mercoledì 31 marzo 2021

IL MINESTRONE

(di Sergio Citti, 1981)

Maestro: la fame si sente, non si vede. Come un'altalena invisibile, va e viene, va e viene. Quando mangi se ne va via, quando caghi ritorna.
Giovanni: furba eh? Sta lì ferma e nessuno le dice niente. Va e viene, va e viene.
Francesco: scusate maestro, qui state parlando con un esperto. Non sono d'accordo che la fame va e viene. La fame è una malattia. Viene e non se ne va più.
Cameriere: sì, è vero. È... come un documento, una carta d'identità, un passaporto.
Maestro: la fame è come l'anima.
Giovanni: che ci lascia dopo morti.
Francesco: ando' stà la fame? Si l'acchiappo me la magno a mozzichi, ndo sta', ndo s'è nascosta?
Giovanni: sta qua, sta tutta qui dentro, e nun esce sta carogna! E nun c'è niente per farla uscire.
Maestro: basta mangiare.
Giovanni: che? E che se magnamo?

Il cinema della fame. Forse al giorno d'oggi il cinema della fame non si fa più, almeno nei paesi occidentali, questo è cinema che nasce dalla fame e rappresenta la fame per la fame, dove il cibo non è metafora di un capitalismo che sprona il consumo smodato (La grande abbuffata di Ferreri) o di potere (anche se qualche accenno a questi paralleli in almeno una sequenza è anche qui presente), questo è il cinema che segue quello dei borgatari di Pasolini, straccioni e accattoni, gli affamati de La Ricotta, episodio sempre pasoliniano di Ro.Go.Pa.G., gente che deve in qualche modo mettere insieme pranzo e cena e spesso non ci riesce a causa di una condizione sociale ai margini. Sergio Citti arriva proprio dal cinema di Pasolini, sceneggiatore di Accattone e Salò, poi attore, passa dietro la macchina da presa sul nascere dei 70 con Ostia, il discorso sulla fame torna in altri momenti della sua filmografia, basti pensare alle sequenze di Casotto con Proietti e Franco Citti (fratello del regista) affamati oltremisura; ne Il minestrone, lungo presentato dalla Rai diviso addirittura in tre puntate e ora disponibile su Raiplay, torna anche quella visione itinerante del cinema, lo scenario che passa dalle borgate romane che pretendono d'esser mostruosamente moderne alle campagne, e via via verso altre regioni, gli orizzonti qui si ampliano oltremisura alla ricerca di un rimedio alla fame che porterà i protagonisti dalle periferie di Roma fino alle vette della Valsugana. Ma la fame è un mostro, come si sconfigge un mostro che torna e torna e torna? Come da dialogo in apertura la fame è come l'anima, te la porti dentro, non te ne puoi separare, la puoi lenire momentaneamente e subito rieccola, non c'è rimedio, l'unica è mangiare! Si, ma che? Che se magnamo?

Francesco (Franco Citti) e Giovanni (Ninetto Davoli) sono due poveracci della periferia romana, rovistano nell'immondizia per trovare qualcosa da mangiare, incappati insieme in diverse disavventure finiscono in cella dove faranno la conoscenza di un altro miserabile che prenderanno a chiamare il Maestro (Roberto Benigni), uno vestito bene, dai modi più raffinati e che gira tutti i ristoranti e le trattorie di Roma facendo il vento, cioè scappando prima dell'arrivo del conto. Rimessi in libertà i tre tenteranno d'applicare gli insegnamenti del Maestro ma riempire la pancia rimarrà impresa ardua. Finiti accidentalmente in Toscana i tre inizieranno un viaggio itinerante allo scopo di lenire la fame, alla piccola combriccola si unirà prima un cameriere maltrattato (Fabio Traversa), poi via via il gruppo si farà più nutrito (ma solo di numero, tutti sempre a digiuno) e conterà su nobili decaduti, aspiranti suicidi e santoni improbabili (Giorgio Gaber). La fame li trascinerà fino all'estremo nord senza che questa venga mai placata.

Il minestrone è un road movie dove al posto del percorso di formazione dei protagonisti c'è la fame, pura e semplice, e tutti i tentativi frustrati di un gruppo di personaggi per metterla a tacere. Il film è divertente e si guarda con leggerezza nonostante la lunga durata, presenta inoltre un cast per quegli anni di tutto rispetto, oltre ai volti già noti grazie al cinema di Pasolini appartenenti a Franco Citti e Ninetto Davoli, c'è quel Benigni che ancora era un folletto anarchico della comicità, al tris d'assi si accompagna una schiera di comprimari di tutto rispetto tra i quali spicca la presenza sul finale di Giorgio Gaber, ennesimo affronto del destino alla scalcagnata combriccola, ma anche Daria Nicolodi da poco scomparsa, Pietro De Silva e Fabio Traversa. Sergio Citti ci mostra la miseria e lo squallore, anche tra le meravigliose colline toscane ci si imbatte in discariche, casolari abbandonati, depositi di pneumatici, nei confronti del cibo c'è quella voracità disturbante che può repellere lo spettatore abituato allo stomaco pieno, il gruppo squinternato acquisisce caratteristiche giullaresche man mano che si ingrossa andando a creare una piccola armata in marcia per conquistare non territori ma un pasto, caldo o freddo che sia. Dai protagonisti affiorano squarci di poesia popolare, filosofia delle borgate, il miraggio di una condizione migliore permane, permane e viene svilito da una realtà dove alla fine non si mangia e, a voler forzare un parallelismo con l'odierno, anche da una società dove non c'è (più) da "mangiare" per tutti. Opera meritoria, surreale, purtroppo sommersa e nuovamente visibile grazie a Fuori Orario, che sposta un po' più avanti nel tempo il discorso iniziato da Pasolini, offre opportunità di ripensare alle disparità ancora vive nella società moderna in relazione alle necessità primarie, lo fa permettendoci di poter ridere anche su quella stronza della fame!

domenica 28 marzo 2021

OVER THE MOON - IL FANTASTICO MONDO DI LUNARIA

(Over the Moon di Glen Keane, 2020)

Over the Moon è uno dei cinque titoli in corsa per aggiudicarsi la statuetta come miglior film d'animazione nella serata di premiazione degli Oscar 2021. Probabilmente manca ancora qualcosa per poter sperare di stare alla pari con il colosso Pixar che quest'anno è candidato con ben due produzioni: Onward e soprattutto l'ottimo Soul, ciò nonostante il film diretto da Glen Keane lascia trasparire diverse buone qualità, in particolar modo nella prima parte del racconto, qualità che fanno ben sperare per il futuro della casa di produzione del film. Il Pearl Studio nasce come costola asiatica con sede a Shangai della Dreamworks Animation, tanto da essere conosciuto in origine con il nome di Oriental Dreamworks, in principio si occupa di distribuzione sul mercato asiatico di alcuni prodotti cinematografici per passare poi a vere e proprie co-produzioni con la Dreamworks di film di successo come Dragon Trainer 2, Kung Fu Panda 3, Home e I Pinguini di Madagascar. Dal 2019 lo studio realizza le sue prime produzioni originali delle quali questo Over the Moon è la seconda uscita, preceduta dal film Il piccolo Yeti, vero e proprio esordio del Pearl Studio che conta almeno altri tre progetti in cantiere per il prossimo futuro.

Over the Moon prende spunto da una leggenda cinese con protagonista la dea della Luna Chang'e, la leggenda originale viene qui rielaborata in modo da adattarla alle esigenze del copione, in questo passaggio sta uno dei difetti del film in quanto la vicenda della dea e il lavoro fatto sul carattere del personaggio e sul suo comportamento non sono chiarissimi, assilli questi che comunque poco interesseranno al pubblico più giovane. I genitori della piccola Fei Fei raccontano spesso alla loro bambina la storia di Chang'e, una leggenda che narra l'amore eterno di quella che è diventata la dea della Luna per il suo amato arciere Hou Yi dal quale è stata costretta a separarsi da tempo e del quale Chang'e rimane eternamente in attesa (in realtà è un po' più complicata di così, ma tant'è...). Quando a causa di una malattia Fei Fei perde la mamma, la ragazzina dovrà abituarsi con il tempo a ritrovare una sua serenità, lo farà legandosi ancor di più al papà e alle tradizioni di famiglia come quella della preparazione dei biscotti della Luna, pezzo forte dell'attività di famiglia, un piccolo negozio con cucina annessa. L'equilibrio di Fei Fei si spezza nuovamente quando il padre le presenta una nuova amica, la signora Zhong, e il suo figlio pestifero Chin, nei quali la ragazzina vede un nuovo potenziale assetto familiare che non gradisce per nulla e che interpreta come una sorta di tradimento nei confronti della madre, così Fei Fei si adopererà per trovare il modo di arrivare sulla Luna, così da dimostrare al padre come sia Chang'e sia l'amore eterno, anche in assenza, esistano davvero e siano realmente possibili.

