mercoledì 31 maggio 2023

IO, ROBOT

(I, robot di Isaac Asimov, 1950)

Le tre leggi della robotica:

1. Un robot non può recar danno a un essere umano, né permettere che, a causa della propria negligenza, un essere umano patisca danno.
2. Un robot deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani, a meno che contrastino con la Prima Legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questo non contrasti con la Prima o la Seconda Legge.

Io, robot è una raccolta di racconti che un giovane Isaac Asimov si era già visto pubblicare su riviste varie lungo il decennio precedente; questa antologia andò in stampa per la prima volta nel 1950, agli albori del decennio che più di tutti, anche grazie al cinema, riconduciamo alla raggiunta popolarità su vasta scala del genere fantascientifico. Il libro si apre con le tre leggi fondamentali della robotica; questi tre inderogabili dettami sono impressi "a fuoco" nei cervelli positronici dei robot protagonisti, esseri artificiali dotati di un certo margine di autonomia e pensiero ma creati unicamente per aiutare gli umani nelle loro incombenze e sollevarli dai fardelli più pesanti del lavoro e da diversi compiti della vita di tutti i giorni. Ovviamente, come è facile prevedere, non è detto che tutte le buone intenzioni, per i più disparati motivi, portino sempre al risultato che ci si era auspicati. In quest'ottica Io, robot torna proprio in questo periodo a essere un testo di forte attualità, oltre a rimanere l'ottima occasione di intrattenimento che è sempre stata. I dubbi e le paure che oggi ci attanagliano in merito agli sviluppi futuri dell'intelligenza artificiale si possono ritrovare qui, magari con un approccio più ingenuo e positivo ma carico tra le righe di quegli interrogativi che potrebbero non farci dormire sonni così tranquilli.

Sono nove i racconti contenuti in Io, robot, tutti episodi indipendenti tra loro ma legati da alcuni elementi comuni: le tre leggi della robotica, la presenza della U.S. Robots, la più importante azienda produttrice di robots all'avanguardia grazie ai loro cervelli positronici, alcuni personaggi ricorrenti come la coppia di tecnici della U.S. Gregory Powell e Michael Donovan, coinvolti sempre in qualche caso spinoso, o come la dottoressa robopsicologa Susan Calvin, zitellona un po' inacidita. Si inizia con Robbie dove si esplora il rapporto tra macchina e uomo, nella fattispecie tra una bambina e la sua "tata" meccanica; in Circolo vizioso Asimov si domanda cosa potrebbe succedere se in qualche modo una situazione potesse mettere in conflitto tra loro le leggi della robotica; per ogni racconto un nuovo enigma: comportamenti inspiegabili, prese di coscienza da parte dei robot, mancata applicazione degli ordini, processi cognitivi e così via. Per ogni breve capitolo una nuova riflessione da esaminare nel rapporto quotidiano tra uomo e macchina.

Lettura molto piacevole e intrigante ancor oggi, in un mondo nel quale la fantascienza di circa settantacinque anni fa potrebbe apparire ormai ingenua e fuori tempo. Gli scritti di Asimov invece resistono bene al passare del tempo, possiamo facilmente (ri)leggerli alla luce del nostro presente e ricontestualizzarli. Anche se non si scava troppo in profondità nei dilemmi che di volta in volta Asimov ci propone nei rapporti tra umano e artificiale, le situazioni create dallo scrittore nato in Russia sono sempre stuzzicanti, nei vari racconti si percepisce quasi un crescendo nei dilemmi etici e pratici che lo sviluppo delle intelligenze meccaniche di volta in volta ci sottopongono. Oltre alla curiosità che suscitano le meccaniche di narrazione messe su pagina da Asimov legate ai temi principi della raccolta, non manca la possibilità di affezionarsi ad alcuni personaggi, su tutti la coppia Powell/Donovan che si trova sempre in qualche situazione complicata da dirimere, ma anche a qualcuno di quelli meccanici come Robbie, protagonista del primo racconto nel quale Asimov è in grado, in un contesto completamente familiare e rilassato, di creare la giusta tensione nel lettore che non sa cosa aspettarsi dal comportamento di questo robot. Con tutta probabilità Io, robot non è ascrivibile agli scritti più profondi e stratificati del genere ma rimane un fondamentale, tanto importante quanto ben riuscito sotto il punto di vista meramente narrativo.

giovedì 25 maggio 2023

DECALOGO 5 - NON UCCIDERE

(Dekalog, pięć di Krzysztof Kieślowski, 1988)

Negli scorsi mesi abbiamo parlato della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski, un progetto in tre atti che trovava la sua fonte d'ispirazione nel tricolore francese, dal quale i tre film mutuavano in maniera diretta i titoli (Film blu, Film bianco, Film rosso), ma anche nel motto fondante della Repubblica dei cugini d'oltralpe: Liberté, Égalité, Fraternité. Se il riferimento ai colori del tricolore è molto marcato nei film di Kieślowski tanto da dare il titolo alle tre opere, il legame con la libertà, la fratellanza e l'uguaglianza è decisamente più sottile, un'ispirazione intuibile ma mai troppo invadente nei film della trilogia. Con questo Non uccidere, quinto episodio del progetto nato per la televisione polacca che va sotto il nome di Decalogo, il riferimento al comandamento della religione cristiana è invece diretto e lampante, cosa non comune a tutti i dieci capitoli della serie, uno per ogni comandamento. Composto da dieci mediometraggi il Decalogo ha visto l'ampliarsi di due dei suoi episodi (questo e Decalogo 6) al fine di provare la distribuzione cinematografica, mossa resasi necessaria anche per fini economici, per raggranellare i soldi degli spettatori paganti che sarebbero andati a coprire le spese dell'intero progetto televisivo. Così, dopo un ampliamento di contenuti e di minutaggio, Decalogo 5 arriva in sala rivisto e corretto con il titolo di Breve film sull'uccidere.

