evoluzione di quegli zombi ormai assurti a metafora del tarlo del consumo, gli zombi di Jarmusch non sono l'evoluzione di quelli di Romero semplicemente perché questi zombi (noi) non si sono evoluti nemmeno un pochino, sono piuttosto una versione uguale a quella vecchia traslata nella realtà di oggi, esseri ciondolanti, ottusi e illuminati solo dalla luce di uno smartphone (emblematica fino al didascalismo la scena dei telefonini), in qualche modo pericolosi, l'assunto non è sottile né mascherato, Jarmusch ce lo spiattella lì, banalmente in evidenza, mentre è impegnato a cazzeggiare con la sua cricca di amici per costruire questo film completamente stralunato.

Centerville è una piccola cittadina con meno di mille anime ad abitarla, Cliff (Bill Murray) e Ronnie (Adam Driver) sono gli unici tutori della legge insieme all'agente Minerva Morrison (Chloë Sevigny), posto tranquillo, poco movimento per la coppia di pards se non per fare qualche controllo su presunti furti di polli da parte del vagabondo del paese (l'eremita Tom Waits, non poteva mancare). Alla radio, in televisione, inizia a diffondersi la notizia che le operazioni di fracking ai due poli della Terra stanno compromettendo l'equilibrio dell'asse terrestre, in contemporanea a Centerville (e presumibilmente in tutto il mondo ma noi non lo vediamo) iniziano a verificarsi strani fenomeni: il buio arriva sempre più tardi, gli animali si allontanano dal centro abitato, fino a che un paio di non morti, tra i quali un Iggy Pop ormai marcescente, saltano fuori dai loro fossi mietendo le prime vittime, con in testa una piccola ossessione per il caffè. Già prima di quest'ultimo episodio Ronnie capisce che "tutta questa storia non andrà a finire bene". Ognuno degli abitanti del paese affronterà il nuovo status quo con un piglio differente: Ronnie con una grande naturalezza mista a inconsapevole cinismo, Cliff è fatalista ma con un tocco di riguardo in più (ma non troppo), Minerva è l'unica giustamente spaventata e sconvolta, Bobby (Caleb Landry Jones), proprietario dell'emporio del paese, cerca di mettere a frutto le sue conoscenze da nerd cinefilo, supportato dal ferramenta Hank (Danny Glover) che ci mette l'attrezzatura. L'inquietante titolare dell'impresa di pompe funebri Zelda Winston (Tilda Swinton), novella Michonne albina, taglia teste a suon di katana, l'allevatore Miller (Steve Buscemi) riversa le sue rozze maniere, prima beneficio dei concittadini, sui caracollanti nuovi arrivati, e via di questo passo.

Jarmusch realizza un puro divertissement, ci mette dentro le canzoni che gli piacciono, persino il titolo è preso pari pari dal brano The dead don't die di Sturgill Simpson, chiama a raccolta i suoi amici tra i quali a Tom Waits, uno di quelli di più lunga data, è affidata la chiosa all'assunto del film, nel caso ci fosse tra gli spettatori qualcuno particolarmente distratto che non ne avesse colto il messaggio ("Che mondo di merda!"), innerva nel racconto citazioni a cose a lui presumibilmente care (su una delle lapidi del cimitero si legge il nome di Samuel Fuller) e offre un bel lavoro di regia scompigliando anche le carte di per sé già ben mescolate con l'aggiunta di autoconsapevolezza attoriale da parte di un paio di personaggi. Insomma, I morti non muoiono è un calderone dove ci finisce dentro un po' di tutto, ma Jarmusch è un cuoco esperto, originale e talentuoso, forse un po' matto, butta però sul piatto solo pezzi da novanta: Adam Driver con la sua presenza fisica atipica è perfetto per questa Centerville, Murray fa Murray e lo conosciamo, impagabile lo zombi di Iggy Pop che qui eclissa anche Tom Waits, Buscemi nel ruolo dello stronzo lamentoso è nel suo, la Swinton è indecifrabile e la Sevigny porta un tocco di sana normalità. Cast di gran classe (e ci sono ancora RZA, Selena Gomez, Danny Glover, Carol Kane), ottima confezione e approccio sufficientemente laterale per far guadagnare un posto di rispetto a I morti non muoiono nell'ormai infinita epopea dei morti viventi.

martedì 19 gennaio 2021

RICHARD JEWELL

(di Clint Eastwood, 2019)

