venerdì 11 ottobre 2024

MIO ZIO

(Mon oncle di Jacques Tati, 1958)

Monsieur Hulot è un personaggio di fantasia, sorta di alter ego del regista francese Jacques Tati; questo signore allampanato, un po' goffo, fumatore di pipa, portatore di cappello e amante della bicicletta compare in diversi film di Tati ed è dallo stesso interpretato, le sue peripezie si possono ammirare in Le vacanze del signor Hulot, film del 1953, nel qui descritto Mio zio (1958), forse il film più celebre e premiato tra quelli realizzati da Tati, in Play Time - Tempo di divertimento (1967) e in Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971). Il personaggio divenne talmente celebre in Francia (e oltre) da guadagnarsi anche una curiosa apparizione nel film di François Truffaut Domicile conjugale da noi tradotto con un più farsesco Non drammatizziamo... è solo questione di corna. La celebrità di Monsieur Hulot è dovuta in particolar modo a Mio zio (non a mio zio, al film Mio zio, quello di cui vorrei parlare oggi), pellicola che alla trentunesima edizione dei premi Oscar vinse la categoria per il "miglior film straniero" battendo tra l'altro anche il nostro I soliti ignoti di Monicelli, mentre a Cannes si portò a casa il Premio della giuria. Se Hulot è quasi una gloria nazionale per i cugini d'oltralpe Tati non è da meno, anche lui omaggiato da altri autori, da recuperare lo splendido film d'animazione di Sylvain Chomet, L'illusionista, costruito su un abbozzo di sceneggiatura inedita dello stesso Tati che presentava qualche sentore autobiografico, omaggio da non perdere. Ma torniamo a Mio zio (non fatemi ripetere la battutaccia di prima...).

Il piccolo Gérard Arpel (Alain Bécourt), nove anni, vive con i suoi genitori in una casa modernissima. Siamo ancora negli anni 50 ma papà Arpel (Jean-Pierre Zola), proprietario di una fabbrica all'avanguardia che produce materiale plastico, ha deciso di andare a vivere in un quartiere in via di sviluppo in una casa avveniristica. L'abitazione è di un colore uniforme, geometrica nell'aspetto, ordinatissima e minimale all'interno, dotata di un impeccabile giardino con al centro una fontana a forma di pesce che a comando sputa acqua dalla sua bocca metallica e da altre mille diavolerie al passo con i tempi, anzi finanche precorritrici degli stessi. Papà Arpel non ha molto tempo per il piccolo Gérard, tra i due corre una distanza generazionale che sembra incolmabile, mamma Arpel (Adrienne Servantie) è sempre indaffarata per tenere pulita e in ordine la casa, per mostrarla ai vicini e un poco vantarsene, nell'accendere e spegnere di continuo la fontana a seconda delle visite (per risparmiare si immagina), nello star dietro a tutte le diavolerie di questa modernità senz'anima. Gérard, va da sé, quindi si annoia. Per fortuna c'è lo zio Hulot che spesso si prende cura del bambino, lo porta in giro, lo fa giocare per strada con gli altri monelli della sua età, gli permette di sporcarsi e mangiare deliziose porcherie, in generale di assaporare la vita di un'epoca che sembra ormai al tramonto e che Monsieur Hulot (Jacques Tati) non ha nessuna intenzione di abbandonare in favore di quella più fredda e impersonale che sembra prospettarsi da lì a poco.

