sabato 8 novembre 2025

LENNY

(di Bob Fosse, 1974)

Leonard Alfred Schneider, in arte Lenny Bruce, è stato un cabarettista e comico statunitense di origini ebraiche, attivo negli ultimi anni Cinquanta e nei primi Sessanta del secolo scorso. Lenny Bruce, che attraversò anche un periodo di notevole notorietà, è passato alla storia della comicità per la sua verve irriverente, sboccata e senza pudori, capace, con uscite al vetriolo, di mettere a nudo le ipocrisie di un’America ancora bigotta nella forma, incapace di parlare onestamente dei costumi e delle abitudini nella sostanza praticate dalla maggior parte dei suoi abitanti. L’uomo dietro al comico ebbe il coraggio di sfidare le convenzioni morali e culturali di un Paese perbenista anche a costo della sua stessa libertà. La battaglia di Bruce — di Lenny come titola il film del regista Bob Fosse — perseguì un ideale non violento di libertà d’espressione che gli attirò gli strali del sistema giudiziario statunitense, deciso a perseguitarlo e condannarlo in virtù di una visione morale retrograda e passatista, una visione che di lì a poco sarebbe stata completamente superata, aprendo la strada a una comicità più libera e colorita rispetto a quella consentita all’epoca. La figura di Lenny Bruce ben si sposa con l’indole non troppo conformista di Bob Fosse, anch’egli cresciuto sul palcoscenico ben prima che dietro la macchina da presa Da regista teatrale Fosse sfoggia uno stile moderno e sensuale che in qualche modo trasferisce anche in Lenny; la scelta di Dustin Hoffman come protagonista, all’epoca uno dei maggiori interpreti della New Hollywood, è solo l’ultimo tassello per la buona riuscita di questo amaro biopic.

All’inizio della sua carriera Lenny Bruce (Dustin Hoffman) è un cabarettista alla ricerca del suo posto nel mondo della comicità. Alternando il ruolo di presentatore a quello di comico Lenny gira per locali di poco conto, in uno di questi conosce la bella e sensuale spogliarellista Honey (Valerie Perrine). Dopo una breve frequentazione i due convolano a nozze cercando di barcamenarsi per riuscire a vivere; nel frattempo la comicità di Bruce si sviluppa con una tendenza che la morale dell’epoca non può che vedere come volgare ed eccessiva. In realtà l’intento di Lenny non è mai quello di cercare la battutaccia o l’uscita a effetto fine a sé stessa, il comico cerca con i suoi monologhi di condannare apertamente l’ipocrisia perbenista di una società che reprime, anche in maniera pericolosa a suo dire, la libertà di parola e l’onestà intellettuale del cittadino. Lanciato verso un successo sempre più grande Lenny, insieme a Honey, si lascia trascinare in un vortice di vizi che segnerà la sua vita, portandolo al divorzio e a una serie di problemi ai quali si aggiungerà un sistema giudiziario sempre pronto alla facile condanna. La carriera di Lenny Bruce si spegnerà pian piano fino ad arrivare a un tragico finale.

Bob Fosse parte dal teatro, adatta una pièce di Julian Barry, qui presente anche in veste di sceneggiatore, e affida la ricostruzione della vita di Lenny Bruce alle voci della moglie Honey, di mamma Sally (Jan Miner) e del suo amico e agente Artie Silver (Stanley Beck). Siamo in piena New Hollywood e Fosse gira un film che risulta modernissimo ancora oggi; Lenny è uno dei tanti esempi che stanno lì a testimoniare come il cinema classico hollywoodiano, pur non finito, fosse stato sorpassato a destra da nuovi temi, nuove forme, nuovi personaggi e nuovi modi di recitare. La struttura temporale non è lineare, il bianco e nero dei locali fumosi, magnificamente fotografati da Bruce Surtees, si sposa al meglio al vivace montaggio adottato da Fosse che, in particolare nelle sequenze iniziali, si erge a cifra stilistica e conduce il film fino al suo finale donandogli un ritmo invidiabile. Perfetta l’accoppiata Hoffman/Perrine che mette a disposizione del film e dello spettatore una prova attoriale di gran levatura, tra decisione e sensualità, contro il finto sdegno di un Paese trincerato dietro la sua stessa ipocrisia. Deciso il finale che sottolinea come, anche nel momento della dipartita, le autorità mostrarono scarsissimo rispetto per un uomo che non aveva mai fatto del male se non a sé stesso. Le molte candidature all’Oscar, coronate dalla mancanza totale di vittorie, dimostrano come nel 1974 la figura di Lenny Bruce fosse probabilmente ancora troppo scomoda per un establishment sempre troppo conservatore.

giovedì 30 ottobre 2025

NASCITA DI UNA NAZIONE

(Birth of a Nation di David Wark Griffith, 1915)

Ciò che fece David Wark Griffith nel 1915 con il suo Nascita di una nazione oggi ci appare quasi scontato, forti di un’esperienza cinematografica costruita su centinaia e centinaia di visioni che possono spaziare dal cinema classico a quello moderno (per qualcuno addirittura dal cinema delle origini), dai film hollywoodiani a quelli d’autore, dagli esiti più canonici a quelli sperimentali. Abbiamo avuto, insomma, la fortuna d’aver visto di tutto. Nel 1915 non era così: il pubblico appassionato di immagini in movimento aveva già avuto modo di vedere molti film, ma qualcosa come Nascita di una nazione non l’aveva mai visto. Il film di Griffith viene infatti considerato dagli storici come il primo vero film narrativo della storia a consolidare i principi del cinema narrativo classico. Il cinema dell’Ottocento e quello dei primi del Novecento erano fatti di opere per lo più brevi, spesso formate da una sola inquadratura o da più inquadrature fisse; era un cinema di stampo documentaristico o un cinema “delle attrazioni”, cioè un cinema nel quale era fortemente connotata una funzione attrattiva immediata per il pubblico (una serie di gag, un atto atletico, un numero “da circo”) e nel quale ancora non era presente una concatenazione coerente di eventi, né tantomeno una vera e propria costruzione narrativa di una storia. Certo, qualche esempio c’era già stato, pensiamo a cose come La grande rapina al treno di Edwin S. Porter del 1903, o a Il viaggio nella Luna di Méliès del 1902, già ottimi e importanti esiti per un’arte che andava costruendosi film dopo film, ma nulla di paragonabile all’ambizioso progetto di Griffith, girato su 12 rulli per una durata che supera le tre ore (durata che, peraltro, regge molto bene ancora oggi) e con un budget di oltre 100.000 dollari che non furono certo rimpianti: il film portò infatti a casa un incasso record di ben 15 milioni di dollari. Il rovescio della medaglia del grande successo ottenuto dal film furono le reiterate accuse di razzismo mosse a Nascita di una nazione e a Griffith, accuse che, tutto sommato, non possono dirsi infondate. Il film fu proibito in diversi Stati dell’Unione, in alcuni anche per molti anni; in effetti l’ultima parte del film propone un’ideologia profondamente razzista che contiene quella che potrebbe quasi sembrare un’apologia del Ku Klux Klan e una visione della popolazione nera che la rappresenta come una razza selvaggia, violenta, opportunista e depravata. Griffith, figlio di un colonnello dell’esercito confederato sudista, rifiutò le accuse di razzismo, affermando che la sua era una condanna verso quei soli schiavi liberati che, a suo dire, ostacolarono la nascita della Nazione con comportamenti violenti in nome di uno spirito di vendetta verso i bianchi ex padroni.