Clint Eastwood porta avanti imperterrito la sua narrazione dell'eroe girando un film sulla narrazione di un eroe. Un eroe ordinario, come già accaduto in Sully con il quale Richard Jewell ha diversi punti di contatto, questa volta non un eroe colto, con un impiego di prestigio, ma l'eroe semplice, quello dei piccoli gesti faticosi, fatti giorno dopo giorno con naturalezza e una buona dose di ingenuità che i moderni potrebbero definire quasi cringe. Il fulcro di Richard Jewell è proprio la narrazione che i media fecero dell'eroe del momento, l'addetto alla sicurezza che in uno degli eventi collaterali alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 - il concerto al Centennial Olympic Park - si adoperò per far rendere inoffensivo un pacco sospetto che porterà poi alla morte di due persone e a un centinaio di feriti; senza l'intervento di Jewell con tutta probabilità il bilancio sarebbe stato decisamente più funesto. Con questo film Eastwood descrive un sistema d'informazione poco obiettivo, in cerca dello scoop facile, del boom di vendite o di ascolti, incapace di compiere scelte morali e pronto a tuffarsi su un'innocente come un branco di avvoltoi in vista dell'allettante carogna, ben accompagnato, braccio sotto braccio (anche se nel film il connubio passa attraverso ben altri particolari anatomici), da istituzioni ottuse, interessate e prive di dignità, perché si sa, a difendere il pollaio ogni tanto c'è il cane con la rabbia.

Richard Jewell (Paul Walter Hauser) è un giovane uomo con il pallino per le forze dell'ordine, il suo sogno sarebbe quello di entrare in un vero corpo di polizia, al momento si dedica ai lavori di sorveglianza che riesce a trovare. Jewell è un ragazzone sovrappeso, molto legato alla figura materna, gentile e puntiglioso, amante dell'ordine e delle istituzioni in maniera che spesso sconfina nell'imbarazzante e nel fastidioso, commette anche qualche errore nello svolgimento delle sue mansioni, tutto sempre in buona fede, con quell'idea fissa in testa di servire e proteggere il prossimo. Nel 1996 in occasione dei Giochi Olimpici organizzati ad Atlanta, Richard trova un impiego come addetto alla sicurezza agli eventi legati ai giochi olimpici, durante il concerto della band Jack Mack and the Heart Attack, Jewell trova un pacco bomba destinato ad esplodere, grazie al suo intervento le forze dell'ordine riusciranno a contenere le conseguenze di quella che poteva diventare una vera strage. Nei giorni successivi le indagini dell'F.B.I. condotte dall'agente Shaw (John Hamm) includono tra i sospetti proprio Jewell a causa della sua fissazione per la divisa e con l'idea del falso eroe in cerca di visibilità, linea d'indagine prontamente cavalcata (e non solo quella) dalla giornalista senza scrupoli Kathy Scruggs (Olivia Wilde), disposta a darla a destra e a manca pur di intascare l'informazione giusta e montare il caso. A pagarne le conseguenze saranno ovviamente Richard ma anche la sua devota madre (Kathy Bates) le cui vite verranno sconvolte dagli sciacalli della stampa e dalle iene dell'F.B.I. Richard, non sapendo a chi rivolgersi, chiede aiuto a Watson Bryant (Sam Rockwell), un avvocato conosciuto anni prima durante un suo precedente impiego.

Il Cinema di Eastwood continua il suo percorso nel solco di una narrazione classica inanellando l'ennesimo gioiello con un film che non riserva grandi sorprese ma che ha la capacità di indignare, quella di commuovere e anche quella di far godere allo spettatore un lavoro di regia impeccabile, con un occhio particolare sull'uso della luce e, non ci sarebbe nemmeno da dirlo, la giusta dose d'amore per la musica, anche questa volta Clint non perde l'occasione di approfittare del contesto, l'attentato al concerto, per farci ascoltare un po' di buona musica. Al centro di tutto il regista riesce a mettere un Paul Walter Hauser pressoché sconosciuto e immenso nella sua interpretazione, con Cathy Bates (candidata all'Oscar per il ruolo) e Sam Rockwell un tris d'assi davvero eccezionale, il protagonista, oltre alla somiglianza con il vero Jewell, porta al film tantissimo con la sua presenza, le movenze, un'espressività candida fino alla goffaggine. La denuncia è chiara, ancora una volta Clint crede nell'uomo e non nel sistema, il mito dell'eroe americano è ancora forte nel vecchio, e a noi piace che sia così, perché nonostante le scelte all'apparenza contraddittorie dell'uomo, quando guardi un suo film sembra di stare sempre dalla parte giusta, in maniera incredibile uno con le sue idee politiche diventa una sorta di guida morale, magia del Cinema, contraddizioni dell'uomo (inteso come specie), ciò che importa è che a novant'anni Clint riesca ancora a regalarci grandi film e grandi momenti di Cinema e a insegnarci come la dignità e l'onestà di un Paese spesso siano in mano a chi viene messo ai margini.

venerdì 15 gennaio 2021

THE AMAZING SPIDERMAN 1 E 2

(The amazing Spiderman di Marc Webb, 2012)

(The amazing Spiderman 2 di Marc Webb, 2014)