In una Varsavia plumbea e deprimente, sporca e impoverita, si incrociano le vite e i destini di tre personaggi: il primo è un taxista (Jan Tesarz) di cui non conosciamo il nome, un uomo scostante, non troppo ben disposto verso i suoi stessi clienti, impegnato a lavare la sua auto e a girare per la capitale senza dare soddisfazione a chi avrebbe bisogno dei suoi servigi. Il secondo è un ragazzo giovane, capelli chiari, faccia pulita; il suo nome è Jacek (Miroslaw Baka) ed è un delinquente mosso in maniera inspiegabile da istinti malvagi: tira sassi da un cavalcavia sulle auto sottostanti, di punto in bianco decide di uccidere. Il terzo protagonista, luce positiva del film, e il giovane avvocato idealista Piotr Balicki (Krzysztof Globisz), un uomo che non sa spiegare perché voglia esercitare la professione di avvocato, Piotr è solo convinto che allo stato attuale delle cose le pene non siano giuste, che la pena di morte non sia mai la soluzione, che la punizione esemplare non sia mai di esempio e che invece sia necessario percorrere la via della pena giusta per tutti, senza discrimine, senza differenze. Quando Janek si troverà a dover affrontare la giustizia di Stato sarà proprio Piotr l'unico a provare un interesse vero e sincero per la sua sorte, per la sua paura, per la trasformazione di un giovane da carnefice a vittima.

Negli anni 80 in Polonia venne introdotta la legge marziale dal Partito Comunista al fine di neutralizzare ogni forma di contrapposizione politica, nello specifico in quegli anni identificabile con il movimento di Solidarność del quale i meno giovani sicuramente ricorderanno il leader Lech Walesa. Di pari passo andavano le esecuzioni capitali, cuore pulsante della riflessione di Kieślowski per questo Non uccidere. È forse il tema più alto che l'uomo possa proporre nella riflessione su sé stesso, la liceità o la barbarie di decidere, col benestare di Stato e della legge, se e quando e come porre fine alla vita di un altro essere umano. Nel far questo il regista polacco usa qui un approccio molto diretto, contribuendo con la sua opera (forse) a far cessare la barbarie (casualmente le esecuzioni si chiudono proprio in contemporanea all'uscita di Decalogo 5), cosa che non gli era riuscita nemmeno con un documentario a tema negli anni precedenti. Kieślowski mette in scena una Polonia straniante, aiutato dalla fotografia quasi innaturale di Slawomir Idziak, in un paesaggio fosco che non lascia intravedere luce si muovono almeno due personaggi sgradevoli che il regista non giustifica, in riferimento soprattutto all'assassino, ma dei quali fa comunque intravedere lampi d'umanità, cause del loro agire, moti d'affetto e comprensione. In contrapposizione una scelta di Stato irrevocabile, che mai potrà essere riparata, mai potrà avere redenzione. L'occhio del regista è clinico, i personaggi vivono anche di moti e slanci ma difficilmente lo spettatore li avrà per loro, la regia mostra segni di stile fin dalle prime sequenze con la sporcizia di un mondo laido e triste, con le belle inquadrature sulle superfici riflettenti, con una Varsavia inzaccherata e limacciosa che riproduce la distorsione dell'animo dell'assassino che sul finale subirà un ribaltamento, una pena dantesca di totale paura, terrore e morte. Kieślowski ci pone di fronte alla cruda violenza delle nostre scelte e anche se sembra non gridarlo a gran voce ci dice che è ora di finirla.

martedì 23 maggio 2023

IL REGNO DIVISO

(Divided Kingdom di Rupert Thomson, 2005)

Rupert Thomson è uno scrittore inglese originario di Eastbourne, nell'East Sussex. Nonostante Thomson abbia pubblicato il suo primo libro già nel lontano 1987 (Dreams of leaving) e conti ormai già una quindicina di opere al suo attivo, l'autore non gode ancora qui da noi di una grande popolarità. Ciò deriva con ogni probabilità dal fatto che non tutto il corpo d'opera di Thomson è stato tradotto nel nostro Paese ma anche da una situazione che in realtà riflette l'andamento internazionale. Sono infatti diversi i colleghi dello scrittore, così come varie personalità di spicco in altri campi, ad affermare come Rupert Thomson non abbia mai raccolto i riconoscimenti che avrebbe invece meritato, cosa sottolineata anche dalla generale mancanza di riconoscimenti tributata alla sua opera: tanti complimenti ma mai nessuna menzione ufficiale. Scommettiamo che questa condizione non sia un particolare cruccio per un uomo che ha viaggiato e vissuto in mezzo mondo e che nella sua vita ha fatto le esperienze più disparate. Purtroppo, se il grande talento che in molti gli riconoscono è realmente presente e gli apprezzamenti sono motivati, non è grazie a questo Il regno diviso che le qualità di Thomson vengono fuori; pur essendo questa una lettura piacevole non sono presenti contenuti particolari o marcati segni di stile che possano imprimere il nome dell'autore nella memoria del lettore.