Phil (Elmer Clifton) e Tod Stoneman (Robert Harron), figli di Austin Stoneman (Ralph Lewis), un influente politico del Nord, si recano nella magione dei Cameron, amici di vecchia data della Carolina del Sud. Qui Phil si innamora della giovane Margaret (Miriam Cooper) mentre Ben (Henry B. Walthall), fratello maggiore della ragazza, si invaghisce della sorella dei due Stoneman, Elsie (Lillian Gish), pur avendola vista solo in fotografia. Tod, invece, stringe amicizia con il coetaneo Duke Cameron (Maxfield Stanley). Lo scoppio della Guerra di Secessione interrompe gli idilli e divide le due famiglie: i Cameron combattono per l’esercito confederato, mentre gli Stoneman sostengono la causa unionista. Tod e Duke muoiono al fronte, mentre Ben Cameron, gravemente ferito, viene fatto prigioniero. Con la fine della guerra e l’assassinio di Abraham Lincoln, gli Stati del Sud vengono sottoposti a un duro periodo di ricostruzione. Austin Stoneman, fervente abolizionista, sostiene le politiche che garantiscono nuovi diritti ai neri liberati, promuovendo anche la candidatura nel Sud del mulatto Silas Lynch (George Siegmann). I neri si dimostrano ben presto rozzi e violenti, incapaci di condurre un progetto politico con serietà e decenza. Turbato dal caos e dalla violenza dilaganti, Ben Cameron decide di fondare un’organizzazione che riporti “ordine” nelle terre del Sud: nasce così il Ku Klux Klan mostrato come una forza di “restaurazione morale”. Il Klan salva Elsie, rapita da Silas Lynch che vuole costringerla a sposarlo, e libera la città da quella che viene dipinta come una vera e propria “piaga nera”.

Al di là dell’innegabile afflato razzista che imperversa per almeno l’ultimo terzo del film, è chiaro come l’opera di Griffith sia un lavoro di grande maestria e una vera pietra angolare nella storia della Settima Arte. Dietro Nascita di una Nazione c’è un lavoro di découpage in grado di offrire agli spettatori dell’epoca un montaggio che tiene vivo il ritmo della narrazione senza incorrere in cadute di tono o passaggi “fiacchi”; Griffith lavora con il montaggio alternato, mostrando più eventi che si svolgono nello stesso momento, tecnica oggi abituale ma allora novità rivoluzionaria, gioca con i piani, con vari tipi di raccordo (sull’asse, di sguardo, di movimento), tutte cifre di stile, tecniche del mestiere di regista che segneranno in maniera indelebile tutto il cinema a venire. Spettacolari i campi lunghissimi per le battaglie, la colorazione di alcuni fotogrammi e la capacità di coordinare scene di massa come quelle legate alla guerra tra Nord e Sud o quelle con protagonista l’avanzata del Klan a cavallo. Risultano oggi un poco posticci gli attori bianchi pittati di nero per interpretare gli uomini di colore (quelli veri sono pochissimi) ma per il resto qui si scrive la grammatica dell’arte. Trascurando l’ideologia, al tempo peraltro diffusa e normalizzata negli Stati del Sud (e non solo), non si può che annoverare Nascita di una Nazione tra le pietre miliari di un percorso cinematografico che nel 1915 stava solo iniziando a regalare agli appassionati tutte le soddisfazioni che arriveranno con i decenni successivi.

domenica 19 ottobre 2025

ARAGOSTE A MANHATTAN

(La cocina di Alonso Ruizpalacios, 2024)

Il 16 ottobre scorso, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, in più di trenta sale ACEC sparse per l’Italia, è stato proiettato il film Aragoste a Manhattan (titolo originale La cocina, più diretto) del regista messicano Alonso Ruizpalacios, presente in videoconferenza al termine della proiezione per rispondere ad alcune domande di esercenti e spettatori. Diciamo che in realtà, come ha confermato lo stesso regista al termine della visione, nonostante il film sia ambientato quasi interamente nella cucina di un ristorante di New York, il The Grill, Aragoste a Manhattan ha poco a che vedere con il cibo e con l’alimentazione. Ruizpalacios ha infatti spiegato di aver volutamente evitato ogni deriva legata al cosiddetto “food porn”, un’estetica sempre più diffusa su social media, web e televisione negli ultimi anni. La preparazione del cibo, dei piatti, resta per lo più fuori campo: per i protagonisti del film, quasi tutti immigrati irregolari, il cibo e l’atto del cucinare sono una questione di mera sopravvivenza. Come sottolinea il regista c’è una sola scena in cui si assiste effettivamente alla preparazione di un piatto, ed è l’unico momento del film in cui il cibo viene preparato con e per amore, segnando un’eccezione carica di significato all’interno del racconto. Anche la scelta del bianco e nero sembra confermare le parole del regista, il cibo a cui ci ha abituati la televisione è infatti soprattutto colore, presentazione, estetica, una qualità, quest’ultima, che a Ruizpalacios certamente non manca, ma che nel film sembra andare in tutt’altra direzione.