Jacques Tati, come è nel suo stile, struttura il suo film con pochi dialoghi e lascia il compito di esplicare le situazioni a immagini e suoni, il suo Hulot praticamente non parla mai, è qui veicolo di uno stile di vita più antico e più umano, genuino e soprattutto vivace e conviviale rispetto a quello che la vita moderna impone e che, volontariamente o meno, i suoi genitori stanno imponendo al piccolo Gérard che, vista la tenera età, di tutto ha bisogno fuorché di un ambiente glaciale e di relazioni fredde. Così, quando il bambino è con lo zio, si assiste al ritorno a quella vita di strada (ricordiamoci che siamo a fine anni 50) dove i bambini tiravano scherzetti ai passanti, si sporcavano, facevano merenda tutti insieme, avevano quei contatti umani che la visione di Tati aveva già predetto che in qualche misura sarebbero andati persi in un tempo futuro (e purtroppo il regista ci aveva visto lungo). Dal punto di vista scenografico (scenografie di Henri Schmitt) c'è un bel contrasto tra la maison futurista degli Arpel e la casa di Hulot sita in un quartiere popolare, strade in terra battuta, vicini rumorosi, bambini gioiosamente invadenti, scale, passaggi, parapetti da percorrere per raggiungere il proprio nido, tutto meno funzionale ma decisamente più romantico. È questo uno specchio della differenza tra uno stile di vita semplice, magari meno organizzato ma più sentimentale, è una modernità scandita da un progresso che già nei Cinquanta metteva davanti ai contenuti l'immagine, l'apparire. Gli Arpel hanno una bella casa da mostrare, un giardino impeccabile, l'auto nuova, l'ultima diavoleria in fatto di portoni basculanti, ma stringi stringi il loro bambino preferisce la compagnia dello zio alla loro, e quindi a che pro tutto ciò? C'è già un bel pensiero da parte di Tati, senza mai voler essere passatista, su quanto sia opportuno o meno abbracciare modernità e progresso a ogni costo, in tutti gli aspetti della vita; mentre gli incontri degli Arpel con i vicini sono per lo più freddi, quelli di Hulot con perfetti sconosciuti (vedi la scena della caduta del passante nel fiume) sono il viatico per nuove amicizie, magari anche occasionali, baldorie, bevute, occasioni conviviali delle quali si bea, senza annoiarsi finalmente, anche il piccolo Gérard. A quest'ultima visione di vita si oppone la nascente società dei consumi: lavorare, produrre, consumare (cose inutili per lo più) e tornare a lavorare; papà Arpel, invidioso dell'affetto che il figlio prova per lo zio, tenterà a più riprese di inserire Hulot in questo meccanismo deumanizzante. Per fortuna, il finale ce lo dimostra, Hulot resiste e, almeno in questo film, riesce a fare scuola tirando fuori del sangue da quella che all'apparenza sembrava una rapa. Non male per questo strambo lungagnone dal cuore tenero.

mercoledì 9 ottobre 2024

I SEGRETI EROTICI DEI GRANDI CHEF

(The bedroom secrets of the Master Chefs di Irvine Welsh, 2006)

Nel 2006, anno di uscita di questo I segreti erotici dei grandi chef, Irvine Welsh era un autore già affermato che poteva vantare in curriculum alcune di quelle che ancora oggi sono tra le sue opere più famose, a partire da quella sorta di trilogia edimburghese che tornava a più riprese sugli stessi personaggi e su un piccolo mondo condiviso che si sviluppava principalmente attorno al Leith Walk, periferia nord di Edimburgo, un trittico formato dal capostipite Trainspotting, poi portato al cinema con successo dal regista Danny Boyle, dal capolavoro generazionale Colla e infine dal licenzioso Porno (non che gli altri fossero poi proprio scritti pudìci). I segreti erotici dei grandi chef è uno dei romanzi del primo periodo di Welsh (sono passati quasi vent'anni ormai dalla sua uscita) a non abbracciare una narrazione collettiva e a concentrarsi su pochi personaggi principali, qui sono due, il protagonista Danny Skinner e una sorta di suo alter ego, il ragazzo il cui destino è indissolubilmente legato al suo, il giovane Brian Kibby, non i soliti spurghi di corea che Welsh ci ha insegnato ad amare nel corso degli anni e delle pagine ma a ogni modo due edimburghesi appartenenti alla working class, seppure non proprio di quelli ai margini o ai più bassi livelli della classe lavoratrice. Riprendendo temi e luoghi noti e infondendo un tocco di novità al suo raccontare Welsh infila con grazia il suo sesto romanzo (e c'erano già state un paio di raccolte di racconti: The acid house ed Ecstasy).

Danny Skinner è un uomo ancora giovane e parecchio piacente che lavora per l'ufficio d'igiene di Edimburgo nella divisione che si occupa di ispezionare le cucine dei ristoranti della capitale scozzese. Competente ma a volte umorale, condizione forse causata da una dipendenza da alcool non ancora diagnosticata o forse dal fatto che Danny è cresciuto senza un padre, un padre del quale non sa nulla vista la reticenza a parlarne da parte della madre Beverly, una ex punk che oggi gestisce un negozio di parrucchiera, Danny non manca di infliggere pesanti sanzioni anche ai più noti chef della cucina edimburghese, come il grande (e grosso) De Fretais, autore del bestseller I segreti erotici dei grandi chef e massima autorità di una cucina da incubo. Brian Kibby è invece il classico bravo ragazzo, amorevole con la bella sorella Carolyne, rispettoso della madre e preoccupato per la salute del padre ricoverato in ospedale. Brian è un po' il classico sfigatello, impacciato con le ragazze, timido, si accompagna con un gruppo di nerd che ama i videogiochi e le convention di Star Trek, ha un rifugio in casa dove cura in maniera maniacale il plastico di una ricostruzione dominata da un trenino elettrico imbastita tempo addietro dal padre, un padre il quale, Brian ne è convinto, non apprezza il ragazzo fino in fondo. Quando Kibby viene assunto nello stesso ufficio di Skinner il veterano inizia a provare una forte antipatia per quel ragazzo così differente da lui, alcuni episodi fortuiti poi trasformano questa antipatia addirittura in una sorta di odio, una situazione che avrà evoluzioni per nulla aspettate...