Il Regno Unito (anche se nel libro non lo si nomina praticamente mai) è ormai un Paese allo sbando: corruzione, malgoverno, crisi economiche, impossibilità di uscire dal pantano in cui la Nazione è caduta. La classe dirigente, appurato che il sistema in corso non è più funzionale, decide per una radicale Riorganizzazione del Paese fondata sulla teoria umorale postulata nell'antichità da Ippocrate e basata sui quattro principali fluidi corporei. Questa teoria divide l'umanità (e di conseguenza la popolazione del Regno) in quattro categorie di persone, a seconda del loro fluido dominante. Avremo quindi i sanguigni (sangue), gente equilibrata, positiva e ben disposta alla vita, capaci di una convivenza pacifica con il prossimo, ci saranno poi i collerici (bile gialla) predisposti alla violenza, allo scontro continuo ma anche operosi e innovatori, seguono i flemmatici (flemma) che come da definizione sono costantemente indecisi, poco concreti, pacati e nostalgici, chiudono il gruppo i malinconici (bile nera); ogni cittadino, in seguito ad appositi test verrà ricollocato nel giusto "quartiere" di appartenenza in contatto solo con i suoi simili, una riorganizzazione che secondo le alte sfere dovrebbe portare giovamento alla società tutta. Il giovane Matthew Micklewright, dopo essere stato assegnato al "quartiere" rosso dei sanguigni, viene a forza separato dalla sua famiglia e portato a Thorpe Hall, un'istituto dove altri ragazzi "sanguigni" come lui diventano i suoi nuovi compagni di vita. Dopo un periodo di indottrinamento sulla nuova società, Matthew viene privato del suo nome, da quel momento sarà Thomas Parry, viene affidato a una nuova famiglia composta da papà Victor e da una sorella acquisita: Marie. La vita nel quartiere rosso è tutto sommato piacevole, i ricordi della vecchia vita però ogni tanto tornano a premere. Con il passare degli anni Thomas, grazie al suo lavoro, avrà modo di visitare altri quartieri, cosa altrimenti proibitissima, e di rendersi conto che forse anche nella sua esistenza comoda qualcosa è andato irrimediabilmente perduto.

Ha un po' il sapore dell'occasione non colta appieno questo Il regno diviso (Quando l'uomo si separò dall'uomo), usare l'espressione "occasione sprecata" sarebbe troppo perché la lettura è comunque piacevole e presenta diversi passaggi affascinanti, eppure si ha l'impressione che Thomson non abbia colto proprio nel segno e che tutto si risolva con un "nulla di fatto". Nell'idea iniziale, molto intrigante, c'erano le premesse per un romanzo distopico originale e dalle grandi potenzialità, inoltre alcune sequenze potevano essere ricondotte facilmente alla Storia: l'impotenza di fronte al potere, le deportazioni, le famiglie separate, i muri issati tra un territorio e l'altro e via di questo passo. Ma seppure l'ambientazione di questo nuovo Regno rimanga traccia costante per tutta la durata del romanzo, è il percorso all'interno di esso affrontato da Thomas a prendersi la scena in un peregrinare tra incontri e personaggi che cambieranno in qualche modo il protagonista ma, a parere di chi scrive, senza lasciare segni profondi nel lettore. Anche le sottotracce più intriganti, e il riferimento è a tutta la questione legata al locale "La Batisfera" nel quartiere blu (i malinconici), rimangono un po' irrisolte e lasciano l'amaro in bocca. Il regno diviso non è il romanzo più celebre (in proporzione, nessuno è proprio "celebre" in realtà) di Thomson, in ogni caso se le premesse intrigano una lettura a questo scrittore la si può concedere, le idee ci sono, si poteva svilupparle meglio ma tutto sommato aprire le porte ad autori sconosciuti è sempre una buona cosa, diciamo che basta non aspettarsi proprio il libro della vita.

venerdì 19 maggio 2023

DIAMANTI GREZZI

(Uncut gems di Josh e Benny Safdie, 2019)

Proprio come nella scaramantica formula augurale buona per ogni matrimonio (in questo caso quello figurato e artistico tra i due fratelli Safdie) in Diamanti grezzi sembra proprio che ci sia finito qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio e anche, forzando un po', qualcosa di blu e qualcosa di prestato. Diamanti grezzi ha la capacità di trasmettere quella strana e piacevolissima sensazione di star guardando un film indubbiamente moderno ma allo stesso tempo forgiato con uno stampo dal profumo più classico del classico. Nuovo e vecchio insieme quindi, ma quasi di nascosto, senza sbandierare troppo nulla, anche perché Adam Sandler, qui un grande Adam Sandler, non è proprio l'attore che di primo acchito ti faccia pensare al cinema di un'altra epoca, e invece tutto sembra fondersi tra le epoche per poi sputar fuori la storia di un perdente dei giorni nostri radicato in una New York moderna che vede il suo centro nel quartiere dei diamanti a forte presenza ebraica. Insieme a Sandler, protagonista anche un'opale che arriva dalla terra, dall'Africa, il centro di questo tratto di vita di Howard Ratner, il nostro protagonista, una pietra che a ben guardarla qualcosa di blu ce l'ha al suo interno. E poi, è innegabile, i fratelli Safdie qualcosa in prestito dai grandi del passato l'hanno preso, si ritorna a quella sensazione di riallaccio al cinema che fu, una sensazione che solo alcuni dei registi moderni (James Gray per dirne uno) sono capaci di evocare e far percepire senza forzature, in maniera del tutto naturale allo spettatore. Tanti auguri e figli maschi quindi (ah già, forse "tanti auguri e figli maschi" oggi non si può più dire).