La giovane Estela (Anna Diaz) arriva a New York dal Messico in cerca di lavoro; la madre l’ha indirizzata al The Grill, un ristorante multietnico in piena Manhattan dove lavora Pedro (Raul Briones Carmona), un amico di famiglia di qualche anno più vecchio di Estela. Dopo aver superato un colloquio in parte rocambolesco (Estela non parla inglese), la ragazza viene introdotta nella caotica cucina del ristorante dove ritroverà Pedro e farà la conoscenza di cuochi, cameriere e impiegati di quello che è uno spaccato del melting-pot culturale newyorkese, ben lontano dall’appartenere a quella parte di popolazione americana che ce l’ha fatta, che è riuscita a trovare il suo posto all’interno dell’illusorio e ingannevole Sogno Americano. In concomitanza all’arrivo di Estela il contabile Mark (James Waterson) riscontra un ammanco di cassa di più di 800 dollari; il proprietario del locale Rashid (Oded Fehr) ordina al suo aiutante Luis (Eduardo Olmos) di condurre un’indagine interna e recuperare i soldi. Nel frattempo tensioni e preoccupazioni esasperano lo staff della cucina, in particolare Pedro che ha difficoltà a gestire il suo rapporto con la cameriera Julia (Rooney Mara) dalla quale aspetta un figlio.

Come dichiarato da Ruizpalacios, Aragoste a Manhattan è un film politico sul fallimento del sistema capitalista che si regge sulla disuguaglianza non solo razziale (in cucina sono quasi tutti immigrati illegali), ma anche e soprattutto di classe (il proprietario non è statunitense, è solo il padrone, uno ricco che pensa di avere più diritti degli altri). Il Sogno Americano è appunto solo un sogno, come quelli che Pedro cerca nei volti e nelle parole dei suoi colleghi in un momento di pausa dal lavoro e che si riducono a poche cose, semplici, o come nel caso di Nonz (Motell Foster) a qualcosa di totalmente incomprensibile. Il sistema si regge sullo sfruttamento dei più deboli, degli indifesi, di quella manodopera illegale tenuta sotto scacco dalla speranza di ottenere finalmente i documenti, la cittadinanza, per iniziare una vita da regolare, magari proprio in quella città che sembra così soverchiante alla giovane Estela al suo arrivo a New York. L’arrivo in città è il caos, come quello che troverà in cucina, una sorta di torre di Babele di culture sulle quali Ruizpalacios punta molto, come nella splendida sequenza dove i cuochi e le cameriere, per gioco, si esibiscono in una gara di insulti ognuno nella propria lingua: una bolgia totale. La critica al “sistema” è ovunque: nei ritmi di lavoro, nell’ingresso “opportunista” di Estela (che ruba il lavoro a un’altra ragazza), nella continua guerra tra poveri all’interno della cucina, nella mancanza reale di possibilità, nell’attaccamento possessivo ai propri spazi. Non c’è più spazio per l’amore per il proprio lavoro, né per i clienti, né per la cucina, né per il cibo. Per accrescere la sensazione di “chiusura” dei personaggi all’interno della cucina il regista messicano adopera un formato 4:3 che avvicina molto i protagonisti tra loro, usa spesso il pianosequenza per dare l’idea da “girone infernale”, una tecnica che esplode nella bellissima sequenza della cucina allagata e del crollo emotivo di Pedro, protagonista sugli scudi all’interno di un cast eterogeneo selezionato con diversi casting tra Messico, New York e Londra, vero punto di forza del film (ci sono statunitensi, messicani, colombiani, franco-algerini, albanesi, israeliani, etc…). Ci sono anche le aragoste ma in fondo, forse, non sono poi così importanti.

domenica 12 ottobre 2025

LA DONNA DEL FIUME – SUZHOU RIVER

(Sūzhōu Hé di Lou Ye, 2000)

- Se un giorno io ti lasciassi, mi cercheresti come ha fatto Mardar?
- Sì
- Mi cercheresti per sempre?
- Sì
- Per tutta la vita?
- Sì
- Stai mentendo. Cose come quella… capitano solo nelle favole.
- Non mi credi?
- No, non ti credo.


Il regista Lou Ye, nato a Shanghai nel 1965, è uno di quegli autori cinesi appartenenti alla cosiddetta sesta generazione. Si tratta di giovani registi (giovani al momento del loro esordio) che iniziarono a muovere i primi passi nel momento in cui la Repubblica Popolare Cinese stava uscendo dalle sanguinose proteste di Piazza Tienanmen del 1989. Fu in un clima di forte controllo e censura da parte dello Stato che questi giovani autori si trovarono costretti ad aggirare i divieti di Stato rivolgendosi a produzioni indipendenti e a finanziamenti provenienti dall’estero, spesso grazie alla partecipazione a festival internazionali. Per questo motivo La donna del fiume – Suzhou river, presentato senza il benestare delle autorità al Festival di Rotterdam, costò a Lou Ye due anni di interdizione dal lavoro, mentre in patria il film venne censurato e mai distribuito ufficialmente. I film della “sesta generazione” si concentrano su una dimensione urbana e raccontano la realtà di una Cina in trasformazione, un Paese alle prese con un enorme cambiamento, non ancora compiuto, a causa del quale le nuove generazioni provano un forte senso di spaesamento e marginalità, sentimenti caratteristici di quei paesi che si stanno aprendo a una forte spinta capitalistica.


Shanghai. In una zona periferica sul fiume Suzhou, un fotografo riempie muri fatiscenti con biglietti da visita fissati con vernice spray. Convocato dal proprietario dell’Happy Tavern (Yao Anlian) per un servizio fotografico, l’uomo incontra la giovane Meimei (Zhou Xun), una ragazza che offre uno spettacolo vestita da sirena. Il fotografo si innamora di questa ragazza sfuggente, i due iniziano una relazione in cui l’uomo è all’oscuro del passato della giovane, un amore incerto, senza programmi, tanto che l’uomo, ogni volta che Meimei si allontana da lui, teme di non vederla più far ritorno. Un giorno Meimei racconta al fotografo la storia di Mardar (Jia Hongsheng), un corriere povero in canna che, di tanto in tanto, accetta l’incarico di accompagnare dalla zia la giovanissima Moudan (Zhou Xun), figlia di un uomo d’affari che vuole togliersi la bambina dai piedi per avere campo libero con le sue donne. Nonostante la differenza d’età, Mardar e Moudan si innamorano. In seguito a una spiacevole vicenda nella quale Mardar ha una grossa parte di colpe, Moudan si getta nel fiume Suzhou, il suo corpo non verrà mai più trovato. Tempo dopo Mardar incontra proprio Meimei, fisicamente identica a Moudan, e l’uomo si convince di aver finalmente ritrovato il suo vecchio amore dopo aver passato anni a cercarla.