La prima parte del film è a mio avviso la meglio riuscita, presenta un'animazione molto buona con un'attenzione particolare alle affascinanti location cinesi che poco ha da invidiare ai prodotti di più blasonati concorrenti, la presentazione dei personaggi e l'avvio della narrazione funzionano molto bene, un bel lavoro viene fatto nella caratterizzazione visiva dei protagonisti asiatici, l'impressione di immergersi in un'altra cultura appare naturale e gestita al meglio. Ci sono anche (pochi) sprazzi di ottima animazione più classicheggiante legati alla leggenda di Chang'e, viene rispettata la tradizione canterina di molto cinema d'animazione. Nel mondo lunare della dea invece l'impatto estetico cambia di colpo, tutto è coloratissimo e luminescente con toni accesi, fluorescenti, una marea di piccole creaturine che richiamano i biscotti della tradizione (e un sacco di altre cose) offrono una paletta cromatica arcobaleno di accecante intensità, aspetto questo meno interessante ma che potrà piacere ai più piccoli che potranno identificarsi non solo con la protagonista ma anche con il piccolo e simpatico Chin, uno che si è messo in testa di poter attraversare gli oggetti e d'essere un campionissimo di ping pong. Non eccezionale la gestione fatta con il personaggio di Chang'e caratterizzata in maniera un poco scostante. Non manca la morale sull'accettazione dell'amore, sempre, che questo arrivi o meno dai nostri consanguinei o da un modello di famiglia allargata; nulla di nuovo sotto il sole ma i mezzi per osare di più ci sono, il tempo per il Pearl Studio per diventare più ficcante anche, per quest'anno le speranze per l'Oscar sono poche, la Pixar è ancora diversi passi avanti, in futuro chissà...

venerdì 26 marzo 2021

ELEGIA AMERICANA

(Hillibilly elegy di Ron Howard, 2020)

L'ultima prova di Ron Howard è stata aspramente rifiutata da buona parte della critica d'oltreoceano che ha speso parole svilenti per Elegia americana adducendo tutta una serie di motivazioni rintracciabili facendo una semplice ricerca in rete anche solo dalla sezione note di Wikipedia. Il film rientra nel solco di una tradizione che più volte Howard ha percorso, affrontando un discorso di difficoltà e successiva affermazione che appartiene a molto cinema di stampo classico americano, non di certo solo al suo, e in questo non vedo dove stia lo scandalo, altri registi affrontano argomenti simili con alterni risultati, è un filone del cinema che esiste da sempre e che vedremo ancora in futuro, è vero che Howard non offre grandi soluzioni e picchi d'originalità nella messa in scena ma racconta una buona storia alla quale sono state mosse parecchie accuse in maniera forse un poco pretestuosa, Elegia americana nel complesso è un buon film che si guarda con molto piacere tra picchi più intensi e passaggi meno approfonditi ma che non necessariamente vanno a inficiare la narrazione di quella che a conti fatti è semplicemente una cronaca familiare (e null'altro vuole essere) tratta dal romanzo autobiografico di J. D. Vance.

Il film è strutturato su più piani temporali, J.D. (Owen Asztalos da bambino e Gabriel Basso da adulto) è un ragazzino che vive in Ohio con una famiglia a dir poco problematica, a inizio film ci racconta come adori tornare in estate nelle terre d'origine della sua famiglia, in Kentucky, da quel gruppo allargato di parenti e amici (gli hillibilly del titolo originale, bifolchi in pratica) magari non troppo istruiti ma sempre pronti a guardarsi le spalle l'un l'altro. Nel passato una nonna che adolescente incinta scappa col suo amato per trasferirsi in Ohio in cerca di una vita migliore, in una di quelle cittadine floride e in espansione grazie alla nascente industria, proprio quella che nel giro di due generazioni creerà disoccupati a migliaia, povertà, ignoranza, disagio e tossica violenza. J.D. cresce con una madre (Amy Adams) che non riesce a liberarsi dalle sue dipendenze dalla droga, incapace di ricoprire il ruolo genitoriale e dispensatrice di amore e disprezzo in egual misura, senza figure paterne stabili e con una nonna (Glenn Close) che tenta per quanto possibile di rimediare alle mancanze di sua figlia verso i nipoti, lo stesso J.D. e sua sorella maggiore Linsday (Haley Bennett). La vita è quella dura delle comunità rurali, tra disoccupazione, mancanza cronica di soldi e il miraggio di una mobilità sociale non così semplice da realizzare, per evidenti limiti materiali, a causa del pregiudizio e degli ostacoli che la stessa famiglia contribuisce a erigere sulla strada di chi un futuro migliore cerca di costruirselo sul serio, in questo caso J.D. spronato dalla nonna, studiando, arrivando al college, trovando una relazione soddisfacente e cercando un impiego, nella fattispecie in qualche ottimo studio di una città meno provinciale.

In una delle sequenze iniziali, una tra le più riuscite, Howard mette a confronto la prosperità delle cittadine industriali all'epoca di nonna Mamaw (Glenn Close), piene di promesse di benessere, con lo stato di fatiscenza e abbandono delle stesse con il quale mamma Bev (Amy Adams) e i suoi due figli sono costretti a confrontarsi nel presente. Sono quelle cittadine e quei destini che hanno trasformato gli americani delle zone rurali da vecchi democratici a trumpiani incattiviti, una delle critiche mosse a Elegia americana è stata quella di non approfondire mai il discorso politico che, questo è vero, rimane in superficie ma, come accennato poc'anzi, il film di per sé non ha l'ambizione di essere un film politico ma "solo" un racconto familiare di riscatto, tra l'altro in molti suoi passaggi affatto conciliante né conciliato, con un protagonista che più volte prova il desiderio di potersi affrancare da quella madre inadatta ed egoista, nonostante i legami familiari siano gli unici che secondo nonna Mamaw hanno tutta l'importanza del mondo. Apprezzate unanimemente le interpretazioni femminili con una Glenn Close sugli scudi in perfetta mimesi con la vera nonna dell'autore del libro da cui la storia è tratta, brava come sempre anche la Adams che però si è distinta in misura maggiore in altre occasioni, una bella scoperta il ragazzino che interpreta J.D. da giovane, meno interessante la sua controparte adulta.

Un bello (per modo di dire) spaccato familiare, sofferente, nato dalla miseria e da condizioni difficili, da una cultura legata alle grandi famiglie originarie della zona degli Appalachi (come testimonia la sequenza di foto a inizio film, bel ritratto storico), se si approccia il film con questo sguardo e non con la pretesa di trovarci a tutti i costi un trattato politico e sociale Elegia americana non sfigura nei confronti di altri film coevi candidati agli Oscar dove, per quel che si è potuto vedere sulle piattaforme, a parte il Mank di Fincher, non c'è nulla che in fondo svetti con forza dirompente. Caro Ron, non ti curar di lór ma guarda e passa.

giovedì 25 marzo 2021

SOUND OF METAL

(di Darius Marder, 2019)

Sound of metal nasce come progetto con basi vagamente autobiografiche da parte di Derek Cianfrance (Blue Valentine, Come un tuono) passato poi per motivi di forza maggiore al suo sodale Darius Marder con il quale il regista collaborò per la stesura della sceneggiatura di Come un tuono. Il film è un lungo, doloroso e difficile viaggio verso l'accettazione di un handicap con un protagonista che, ritrovatosi dopo un periodo di perdizione, si trova a rischiare nuovamente di perdere tutto, impotente di fronte a un'invalidità progressiva impossibile da arginare, dovrà affrontare dall'oggi al domani uno nuovo status quo che lo porterà a dover ricostruire da capo la propria esistenza potendo contare su pochi degli appigli di quella che ormai può considerare la sua vita precedente.