Howard Ratner (Adam Sandler) è proprietario di una gioielleria equivoca nel quartiere dei diamanti di New York, di origine ebraica l'uomo non conduce una vita troppo morigerata: affari illeciti, vizio del gioco, infedeltà coniugale, tutti vizi mitigati da una parlantina fluida capace di intontire chiunque, vizi esasperati però da una forza autodistruttiva che porta Howard, consapevolmente, a sbagliare, risbagliare e a sbagliare ancora, in un reiterarsi di comportamenti che non fanno altro che incasinargli la vita, una condizione della quale Howard sembra non poter fare a meno. Così dall'Africa il nostro gioielliere importa un'opale molto particolare che pensa di poter piazzare per un milione di euro. Nel frattempo suo cognato Arno (Eric Bogosan), spalleggiato da due pericolosi scagnozzi, continua a pressare per riavere indietro dei soldi prestati in passato a Howard il quale, anche nei momenti di disponibilità liquida, finisce per giocarseli invece di restituirli al creditore. In uno dei suoi tanti magheggi Howard acconsente a prestare l'opale a Kevin Garnett (Kevin Garnett), star dell'NBA, in cambio del suo anello dei Celtics; l'opale è destinato a un'asta pubblica, è già impegnato, ma il cestista se ne innamora convinto che la pietra gli porti fortuna e non vorrebbe restituirla, nel frattempo il matrimonio di Howard si sfascia, anche il rapporto con l'amante Julia (Julia Fox) diventa teso quando Howard, durante una serata in un locale, crede che la donna l'abbia tradito con l'artista The Weeknd (The Weeknd) e finisce per aggredirlo. E poi ancora soldi, chiacchiere, scommesse, guai...

Diamanti grezzi sfoggia un ritmo indiavolato che non subisce interruzioni per tutta la durata del film, questo grazie alla bravura in regia dei Safdie ma soprattutto per merito di un Adam Sandler che offre una prova gigantesca, un torrente di parole in movimento, un continuo spostarsi, fare cose, vedere gente, intrallazzare, disperarsi, sbagliare, tentare di correre ai ripari, sbagliare ancora, scommettere e risbagliare, e anche quando Howard riesce a fare una cosa giusta la fa nel modo e nel momento sbagliato. Quello dei Safdie è un film all'inseguimento di un protagonista fuori misura, che non sa quando è il momento di fermarsi, che non è capace di tirare il fiato mentre rischia di affondare, anche quando ha la consapevolezza che è giunto il momento di tirare il freno non riesce a farlo e trova il modo per andare avanti, rialzarsi, consapevole di farlo solo per poter ricadere (anche letteralmente) un'altra volta. La sceneggiatura chiude il percorso con un finale perfetto, indovinato nella maniera più totale, alla fotografia Darius Khondji che ha lavorato con Refn, diverse volte con Allen e, non stupisce, proprio con James Gray a cui accennavamo prima. Prima dei titoli di coda si segue la mdp dei Safdie come fatto in apertura e finalmente si tira il fiato, lungo le due ore e un quarto di durata del film non l'avevamo fatto e non ce n'eravamo accorti!

lunedì 15 maggio 2023

THE COLOR WHEEL

(di Alex Ross Perry, 2011)

The color wheel è un film indipendente statunitense del 2011 girato in bianco e nero su pellicola da 16 mm. Inizialmente l'opera del regista Alex Ross Perry non ha trovato una vera e propria distribuzione, cosa che avverrà in misura molto limitata solo l'anno successivo e nei soli Stati Uniti, ma ha iniziato a circolare nel giro dei circuiti festivalieri raccogliendo anche qualche riconoscimento (al Chicago Underground Film Festival) e venendo premiato come miglior film non distribuito del 2011. In effetti, a visione ultimata, si può dire come sia un vero peccato che The color wheel (e chissà quanti altri film validi come questo) non abbia trovato una maggior diffusione e che non sia riuscito ad arrivare nelle nostre sale. La sensazione guardando il film di Alex Ross Perry è quella di tornare un poco indietro nel tempo quando dalla scena underground americana ogni tanto era possibile recuperare qualche piccola perla; la sensazione di trovarsi di fronte a un film piccolo ma costruito con cuore e passione (e talento) si avverte in maniera profonda guardando questo The color wheel, film a basso budget e basato su chiacchiere e dialoghi, inoltre cresce durante la visione l'idea di una commedia molto divertente e vitale, spontanea, in alcuni passaggi anche cinica e dai risvolti un po' gretti ma piena di passione, una passione sbilenca che spesso manca al nostro cinema che di commedia ci viv(acchia)e. Una bella scoperta per chi scrive, ancora una volta pescata da quel pozzo di sorprese che è Mubi.