A posteriori, seppur abituati al Ragno di Tom Holland ormai ben inserito all'interno del Marvel Cinematic Universe, possiamo dire che anche questo Amazing Spiderman di Andrew Garfield non fosse poi affatto male. Il dittico di Marc Webb ha il pregio di presentare un Peter Parker parzialmente inedito sugli schermi, sia dal punto di vista caratteriale, sia per alcuni sviluppi di trama poco esplorati o mai visti nella precedente trilogia di Sam Raimi (e nemmeno in seguito). Viene sviluppata sull'arco dei due film la love story tra Peter e Gwen Stacy (Emma Stone), filologicamente più corretta a soddisfazione di chi conosce la storia editoriale dell'Uomo Ragno (come si è chiamato fino a qualche anno fa); tra i due attori c'è una bella alchimia e forse questa è la linea narrativa più riuscita e intrigante dei due episodi, più di quella legata alle origini del personaggio o a quella che esplora finalmente cosa è successo ai veri genitori di Peter, Richard (Campbell Scott) e Mary Parker (Embeth Davidtz). Marc Webb arriva infatti dal precedente 500 giorni insieme, commedia romantica che probabilmente il regista ha sfruttato come esperienza per costruire un ottimo storyarc legato al rapporto tra i due liceali che dona ai due Amazing un piglio da teen movie affatto disprezzabile, anzi, inoltre abbiamo per la prima volta un Peter decisamente più a suo agio con il ruolo da eroe e da subito più sicuro di sé, una versione del personaggio che guarda più a quella che ricordiamo ritratta dalle matite di John Romita Sr. che non a quelle del suo creatore grafico Steve Ditko. Un Peter più incline alla ribellione, più sofferente per tutte le incognite e le ferite lasciate aperte dall'abbandono dei genitori alle quali si aggiungeranno presto la tragedia per la morte dello zio Ben (Martin Sheen), il senso di colpa e la responsabilità nei confronti di Gwen e della zia May (Sally Field), madre sostitutiva alla quale Peter è legato profondamente.

Sul versante "avventura" tutto, fin troppo a dire il vero, ruota attorno alla Oscorp, l'azienda creata da Norman Osborn (Chris Cooper), le ricerche rivoluzionarie del padre di Peter, quelle che lo costrinsero a fuggire, nascono nei laboratori Oscorp, ed è lì che Peter acquisterà i suoi poteri di ragno, il ragazzo era lì per incontrare il Dottor Connors (Rhys Ifans), ex collega del padre e destinato a trasformarsi in Lizard, l'avversario del primo capitolo. Gwen è stagista alla Oscorp, ovviamente il proprietario è Norman il cui figlio Harry (Dane DeHaan) è stato in gioventù il miglior amico di Peter e che presto diverrà proprietario dell'azienda e, in questo universo, il primo Folletto Verde, e ancora nel secondo episodio il poco equilibrato impiegato della ditta, Max Dillon (Jamie Foxx), accidentalmente acquisirà la capacità di controllare l'elettricità divenendo Electro, mentre in un reparto segreto si stanno sviluppando nuove armi riconducibili facilmente a Octopus, l'Avvoltoio e infine Rhino (Paul Giamatti). Come si diceva, due capitoli forse un pochino troppo Oscorpcentrici!

Tecnicamente ho apprezzato parecchio la regia di Webb, ormai la tecnologia permette di fare di tutto, il rapporto tra Spider-Man e New York è molto ben sviluppato, anche su piccolo schermo le riprese creano qualche sbalzo di vertigine, immagino in 3d al cinema l'effetto che possa aver fatto, le sequenze tra i grattacieli sono altamente spettacolari, a volte fin troppo rapide, pecca un poco invece lo scontro tra l'eroe ed Electro sul finale del secondo capitolo, estetica troppo vicina a quella da videogioco, cgi non convincente fino in fondo in quest'occasione così come nella realizzazione di Lizard, personaggio sul quale probabilmente si poteva lavorare meglio. Riuscito il look dell'eroe, Andrew Garfield scapigliato è un bel Peter Parker, tornano finalmente i lanciaragnatele, si sente un poco la mancanza di un J. J. Jameson sbraitante, Sally Field oltre a essere un'ottima attrice è ben calzante nel ruolo di May Parker, in fondo nessun Marvel fan penso abbia mai fantasticato di andare a letto con la zia di Peter prima dell'arrivo della Tomei.

Probabilmente quella di Webb è stata la miglior gestione del privato dell'eroe mentre dal punto di vista puramente action i più recenti film dei Marvel Studios hanno una marcia in più, tra l'altro sembra che tutte e tre le incarnazioni di Spiderman possano tornare in un progetto comune, a me tutto sommato rivedere Garfield con il costume rosso e blu non dispiacerebbe.

lunedì 11 gennaio 2021

IL LABIRINTO DEL FAUNO

(El laberinto del fauno di Guillermo Del Toro, 2006)

Con un miscuglio di fantasy venato d'horror e un'ambientazione armoniosamente complementare a questa, calata nel racconto d'impianto storico (nella fattispecie siamo nella Spagna del franchismo, gli anni sono quelli della Seconda Guerra Mondiale) Guillermo Del Toro confeziona una bella fiaba nera, con una struttura e con dei personaggi che potrebbero facilmente affascinare anche il pubblico più giovane, però Del Toro, per non edulcorare quelli che sono stati anni durissimi per gli oppositori del regime, non lesina nella rappresentazione della violenza così che due o tre sequenze del film risultano effettivamente forti per i più giovani e il protagonista negativo, il Capitano Vidal, appare di conseguenza come un personaggio oltremodo crudele, odiato da tutti, forse anche da sé stesso, vero mostro, più delle creature mostruose che abitano il mondo fatato con il quale verrà a contatto Ofelia.