Ruben Stone (Riz Ahmed) suona la batteria, insieme alla sua ragazza Lou (Olivia Cooke) forma un duo metal in tour itinerante, i due si muovono e vivono in un camper adibito anche a sala prove, la loro vita è la musica, i progetti futuri, le speranze di realizzare qualcosa insieme; ma non mancano le ombre nelle giornate della giovane coppia, Lou mostra parecchi tagli sulle braccia, indice di qualche tipo di disagio, Ruben è un ex tossicodipendente ormai pulito già da quattro anni. Durante alcune date del tour Ruben inizia ad avere dei fastidi alle orecchie, prima un fischio, probabilmente un'acufene, poi una perdita progressiva dell'udito che repentinamente diverrà una forma di sordità pronta a esplodere proprio durante uno dei concerti, situazione aggravata dai ripetuti e forti stimoli ai quali Ruben ha sottoposto le sue orecchie per lungo tempo. Diagnosi inequivocabile, Ruben sarà costretto ad affrontare un percorso per reimparare a vivere, a comunicare, lo dovrà fare lontano da Lou, affidandosi alle "cure" di Joe (Paul Raci), un reduce dal Vietnam che gestisce una comunità per sordi con problemi pregressi di dipendenza e che prevede un programma di isolamento: niente telefono, niente visite e un fondamentale insegnamento da assimilare, cosa che non sarà affatto semplice per Ruben, quello che andrà ad affrontare non sarà un percorso di guarigione ma un viatico per iniziare a vivere in maniera diversa, accettando che ciò che si è perso non si recupererà mai più.

Il lavoro straordinario per Sound of metal è stato fatto sul sonoro, più che in ogni altro aspetto di un film comunque molto valido nel suo complesso. Sia gli effetti sonori veri e propri, sia le scelte di regia adottate da Darius Marder sono pensate per creare un'esperienza acustica identificativa per lo spettatore che quanto più possibile si troverà a provare le stesse sensazioni del protagonista, magari non quelle di paura e disperazione, ma certamente quelle legate alla perdita d'udito e allo spaesamento nel momento in cui crollano gli strumenti comunicativi con gli altri. Oltre al dramma dell'incertezza per un futuro stravolto (parliamo di un musicista che perde il senso portante per il suo lavoro) si riflette sull'importanza della comunicazione e sulle difficoltà nell'apprendere da zero nuovi linguaggi e di operare uno cambio di approccio, mentale ancor prima che fattuale, acuite da un senso di esclusione al quale un handicap improvviso può far nascere, con serie minacce all'equilibrio di chi vive situazioni di questo tipo. Consigliato l'ascolto in cuffia, Marder avvicina la camera a Riz Ahmed portandoci a contatto con il suo punto di vista, ci priva dei suoni, li confonde, li rende metallici, lontani, indistinti, ovattati, permettendo allo spettatore di vivere lo stesso stato di confusione e spaesamento del protagonista, ci lascia ad assistere a discorsi tra persone che usano il linguaggio dei segni, senza appigli, senza modo di capire cosa i personaggi sullo schermo si stiano dicendo, così si inizia a capire, senza tante spiegazioni, si arriva a un grado più alto di immedesimazione, di empatia, poi la camera si allontana, propone un totale e si comincia di nuovo a sentire, le soluzioni adottate sono di una funzionalità brillante, non per niente il film è candidato all'Oscar per il sonoro e a quello per il montaggio (ma anche a miglior film, che non vincerà, sceneggiatura non originale, protagonista e non protagonista). L'immagine è molto reale, poco costruita, in taluni passaggi il film dà l'idea della piccola produzione, anche la sceneggiatura non sembra una di quelle blindatissime, tutto scorre in maniera naturale, tra i dovuti ostacoli e i debiti errori per arrivare a una finale consapevolezza e accettazione della disabilità.

Esordio davvero interessante per Marder, probabilmente il lavoro di preparazione di Cianfrance ha dato una mano per il buon esito finale, ma sulla fiducia il regista lo si seguirà con attenzione, quasi certi che qualcosina nella notte degli Oscar il suo film raccoglierà.

martedì 23 marzo 2021

HELLBOY - STRANI LUOGHI

(Hellboy: Strange places di Mike Mignola, 2002/2005)

Come promesso, dopo la lunga cavalcata durata la bellezza di otto volumi dedicata al Bureau for Paranormal Research and Defense (il B.P.R.D.), torniamo a occuparci di Hellboy, il personaggio principale di quello che è ormai noto come Mignolaverse e che avevamo lasciato al termine del volume Il verme conquistatore in procinto di partire per l'Africa, pieno di dubbi sul suo destino e sull'operato dello stesso Bureau che senza troppi scrupoli nel corso di quell'avventura mise in pericolo la "vita" di Roger l'omuncolo, strano essere al quale Hellboy, come tutti i lettori, era ormai sinceramente affezionato. Nonostante entrambe le serie siano scritte da Mignola (con l'aiuto di Arcudi per quel che riguarda il B.P.R.D.) il cambio di atmosfera è marcato e palese, con Hellboy, nonostante la narrazione si svolga in parallelo ai fatti narrati negli ultimi volumi della serie del Bureau, sembra di fare un salto nel passato all'epoca del romanzo gotico, il tratto di Mignola è molto adatto a queste atmosfere lugubri e catapulta il lettore in un mondo più oscuro, minaccioso e greve dove l'aria di disastro incombente è stemperata dal solo Hellboy, sempre pronto alla battuta sagace e a sdrammatizzare ogni situazione, comprese quelle relative ai funesti presagi legati alla sua stessa mano destra.

Molto interessante la genesi della prima delle due storie contenute in questo volume (Il terzo desiderio e L'isola) pensata da Mignola parecchi anni prima con protagonista Namor il Sub-Mariner di casa Marvel, la vicenda si svolge infatti sul fondo dell'oceano, ma andiamo con ordine. Hellboy come da programma arriva in Africa al cospetto di un vecchio sapiente di nome Mohlomi che già da tempo è in attesa dell'arrivo del demone buono, tra leggende africane e supernaturali visioni, dall'Africa continentale lo strano duo si trova ai bordi dell'oceano dal quale Hellboy viene prontamente inghiottito, non prima però di essere stato fornito dall'anziano Mohlomi di uno strano amuleto protettivo. Sui fondali oceanici la strada di Hellboy incrocerà quella delle tre sorelle sirene e dei loro desideri, esposti in maniera malaccorta alla strega dell'acquitrino, un essere anfibio più che deciso a togliere di mezzo il Nostro, sempre a causa di quella vecchia profezia che indica la mano destra dell'affabile demone come portatrice di distruzione inarginabile. Tra chiodi conficcati nel cranio, catene d'ossa maledette, amuleti, lance di vecchi guerrieri e diversi rimandi alla continuity del personaggio (La bara incatenata e altre storie) Hellboy riuscirà a riemergere dal mare solo per finire sull'isola della seconda storia del volume, luogo dove si troverà di fronte, anche fisicamente, a ciò che le profezie dicono di lui, all'essere maligno e distruttivo che potrebbe diventare se corrotto dal male infernale, dall'influenza dell'Ogdru Jahad, demone del quale si narrano qui nel dettaglio le origini.

Hellboy è un fumetto di classe dalle dichiarate influenze letterarie, di folklore, imbevuto delle tradizioni di vari paesi, in questo volume si pesca dalle leggende africane, si cita Moby Dick, ci si ispira alla Sirenetta di Andersen e ai racconti di William Hope Hogdson, questo impianto molto classico discosta la narrazione da quella adoperata per la serie del B.P.R.D. donando vivacità a un universo condiviso nel quale è possibile trovare approcci diversi alla materia, entrambi molto validi. Amando i racconti corali per quel che mi riguarda l'allievo ha addirittura superato il maestro e trovo alcune avventure del B.P.R.D. più intriganti di queste dello stesso Hellboy che rimane comunque un personaggio magnifico. Mignola lavora molto sulla costruzione del presagio, del destino che Hellboy sarà chiamato a sfatare, si vedrà nei volumi successivi in che modo l'autore deciderà di portare avanti la vicenda.