Colin (Alex Ross Perry) vive con la sua ragazza Zoe ma il loro rapporto ristagna, Colin non sembra nemmeno in grado di destare l'interesse sessuale della compagna nonostante la giovane età di entrambi. Inserito in un contesto esistenziale senza emozioni e che sembra non portarlo da nessuna parte, Colin accetta di accompagnare sua sorella JR (Carlen Altman) lungo un viaggio di un paio di giorni alla volta dell'abitazione dell'ex compagno di JR, un uomo che della ragazza è anche professore universitario e dal quale JR, con la scusa di andare a recuperare le sue cose, cerca un chiarimento, o forse una qualche sorta di rivincita, o anche solo di irritarlo o chissà cos'altro. JR è una giovane donna molto bella, ancora presa dalle sue ambizioni giovanili senza fondamento, vorrebbe inserirsi nel mondo della televisione (ed è per questo che stava con il suo prof. che qualche contatto lo aveva), diventare una sorta di giornalista, probabilmente anche annunciatrice meteo andrebbe bene per iniziare. JR vive di questo sogno frivolo e inconsistente che le preclude la possibilità di costruirsi una vita con delle basi solide e concrete, è considerata la pecora nera della famiglia e rimprovera al fratello Colin la sua prematura resa a un'esistenza monotona, comoda e priva di guizzi, situazione che fondamentalmente rispecchia la realtà della quotidianità del ragazzo. I due non sembrano all'apparenza legatissimi ma quel rapporto particolare che c'è tra fratello e sorella, anche nei momenti di attrito e discussione, non mancherà di venire fuori dando vita a scambi di battute e momenti realmente divertenti.

Ottimo esempio di cinema indipendente ben scritto, ben recitato e anche, nonostante la povertà di mezzi, ben girato. Alex Ross Perry mostra di avere stile, aiutato in questo dalla grana della pellicola e dal lavoro fatto con la luce da Sean Price Williams. Il bianco e nero che sfoca, la camera dai movimenti repentini, le riprese a mano, la resa del 16mm ma anche la scelta di stare spesso sui volti, la gestione degli spazi, gli interni ristretti, sorreggono un film fatto di dialoghi tra due (e più) protagonisti non troppo amabili ma arguti e spassosi nel loro cinismo e nel compiacersi del loro fallimento, che poi il metro di giudizio ognuno se lo crea da sé, proprio come fanno i due fratelli che disprezzano i borghesucci con i quali hanno a che fare. Ma nelle loro esistenze non c'è nulla di veramente superiore se non la verve che i due dimostrano nei loro discorsi stralunati, nel darsi addosso l'uno con l'altro e di quando in quando nel farsi forza a vicenda. La sceneggiatura è scritta a quattro mani dai due protagonisti, un testo molto libero da vincoli di struttura (anche se nel film non c'è stata improvvisazione) ma attentissimo agli scambi tra i personaggi con una scelta di tempi e battute che molti, non del tutto a torto, hanno paragonato al Woody Allen dei tempi andati. È una soddisfazione allontanarsi dalle main streets del cinema per trovare questi quartieri periferici, imbrattati, sporchi, non eleganti nella maniera più assoluta (ma elegantissimi sotto certi altri punti di vista) e scoprirli così vitali, amabili e soddisfacenti. A volte basta girare l'angolo sbagliato (o è quello giusto?).

sabato 13 maggio 2023

MR. OVE

(En man som heter Ove di Hannes Holm, 2015)

Arriva dalla Svezia questo Mr. Ove, film diretto da Hannes Holm e tratto dal libro d'esordio dello scrittore, anch'egli svedese, Fredrick Backman, autore con diversi romanzi pubblicati anche in Italia; quello da cui questo film è tratto è stato tradotto da noi con il titolo L'uomo che metteva in ordine il mondo edito da Mondadori. Mr. Ove, anche un po' a sorpresa se proprio vogliamo dirla tutta, ha raccolto un buon successo negli States nelle cui sale si è ben difeso portandosi a casa un buon incasso (per un film svedese) ma soprattutto guadagnandosi l'onore (?) di un remake americano interpretato nientepopodimeno che da Tom Hanks (Non così vicino, 2017) e la candidatura a ben due premi Oscar nell'edizione 2017, una come "miglior film straniero", categoria nella quale vinse poi Asghar Farhadi con Il cliente, e una per il "miglior trucco" dove trionfò il brutto Suicide Squad di David Ayer. Siamo di fronte a una commedia con decisi risvolti sentimentali che rimane in bilico tra una buona dose di cattiveria e cattive maniere, garantita dal protagonista burbero, e i passaggi alternati tra scene divertenti e quelle commoventi e toccanti che andando avanti con l'incedere del film diventano predominanti ma mai troppo stucchevoli né fuori misura, ne esce così uno di quei film rinfrancanti nei quali si finisce per simpatizzare con quasi tutti i protagonisti messi in scena.

Il vecchio Ove (Rolf Lassgård) è un anziano burbero e fissato con le regole, vive in un piccolo quartiere residenziale dove dà il tormento ai suoi vicini affinché anche loro rispettino e facciano rispettare il regolamento di quartiere; in passato Ove era stato il presidente dell'associazione dei residenti, scalzato poi con una sorta di piccolo colpo di stato pacifico dall'ex amico Rune (Börje Lundberg), cosa che rese Ove ancora più solitario e scontroso. In Ove è facile leggere dell'acredine e del risentimento verso gli altri, soprattutto nei confronti della categoria dei "colletti bianchi" che, insieme a gran parte dell'umanità, Ove continua a definire "idioti". Ove in realtà è un uomo solo che non riesce a (e non vuole) superare un lutto, la perdita di quella splendida donna che era Sonja (Ida Engvoll), sua moglie, una donna aperta e innamorata della vita, un tipo di donna che un Ove giovane e imbranato (Filip Berg) e impreparato alla vita mai avrebbe sognato di poter conquistare. Così, tra una visita al cimitero, un insulto a qualcuno, un controllo maniacale della vita nel quartiere e diversi tentativi di suicidio mai andati a buon fine, la vita di Ove prosegue giorno dopo giorno, fino a quando a scombinarla e colorarla arrivano i nuovi vicini: un'immigrata iraniana, Parvaneh (Bahar Pars), con il marito imbranato e buono a nulla (e quindi "idiota") Patrick (Tobias Almborg) e le loro due tenere bambine, Sepideh (Nelly Jamarani) e Nasanin (Zozan Akgun).