Il regime oppressivo in Spagna sta ormai conquistando tutto il Paese, in un piccolo villaggio ai piedi delle montagne si è acquartierato un contingente militare agli ordini del dispotico Capitano Vidal (Sergi López) in caccia di alcuni ribelli nascosti nei boschi circostanti. Il Capitano è in attesa dell'arrivo della moglie Carmen (Ariadna Gil), incinta del suo primogenito, e della figliastra Ofelia (Ivana Baquero) che la donna ebbe da un precedente matrimonio. Lungo il tragitto, durante una sosta, Ofelia si imbatte in uno strano totem dal quale fuoriesce un insetto che alla bambina sembra da subito una fatina. Una volta al villaggio, Ofelia rivede lo strano insetto e da questi viene condotta attraverso un portale nascosto in un mondo incantato dove incontrerà il fauno del titolo (Doug Jones) che le racconterà di come la bambina sia la reincarnazione della principessa Moana dandole istruzioni per poter ritornare nel mondo d'origine, cosa possibile solo dopo il superamento di tre prove. Così, mentre nel villaggio continuano le nefandezze del Capitano, gli scontri con i ribelli e la resistenza di alcuni abitanti rimasti fedeli agli uomini sulle montagne, Ofelia inizia a confrontarsi con la realtà di questo nuovo mondo, con l'ambiguità del fauno e con una serie di creature poco rassicuranti.

Il piglio dato dal regista messicano al film è quello della fiaba, i toni però sono parecchio cupi, le creature magiche inquietanti, lontane dall'essere gradevoli sia nei modi che alla vista, anche loro sono forse una prova da superare, una diffidenza da scavalcare per arrivare a qualcosa di degno che cancelli l'orrore del reale. L'impianto visivo è tanto inquieto quanto mirabilmente riprodotto, il look del fauno, quello delle fatine, quello della creatura con gli occhi sulle mani e in generale di tutte le scenografie più vicine al lato fantastico del film, riconducono a un aspetto oscuro della natura, tutti elementi che hanno valso al film ben tre statuette dell'Academy nelle categorie fotografia, scenografia e trucco, tutte ampiamente meritate, Il labirinto del fauno presenta uno stile visivamente coerente per l'intera durata del film che rappresenta buona parte della riuscita dello stesso. Quello che inoltre colpisce è la scelta del regista di non attenuare crudeltà e violenza in un prodotto che altrimenti sarebbe stato un'opera perfetta per ragazzi, l'ambiente storico poteva essere molto interessante anche per loro e il lato fantastico di sicura presa, invece Del Toro, come da lui stesso dichiarato, decide di mostrare l'orrore delle dittature per quello che è con la ferma intenzione di non tratteggiare personaggi indegni meno peggio di quel che furono i loro simili nella realtà. La sceneggiatura è semplice ma non manca di intrigare anche lo spettatore adulto, almeno quello predisposto al genere, indubbiamente aiutata dal comparto visivo. Nel complesso ne esce davvero un buon film che condanna le ideologie basate sul sopruso e dà modo a Del Toro di occuparsi di Storia sfogando tutta la sua passione per il lato fantastico della narrazione.

sabato 9 gennaio 2021

SICARIO

(di Denis Villeneuve, 2015)

Un thriller action di alto livello diretto da un regista che ha più volte dimostrato d'avere il piglio da autore vero, con Sicario Denis Villeneuve sigla un film duro, teso, disilluso nel mostrare l'arroganza impunita delle squadre speciali statunitensi impiegate nella lotta al narcotraffico, un mondo dove i mezzi non contano più niente, conta solo il fine, bene e male non sono più nemmeno le due facce della stessa medaglia ma ormai sono la stessa identica faccia (o feccia?). L'assunto è quello che dietro la necessità del "bene comune" o della "sicurezza nazionale" si nasconda ormai la dissoluzione di ogni principio di etica, morale, di lealtà e di legalità, e che tutto ormai sia concesso, chiara critica al sistema della gestione U.S.A. delle crisi in fatto di politica estera (ma anche quella interna non scherza) da parte di Villeneuve (canadese).