A chiudere il volume ci sono le prime otto pagine di una precedente stesura de L'Isola, completamente disegnate e inchiostrate per renderle disponibili ai fan ma mai utilizzate per la storia in questione, chiudono alcuni sketch nei quali è possibile ammirare la matita "nuda" di Mignola.

domenica 21 marzo 2021

CAPTAIN FANTASTIC

(di Matt Ross, 2016)

Le utopie, anche al cinema, spesso finiscono con la loro distruzione o al limite con un drastico ridimensionamento, schiacciate dalla società costituita e dal confronto con essa, dal pensiero comune imperante che non lascia spazio ad alternative e ad altre esperienze destinate inevitabilmente a risultare fallimentari loro malgrado, nonostante si possa concedere loro validi principi e caratteristiche (magari non sempre tutte) virtuose. Nella fattispecie l'utopia è quella educativa, un tentativo estremo, in parte maldestro, per alcuni versi fin troppo autoritario tanto da inficiarne l'aspetto più nobile e libertario, di crescere i propri figli in maniera libera, a debita distanza dalla società "civile", dai suoi indottrinamenti, dalla barbarie del lavoro per il consumo e del consumo per il lavoro, dai suoi aspetti più dannosi e omologanti ma, per forza di cose, anche da una socialità necessaria per la formazione di ogni essere umano. Una bella sfida dalla quale uscire vincitori non è così semplice.

La famiglia Cash vive nei boschi dello stato di Washington, il padre Ben (Viggo Mortensen) e la madre Leslie (Trin Miller) hanno deciso di far crescere i loro sei figli a diretto contatto con la natura e di sostenersi con ciò che questa offre loro: i ragazzi così imparano a cacciare, a muoversi nella foresta, seguono con il padre un intenso programma fisico che permette anche al più piccolo di loro di sapersela cavare in situazioni di difficoltà. Detta così i Cash potrebbero sembrare una famiglia di selvaggi, invece oltre al rifiuto dei principi dettati dalla società del capitale e a fondamentali nozioni pratiche, i Cash sviluppano un'istruzione molto completa che prevede l'apprendimento delle più disparate discipline ma soprattutto l'esposizione e la condivisione dei propri pensieri in relazione a qualsiasi tema possa sollevare dubbi, un sistema d'istruzione alternativo e potenzialmente molto valido che ha come vessillo il rispetto e l'aderenza al pensiero di Noam Chomsky. Quando la madre, affetta da disturbo bipolare, vede aggravarsi le sue condizioni ed è costretta a un ricovero ospedaliero in Nuovo Messico, luogo d'origine e residenza dei suoi genitori, la responsabilità dei sei ragazzi rimane sulle spalle del padre, un uomo in aperto contrasto con il suocero (Frank Langella) che gli imputa la responsabilità di una scelta di vita così azzardata. Alla morte di Leslie la famiglia Cash dovrà lasciare i boschi per andare a porgere l'ultimo saluto alla donna, a bordo del loro bus chiamato Steve l'uomo e i sei ragazzi andranno incontro a una società che non conoscono e che disprezzano, ma ad alcuni di loro, per un motivo o per l'altro, questa auto esclusione dal mondo organizzato sta un po' stretta, i confronti saranno inevitabili, il compromesso anche.

Captain Fantastic affronta temi importanti con un piglio leggero e una forma che cerca consenso nonostante i discorsi sulla non omologazione, nulla di male, il film è molto piacevole, manca di andare troppo in profondità ma lambisce argomenti di interesse inseriti in una storia che si lascia apprezzare, condita da una bella fotografia, un uso ruffiano di musiche e costumi, siparietti divertenti, il tutto in una confezione studiata per piacere, e il film alla fine piace. Ancora una bella prova di Viggo Mortensen che cresce nella mia personale considerazione prova dopo prova, senza mai andare in overacting Mortensen riesce a calibrare al meglio anche personaggi come questo Ben Cash parecchio atipici, si gioca molto sul contraddittorio di un uomo che non vuole imposizioni da una società che disprezza ma che in qualche modo impone il disprezzo verso quella stessa società ai suoi figli, dando tanto, tantissimo, ma anche inconsapevolmente togliendo loro qualcosa: un'istruzione più completa per il maggiore Bodevan (George MacKey) così come le semplici esperienze di vita sul come rapportarsi con gli altri, con le ragazze per esempio, un'esistenza più a stretto contatto con la normalità o semplicemente con i nonni, cose che stanno molto a cuore al più ribelle Rellian (Nicholas Hamilton), la possibilità di godere più appieno della vicinanza della madre in un momento tanto difficile per le ragazze Kielyr (Samantha Isler), Vespyr (Annalise Basso), Zaja (Shree Crooks) e per il piccolo Nai (Charlie Shotwell). Centrale anche il tema della famiglia, all'interno del nucleo ristretto con i piccoli e grandi contrasti quotidiani, ma anche verso l'esterno, nei rapporti con i nonni dei ragazzi, con cugini e zii e in generale con una famiglia che non accetta lo stile di vita per loro sconsiderato scelto da Ben e Leslie per i propri figli, soprattutto verso quel padre che accusano anche di aver avuto una parte nel tracollo della moglie. Il film è infarcito di prese di posizione sulla religione, sul capitalismo, sul consumismo, sull'istruzione e su tutti i massimi sistemi disprezzati da Ben, non mancano su queste basi sequenze divertenti, altre più commoventi, senza che il film perda mai il suo tocco lieve. Il succo, ancora una volta, è che l'utopia può dare ottimi spunti, buone basi, ma che poi non regge al confronto con il mondo reale all'interno del quale però è possibile portare qualcosa di buono dell'utopia, nella speranza che un giorno venga recepito a più alti livelli. Probabilmente anche questa è un'altra utopia destinata a fallire o quantomeno a cedere il passo al compromesso.

giovedì 18 marzo 2021

IRINA PALM - IL TALENTO DI UNA DONNA INGLESE

(Irina Palm di Sam Garbarski, 2007)

Marianne Faithfull, pur essendo nota più che altro per la sua carriera da musicista, non si è fatta mancare nel corso dei decenni un rapporto privilegiato con la telecamera, sono diverse le pellicole alle quali ha partecipato a partire dal 1966, anno in cui esordisce per Godard, fino poi ad arrivare ai giorni nostri, ultima comparsa al cinema nel 2011 in Faces in the crowd. Nel 2007 esce questo Irina Palm, la Faithfull è una signora di sessant'anni che ancora non teme di misurarsi con argomenti scabrosi, insieme al regista Garbarski e al coprotagonista di questo film, il serbo Miki Manojlović, contribuisce a creare un'opera toccante che si lascia ricordare con piacere e che non manca di unire alla narrazione delle difficoltà di un ceto medio colpito dal destino avverso, una discreta dose di buoni sentimenti e una tendenza, mai troppo stonata, ad idealizzare i sentimenti e le situazioni anche negli ambiti dove non ti aspetteresti nulla di puro e di sincero. Passaggi magari non così probabili ma nemmeno impossibili aiutano la costruzione di una storia che non può lasciare indifferenti.

Sobborghi di Londra, la vita della comunità locale è quella del paesino con una media età non più giovanissima, l'emporio come punto di ritrovo, i pettegolezzi acidi mascherati sotto la coltre del perbenismo. Qui vivono, dopo aver venduto la casa di famiglia, Maggie (Marianne Faithfull) e nei pressi suo figlio Tom (Kevin Bishop) con la moglie Sarah (Siobhan Hewlett). La giovane coppia ha un bambino malato, ricoverato in un'ospedale di Londra in condizioni terminali, il ragazzino è molto legato alla nonna e la famiglia sta facendo tutti i sacrifici possibili per garantire le migliori cure al piccolo. Quando nasce un'ultima speranza grazie a una cura sperimentale da attuarsi in Australia, i genitori del ragazzo sono presi dallo sconforto, soldi non ce ne sono più e l'Australia è lontana, tutte le spese a sono a carico della famiglia. Maggie è l'unica a non perdersi d'animo, cerca un modo per racimolare dei soldi ma per lei le porte sono tutte chiuse: età avanzata, poca esperienza di lavoro, nessuna capacità particolare nei lavori manuali. Ma sarà proprio un lavoro manuale a ridare a Maggie la possibilità di prendersi cura del nipote, transitando per Soho la donna si imbatte in un'inserzione di lavoro sulla porta di un locale che ricerca hostess, ci vorrà poco a capire che per hostess si intende intrattenitrici in campo sessuale; dopo un'iniziale smarrimento e un sincero sdegno Maggie sente uscire dalla bocca del proprietario del locale, Miki (Miki Manojlović), le cifre che si possono guadagnare lavorando al glory hole, un cubicolo nel quale tramite un apposito foro le hostess masturbano i clienti. Dopo una comprensibile iniziale riluttanza, in fondo Maggie è sempre stata una signora per bene, Maggie prende letteralmente la mano con il nuovo mestiere, garantendosi un'entrata economica importante e l'affetto sincero di Miki, poco abituato ad avere intorno una signora come Maggie. Il problema sarà quello di tenere nascosto il nuovo impiego a famiglia e vicinato.