Per alcuni versi I segreti erotici dei grandi chef può essere considerato un libro anomalo all'interno della produzione di Irvine Welsh in quanto fa qui capolino, in maniera anche prepotente si potrebbe azzardare, l'aspetto fantastico della narrazione che poco si era visto nei libri precedenti dello scrittore scozzese. Usando questo espediente Welsh, con la sua solita abilità, mette in campo diversi temi di peso, alcuni dei quali sono anche dei classici della letteratura, basti pensare (come accennato da molti) alla questione del doppio che ovviamente, senza voler scomodare nomi e titoli più che celebri, è stata esplorata nella narrativa in ogni epoca e a ogni latitudine. La dualità prende corpo nel rapporto tra Danny e Brian, da principio con una semplice relazione di conoscenza e rapporto tra colleghi, in seguito con una connessione sempre più profonda che porterà le azioni di uno ad avere conseguenze, anche fisiche, sulla vita e sulla condizione dell'altro, per poi evolversi ancora in qualcosa di diverso sul finale (che non racconteremo) del libro. Tornano inoltre i temi cari al nostro edimburghese preferito come la dipendenza, qui più da alcool che da droghe (che comunque non mancano), il sesso e quell'attitudine a sprazzi di linguaggio diretto e volgare al quale chi conosce lo scrittore da tempo è già più che abituato; a dispetto del titolo infatti I segreti erotici dei grandi chef pare decisamente più moderato di altri scritti di Welsh. Centrale nel romanzo è anche il rapporto con i padri: Danny il suo non lo ha mai conosciuto ed è questa una cosa che gli rode dentro, si susseguono gli scontri con una madre che si rifiuta di parlare, la ricerca di questo genitore sconosciuto sarà centrale nell'evoluzione del romanzo e anche, in qualche modo, nel rapporto con Brian che invece col suo di padre ha un rapporto particolare che forse nemmeno lui riesce a inquadrare fino in fondo, un padre buono ma che forse con lui non è mai stato del tutto sincero. I segreti erotici ha il sapore di una variante all'interno del percorso di Welsh, magari non piacerà a tutti ma il nucleo caldo che compone lo stile dello scrittore scozzese c'è tutto ed è ben presente, una scappata a Leith in fondo la si fa sempre volentieri, non sarà di certo questo giro a farvi cambiare idea.

sabato 5 ottobre 2024

AMERICAN HUSTLE - L'APPARENZA INGANNA

(American hustle di David O. Russell, 2013)

American hustle è forse l'opera di David O. Russell che ha riscosso maggior consenso (insieme a Il lato positivo) e ha creato il più alto tasso di entusiasmo preventivo, forte anche di un cast di primissimo piano che non poteva che far sperare per il meglio, un cast all'interno del quale spiccano, oltre al cameo dell'immarcescibile Robert De Niro (che qualche scelta pessima negli anni l'ha fatta pure lui), Bradley Cooper, Amy Adams, Christian Bale, Jeremy Renner e Jennifer Lawrence. Diciamo che con gente del genere al tuo servizio metà del lavoro te lo trovi già fatto. Il resto, più che la regia di David O. Russell, comunque sempre indovinata (e in qualche caso anche citazionista), lo fa una ricostruzione d'epoca e d'ambiente splendida e ricercata, una vera marcia in più per un film che nel suo complesso risulta forse meno esplosivo di quello che avrebbe potuto essere e trova il suo fulcro di maggior interesse nelle relazioni interpersonali tra i principali protagonisti. I costumi di Michael Wilkinson sono favolosi (perse all'Oscar il confronto con lo sfarzosissimo Il grande Gatsby di Luhrmann), il gruppo che ha lavorato alle scenografie ha fatto un lavoro per il quale da solo vale la pena di vedere il film. Sulla sceneggiatura, nomination all'Oscar anch'essa, a parere di chi scrive si poteva lavorare ancor meglio, il film comunque è andato molto bene ed è piaciuto molto, quindi bene così.