L'unità dell'F.B.I. di cui fa parte l'agente Kate Macer (Emily Blunt) è impegnata in un'operazione in cui è coinvolto un esponente del narcotraffico messicano, la retata rivela nella proprietà del malvivente un vero mattatoio e l'operazione si conclude con la morte di diversi agenti della squadra. Come reazione al duro colpo ricevuto, Kate accetta la proposta fattale dal suo superiore Dave Jennings (Victor Garber), quella di unirsi a una non ben specificata squadra speciale dedita alla lotta al narcotraffico che cerca elementi motivati da portare in azione, al comando l'enigmatica figura di Matt Graver (Josh Brolin). Quando il nuovo team si mette in moto Kate non conosce la loro destinazione, non conosce i suoi compagni tra i quali spicca il misterioso messicano Alejandro (Benicio Del Toro), men che meno è al corrente dello scopo delle azioni della squadra, inizia così a sentirsi semplice spettatrice in un contesto più grande di lei e che non comprende mai fino in fondo, scoprirà presto che la sua prima destinazione è Ciudad Juárez, uno dei posti più pericolosi al mondo, dove bisogna stare attenti a tutto, guardarsi dai criminali e non voltare mai le spalle nemmeno alle forze dell'ordine. La squadra è lì per rapire Guillermo Diaz (Edgar Arreola), un modo per arrivare al fratello Manuel (Bernardo Saracino) e tagliare così la testa di un grosso cartello del narcotraffico. Kate rimane sconvolta quando apprende i metodi della squadra: nessun rispetto della procedura, uccisioni come se piovessero, tortura, collusioni con elementi molto lontani dall'essere limpidi e specchiati e sprezzo per qualsiasi forma di legalità. L'unico appoggio su cui Kate può contare è quello del collega dell'F.B.I. Reggie Wayne (Daniel Kaluuya), ma il peggio deve ancora arrivare e per Kate l'intera esperienza sarà un modo di fare i conti con il mestiere che ha scelto di fare e con la realtà dei fatti.

Film meno "autoriale" di altre sue opere, ciò nonostante Villeneuve riesce a imprimere un marchio forte su questo Sicario, si vede l'attenzione al paesaggio e agli spazi che tornerà anche in Arrival, con poche inquadrature correlate alla descrizione dei protagonisti ti dipinge una Ciudad Juárez facendotela fare addosso dalla paura, come se fosse il nostro Inferno sulla Terra, mette in scena esercizi di stile riuscitissimi come la sequenza dell'assalto al tunnel messicano girata usando i visori notturni, bellissime le scelte cromatiche e la fotografia dell'intero film. Poi grande ritmo, ottima alternanza tra sequenze d'azione cariche di tensione e scavo sui personaggi, soprattutto sulla protagonista Kate, una donna che si rende conto che nonostante il suo lavoro all'F.B.I. ha visto solo la superficie della verità, di come viva in un mondo dove ogni nefandezza si può addomesticare nascondendola dietro una burocrazia cieca, dove i buoni e i cattivi non sono così distanti uno dall'altro e dove relazioni torbide che nascono sulla convenienza portano a lavorare fianco a fianco con il Diavolo, o con uno dei tanti diavoli possibili.

Ottimo ritmo, film compatto senza cadute di tono, un Benicio Del Toro che dimostra ancora una volta di essere un attore di razza, qui un gradino sopra gli altri se non due, bravissimo anche Brolin in un ruolo da vero bastardo, in generale un ottimo cast e una sceneggiatura ben calibrata. Se cercate un action intrigante con una marcia in più Sicario potrebbe essere la scelta giusta.

venerdì 8 gennaio 2021

SANPA - LUCI E TENEBRE DI SAN PATRIGNANO

(di Gianluca Neri, 2020)

Ormai anche i muri sapranno di Sanpa grazie alla massiccia campagna di marketing lanciata da Netflix per questa produzione, un battage pubblicitario capace di far passare in secondo piano tutti gli altri prodotti della piattaforma lanciati in questo periodo, compresa la serie in costume Bridgerton. Sanpa è un documentario costruito secondo gli stilemi classici della non fiction: narrazione cronologica, immagini contemporanee affidate alle interviste ai protagonisti che nel bene e nel male hanno vissuto sulla loro pelle, oltre a quella della tossicodipendenza, l'esperienza della nascita e dello sviluppo della comunità di recupero più grande d'Europa, in alternanza tantissimo materiale di repertorio, sia quello istituzionale dei tg dell'epoca e delle riprese dei vari processi che il fondatore Vincenzo Muccioli ha dovuto affrontare nel corso degli anni, sia quello tratto da fonti diverse come i filmati girati da Red Ronnie, amico e accanito sostenitore di Muccioli.