Lou Ye costruisce La donna del fiume affidando molte sequenze alla voce over del fotografo, un uomo che non vediamo mai in volto, alla sua soggettiva, mostrando ciò che lui vede grazie a inquadrature realizzate con camera a mano, e lavora sulla storia d’amore ambigua tra lui e Meimei, che potrebbe essere la stessa donna amata da Mardar, che lui conosce come Moudan, o potrebbe essere un’altra, un nodo che si scioglierà solo nel finale di un film che, come detto da più parti, in questa ambiguità omaggia Hitchcock e il suo La donna che visse due volte. Suzhou river si apre proprio sul fiume, con un piglio documentaristico tipico degli autori della sesta generazione; un montaggio veloce, sincopato, ci mostra il fiume, la sporcizia che lo lambisce ma anche la vita che, grazie a esso, i lavoratori di Shanghai possono portare avanti. È un luogo liminale, attorno al quale si sviluppano le storie dei protagonisti, una/due storia/e d’amore cui dà vita la splendida Zhou Xun, impegnata nei due ruoli femminili della pellicola. La donna del fiume esce lo stesso anno di In the Mood for Love, il film di Lou Ye condivide con l’opera di Wong Kar-wai una forte componente elegiaca e una riflessione malinconica sull’amore, ma declina entrambi questi aspetti in una chiave più disillusa, priva del lirismo raffinato del regista hongkonghese. Laddove Wong Kar-wai lavora sulla sospensione del desiderio, Lou Ye porta in scena corpi che si rincorrono, si cercano, si perdono, personaggi alla deriva in un contesto che, come per altri autori della sesta generazione, è quello di una Cina in rapido cambiamento, in cui i giovani sembrano incapaci di trovare un posto stabile, e dove l’amore appare come un’illusione o un rifugio temporaneo. Rispetto ai suoi colleghi, Lou Ye adotta però uno sguardo più intimista, meno interessato alla denuncia sociale in senso stretto e più attratto dai turbamenti interiori, dalle ossessioni individuali, dalla confusione dei sentimenti. La città si intravede appena, i protagonisti sono confinati in una periferia esistenziale prima ancora che geografica. Lou Ye cesella anche un ottimo lavoro sull’identità, resta ambiguo su quella di Meimei/Moudan, quasi a simboleggiare una crisi identitaria di un intero Paese e della sua popolazione, spaesata a causa del cambiamento incombente. Non ha forse la potenza dei film di Jia Zhang-Ke questo La donna del fiume, ma allo stesso tempo, in modi diversi, sottolinea un momento di difficile transizione di quella che, da lì a poco, diverrà una delle potenze economiche dell’intero pianeta.

sabato 4 ottobre 2025

FUORI

(di Mario Martone, 2025)

Con Fuori il regista napoletano Mario Martone compie un’operazione libera dagli stretti vincoli di una struttura costruita e chiusa; dà vita così a un film ondivago, non lineare, anche disordinato se si vuole, ma sempre molto vivo e sentito. Fuori è uno squarcio sull’esistenza della scrittrice siciliana Goliarda Sapienza, lontano dalla completezza, dall’operazione agiografica, dal biografismo compìto e calligrafico, non ci dice tutto ma inquadra una protagonista nell’atto del “sentire”: del sentirsi libera, connessa a una vita e a delle donne molto diverse da lei e da quel che è stata in passato (almeno fino all’episodio che cambierà la sua vita e, appunto, il suo “sentire”), del sentirsi sempre più lontana da una società altoborghese asfissiante e poco “vera”. Del sentirsi scrittrice incompresa. Non c’è cronologia né cronaca: Martone mette al centro il percorso interiore di una donna, in realtà quello di più donne, un percorso fatto di libertà, amore, attaccamento all’altro e autoaffermazione (che purtroppo arriverà per Goliarda Sapienza un po’ troppo tardi, almeno qui in Italia). Martone lavora molto bene con le sue donne (e con le tre attrici che le interpretano), le cesella con puntualità, come non fa mai troppo con gli eventi, che invece fluiscono. Ed è proprio nel fluire che questo lavoro trova forza: nella vitalità sghemba e intermittente della sua protagonista, che si accende solo a contatto con altre donne — nel carcere, nella lotta, nel corpo a corpo emotivo e sensuale — e si spegne, si opacizza, si svuota nei salotti borghesi, nei colloqui con le persone “per bene”.


Goliarda Sapienza (Valeria Golino) è una scrittrice: qualche libro già pubblicato, collaborazioni con giornali e un romanzo in divenire che accoglie tutta la sua passione per la scrittura e per la vita, ma che nessuno sembra essere intenzionato a pubblicare. Sposata con Angelo (Corrado Fortuna), traduttore e attore, Goliarda frequenta i salotti borghesi della Roma bene. A seguito di un furto compiuto più per ripicca che non per bisogno di denaro o di trasgressione, la scrittrice passa un periodo nel carcere femminile di Rebibbia, dove incontra, tra le altre detenute, la giovane Roberta (Matilda De Angelis), tossicodipendente e implicata con il brigatismo di fine Settanta, inizio Ottanta, e Barbara (Elodie), una borgatara che tenterà poi la scalata verso la redenzione. Con l’esperienza del carcere e il legame con queste donne, la vita di Goliarda cambia per sempre; la donna sente la vacuità della sua vita borghese in contrapposizione alla vitalità di amicizie sincere anche se problematiche, soprattutto quella con Roberta, spesso conflittuale ma tenuta accesa da un amore vero che forse supera anche i confini dell’amicizia. In una Roma periferica e quasi astratta, Goliarda Sapienza in qualche modo muta, matura e scrive…