Nonostante il tema del film possa sembrare scabroso non c'è ombra di volgarità nella messa in scena di Garbarski né se ne trova in fase di scrittura, i toni della vicenda così come l'ambiente tratteggiato potrebbero per taluni versi ricordare il cinema di Ken Loach sebbene Irina Palm (nome da "artista" che userà Maggie) sia un film meno militante ma che comunque racconta la difficoltà nel far fronte a spese necessarie da parte di una classe sociale non privilegiata. Come si accennava sopra, è forse un po' idealizzata la gestione dei rapporti che nascono nell'ambiente lavorativo in cui si trova ad operare Maggie, in contrasto al covo di vecchie vipere in cui si trasforma il sobborgo di residenza (questo sì molto più credibile), che si voglia accettare o meno la scelta narrativa, è indubbio come questa contribuisca ad ammantare di calore un film che muove dalla sofferenza, dall'umiliazione e dalla vergogna. Marianne Faithfull offre una prova straordinaria mostrando un'ordinaria dignità, un'accettazione serena di ciò che si deve fare per l'amore di una vita indifesa, ottima la complicità con Miki Manojlović, attore già visto con Kusturica e che anche qui si fa ampiamente apprezzare. Alla fine è inevitabile amare questo personaggio, proprio come i nipoti amano le nonne, ritratto di una donna fortissima che trova energie e soluzioni per tutti e alla fine magari ne uscirà qualcosa di buono anche per lei.

martedì 16 marzo 2021

X-MEN - DARK PHOENIX

(Dark Phoenix di Simon Kinberg, 2019)

Piccolo preambolo. Gli X-Men nascono dalle menti di Stan Lee e Jack Kirby, creatori della maggior parte dei personaggi più iconici e riconoscibili di casa Marvel, nel lontano 1963. La loro serie a fumetti a dire il vero non era tra le cose migliori che Stan "il sorridente" e Jack "il Re" sfornarono in quegli anni, lo stesso Kirby, vero maestro della matita, sulle tavole dedicate agli Uomini X sembrava girare un po' con il freno a mano tirato, guardando le cose fatte dallo stesso disegnatore su Thor o su Captain America sembrava proprio che gli X-Men fossero un po' i fratelli poveri dei succitati eroi; spesso anche le trame di Stan sembravano meno ispirate che altrove, pur potendo contare su un concept iniziale molto affascinante e su temi di base interessanti e apprezzabili. Con il tempo i due creatori lasciano la collana che vede un'alternanza di artisti che tra alti e bassi traghetteranno la serie fino alla sua sessantaseiesima uscita, dopodiché la testata inizierà a ristampare le storie delle origini lasciando i fan dei mutanti orfani di nuove emozioni. Questa situazione si trascinerà tra storie già edite e comparsate degli X-Men originali in altre testate fino al maggio del 1975 momento in cui viene pubblicato lo storico Giant Size X-Men. Con quest'albo nasce sul serio il mito degli X-Men, quella che verrà denominata seconda genesi presenta una squadra internazionale assemblata da Len Wein e Dave Cockrum e già dall'uscita successiva passata nelle saldi mani di Chris Claremont, autore inglese che gestirà i fumetti degli Uomini X per sedici anni trasformando una sorta di brutto anatroccolo nel fumetto più venduto degli Stati Uniti per oltre un decennio. Con l'arrivo di John Byrne alle matite si compone poi una delle coppie entrate di diritto nella storia del fumetto di supereroi, proprio a loro, tra le altre cose, si deve la saga di Fenice Nera, una sequenza di storie considerate uno dei vertici del fumetto seriale americano.

Questo prologo per mettere i puntini sulle i, il materiale di partenza, già sprecato in X-Men: Conflitto finale, è di ottima caratura, qui viene banalizzato e depauperato in un film scialbo, sbagliato nella gestione dei personaggi, noioso e superfluo e che mette nel peggiore dei modi la parola fine alla gestione degli X-Men da parte della 20th Century Fox che pure nel corso degli anni ci aveva fatto vedere delle buone cose. L'impressione è che con il passaggio dei diritti del sottobosco mutante a Disney/Marvel (era ora viene da dire) si sia voluta dare una sorta di chiusura frettolosa al mondo X già in calo qualitativo nell'ultimo X-Men - Apocalisse; essendo quella degli X-Men una branca dell'Universo Marvel che conta centinaia e centinaia di personaggi e un archivio di storie impressionante da cui attingere, è più che per altri brand necessaria una gestione coerente e filologica dei personaggi, cosa che al cinema non c'è mai stata e che almeno nello spirito era stata colta e in parte abbracciata dal solo Bryan Singer degli inizi, che con il primo X-Men del 2000 diede vita alla vera nascita del cinecomic moderno. Come si diceva più sopra le cose buone non sono mancate, bisognerà vedere se in casa Disney decideranno di dare un colpo di spugna su tutto ciò che è stato fatto finora o se opteranno per armonizzare quanto già abbiamo imparato a conoscere del mondo mutante con il resto del Marvel Cinematic Universe, le prime avvisaglie si sono viste in WandaVision con la presenza di Pietro Maximoff che arriva proprio dai film degli X-Men, tutto al momento rimane però molto criptico.

Le elucubrazioni sui possibili futuri cinematografici sono l'unica cosa degna che rimane sui titoli di coda di questo Dark Phoenix, film che paga un'eccessiva stanchezza nel reiterarsi degli schemi amico/rivale tra Xavier (James McAvoy) e Magneto (Michael Fassbender), entrambi interpretati da attori di razza che sembrano timbrare il cartellino per l'ennesima volta, sulla saga di Fenice Nera non mi dilungo in quanto totalmente svilita da un film che non regala un solo momento di phatos, nessuna emozione, e che inanella personaggi che sembrano vuoti burattini in contrapposizione a un nemico che poco c'entra con la storia originale e qui rappresentato da una Chastain su tacco dodici che ancora mi chiedo perché abbia accettato questo ruolo insulso e insignificante. Per il resto si segnala una buona sequenza action su un treno in corsa alla quale partecipano anche alcuni personaggi dei quali non è dato nemmeno sapere il nome tanto sono inutili, alcuni character vengono snaturati da una sete di vendetta e mancata compassione che di certo non gli appartengono, tutto si sviluppa grazie a una sceneggiatura che avrebbe fatto bene a rimanere chiusa in qualche cassetto o meglio ancora in un cestino della differenziata. Occasione sprecata ma almeno finisce qui, la curiosità su cosa faranno alla Disney con cast e personaggi in vista di futuri programmi è maggiore di quella creata da questo film, in Marvel sembra ci siano le uniche teste pensanti che sappiano come gestire un progetto coerente su un universo cinematografico condiviso, questo lascia ben sperare per gli Uomini X in attesa anche del rientro trionfale dei Fantastici 4.

domenica 14 marzo 2021

MA RAINEY'S BLACK BOTTOM

(di George C. Wolfe, 2020)

Ma Rainey's Black Bottom trasuda tutta la sua origine teatrale in questa trasposizione dall'opera di August Wilson portata sugli schermi dal regista George Wolfe, anch'egli cresciuto e formatosi a teatro, insignito di diversi premi per le sue regie sui palchi e solo recentemente passato al cinema, naturale quindi la messa in scena ristretta a pochissime locations, un paio di esterni e due camere dove si svolge l'intera vicenda, un lavoro di fino su scrittura e recitazione e attori che portano un contributo sostanziale per la buona riuscita di un progetto che forse non ha tutti i mezzi per lasciare un segno indelebile ma che si ritaglia con onore il suo posto all'interno di un discorso che al cinema negli ultimi anni è sempre più presente, quello della condizione dei neri in America e del razzismo imperante negli U.S.A.; in più qui c'è il blues. Tra i protagonisti principali del film c'è ovviamente Ma Rainey, una delle pioniere che fecero del blues una vera professione, già negli anni 20 Ma registrò numerosi brani per la Paramount e fu ispiratrice e collaboratrice di artiste come Bessie Smith, ciò nonostante non è la musica il centro focale di Ma Rainey's black bottom, bensì l'annosa questione razziale che affligge i neri da tempo immemore. Come si diceva ci troviamo davanti a un buon film, recitato magnificamente da un gruppo di professionisti in gran spolvero, un film non epocale ma che ha goduto della cassa di risonanza mediatica dovuta (purtroppo) alla prematura scomparsa del suo interprete principale, il Chadwick Boseman ormai divenuto un'icona nera grazie al suo ruolo di Black Panther nel film omonimo e in quelli degli Avengers e qui alla sua ultima prova prima della sua scomparsa.