Sanpa si concentra molto, quasi totalmente, sulla comunità e sui suoi occupanti, strutturato su cinque episodi da circa un'ora l'uno manca forse, soprattutto in partenza, di un più completo quadro d'insieme, superfluo per chi come me ha vissuto e ricorda gli anni di massima diffusione nelle strade dell'eroina, potenzialmente utile per chi è arrivato dopo e che magari avrebbe gradito un'introduzione più approfondita sul contesto sociale. Poco male comunque, una volta entrati nella narrazione la documentazione è molto completa, variegata e di massima imparziale, viste le ambiguità sulla gestione della comunità che verranno presentate nel corso del documentario, l'ideatore Gianluca Neri e il team di sceneggiatori che stanno dietro Sanpa si adoperano per equilibrare al meglio le voci pro e quelle contro l'operato di Muccioli e quello dei suoi più stretti collaboratori. Ma di cosa parliamo con precisione?

Siamo al pionerismo della lotta alle tossicodipendenze, piaga sociale in ascesa rapidissima, Stato assente e imbambolato che non sa nemmeno da che parte guardare. Fine anni 70, Vincenzo Muccioli fonda una piccola comunità di recupero in una proprietà della moglie nelle campagne della provincia di Rimini. Grazie all'aiuto economico della famiglia Moratti, di Gianmarco e Letizia in particolare che a Muccioli rimarranno sempre vicini, la comunità cresce e cerca la via per una sua indipendenza, potendo contare sulla presenza carismatica di un leader veramente capace di trattenere i giovani in dipendenza e portarli su una strada diversa, con tanto amore, grande personalità, e quando serve con metodi più duri e coercitivi, con un atteggiamento che per Muccioli sembra sinceramente essere quello del "buon padre di famiglia" che per il bene di un figlio non esita a rifilargli due lecche a fin di bene per evitare danni ben peggiori, e quelli causati dall'eroina li conosciamo tutti. La comunità poi cresce, aumentano gli ospiti, iniziano le collaborazioni con organi regionali e di Stato, vengono fuori i primi malumori legati ai metodi rieducativi (le famose "chiusure" con le catene) che indignarono parte della stampa e degli organi di giustizia ma, attenzione, non le famiglie dei ragazzi ospiti, non le madri e i padri che sapevano che vedere uscire il figlio da quella comunità avrebbe significato probabilmente vederlo morire, magari per strada, nel lercio, con un ago ficcato in un braccio, perché così accadeva in quegli anni. Quelle stesse madri e quegli stessi padri sostenevano che per veder salvi i propri figli, due schiaffi e qualche giorno in catena potevano essere più che accettabili. Passano gli anni, San Patrignano cresce e cresce, i ragazzi salvati dal tunnel della droga aumentano, diventano centinaia e centinaia, Muccioli è ormai una delle personalità più importanti d'Italia, un santo, un guru, e qui le cose iniziano a sfuggire un po' di mano, Muccioli inizia a delegare, a non seguire più i suoi ragazzi in prima persona, non è più possibile, la fama magari da un po' alla testa anche a lui, i metodi coercitivi continuano ad esserci ma i delegati non sono sempre in grado di gestirli e applicarli nella giusta misura. Alla fine ci scappa il morto, più d'uno in realtà.

Il resoconto dei fatti è corale, grazie alle immagini di repertorio sentiamo la stessa voce di Muccioli ampiamente documentata, tra le interviste più significative quelle a Walter Delogu (papà della conduttrice Andrea nata e cresciuta a San Patrignano), ex tossicodipendente ospite della comunità prima, autista e braccio destro di Muccioli poi, quella del figlio di Muccioli, Andrea, quella all'attuale medico di San Patrignano (uno dei tanti) Antonio Boschini, ospite della prima ora e sempre rimasto in comunità, e ancora Red Ronnie, Fabio Cantelli, prima ospite poi responsabile alle pubbliche relazioni della comunità e ora vicepresidente del Gruppo Abele, e ancora giornalisti, giudici, altri ragazzi che sono riusciti a venire fuori dalla dipendenza grazie alla comunità. Molto sentite le testimonianze delle famiglie di chi a San Patrignano ha perso la vita in circostanze quantomeno torbide o chiaramente criminose, il riferimento è al brutale omicidio di Roberto Maranzano e al suicidio molto sospetto di Natalia Berla.

Il grande pregio del documentario, oltre alla sufficiente completezza, è l'espressione in egual misura dei due schieramenti, quello a favore dell'operato di Muccioli e della comunità, quello che ne condanna i metodi e che incolpa il suo fondatore delle vite perdute al suo interno. Alcune testimonianze sono oltremodo oltranziste, quella di Red Ronnie ad esempio, in fondo a non aver mai un dubbio, anche di fronte a fatti gravi, l'idea di un filo d'ottusità (sicuramente in buona fede) la si trasmette, ma anche nel pensare che Muccioli non fosse sempre stato sinceramente interessato alla sorte di questi ragazzi probabilmente si sbaglia. Qualcosa è accaduto, qualcosa è andato storto, questi sono fatti. Sanpa lascia la libertà allo spettatore di decidere di chi siano state le colpe e se queste ci siano state. Si riflette anche sull'importanza della comunità, brutti episodi certo, ma anche tantissime vite salvate, cambiate in meglio, recuperate. Ognuno è libero di tirare le somme, forse gli autori un loro indirizzo l'avevano, ogni tanto c'è l'impressione che questo traspaia, ma nel complesso la narrazione appare equilibrata, un equilibrio che mi sembra ben rappresentato in particolare dalla testimonianza di Cantelli più di altre, che sembra davvero pesare in maniera sofferta ogni parola e accogliere con sincerità il buono e il brutto che questa esperienza ha portato.