Forse ci vuole più di un attimo per “entrare dentro” (parole adatte a questo film) al Fuori di Mario Martone, sicuramente uno tra i registi più interessanti che il nostro Paese oggi possa annoverare. Con il passare dei minuti e dei frammenti si entra però in empatia con la protagonista e con il suo nuovo rapporto con la vita e con gli altri, con le altre in realtà, un parterre di donne tra le quali spiccano quelle interpretate dalla De Angelis e da Elodie, entrambe, insieme alla Golino, protagoniste di prove intense e molto “adatte” a raccontare i legami e quella sorta di sorellanza nata tra le quattro mura di una cella di prigione. Così il film di Martone gioca molto sulla dicotomia fuori/dentro e con il ribaltamento delle due situazioni in quello che solitamente è il senso comune di intenderle. Il carcere qui sembra essere la vita, la vera libertà, il “fuori” è invece un mondo sterile, artefatto, freddo e spesso compiaciuto, non per nulla sarà il “coro” delle detenute ad offrire uno dei momenti più toccanti e sentiti del film. Pur avendo Goliarda Sapienza come protagonista, in Fuori non è da meno la parabola esistenziale del personaggio di Roberta, forse ancor più complicato di quello di una quasi inafferrabile Goliarda, fragile e forte allo stesso tempo, dipendente, libera, complessa. Complicate, vive, proprio come il film di Martone, le tre attrici tratteggiano tre belle figure femminili, vere, difficili come quell’arte della gioia che a volte è fatta di singoli momenti, magari caduchi, transitori, eppure così maledettamente intensi.

domenica 28 settembre 2025

SOTTO LE FOGLIE

(Quand vient l’automne di François Ozon, 2024)

È un film di sottile intelligenza il Sotto le foglie di François Ozon. L’ultimo film del regista parigino gioca con il pubblico al quale chiede di porre attenzione a tutte le situazioni e a tutti i dialoghi per non essere ingannato e per colmare i vuoti lasciati ad arte dallo stesso regista nel corso della narrazione. Sotto le foglie può essere ascritto al genere del thriller, un thriller però mai troppo giocato sulla tensione, sul disvelamento dei fatti, sulla ricerca e sulla scoperta di un colpevole. Quello di Ozon è un film sulla legge e sulla verità: sulla legge dell’uomo in contrapposizione alla legge morale, alla legge dell’animo, sulla verità dei fatti e sulle verità che ci raccontiamo e che raccontiamo agli altri (alla polizia per esempio) per preservare e proteggere felicità, serenità, desideri. Sotto le foglie è anche un film di legami familiari con una rappresentazione degli affetti non convenzionale e lasciata, per alcuni snodi chiave, nel dubbio più totale, motivo più che sufficiente per considerare quest’opera di Ozon pienamente riuscita nella volontà di indagare situazioni e ambienti senza mai fornire risposte chiare, nemmeno quelle legate al dramma centrale di questo giallo totalmente atipico, un giallo “di provincia” dove anche le forze dell’ordine sembrano avere ritmi e sensibilità diverse da quelle che il genere solitamente impone.


Borgogna. L’anziana Michelle Giraud (Hélène Vincent) vive da sola nella sua grande casa di campagna. Michelle frequenta la chiesa del paese, cura il suo orto, fa lunghe passeggiate con la sua amica Marie-Claude (Josiane Balasko) con la quale va spesso a raccogliere funghi; ogni tanto la accompagna a trovare in carcere suo figlio Vincent (Pierre Lottin). La donna vive nell’attesa delle visite dell’amato nipote Lucas (Garlan Erlos), un adolescente molto legato alla nonna la quale ha invece un rapporto molto difficile con sua figlia Valérie (Ludivine Sagnier), la madre di Lucas. Valérie sembra essere una donna molto materiale che pretende dalla madre costante aiuto economico, nonostante Michelle le abbia già lasciato la casa di Parigi nella quale Valérie risiede con il figlio. Durante una visita di figlia e nipote nella casa di campagna, Valérie si sente male dopo aver mangiato dei funghi raccolti nei boschi proprio dalla madre. Essendo l’unica a essere finita in ospedale, la donna si convince di essere stata avvelenata di proposito dalla madre e la minaccia di non farle più vedere suo nipote Lucas. Nel frattempo Vincent esce dal carcere e viene da Michelle aiutato a rimettersi in piedi: un lavoro ben retribuito nell’orto, un piccolo prestito per iniziare una nuova attività; così Vincent si propone di dare una mano a Michelle per ricucire i rapporti con la figlia e soprattutto far sì che possa tornare a vedere suo nipote. Purtroppo sembra che Vincent abbia una dote innata nel combinare disastri.


Sotto le foglie si muove con una calma apparente, quasi dimessa, ma costantemente tesa tra la quiete della vita di campagna e le fratture, sottili o profonde, che attraversano i legami familiari. Ozon gioca con l’incerto, non chiarisce, volutamente lascia più dubbi che certezze, sia nello sviluppo dei fatti sia nelle reali intenzioni dei protagonisti come nel caso dell’incidente dei funghi. La trama gira intorno alla costruzione del concetto di famiglia, si aggrappa alle reti dei legami, gioca sull’ambiguità di alcuni protagonisti, in parte su quella di Michelle, molto su quella di Vincent, interpretato dall’ottimo e interessante Pierre Lottin, ma anche, soprattutto nel finale (attenzione), su quella del piccolo Lucas. A comandare c’è la morale di ognuno dei personaggi, non la legge, non il sangue, ma l’amore, l’affetto, l’amicizia, sentimenti forti tanto da piegare (forse) i fatti fino a far prevalere ad essi la forza dei sentimenti stessi. Quello di Ozon è un incedere lento, minuzioso, avvolgente, basato su una sceneggiatura cesellata in maniera da poter arricchire di un altro tassello di valore il bel catalogo del miglior cinema d’oltralpe.

domenica 21 settembre 2025

ELIO

(di Adrian Molina, Domee Shi, Madeline Sharafian, 2025)

Il problema – se di problema si vuol parlare – della Pixar più recente è legato alla fatica che si fa a trovare nelle opere della casa di produzione californiana quella spinta verso l’innovazione e quell’ambizione a superarsi che, fino a qualche anno fa, sembravano parte integrante del suo DNA creativo. È probabile che questi siano alcuni dei motivi che hanno contribuito a decretare l’insuccesso commerciale di Elio, l’ultimo film targato Pixar, un destino poco lieto che tutto sommato il film non meritava. È pur vero che, sia sul versante grafico, sia su quello narrativo, Elio non presenta spinte rivoluzionarie né grandi passi avanti (o anche solo laterali) nel discorso che Pixar e anche Disney portano avanti ormai da diverso tempo; ciò nonostante rimane una narrazione piena di spunti e tematiche interessanti, soprattutto per i giovani in via di formazione, espressa con la solita perizia ed eleganza alla quale la casa della lampada ci ha sì abituati, ma che a ogni modo continua a essere garanzia per prodotti quantomeno validi. In questo, Elio non fa eccezione: il film unisce buoni sentimenti a temi sentiti e universali (in questo caso è proprio il caso di dirlo), che non mancheranno di muovere nel pubblico empatia verso i piccoli protagonisti e momenti di commozione non rari in film di questo genere.