Chicago. Negli studi di registrazione di Mel Sturdyvant (Jonny Coyne) si attende con impazienza l'arrivo di Ma Rainey (Viola Davis), la madre del blues, che accompagnata dall'amante Dussie Mae (Taylour Paige) e dal nipote autista Sylvester (Dusan Brown) si lascia attendere, come da prassi per una vera star. A precederla c'è la band di accompagnamento che dovrà incidere con lei: il trombettista di grande talento e fantasia Levee (Chadwick Boseman), Cutler al trombone (Colman Domingo), l'anziano pianista Toledo (Glynn Turman) e Slow Drag (Michael Potts) al contrabbasso. Reclusi in un piccolo stanzino adibito alle prove, in attesa dell'arrivo di Ma, i quattro musicisti iniziano a provare e a parlare in maniera scanzonata tra di loro. Nel frattempo l'agente della cantante, Irvin (Jeremy Shamos) cerca di tranquillizzare il discografico che mal sopporta i ritardi e le risapute bizze della cantante. Inizialmente il clima sembra disteso, il vanesio Levee viene preso bonariamente in giro dagli altri, si parla di arrangiamenti, nuove versioni dei pezzi di Ma, ben presto però saltano fuori i primi contrasti e argomenti delicati sui quali qualcuno non ama essere pungolato, nella fattispecie l'asservimento dei neri ai voleri e agli interessi degli uomini bianchi come Sturdyvant. La situazione si scalderà ancor di più con l'arrivo della cantante e dei suoi capricci, primo tra tutti la pretesa di far registrare l'intro al pezzo Ma Rainey's black bottom al nipote Sylvester affetto da un grave forma di balbuzie.

Sono i dialoghi, gli scambi di battute tra i membri della band a tenere in piedi il film, al centro due temi: il blues e il talento del trombettista Levee che vuole a tutti i costi raggiungere il successo e fondare una sua band e la difficile condizione dei neri sottomessi e sfruttati dai bianchi ormai da troppo tempo. È proprio quest'ultimo punto quello che permetterà al film di decollare e a Boseman di offrire una prova superba, capace di passare in pochi secondi da un mood molto scanzonato e colloquiale, quello che si tiene tra amici che si stuzzicano per divertirsi scambiandosi frecciatine e pareri discordanti, a uno fortemente drammatico che si manifesta per esplosioni che fanno riemerge un passato doloroso e un odio per i bianchi che sarà difficile da sanare nonostante la necessità di fare buon viso a cattivo gioco, il personaggio di Levee ha le sue idee per sfruttare l'interesse dei bianchi e trarne vantaggio per sé stesso. Anche il personaggio di Ma Rainey, interpretato da una splendida Davis che impersona un'autorevole matrona, vive un grande conflitto, donna di successo consapevole di essere comunque sfruttata da un'industria che è al 100% bianca, usa i suoi capricci per far scontare tutto il possibile a uomini che sa non essere per nulla interessati alla sua persona, alla sua voce, alla sua arte, ma solamente al profitto che queste cose possono portare nelle loro tasche. Ci sono alcuni momenti molto forti ed emozionanti, amplificati dalla regia claustrofobica che contiene gran parte del film in due sole stanze con qualche squarcio d'aria con passaggio alla strada antistante lo studio di registrazione. Cast di supporto molto indovinato, da segnalare almeno la prova di Glyn Turman nei panni di Toledo. Forse meno incisivo di film che affrontano temi simili come One night in Miami... ad esempio, Ma Rainey's Black Bottom è un film più "piccolo" ma capace di toccare i tasti giusti, come spesso accade con le opere meno blasonate, ravviva il rimpianto per aver perso il talento di Boseman che al netto delle partecipazioni in casa Marvel avrebbe potuto regalarci cose decisamente più interessanti.

giovedì 11 marzo 2021

LA SIGNORA DI TUTTI

(di Max Ophüls, 1934)

Ophüls, tedesco di nascita ma con una carriera cinematografica itinerante con predisposizione austriaca, viene considerato il re del melodramma e a guardare La signora di tutti non è poi così difficile intuirne le ragioni. Tra le varie trasferte lavorative il regista sigla un film anche per il nostro paese, produzione della Novella Film (proprietà del futuro gruppo Rizzoli) e attori in prevalenza italiani con un posto d'onore per l'allora emergente Isa Miranda. Sono i primi anni del cinema sonoro, l'uso impeccabile proprio dei suoni e la regia sempre fluida, dinamica e fin troppo mobile per i tempi di Ophüls contribuiscono a determinare il riconoscimento che ancor oggi viene tributato alla pellicola, importante episodio della carriera del regista ma anche tassello fondamentale del cinema nostrano di quegli anni. Il dramma è servito, su questo non c'è dubbio, si inizia con un tentato suicidio e si va a finire poco distante, nel mezzo una serie di accadimenti tragici e amori tormentati, illeciti, incompiuti e impossibili come nel più classico repertorio del melò, per l'epoca i temi e la descrizione delle situazioni e dei personaggi risultano parecchio liberi, la protagonista un'ammaliatrice involontaria (?) di uomini e in qualche modo anche di donne, anch'esse non indifferenti al suo fascino.

Gabriella Murge (Isa Miranda) con il nome di Gaby Doriot è divenuta una star di primo piano del cinema, in seguito a un tentativo di suicidio viviamo con lei un lungo flashback sulla sua vita recente scatenato dal torpore dell'anestesia operatoria. Gabriella è una bella ragazza, a scuola è ammirata da un suo maestro che finisce per togliersi la vita, si dice, a causa di questo amore impossibile da realizzare, siamo negli anni 30, le relazioni maestro/allieva erano probabilmente malviste ben più di oggi. Benché la giovane non abbia mai fatto nulla per incoraggiare l'uomo, la notizia lascia cadere sulla ragazza una cattiva nomea, cosa che fa infuriare il padre di Gabriella (Lamberto Picasso) che rinchiuderà la figlia in casa negandole la scuola e facendola iniziare a lavorare con lui nel suo vivaio. Gabriella trova comprensione in un'anziana zia e soprattutto nella sorella Anna (Nelly Corradi) che ben conosce il carattere di Gaby. Quando le due sorelle ricevono l'invito per recarsi a una festa in casa del Conte Nanni (Memo Benassi), per intercessione della zia e per cortesia verso il Conte, il padre acconsente che anche Gabriella vi si possa recare, qui la giovane conoscerà il figlio del Conte, Roberto Nanni (Federico Benfer), che immantinente si innamorerà di Gabriella, ma anche la di lui madre, la Contessa Alma (Tatiana Pavlova) che prenderà da subito a ben volere la giovane tanto da volerla come dama di compagnia. La donna, inferma, passerà sempre più tempo con Gabriella, un giorno però a casa fa ritorno il Conte dai suoi continui viaggi di lavoro e scopre così la presenza di questa bella ragazza... gli elementi per il dramma ci sono più o meno tutti.