mercoledì 6 gennaio 2021

COSMOPOLIS

(di David Cronenberg, 2012)

Cos'è il capitale? Quello vero, enorme, capace di muovere intere economie, influenzare la vita di migliaia di persone, creare sconvolgimenti globali, tagliare le gambe a intere popolazioni a vantaggio di pochi uomini; cos'è? È una cosa reale? Lo si può toccare? Lo si può tradurre? Comprendere? Controllare? Per molti è una spada di Damocle, l'ago della bilancia, per qualcuno non è nulla, una piccola sfida, uno sfoggio di abilità, una serie di numeri digitali in rapido scorrimento sulla superficie di uno schermo. Difficile da inquadrare. Allo stesso modo è difficile inquadrare Cosmopolis di David Cronenberg, oggetto parecchio atipico nella narrazione moderna (quindi interessante) pur essendo un prodotto costruito in maniera lineare, la sensazione che si prova guardando questo film è quella di star osservando righe di testo, stringhe di segni convertite in immagini, questo pur non avendo letto il Cosmopolis di DeLillo dal quale il film è tratto, aiutati magari dal fatto di conoscerne un poco la prosa; la visione in qualche modo che non è facile spiegare, trasuda l'origine letteraria adducendo il lettore (ops... lo spettatore) a pensare che l'esperienza più appagante sia altrove, proprio tra quelle pagine composte da DeLillo pur rimanendo l'opera di Cronenberg un'esperienza appagante e coinvolgente nonostante la freddezza di alcuni dei personaggi descritti.

È una giornata complicata per New York, il Presidente degli Stati Uniti è in visita alla città, aumento dei controlli, traffico bloccato, in contemporanea si sta tenendo il corteo funebre di una star del rap con tanto di codazzo di fan che contribuisce a ingolfare le strade di Manhattan, a complicare la situazione una manifestazione estesa di un movimento anti capitale che si riversa nel caos preesistente. In questo contesto Eric Parker (Robert Pattinson), miliardario dirigente di uno dei colossi capaci di influenzare web e capitali impossibili da pensare, decide di attraversare la città a bordo della sua infinita limousine bianca per farsi aggiustare il taglio dal suo barbiere di fiducia. Durante l'eterno tragitto sulla limo si svolgono briefing più o meno inerenti al lavoro, discussioni pseudofilosofiche, esplorazioni mediche rettali, sessioni di sesso, analisi sul rischio che l'andamento dello yuan cinese mandi gambe all'aria un'impero economico e qualche sprazzo di vita vera che porterà Parker all'esterno dell'auto, incontro a una moglie che praticamente non conosce, alla normalità di una colazione al bar, verso un destino forse ineluttabile e di difficile decifrazione, le voci di un gesto eclatante si rincorrono, proprio in quella giornata, ma la prudenza espressa dal capo della sicurezza (Kevin Durand) non viene recepita da Parker, no, lui deve aggiustarsi il taglio.

È un film da interpretare Cosmopolis, Parker, interpretato da un Pattinson molto in linea con il ruolo, potrebbe essere l'ennesima disamina di Cronenberg sull'uomo, in questo caso sulle derive che questo può alimentare a livello sociale, Parker potrebbe essere metafora dell'implosione del capitale, un'implosione devastante capace di annichilire il capitale stesso ma riversare le conseguenze del disastro in altre direzioni, il confronto con il personaggio interpretato da Paul Giamatti sul finale funge da aspro contrappunto tra sconfitti e quelli che all'apparenza sembrano i vincitori, che si sentono impuniti, impunibili. Ma sarà veramente cosi? Parker appare inviolabile, impassibile nel caos totale della vita, protetto all'interno della sua limo intoccabile, per lui la vita prosegue nonostante i rovesci, le sommosse, i disastri, un piccolo puntino inamovibile in un mondo di dolore. I manifestanti devastano la città intorno a lui e lui si fa un bell'esame della prostata. Non semplice da inquadrare come si diceva prima, Cosmopolis offre molti spunti di riflessione, nel cast in ruoli di supporto compaiono anche Juliette Binoche e Mathieu Amalric, entrambi in ruoli brevi ma significativi. In definitiva Cosmopolis esprime meno potenza di altre prove di Cronenberg anche recenti, rimane un film molto interessante nelle tesi che propone.

lunedì 4 gennaio 2021

LA MORTE CORRE SUL FIUME

(The night of the hunter di Charles Laughton, 1955)