Lungo il corso del film il regista Hannes Holm, professionista diligente ma privo di particolari guizzi, si mette a servizio della storia e ci racconta la vita di Ove, il rapporto con il suo papà (Stefan Gödicke) quando il Nostro era bambino, le fasi dell'innamoramento con Sonja da giovane adulto e al presente il suo inacidirsi nei confronti della vita. Ma nel cuore di Ove c'è l'amore, lui è pur sempre un uomo buono a cui la vita ha tolto tanto e al quale quella stessa vita sta per insegnare come altro di buono possa sempre arrivare, sotto forme diverse, tramite persone diverse. Il tono oscilla tra la commedia e il sentimentale, alcune fissazioni di Ove sono effettivamente spassose come quella per cui il Nostro trovi quasi inconcepibile prendere in considerazione l'acquisto di un'auto che non sia una Saab (mai una Volvo, mai!) o l'avversione per ogni cosa fuoriesca dalla sua logica. Di contro non mancano passaggi più commoventi, nel rapporto con il suo amico Rune (anche questo tra comicità e sentimento) e in occasione della perdita della moglie. La sceneggiatura riesce a non andare mai oltre, a non cadere nel patetico e nel pietismo. Se Mr. Ove non riserva particolari sorprese è anche un film molto piacevole che gioca sui sentimenti giusti per portare lo spettatore verso i titoli di coda con soddisfazione, ci lascia qualche bel personaggio e un messaggio di apertura al mondo, magari buonista ma sicuramente positivo.

mercoledì 10 maggio 2023

CUORI

(Coeurs di Alain Resnais, 2006)

Alain Resnais è stato un regista capace di intuizioni spesso molto felici; che si occupasse di temi tragici e forti come in Hiroshima mon amour o di questioni di cuore narrate con leggiadria in film come questo Cuori, il regista francese è sempre riuscito a giocare con la "macchina" cinema creando soluzioni interessanti per sé stesso e per gli spettatori chiamati a partecipare meravigliati alle sue incursioni nella settima arte. Per Cuori, che inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi Piccole paure condivise, Resnais torna a lavorare su una pièce teatrale scritta dal drammaturgo britannico Alan Ayckbourn, lo stesso da cui era tratto il dittico Smoking/No smoking del 1993, trasportando la vicenda dalla capitale inglese a Parigi e creando un connubio tra testo teatrale e film che, nonostante una serie di caratteristiche vicine al mondo del palcoscenico, rimane sempre più cinema che teatro. Ne esce una ronde di sentimenti che non si limita solo al rapporto amoroso con l'altro ma sfocia anche in quello dei protagonisti con loro stessi e con il mondo circostante, un mondo fatto di conoscenti e persone incontrate all'improvviso che, chi più, chi meno, saranno capaci di lasciare un segno nelle loro esistenze, turbare, provocare svolte inaspettate o chissà cos'altro...

A Parigi nevica. Nicole (Laura Morante) è alla ricerca di un nuovo appartamento in cui trasferirsi con il suo compagno Dan (Lambert Wilson), magari una volta che si saranno sposati. A mostrarle l'appartamento un agente immobiliare molto cordiale ormai avviato alla terza età, Thierry (André Dussollier), il quale tenta senza troppa convinzione di far piacere alla donna un appartamento troppo piccolo per farci stare uno studio (pallino di Dan), poi c'è la questione dei tre vani che in realtà sono due, insomma... niente da fare, ma si ritenterà. Nicole torna così da Dan che al momento è disoccupato (ma vuole a tutti i costi uno studio), è un ex militare in congedo forzato che non ha troppa voglia di ricominciare, preferisce piuttosto passare il suo tempo al bancone del bar dell'albergo in cui lavora Lionel (Pierre Arditi), anche lui come Thierry non più troppo giovane e con un padre anziano a casa che ha bisogno di cure costanti; allettato, l'uomo è talmente insopportabile da far scappar via tutte le badanti procurategli dal figlio. Intanto Thierry torna in studio dove l'attende la collega Charlotte (Sabine Azéma), una donna molto timida e devota cristiana che tenta a più riprese di far interessare Thierry a una trasmissione a fondo religioso della quale gli presta alcune videocassette registrate. A casa Thierry ritrova la sorella Gaelle (Isabelle Carré), una bella ragazza molto più giovane di lui che ogni sera esce con le sue amiche. Una di quelle sere, un po' controvoglia, Thierry inizia a guardare la videocassetta datagli da Charlotte, finita la trasmissione, sorpresa! Ma vuoi vedere che sarà mica... nel frattempo Charlotte diventa la nuova badante del papà di Lionel.