Elio Solis è un ragazzino che ha perso entrambi i genitori in un incidente, ora vive con la zia Olga, una ricercatrice che lavora a un progetto spaziale che ha lo scopo di monitorare i detriti vaganti presenti nello spazio. Elio soffre di solitudine, sente la mancanza dei genitori ed è convinto che la zia lo veda come un peso (cosa non vera) e un ostacolo alla sua carriera in campo aerospaziale. Il ragazzino è affascinato dallo spazio e dalla possibilità che lassù ci sia vita extraterrestre; con mezzi di fortuna cerca in tutti i modi di comunicare con altre civiltà nel tentativo di farsi rapire dagli alieni e vivere una vita diversa da quella sulla Terra, una vita da orfano con pochi amici e quasi nessun legame. Per una combinazione di eventi il suo messaggio viene davvero intercettato da alcune forme di vita aliena: il Comuniverso, un consesso di civiltà aliene che scambiano Elio per il leader della Terra e lo invitano a far parte della loro organizzazione pacifica intergalattica. Elio vede il suo sogno avverarsi, è affascinato dal Comuniverso e vorrebbe restare; c’è però un altro candidato a far parte del Comuniverso, il più aggressivo e riottoso Lord Grigon. I membri del Comuniverso, spaventati da Grigon, daranno la possibilità a Elio di trattare con l’alieno guerrafondaio; Elio però è solo un bambino e presto farà amicizia con il figlio di Grigon, il vermiforme e tenerissimo Glordon, un giovane pacifico che non ha nessuna intenzione di diventare una macchina da guerra come la sua cultura impone.

Dato per assodato come in casa Pixar comunque si facciano sempre le cose per bene, pur non presentando elementi di grande innovazione, Elio si dimostra un film capace di farsi portavoce di un disagio che molti custodiscono gelosamente nel proprio animo senza mai esternarlo (o facendolo con gran fatica), ovvero quel senso greve di solitudine che nasce dal sentirsi poco capiti o non apprezzati nel luogo che dovrebbe essere per tutti un rifugio: casa, famiglia, affetti. In Elio tutto muove da una perdita profonda, irreparabile; quello tra i due Solis rimasti è un rapporto d’amore incompreso, un rapporto difficile dove l’incomunicabilità porta a credenze erronee, tanto da scatenare un fuga e attenzioni rivolte all’esterno dove spesso è facile trovare nuovi stimoli e maggior comprensione. Pur non toccando vette viste in passato in casa Pixar, Elio sa toccare le corde giuste muovendosi all’interno di una narrazione sempre piacevole e comprensibile anche dai più piccoli. Si prosegue su quella rotta “intimista” che non mette più al centro della storia la contrapposizione buono/cattivo (in fondo qui nemmeno Lord Grigon è malvagio, anzi) quanto piuttosto le relazioni, decisamente più complicate da dirimere, tra amici, familiari, consanguinei, etc… Altro punto a favore del film è la scelta di non riproporre personaggi già visti, come accaduto con molti sequel recenti, andando così ad ampliare, con la fantascienza per giunta, un immaginario che si spera possa anche in futuro proporre cose nuove, magari con la speranza che qualcuna di queste si riveli anche (ancora una volta) innovativa.

martedì 16 settembre 2025

MEGALOPOLIS

(di Francis Ford Coppola, 2024)

Francis Ford Coppola torna al cinema dopo ben tredici anni di silenzio; la sua ultima opera, Twixt, risale al lontano 2011. Con Megalopolis Coppola sembra aver finalmente realizzato uno di quei sogni-progetto che accompagnano gli artisti visionari per una vita intera; sembra infatti che le prime idee embrionali, poi confluite in Megalopolis, siano germinate addirittura sul set di Apocalypse Now, uno dei capolavori del regista nato a Detroit, film uscito nel 1979. Questo significa tornare indietro nel tempo di più di quarantacinque anni — una vita, appunto — a un’epoca in cui Coppola, insieme ad altri, già contribuiva a trasformare i linguaggi e le forme del cinema di allora. Megalopolis sembra quindi essere molto più di un film: è la materializzazione di un’ossessione creativa, di un’idea rimasta sospesa nel tempo, alimentata dalla visione di un artista che ha sempre inseguito il proprio cinema, indipendentemente dalle convenzioni dell’industria. E come spesso accade per questi progetti bigger than life, il risultato non può che essere divisivo oltre che, a volte, portare a una perdita catastrofica di denaro. Costato circa centoventi milioni di dollari, parte dei quali recuperati dallo stesso regista costretto a vendere alcune sue proprietà pur di finanziare il film, Megalopolis ha fatto registrare un incasso totale che non supera i quindici milioni, generando così un flop macroscopico che presumibilmente neanche i passaggi successivi su piattaforma riusciranno a colmare. Pur se maltrattato, anche aspramente, da più di un critico, Megalopolis ha quantomeno il pregio di arrivare nelle sale contemporanee come un oggetto non identificato che si porta dietro la capacità di spiazzare lo spettatore chiamato a confrontarsi con un’opera non banale, una di quelle che non capita di vedere al cinema proprio tutti i giorni (e nemmeno tutti i mesi). Magari non sarà un “cinema del futuro”, se vogliamo può essere visto come un cinema che fu “del futuro” nel momento in cui venne concepito, ora sorpassato da quella maledetta velocità delle cose alla quale noi tutti siamo tenuti quotidianamente a star dietro. Megalopolis è qualcosa di “fuori norma”, di “fuori scala”, e questo già gli consente di ritagliarsi almeno un minimo della nostra attenzione di appassionati della settima arte. Poi, effettivamente, il film di Coppola può anche non piacere, ma questo è un altro discorso.