Film godibile ancor oggi nonostante gli anni sul groppone, ovviamente con un occhio puntato sull'importanza storica, l'altro sulla realizzazione, si apprezza una fotografia molto nitida che supera la prova del tempo, della regia abbiamo già accennato al dinamismo di Ophüls, noto proprio per i suoi movimenti di camera nel seguire i personaggi anche da fermi, stupisce il sonoro che arte ancora giovane non lascia spazio a critiche, un poco sopra le righe la recitazione soprattutto da parte dei caratteristi in ruoli secondari, la vicenda poi si lascia apprezzare, cinema d'altri tempi che non si risparmia situazioni scomode e per l'epoca inconfessabili. Isa Miranda alla sua prima parte importante ha già l'impronta della diva ricordando in alcuni passaggi le divine internazionali di maggior fama. Ancora una volta la sezione Fuori Orario di Raiplay offre un ottimo servizio mettendo a disposizione un film che magari non interesserà tutti ma che è ora per gli appassionati raggiungibile con pochi clic, vivamente consigliata una passeggiata esplorativa sul sito.

mercoledì 10 marzo 2021

WANDAVISION

WandaVision è stato il primo ciclo di metadone per tutti i drogati all'ultimo stadio di Marvel Cinematic Universe in rota dopo la chiusura delle sale (del consumo), in grave astinenza a causa dello slittamento di Black Widow, Shang-Chi, Eternals, etc... (ottimi nomi per delle droghe, prendete appunti). Con le scimmie del Fantasma Rosso ben ancorate sulla schiena i Marvel-zombie si sono buttati a capofitto su WandaVision lanciandosi in elucubrazioni preventive, contemporanee e postume alla messa in onda del serial che come ogni cura che si rispetti verso una sana disintossicazione dalla dipendenza viene elargita un poco alla volta, una piccola dose a settimana (ma il piano è subdolo perché da questa dipendenza non uscirete mai, buaaaah ah ah ah - risata malvagia dei capoccia Disney). Per chi mastica un po' di Universo Marvel su carta e conosce i due personaggi protagonisti della serie non era difficile, alla luce dei primi trailer, farsi un'idea almeno di massima su quello che sarebbe potuto essere il filo conduttore della serie, come è stato già detto altrove la chiave di lettura stava già nel titolo che può essere visto come una crasi dei nomi di Wanda (Elizabeth Olsen) e Visione (Paul Bettany), riflesso di una romantica unione di coppia, o come il più letterale "la visione di Wanda", scelta indubbiamente più azzeccata alla luce di quanto narrato nella serie e leitmotiv, questo si, facilmente intuibile fin dalle prime puntate di WandaVision.

La ripresa delle trasmissioni da parte della Disney/Marvel vanta almeno due ottimi spunti sviluppati in maniera molto valida nel corso di questa serie che a tutti gli effetti apre la fase post serrata delle sale; il primo è quello legato al discorso metatelevisivo che va ad omaggiare la storia della serialità statunitense dagli anni 50 in avanti con puntate che richiamano lo stile estetico e narrativo di capisaldi del piccolo schermo quali Lucy ed io, Vita da strega (o Strega per amore se preferite), The Dick Van Dyke show, fino ad arrivare con l'andare avanti delle settimane a strutture che ricordano le sit-com degli anni 80 (Casa Keaton) e via via prodotti più moderni. E non solo per seguire un'ideale storia della televisione si torna indietro agli anni 50 ma anche perché quel decennio è ancora visto come uno dei più felici per lo sviluppo dell'american way of life, quale periodo migliore a cui tornare quindi per costruirsi da zero un mondo ideale? La seconda linea narrativa di interesse è quella dedicata al dolore di Wanda per la perdita di Visione avvenuta nella lotta contro Thanos, è questa l'occasione sia per approfondire i due personaggi che finora avevano avuto i riflettori puntati addosso solo in maniera marginale non avendo mai goduto di un film dedicato, ma ancor più per narrare l'elaborazione di un lutto da parte di una donna dai poteri vastissimi ma, come ben sa chi conosce la sua controparte cartacea, dall'equilibrio instabile. Sotto questi due punti di vista si è fatto un gran lavoro, i primi episodi sono spiazzanti per chi è abituato all'azione dei cinecomics se non si ha l'idea (e ormai credo di non fare più un grande spoiler) che la realtà anni 50 di Westview, il paesino dove vivono Wanda e un Visione celato in sembianze umane, è una costruzione finzionale creata dai poteri di una Wanda Maximoff distrutta dal dolore e dalla perdita e che si ricostruisce letteralmente una vita, una di quelle idilliache, riportando indietro (non diciamo come) il suo Visione e pian piano ampliando la portata dell'inganno in primis verso sé stessa con tanto di generazione di prole e assoggettamento di vicini resi forzatamente gaudenti. I primi episodi sono pura sit-com d'altri tempi, con tanto di risate finte, bianco e nero, momenti stucchevoli lacerati però da qualche increspatura che lascia intuire come non tutto stia filando proprio per il verso giusto. Tra un accenno al mondo Marvel e l'altro, tramite spot televisivi che interrompono la trasmissione di questa WandaVision (piccolo tocco di genio), il mondo al di fuori di Westview inizia a far capolino, si introduce lo Sword, un'organizzazione dall'identità ben poco definita (in realtà nel Marvel Universe è l'ultimo baluardo di controllo e difesa dalle minacce aliene guidato dalla carismatica Abigail Brand) e l'asticella si alza fino ad arrivare all'introduzione del velocista Pietro Maximoff interpretato da Evan Peters che va a creare un cortocircuito con il mondo dei mutanti Marvel finora non ancora introdotto nell'MCU. Il percorso di elaborazione del lutto da parte di Wanda è esemplare e va a sfociare in un dittico finale dove vengono tirati i fili e dove la narrazione inizia purtroppo a scricchiolare tra lunghi spiegoni per bocca della cara Agnes (e mi tengo per me gli spoiler per chi non avesse visto la serie), vicina di casa e baby sitter dei bimbi finti di Wanda, e lo scontro tra due versioni dello stesso Visione che preannuncia un ritorno del character nei prossimi film della Marvel.

Un bell'esperimento questo WandaVision, interessante per buona parte, mostra come con questi personaggi si possa andare anche in direzioni inedite, poi tutto viene ricondotto alla normalità con tanto di scene dopo i titoli di coda, personaggi da altri film (torna Monica Rambeau con un ruolo centrale, così come l'agente Jimmy Woo e la Darcy Lewis interpretata da Kate Dennings), botte da orbi e intrighi in puro MCU style. Elizabeth Olsen mostra un'ottima predisposizione per i toni comedy con le sue facce buffe e le sue mossette, molto ben sorretta da un Paul Bettany in gran forma. Forse la cura è servita, un'esperienza (a tratti) appagante ma non si sente più il bisogno di averne ancora... ma come sul finale riecheggiano le voci dei piccoli Maximoff, allo stesso modo odiamo in lontananza la risata malvagia di quel capoccia Disney (altro che Mephisto) che ha ormai terminato di sintetizzare la droga The Falcon and the Winter Soldier (questo come nome non mi convince) ed è pronto per immetterla sul mercato.

domenica 7 marzo 2021

SOUL

(di Pete Docter, co-regia di Kemp Powers, 2020)

La nuova regia di Pete Docter in casa Pixar si aspettava con una certa attesa, dopo ottimi esiti quali Monsters & Co., Up e soprattutto lo splendido Inside out, non era facile uscire con un altro film di livello, Docter invece non tradisce e confeziona un degno successore di Inside out, pur non raggiungendone la caratura innovativa ed emozionale, Soul si rivela essere un'altro tassello di quell'indagine sull'io interiore dell'essere umano che Docter sembra voler portare avanti, dopo il focus sugli stati d'animo del film precedente con Soul si indaga l'anima, l'essenza profonda delle persone che le porta ad avere predisposizioni, desideri, un'innato amore verso taluni aspetti che la vita ci offre, lo fa passando dal mondo reale a quello ultraterreno, quello che ci aspetta nel momento del trapasso in un fantasioso altrove dove per chi è in partenza c'è ad attenderlo la famosa "luce bianca" della quale in tanti hanno dato testimonianza una volta vicini all'ultimo passo su questo mondo poi in qualche modo scongiurato, ma per chi è in arrivo c'è tutto un percorso di addestramento da seguire per giungere sulla Terra con le proprie innate inclinazioni e un avvenire potenzialmente radioso tutto da costruire.