Irving Rosenfeld (Christian Bale) è un truffatore dalla parlantina svelta e dall'aspetto posticcio, pancia gonfia e riporto evidente, convince i suoi polli investitori ad affidargli 5.000 dollari che lui trasformerà per loro (e no, non lo farà) in 50.000 con un sistema non troppo chiaro. Irving è sposato con la bella ma instabile e imprevedibile Rosalyn (Jennifer Lawrence) e si prende cura con amore del figlio che lei ha avuto da una precedente relazione. Quando Irving incontra Sydney Prosser (Amy Adams) scatta un'attrazione sconfinata per una donna tanto bella ed elegante quanto furba e intelligente; grazie a Sydney il giro di affari (illeciti) di Irving incrementerà fino ad arrivare a una certa consistenza e la vita dell'uomo cambierà grazie a un amore profondo e reciproco che farà di Irving e Sydney una bellissima coppia con terzo incomodo, la Rosalyn di cui sopra. I due vengono però pizzicati e incastrati dall'agente dell'F.B.I. Richie DiMaso (Bradley Cooper) che vorrebbe utilizzare la coppia e le loro capacità per arrivare a pesci più grossi e a politici con conoscenze ambigue come il sindaco di Camden nel New Jersey Carmine Polito (Jeremy Renner). DiMaso è mosso però da un'ambizione molto pericolosa che renderà la vita di Irving e Sydney decisamente pericolosa, inoltre tra quest'ultima e DiMaso sembra scattare qualcosa...

"Alcuni di questi fatti sono realmente accaduti". Così si apre American Hustle che altro non è se non una messa in finzione, parziale e riveduta, dell'operazione dell'F.B.I. che va sotto il nome di Abscam che a partire dal 1978, iniziando come indagine sul traffico internazionale di opere d'arte, si allargò fino ad arrivare ad accuse di corruzione nei confronti di diversi politici di primissimo piano degli Stati Uniti toccando anche membri del Congresso, del Senato e sindaci eletti, una serie di personalità che vennero in seguito tutte condannate per i loro crimini. David O. Russell sceglie l'approccio divertente alla materia, non segue pedissequamente gli avvenimenti della reale vicenda, carica l'importanza di alcuni personaggi (la Rosalyn della Lawrence) e estremizza alcuni look del periodo donando ad American hustle un tocco comico surreale, il film ne guadagna in leggerezza ma forse risulta così meno ficcante di quanto avrebbe potuto essere. Rimangono però ottime costruzioni di dinamiche interpersonali come quella dell'amicizia tra Irving e Carmine, il triangolo, anzi quadrangolo, tra Irving, Sydney, Richie e Rosalyn, ma soprattutto il passo a due tra un bravo Christian Bale e una Amy Adams bellissima e più in forma che mai, sia nella veste di attrice si come bellezza tout court. È proprio il rapporto tra Irving e Sydney il motore che muove il film e attrae a esso lo spettatore, il rapporto a fasi alterne tra i due protagonisti principali è scritto con un altro passo rispetto a come viene trattata la vicenda in sé, meno interessante delle beghe sentimentali di tutti i protagonisti; con questo aspetto e con una messa in scena che è un piacere per gli occhi Russell innalza il livello di un film che avrebbe altrimenti potuto perdersi tranquillamente nel mucchio di proposte a tema criminoso e simili rigettate a getto continuo dal cinema americano, American hustle riuscirà invece così a farsi ricordare pur rimanendo ben lontano dal poter essere considerato un capolavoro del cinema moderno.

mercoledì 2 ottobre 2024

L'AMICO DI FAMIGLIA

(di Paolo Sorrentino, 2006)

L'amico di famiglia è l'ultimo film girato da Paolo Sorrentino prima dell'esplosivo successo di critica e pubblico arrivato con l'uscita de Il divo due anni più tardi, film spartiacque che ha consacrato la popolarità e il talento del regista napoletano presso il grande pubblico che da lì in avanti non ha mancato di seguire con curiosità e una buona dose d'attesa le nuove prove di quello che oggi è uno dei nostri registi più rappresentativi. Eppure gli esiti del lavoro di Sorrentino erano ottimi già da prima, a dimostrarlo anche (e non solo) questo L'amico di famiglia, film all'interno del quale le idee visionarie e il talento compositivo, di inquadrature e sceneggiatura, da parte di Sorrentino sono già ben evidenti seppur in qualche modo più misurate e ancora non esplose rispetto a quanto il regista ci farà poi vedere in futuro. Pensiamo per esempio alla scena iniziale: inquadratura ravvicinatissima su due occhi stanchi, occhiaie peste e gonfie, sono occhi vecchi su tratti rugosi; uno zoom all'indietro su musica di Theo Teardo e compare un volto intero incorniciato da un velo; è una vecchia suora. L'inquadratura si allarga, la suora mormora una preghiera, si vede il mare e la spiaggia nella quale la suora è sepolta, spuntano solo la testa giaculante e il crocefisso che porta al collo poggiato sulla sabbia, la camera si alza verso il cielo, si allontana e si riabbassa alle spalle di due loschi figuri intenti impassibili a osservare la suora. Non è da meno la successiva presentazione del protagonista, ma non sveliamo troppo a beneficio di chi ancora non avesse visto il film. Queste sequenze sono promesse; sono promesse di applicazione, sono promesse di una certa classe all'opera non appannaggio di tutti, elementi che andranno poi ad affinarsi e a crescere nel tempo portandoci al Sorrentino di oggi, a quello dei suoi più grandi e meritati successi.