New Rome è una sorta di New York del futuro, una città decadente che presenta diverse caratteristiche mutuate dall’antica Roma, non ultimi alcuni dei protagonisti della nostra storia che richiamano quelli della Roma imperiale. Tra questi c’è Cesar Catilina (Adam Driver), una sorta di architetto visionario con il potere di fermare il tempo. Catilina ha in mente per New Rome (o almeno per uno dei suoi quartieri più malfamati) una sorta di rinascita utopistica, un’idea di “città del futuro” rafforzata dalla sua scoperta di un materiale duttile e resistente: il megalon. A spalleggiare la visione di Catilina c’è suo zio Hamilton Crasso (John Voight), proprietario della più importante banca di New Rome. I due sono in aperto contrasto con l’attuale sindaco della città, Francis Cicero (Giancarlo Esposito), un tradizionalista intenzionato a rilanciare la città con la miope visione del guadagno facile (un casinò nella fattispecie) e con i soliti cemento e acciaio. Nel contrasto tra un sogno di benessere condiviso e quello di un egoismo opportunistico, si inseriscono più di una variabile: la bellissima Julia (Nathalie Emmanuel), figlia di Cicero che sposa però la causa di Catilina, l’invidioso cugino di quest’ultimo, Clodio (Shia LaBeouf), un avido idiota, e l’arrivista, giornalista e soubrette Wow Platinum (Audrey Plaza), prima legata a Catilina, poi a Crasso. Il conflitto tra queste fazioni porterà a una serie di alleanze, tradimenti e rivelazioni, mentre sullo sfondo New Rome si prepara a un possibile punto di svolta destinato a cambiarne per sempre il volto.


Non sono d’accordo con il pensiero ricorrente che vuole Megalopolis come un film che invita agli estremi, come uno di quei film da amare o da odiare senza vie di mezzo. È piuttosto necessario capire, più che dove il film voglia andare a parare, a che tipo di opera il regista volesse in realtà dar vita. L’impressione che rimane a visione ultimata non è tanto quella di un autore intento a veicolare messaggi o letture, queste a volte davvero troppo scoperte (la giustizia che crolla, le tavole delle leggi distrutte, etc...), quanto quella di un uomo che si balocca con il suo sogno, magari barocco, fuori fuoco e scentrato, e che si industria, anche rimettendoci del suo, per portarlo alla luce, costi quel che costi, piaccia o non piaccia (e spesso non piace). In quest’ottica Megalopolis merita tutto il nostro rispetto, sulla sua riuscita possiamo discutere, a parere di chi scrive ci si trova di fronte a un’opera non “bella” quanto “affascinante” per tutti i motivi detti sopra. Il risultato è visivamente straniante con i suoi toni ocra e il contrasto tra una città futuribile (ma in realtà già vista) e il degrado di quella che sembra a tutti gli effetti la New York attuale. Il film è infarcito di citazioni letterarie e cinematografiche, di metafore da fine impero (l’America oggi come la vecchia Roma?), di discorsi su corruzione, disparità sociale, populismo, di simbolismo, di figure archetipiche; su tutto ciò si può discutere, ampliare il discorso, ragionare. Ma è davvero importante? È questo il senso di Megalopolis? Oppure, ancora una volta, il nodo è il rincorrere un sogno, il mettersi in gioco per tentare (magari fallendo) di spostare l’asticella, di trovare una via nuova. Coppola vuole offrire un grande spettacolo, a ognuno di noi decidere se ci è riuscito. Megalopolis non sarà il film dell’anno, almeno non credo, ma, forse, un domani sarà qualcosa. Solo il tempo, ammesso che nessuno lo fermi, saprà dirci di preciso che cosa.

sabato 6 settembre 2025

COPPERMAN

(di Eros Puglielli, 2019)

È sotto gli occhi di tutti l’invasione che i supereroi, diciamo dai primi anni Duemila circa, hanno progressivamente portato avanti, film dopo film, all’interno della programmazione delle sale di tutto il mondo. Prodotti Marvel, DC Comics, personaggi provenienti da case editrici indipendenti o “minori”, hanno quasi monopolizzato l’immaginario del blockbuster statunitense dividendosi i grossi introiti con l’animazione e poche altre cose. Nel nostro piccolo, senza l’ambizione di competere con i prodotti analoghi d’oltreoceano e a volte ottenendo risultati più che dignitosi, anche in Italia abbiamo sfornato i nostri super: i due episodi de Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, Freaks out e Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e in maniera più trasversale anche questo Copperman di Eros Puglielli, che in fondo un film di supereroi proprio non è. Il regista romano non pare infatti troppo interessato a questo aspetto, (e per fortuna viene anche da dire) focalizzando i suoi sforzi e la sua attenzione sulle figure di due bambini cresciuti in situazioni difficili in famiglie segnate da assenze e figure di riferimento sbagliate se non addirittura tossiche (non tutte per fortuna). Con i suoi protagonisti ben in mente Puglielli, senza eccedere, mette la sua regia dinamica a servizio di una storia tenera e delicata dove l’ingenuità di due anime candide e sfortunate si scontra con il mondo, spesso sbagliato, degli adulti.


Anselmo (Sebastian Dimulescu) è un bambino autistico che odia il giallo e trova conforto nelle figure circolari; vive con la madre Gianna (Galatea Renzi): il padre li ha abbandonati alla nascita del figlio ma Gianna ha sempre raccontato ad Anselmo che il papà è un supereroe, partito per ripulire il mondo. Così il ragazzo cresce sfogliando albi a fumetti cercando di capire quale tra quei personaggi possa essere suo padre, legando a filo doppio la figura del padre al concetto dell’eroe. Un giorno Anselmo incontra la piccola Titti (Angelica Bellocci), figlia dell’usuraio che tiranneggia tra gli altri anche Gianna, e se ne innamora di un amore innocente ed eterno. Quando Titti sarà costretta a lasciare il paese, Anselmo continuerà a coltivare dentro di sé quel primo amore romantico. Anni dopo Anselmo (Luca Argentero) è un uomo adulto, convive ancora le sue difficoltà, ha però un lavoro in una casa di cura per malati mentali, pochi amici e la sua fissazione per i supereroi. Con l’aiuto dell’amico Silvano (Tommaso Ragno), un fabbro rude ma affettuoso, Anselmo assume l’identità segreta di Copperman, l’uomo di rame, e inizia a raddrizzare torti nel suo paese. Quando una Titti ormai adulta (Antonia Truppo) torna improvvisamente a casa con tanto di padre degenere al seguito, in Anselmo si riaccende un sentimento mai sopito e, forse, anche la possibilità di diventare davvero un eroe.