La trama offre diversi passaggi interessanti con tanti spunti che solo un adulto può riuscire a cogliere, come da manuale Pixar però gli sceneggiatori sono in grado di inserire i contenuti all'interno di uno sviluppo che anche i più giovani possono seguire focalizzandosi sul livello di lettura più semplice del racconto. Joe Gardner è un ottimo pianista che insegna musica in una scuola media di New York, finalmente dalla direzione arriva la proposta di un contratto regolare, una cattedra, un full-time e un avvenire sicuro e sereno. Ma Joe non è soddisfatto, lui sa di essere un buon pianista e di avere una smisurata passione per il jazz, il suo desiderio è quello di poter suonare con una band affermata in un buon club di musica jazz, quella è la vita che sogna, l'impiego a scuola è una cosa che piace più a sua madre Libba che questo figlio alla soglia della mezza età vorrebbe proprio vederlo sistemato. Grazie all'incontro con un suo ex studente Joe ottiene la possibilità di fare un provino per suonare con la band della famosa sassofonista Dorothea Williams la quale apprezza la passione di Joe e decide di dargli un'occasione. Nel tornare a casa Joe, travolto dall'entusiasmo, si distrae e subisce un incidente che lo porta nell'Oltremondo, alla soglia del momento del trapasso, ma l'anima di Joe non può accettare questa situazione, non nel giorno in cui dovrà esibirsi con la band di Dorothea. Tenterà così di tornare nel suo corpo grazie a un'anima nuova, 22, destinata ad arrivare sulla Terra ma del tutto contraria all'idea, i due stringeranno un accordo per ingannare i controllori di Oltremondo che dovrebbe permettere a Joe di tornare sulla Terra e a 22 di risparmiarsi quest'incombenza che non la alletta affatto. Da questo incontro inizierà un percorso di crescita che porterà entrambi a nuove rivelazioni.

In un mondo dove siamo bombardati da continui incitamenti al successo, alla realizzazione dei propri sogni, all'affermazione e alla forza (fisica, atletica, di volontà), all'incessante lavorio sulle aspettative, nostre e degli altri, al conseguimento di obiettivi, Soul offre un piccolo messaggio di speranza anche per chi ha una vita "normale", a chi ha accantonato i sogni e porta avanti un'esistenza ordinaria, per tutti quelli che i fautori dell'autorealizzazione e del successo a tutti i costi guardano dall'alto in basso bollandoli come "mediocri", perché il messaggio veicolato dall'ultimo Pixar è quello di una vita che offre cose magnifiche a ognuno di noi, non necessariamente la realizzazione di un sogno, che in alcuni casi può mutare in maniera deleteria in ossessione, un sogno che non è l'unico motore per apprezzare la vita che invece, come impareranno la refrattaria 22 e Joe al suo seguito, è fatta di tanti momenti di piccola perfezione. Dopo un percorso accidentato questa rivelazione porta i due protagonisti in una condizione di pace con sé stessi, sogni o non sogni c'è sempre qualcosa di bello ad aspettarci: una passeggiata, un incontro, una canzone, un sapore e il fine ultimo della ricerca di quella scintilla che le anime del film intraprendono prima di iniziare il loro cammino sulla Terra è semplicemente questo, una preparazione per affrontare la vita giorno dopo giorno, con le nostre inclinazioni e tutto il resto. Dal punto di vista tecnico troviamo una realizzazione che alterna le sequenze nel mondo reale con un'animazione calda e impeccabile, la New York ritratta è avvolgente e bellissima, la resa del jazz club, i momenti musicali, interni ed esterni sono realizzati con la consueta maestria alla quale la Pixar ci ha abituati, sul versante ultraterreno troviamo soluzioni visive solo all'apparenza semplici, soprattutto nella figura dei Jerry, i consulenti delle future vite, ispirati alla line art (viene in mente per alcuni aspetti la mitica Linea di Cavandoli, genio puro) con un che di tocco cubista alla Picasso, viene fatto anche un bel lavoro sull'illuminazione dei personaggi mentre per le anime si sceglie un approccio più tondeggiante e "coccoloso", ognuno di questi aspetti va a creare un'armonia globale che rende il film molto piacevole esteticamente.

Più per adulti che per bambini, sono diversi i prodotti Pixar a seguire ormai questa strada ma Soul ha l'intelligenza dell'equilibrio diventando così accessibile a tutti, inoltre se inquadriamo questa uscita nella programmazione della casa di produzione che ha già pianificato la distribuzione di Luca del nostro Enrico Casarosa, si apprezza la tendenza degli ultimi anni a non rifugiarsi solo nei sequel che comunque costituiscono un terzo della produzione dei lungometraggi Pixar: Alla ricerca di Dory, Cars 3, Toy Story 4 e Gli Incredibili 2 erano stati inframezzati solo dall'uscita di Coco, unico inedito tra il 2016 e il 2019. Cresce ora l'attesa per il primo lungo "italiano" della casa cinematografica di Luxo e soci.

venerdì 5 marzo 2021

B.P.R.D. - CAMPO DI BATTAGLIA

(B.P.R.D.: Killing ground di Mike Mignola, John Arcudi e Guy Davis, 2008)

L'ottavo volume delle avventure dedicate al Bureau for Paranormal Research and Defense si apre portando un po' di scompiglio tra le fila del Bureau e nel lettore, già dalle prime pagine Mignola e Arcudi lavorano su diversi spunti, a sorpresa troviamo il medium Johann Krauss in un portentoso corpo umano, una massa di muscoli e carne avida di cibo e di ogni desiderio umano, e Johann, da tempo incorporeo, non vuole negarsi nessuna delle esperienze che la sua nuova condizione gli permette di assaporare dopo tanto tempo di astinenza, cosa che creerà più d'un grattacapo alla Dottoressa Corrigan. Nello stesso momento le scoperte fatte da Krauss nel corso del precedente volume sul passato del Capitano Daimo rendono quest'ultimo molto irascibile nei confronti della squadra che si sta preparando per accogliere nel complesso del Bureau in Colorado un ospite molto pericoloso e che si dimostrerà parecchio difficile da gestire. Verso il Colorado si dirige anche un laconico killer con una missione da portare a termine, se ci aggiungiamo l'inedita ingestibilità di Krauss data dai bisogni generati dal suo nuovo corpo, i continui incubi apocalittici ad occhi aperti di Liz Sherman che sembrano non accennare ad alcun miglioramento, la presenza della mummia Panya e soprattutto quella del demone che da un po' di tempo sta consumando il Capitano Daimo dall'interno, il cocktail per il potenziale disastro è presto servito.

La formazione del B.P.R.D. conferma avere una consistenza molto fluida, le defezioni, le morti, i subentri, le collaborazioni, gli ospiti e tutto l'incredibile campionario di creature che gira intorno al gruppo rende lo stesso ben poco definito nei suoi contorni, anche la sua leadership, per usare le parole dello stesso Abe Sapiens "è diventata una cosa mutevole. Cambia con ogni nuova missione, con ogni situazione". Proprio per questo la narrazione di questa serie rimane sempre fresca e vitale, il lettore magari può dispiacersi per alcuni abbandoni ma, assorbito quello di Hellboy, sembra ormai lecito aspettarsi di tutto dai due autori, nel complesso la struttura narrativa offre una tavolozza di colori più viva di quella della serie madre e talvolta si ha la sensazione che l'allievo abbia superato il maestro e l'albo del B.P.R.D. si faccia leggere addirittura con maggior piacere di quello dello stesso Hellboy.

Campo di battaglia è probabilmente il volume della serie che presenta il ritmo più serrato, dopo una ponderata introduzione la sede del Bureau diventa un vero e proprio campo di battaglia, l'impianto e la scansione della vicenda godono di un respiro molto cinematografico, la tensione cresce grazie alle prime morti e alle diverse minacce in campo, il lettore non sa bene quale epilogo aspettarsi, e questo ha l'apparenza di una piccola grande catastrofe. Ancora una volta Mignola e Arcudi preparano una sorpresa per il finale con un atto d'altruismo estremo. Forse. A movimentare il tutto, come se ce ne fosse ancora bisogno, arriva anche l'aragosta, la chela, Lobster Johnson la cui presenza è tutta da spiegare. Guy Davis si conferma il maestro che è, stile parecchio distante da quello di Mignola, il creatore della serie, ma talento da vendere, dopo un'altra avventura della variegata banda composta da questi strani personaggi, magari la prossima volta andremo a vedere cosa sta combinando Hellboy in Africa.

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