Nonostante Cuori possa sembrare un film lieve, di poco conto all'interno della filmografia di Resnais, in realtà così non è; a dimostrarlo il Leone d'Argento per la regia a Venezia e un premio Fipresci sempre al regista proprio per questo film. Resnais ambienta le sue storie in luoghi chiusi, il rapporto dei personaggi con questi spazi fa da quinta a un film che vede all'opera una regia molto attenta nel trovare la giusta misura in questi luoghi che hanno come rapporto con l'esterno i protagonisti che li abitano e la neve. Quella di Resnais è una neve artificiale che ha il compito di unire le scene, funzione di transizione ma anche di continuità (la neve sulle spalle dei soprabiti negli interni) tra un esterno a noi invisibile e i luoghi abitati, vissuti, lega in continuità le varie vicende dei personaggi con Nicole che incontra Thierry che torna da Charlotte che lavora per Lionel che intrattiene Dan che vede Gaelle. Lega il teatro, la messa in scena, al fluire del cinema. C'è inoltre un lavoro sui personaggi che non è solo di forma: c'è il rapporto difficile tra fede e tentazione, tra ciò che si pensa (presume) essere giusto e desiderio, ci sono le difficoltà dei rapporti, sia quelli consolidati che quelli solo sognati o cercati, ci sono i problemi quotidiani, una vita precedente finita male, gli anziani da accudire, lo spaesamento. Nonostante il garbo lieve del regista originario di Vannes e dell'ottimo cast, in Cuori c'è di che riempire una bella serata, tutto sommato se tutti i "minori" fossero così non sarebbe poi così male.

sabato 6 maggio 2023

DOVE OSANO LE AQUILE

(Where eagles dare di Brian G. Hutton, 1968)

Se per convenzione facciamo risalire la nascita del blockbuster moderno al 1975, anno di uscita de Lo squalo di Steven Spielberg, scelta che ha tutte le ragioni di essere, non si può non tenere conto di come negli anni precedenti già ci fossero film pensati a puro scopo di intrattenimento e nei quali altri aspetti venivano messi in secondo piano, film nei quali "lo spettacolo" veniva prima di tutto, pensiamo a pellicole come L'inferno di cristallo, che precede solo di un anno il film di Spielberg, ma anche a episodi un po' meno noti ma comunque ben riusciti come questo Dove osano le aquile di Brian G. Hutton. Il regista di New York, classe 1935 e scomparso nel 2014, non ha lasciato grandi segni nella storia del cinema: inizia come attore e solo dopo passa dietro la macchina da presa e forse proprio questo Dove osano le aquile rimane la sua opera migliore e più conosciuta per la quale il regista porta a termine un buon lavoro, soprattutto nelle sequenze d'azione e nella gestione della tensione. A ogni modo nel corso della sua carriera, oltre ai qui presenti Clint Eastwood e Richard Burton, Hutton ha diretto attori del calibro di Elizabeth Taylor, Frank Sinatra, Donald Sutherland, Michael Caine, Telly Savalas, le sue piccole soddisfazioni in qualche modo è riuscito a togliersele e questo film in particolare ancora oggi è in grado di fornire un buon intrattenimento, almeno per quel pubblico che non ha deciso a priori che il cinema datato non è più da considerarsi degno di visione.

Seconda Guerra Mondiale. Un manipolo di soldati inglesi aiutati dal tenente statunitense Morris Schaffer (Clint Eastwood), reclutato a bella posta per questa missione, viene inviato tra le Alpi austriache per liberare il generale Carnaby, un ufficiale a conoscenza di molti segreti che non devono cadere in mano ai nazisti. Il commando è guidato dal maggiore John Smith (Richard Burton) che dovrà riuscire a infiltrare il gruppo all'interno dello Schloß Adler, un castello fortezza dove il generale Carnaby è tenuto prigioniero. Il gruppo, dopo essersi paracadutato tra i boschi innevati nei dintorni del castello, inizia a preparare la sua azione di infiltrazione, purtroppo alcuni dei membri del gruppo vengono misteriosamente uccisi, la situazione si fa sempre più tesa mentre Smith e i suoi possono contare su alcuni collaboratori già infiltrati in precedenza in zona come Heidi (Ingrid Pitt), la cameriera della taverna locale, o la sua presunta cugina Mary (Mary Ure), altro agente inglese in incognito. Entrare nel castello non sarà un'impresa facile, ma ancor più complicato sarà liberare Carnaby, portare a termine il reale compito che alcuni dei componenti del gruppo sono in realtà chiamati ad assolvere (non tutto è lineare come sembra) e soprattutto uscire dal castello, una fortezza collegata al resto del mondo da una funivia sospesa su metri e metri di freddo e ostile vuoto.

Dove osano le aquile è un film d'ambientazione storica che non nasce con pretese di veridicità o plausibilità, è un blockbuster ante litteram che si pone lo scopo di intrattenere lo spettatore mantenendo caratteristiche proprie del cinema dell'epoca, soprattutto nella gestione di alcuni passaggi che si concedono i loro tempi (vedere la sequenza iniziale con l'aereo che si avvicina ai monti austriaci), senza rinunciare a sequenze spettacolari, anzi trovandovi i suoi punti di forza, magari appunto poco plausibili, ma indubbiamente accattivanti e ben costruite. Si distingue in particolar modo tutta la parte finale del film dove la via di fuga dal castello sembra limitata all'uso di quella funivia sospesa sul vuoto e pericolosissima, ma prima tutta una serie di macchinazioni, inganni e contro inganni ingarbugliano la vicenda per tenerla viva; poi nazisti tagliati con l'accetta come l'uomo della Gestapo, il maggiore Von Hapen (Derren Nesbitt) e sparatorie in campi ristretti, un Eastwood post western, un Burton solido (ma non così accattivante) e una regia dinamica il giusto per garantire la buona riuscita di un film che non sarà un caposaldo del war movie ma che ancora oggi fa la sua discreta figura, magari con un tocco d'ironia in più avremmo avuto un film da tenere ancora in maggior considerazione.