Puglielli mantiene nel tono del racconto l’innocenza di un uomo che è rimasto fermo alla sua infanzia e che continua a vedere il mondo con gli occhi di un bambino. Questa visione, unita ai temi dell’autismo e della difficoltà dei bambini protagonisti nel crescere in famiglie disfunzionali o semplicemente colpite da un’assenza importante, scatena nello spettatore una naturale empatia e una tenerezza nei confronti dei protagonisti che fanno accettare di buon grado anche alcune ingenuità di costruzione. Si intuisce come la regia vivace di Puglielli sia finanche frenata da un contesto dove all’azione (fiabesca, mai troppo credibile) è doveroso anteporre l’attenzione al personaggio, alle relazioni, ai temi. Non ci sono elementi tali da rendere questo Copperman un film da ricordare: l’incedere è abbastanza programmatico, le interpretazioni di Argentero e della Truppo, a tratti un poco ingessate, potrebbero anche cogliere nel segno, il “fiabesco” è forse un po’ troppo spinto. Ciò nonostante la visione rimane sempre gradevole, ne esce un film piccolo ma capace di restituire con dignità uno sguardo sull’eroismo quotidiano di chi si trova a convivere con fragilità che non gli rendono facile la vita, una condizione della quale i più fortunati dovrebbero sempre tenere conto con rispetto e solidarietà.

martedì 2 settembre 2025

CROSSING THE BRIDGE – THE SOUND OF ISTANBUL

(di Fatih Akin, 2005)

Ci sono città che vivono su un confine, altre che sono il confine. Istanbul è una di queste: crocevia di culture, di storie, di lingue e religioni, ma anche di suoni, rumori, melodie che raccontano meglio di qualsiasi guida turistica l’anima complessa della metropoli sul Bosforo. In questo Crossing the bridge – The sound of Istanbul l’ecletticità sonora della città turca diventa la chiave per narrare una città attraverso alcuni elementi che rappresentano le due anime del regista Fatih Akin. Di origini turche ma cresciuto ad Amburgo in una situazione ambientale non troppo semplice, Akin riesce a evitare un destino segnato da delinquenza e marginalità proprio grazie al cinema, costruendo un percorso artistico che lo ha portato alla consacrazione internazionale giunta con l’Orso d’oro al Festival di Berlino ottenuto per il film La sposa turca. A incarnare l’anima tedesca di Akin troviamo il musicista Alexander Hacke, storico bassista degli Einstürzende Neubauten, band sperimentale in attività dai primissimi anni Ottanta. Hacke aveva già collaborato con Akin proprio per la composizione delle musiche de La sposa turca; l’incontro del musicista tedesco con i suoni e la musicalità di Istanbul (l’anima turca di Akin) è l’occasione per esplorare aspetti e contraddizioni di una città attraverso la sua produzione musicale, perché secondo l’adagio attribuito al pensatore Confucio “per capire un luogo è necessario ascoltare la sua musica”. Quest'ultimo pensiero mi riporta alla mente il video che divenne virale qualche tempo fa di Andrea Scanzi che commentava lo stato dell’arte della nostra produzione musicale (quella più ascoltata) e lo accostava alle derive recenti, anche politiche, della nostra povera Italia. Perché la musica è parte vitale di un Paese, e se questo è guidato e vissuto male, rischia di pensare male, allora, inevitabilmente, suonerà anche male.

The sound of Istanbul ci mostra gli incontri musicali di Alexander Hacke nella città turca, la permanenza in loco del musicista tedesco alla scoperta delle varie declinazioni della musicalità che rende viva e unica Istanbul, vero crocevia di culture e, come dichiarano alcuni dei protagonisti intervistati, non tanto confine tra più mondi e continenti quanto ponte d’unione, legame e passaggio tra più culture, quella orientale e quella occidentale ma anche quella moderna e quella tradizionale. Si parte dalla neo psichedelia dei Baba Zula i quali, avendo da poco perso il loro bassista, collaboreranno in maniera attiva con Hacke tirato dentro la loro formazione, almeno per un po’. Il musicista tedesco, seguito ovviamente a vista da Akin, incontrerà diversi ragazzi e ragazze giovani intenti a ibridare il rap e l’hip hop statunitensi con una loro visione più impegnata della musica, più legata alla loro terra e vicina al sentire del popolo turco, un popolo fatto di minoranze, unioni, divisioni. E ancora la breakdance vista come viatico per allontanare i giovani dalle derive più pericolose della strada, la tradizione triste della musica popolare curda, etnia spesso repressa e bistrattata, l’incontro con le grandi star di un passato recente (Erkin Koray, Sezen Aksu), i musicisti di strada che di strada vivono e rifuggono le lusinghe dell’industria musicale, gli incontri alticci e vitali delle etnie rom, tutto ovviamente a suon di musica, tra strumenti tradizionali e derive più moderne e occidentali.

Crossing the bridge – The sound of Istanbul mischia i suoni della variopinta scena musicale turca ai rumori di una megalopoli che a oggi conta circa quindici milioni di abitanti. Il caos delle strade, la bellezza di alcuni scorci, il famoso ponte sul Bosforo, i locali frequentatissimi di quartieri una volta malfamati, le varie tradizioni e le diverse etnie, sono tutti elementi che contribuiscono a tratteggiare una Istanbul vista con le orecchie più che con gli occhi, approccio sicuramente originale da parte di Fatih Akin che confeziona una testimonianza, un viatico di conoscenza più che un classico documentario. Ci si immerge in questa realtà a noi poco nota (se non si è stati a Istanbul) con curiosità e libero trasporto, condizione necessaria per meglio apprezzare un’opera girata con passione ma anche sfilacciata e ondivaga, della quale un po’ si fatica a trovare un centro, un nodo focale che possa donare un senso di compiutezza o anche solo di finalità, scelta che tutto sommato potrebbe anche essere considerata coerente con la materia trattata. È un film questo per inguaribili curiosi, anche per chi ama viaggiare da fermo, acquisire esperienza così come viene, senza preconcetti né mete prefissate. Si parte, si va, dalle parti di Istanbul, poi chissà…

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