Charles Laughton si forma come attore sulle assi dei palchi dei teatri inglesi per passare al Cinema già dai primissimi anni 30 del secolo scorso, poco tempo dopo, siamo nel 1933 per la precisione, ha già vinto l'Oscar come miglior attore protagonista per Le sei mogli di Enrico VIII di Alexander Korda, lavorerà in quegli anni e in seguito con registi grandissimi, da Cecil B. DeMille a Leo McCarey, da Alfred Hitchcock (si ricorda la sua interpretazione ne Il caso Paradine) a Jean Renoir, e ancora Robert Siodmak, David Lean e Otto Preminger con il quale chiude la sua carriera nel 1962 con Tempesta su Washington. Nel mezzo l'indimenticabile ruolo cucitogli addosso da Billy Wilder per l'avvocato di Testimone d'accusa (altra nomination, la sua terza, superato questa volta da Alec Guinness per Il ponte sul fiume Kwai) e la partecipazione allo Spartacus di Stanley Kubrick. Nel 1955 si concede la sua prima e purtroppo unica prova alla regia con questo La morte corre sul fiume tratto dal libro di Davis Grubb The night of the hunter, il film non ottiene il successo sperato (e che meritava) stroncando sul nascere la carriera da regista di Laughton che nei suoi programmi aveva già un adattamento per lo schermo da Mailer, La morte corre sul fiume però cresce con il tempo diventando un film di culto recentemente segnalato da Mereghetti addirittura come "il film della vita" e consegnando alla storia del Cinema la prova di un Robert Mitchum in un'interpretazione decisamente originale e caricata, a delineare un protagonista del tutto peculiare.

Virginia anni 30, Harry Powell (Robert Mitchum) è un predicatore itinerante, serial killer di vedove alle quali punta a sottrarre averi e risparmi. Passato un periodo di detenzione per un reato minore in compagnia del condannato a morte Ben Harper (Peter Graves), Powell viene a sapere che questi a casa ha lasciato moglie e due figli ma soprattutto, nascosto da qualche parte, l'ingente bottino del suo ultimo colpo. Uscito di galera il predicatore assassino porta "consolazione cristiana" alla vedova Willa (Shelley Winters) e ai piccoli John (Billy Chapin) e Pearl (Sally Jane Bruce), il suo intento è ovviamente scoprire dove sono i soldi e ben presto questo predicatore tanto affascinante quanto squilibrato si convincerà che gli unici a essere a conoscenza del nascondiglio del denaro siano i due bambini. Powell riuscirà così a farsi sposare dalla vedova Harper e a farsi ben volere da parte della comunità locale lavorando in parallelo sui due ragazzi, intimorendoli e minacciandoli fino a che i due bambini fuggiranno su una barca prendendo la via del fiume. A proteggerli e a contrapporsi alla minaccia del predicatore si ergerà la vecchia Rachel Cooper (Lillian Gish), una sorta di forza del bene disinteressata e altruista che diventerà l'unico rifugio possibile per i due bambini.

Quello che colpisce di La morte corre sul fiume è la difficoltà a cui si va incontro volendolo catalogare, è un film strano, indubbiamente presenta elementi del thriller ma anche un protagonista negativo quasi surreale nella sua follia e nel modo di presentarsi alla gente, accecata (sembra dirci Laughton) da una fede non lucida che facilmente sfocia in isteria come esplica in maniera chiara una delle scene di massa sul finale. Inoltre, come già detto da più parti, si fonda su elementi mutuati da strutture riconducibili alla fiaba nella contrapposizione tra un elemento portatore del male (Powell) e uno alfiere del bene (Rachel Cooper), dicotomia netta usata innumerevoli volte anche in opere posteriori di grande successo, i primi a venirmi in mente Randall Flagg e Mother Abigail de L'ombra dello scorpione ad esempio. Visivamente sublime grazie alla fotografia di Stanley Cortez, da questo punto di vista il film guarda alle correnti espressioniste con immagini delineate, precise, in un'alternanza luce buio meticolosa, ancora un'ulteriore dicotomia che richiama quella delle due mani di Mitchum, la destra con su tatuata la parola LOVE e la sinistra a mostrare la parola HATE, contrasto sul quale il folle predicatore basa il pezzo forte del suo sermone accalappia creduloni. Mitchum offre una prova memorabile, assolutamente sopra le righe, alcune immagini con protagonista il suo personaggio rimangono impresse nella memoria, ottimo contraltare Lillian Gish, già star all'epoca del muto, in curriculum innumerevoli lavori per Griffith e una carriera durata settantacinque anni (sì, avete capito bene, 75, lo scrivo anche in cifre perché non ci si crede). Pur contenendo tutti questi elementi all'apparenza disarticolati, quel che ne viene fuori è un film unico e da conservare, chissà cosa avrebbe potuto ancora offrirci Laughton dietro la macchina da presa se questo film non si fosse rivelato un flop al botteghino, purtroppo non lo sapremo mai, a noi non rimane che rivedere di tanto in tanto La morte corre sul fiume e correre con la fantasia.

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