mercoledì 3 maggio 2023

RABID - SETE DI SANGUE

(Rabid di David Cronenberg, 1977)

Qualche giorno addietro, in occasione del commento a Picnic ad Hanging Rock, si parlò del canale Youtube Moviedome IT, un piccolo catalogo dove poter recuperare gratuitamente qualche vecchia pellicola (valida) e diverso ciarpame più moderno (ma non tutto, qualcosa di potenzialmente interessante c'è anche lì); oggi ci dedichiamo invece a un altro canale presente su Youtube: Film&Clips. Al momento questa seconda selezione si rivela decisamente migliore della prima: intanto Film&Clips vanta un catalogo molto più ampio ed è strutturato in più sezioni che potrebbero aumentare le possibilità di visione per chi conosce le lingue, sono presenti infatti delle sottosezioni quali Film&Clips in italiano, Film&Clips Japanese, Film&Clips Free Movies, Film&Clips Pelicula completa e così via per film in inglese, francese, spagnolo, giapponese, tedesco, polacco. È inoltre possibile  usufruire di alcune playlist tematiche dedicate ai generi azione, commedia, horror. Attenzione però, non è detto che un film presente nel catalogo generale (Film&Clips) sia rintracciabile anche in una delle sottosezioni nelle quali, a logica, ci aspetteremmo di vederlo comparire. Mi spiego; io ho visto qui questo Rabid - Sete di sangue, uno dei primi lungometraggi di David Cronenberg, partendo dal menu principale del canale. Mi sarei quindi aspettato di trovare lo stesso film con la funzione ricerca anche nelle sottosezioni Film&Clips in italiano e in quella Horror, invece il film compare solo se cercato dal menù generale; questo solo per dire che può valer la pena esplorare più sottosezioni, potreste trovarci contenuti diversi, e di non far troppo affidamento sul campo ricerca, conviene dare proprio una scorsa al catalogo. Tutto gratuito, pubblicità meno invasiva che non quella su Moviedome, quindi primo impatto decisamente migliore rispetto alla precedente esperienza. Ma veniamo ora al film.

Rose (Marilyn Chambers) e il suo ragazzo Hart (Frank Moore) hanno un incidente in moto; se l'uomo se la caverà con poco la ragazza avrà bisogno di tempo e di un'estesa ricostruzione dei tessuti a causa dei danni riportati nell'incidente. I due vengono ricoverati nella vicina clinica del dottor Keloid (Howard Ryshpan), uno specialista che sta sperimentando una nuova procedura, non ancora completamente testata, per i trapianti di pelle, procedura della quale anche Rose, tra le altre cose, avrebbe ora bisogno. Così il dottor Keloid decide di sperimentare il suo procedimento sulla ragazza la quale, diverso tempo dopo l'intervento, si riprende gradualmente uscendo dal coma in cui era piombata dopo l'incidente. Rose però si sente strana, sembra avere un desiderio insaziabile, una sete di sangue che si placherà solo quando la donna, tramite una strana escrescenza spuntatale sotto un braccio, riuscirà a sottrarre sangue a un altro essere vivente infettandolo e trasmettendo anche a esso la sua stessa sete di sangue. Rose diverrà quindi la portatrice sana di un'epidemia della quale da principio si farà fatica a capire l'origine e che scatenerà il panico in tutta la popolazione, trasformandone una buona parte in esseri schiumanti rabbia alla ricerca di sangue per "dissetarsi". Le contromisure saranno estreme, in molti moriranno, la stessa Rose dovrà capire come porre fine a questo orrore.

Siamo sul finire degli anni Settanta, Rabid - Sete di sangue è uno dei primi lungometraggi di David Cronenberg, all'epoca il regista canadese non disponeva ancora di grossi budget e realizzava film (già con una certa maestria) dovendo agire in ristrettezze economiche. È una condizione questa che si respira fin dalle prime battute del film il quale presenta caratteristiche visive (luce, colori) tipiche di quegli anni, aspetto che per chi scrive dona maggior fascino alla pellicola. Cronenberg è nel suo periodo più celebre per quello che riguarda le sue tematiche, quello in cui le mutazioni del corpo hanno una centralità dominante nell'economia del racconto, mutazioni capaci di influire sia all'interno, sulla psiche dell'individuo, sia all'esterno, qui nella fattispecie nel contagio verso la società circostante. È una sorta di vampirismo quello che Cronenberg mette in scena, inusuale in quanto perpetrato non dal morso dei canini ma da un'escrescenza fallica generatasi al di sotto dell'ascella della protagonista, quasi una metafora sessuale che, solo all'apparenza, sembra venire consolidata dalla scelta dell'attrice protagonista, Marilyn Chambers, all'epoca nota star del porno, in realtà Cronenberg dichiarò di non conoscere i film girati dall'attrice nel mondo dell'hard. In Rabid quindi si unisce la struttura del racconto "di vampiri", anche se i protagonisti non lo sono, con tanto di sete di sangue (dipendenza), di metafore sull'astinenza (la scena della crisi di Rose in bagno), a quella della contaminazione su scala globale già vista più volte con gli zombi. Cronenberg non aderisce completamente né all'una né all'altra traccia, realizzando un onesto b-movie che presenta già caratteristiche personali che il regista svilupperà poi nelle sue opere successive.

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