Geremia de' Geremei (Giacomo Rizzo) vive in una situazione di discreto squallore in una triste località dell'Agro Pontino insieme alla madre disabile. Geremia è un sarto con una sua piccola attività che non è, come verrebbe naturale pensare, quella di confezionare abiti, bensì quella di prestare piccole somme di denaro alle persone in difficoltà della sua zona. Geremia de' Geremei è un usuraio. Nel ricoprire questo ruolo ricercato e disprezzato in egual misura Geremia mantiene un'immagine superficiale di interesse verso i suoi assistiti e le loro famiglie pre(te)ndendo a conti fatti il ruolo di "amico di famiglia", utile e servizievole alla bisogna ma spietato nei momenti di difficoltà. Tra i vari "clienti" di Geremia c'è anche Saverio (Gigi Angelillo), uomo povero in canna che deve far fronte alle spese del matrimonio della bellissima figlia Rosalba (Laura Chiatti) e alle pressioni dei consuoceri affinché la celebrazione di questa unione sia quantomeno dignitosa. Così, memore di tutte le umiliazioni subite in vita, Saverio tenta di evitare almeno questa e si rivolge a Geremia, uomo che facilmente può provocare repulsione e che non mancherà di irritare la ribelle Rosalba. Tra le varie vicende che Geremia seguirà in questo periodo, aiutato dal sodale Gino (Fabrizio Bentivoglio), un uomo col mito dell'America country, sarà proprio quella del matrimonio di Rosalba a muovergli dentro qualcosa, desiderio più che altro, perché Rosalba è davvero irresistibile, una di quelle donne capaci di far perdere la testa a chiunque, anche a un opportunista venale come Geremia.

Nel costruire il suo protagonista, come già fatto in precedenza e come farà poi in seguito, Sorrentino pone cura e attenzione a ogni particolare, sia estetico (l'abitazione buia, la fascia con le patate, la zoppia, la busta di plastica, etc...) sia caratteriale e comportamentale. Tanto era misurato il Titta Di Girolamo interpretato da Toni Servillo ne Le conseguenze dell'amore tanto è dialetticamente esuberante e affascinante Geremia de' Geremei, fatto sostanza dalla prova superba di un Giacomo Rizzo efficacissimo nel rendere al meglio tutte le contraddizioni di un personaggio intriso di egoismo e crudeltà ma capace di veicolare anche la pena dell'emarginazione, dell'esclusione e della solitudine. Geremia è portatore di un sapere linguistico sempre pronto, fatto di massime e affermazioni ficcanti, sfoggiate sempre al momento giusto, un uomo sveglio in contrapposizione al più ingenuo Gino (almeno a una prima lettura) che in testa ha solo l'America degli spazi sconfinati, un sogno lontano e poco realizzabile. Sfaccettato il giusto il personaggio della Chiatti, vittima e femme fatale in qualche modo, qui ancora un poco acerba ma con il phisique du role perfetto per il suo personaggio. Quello di Geremia è un personaggio stratificato, respingente ed esecrabile per il modo in cui conduce la sua vita, non manca tuttavia, soprattutto sul finale, di muovere una pietas contraddittoria nei suoi confronti in quanto bersaglio (lo si può anche solo dedurre guardandolo) di un'esclusione sistematica e di una negazione da parte degli altri (delle altre) alle umane passioni, un diniego di affetti che lascia intuire la vittima all'interno del carnefice. Nel triste scenario di un Agro Pontino dalle poche bellezze, una delle quali è indubbiamente Rosalba, Sorrentino riesce a ritagliare geometrie e scenari in perfetta simbiosi con gli eventi e con la colonna sonora dalla quale emerge la passione per la musica del regista. I primi tre film di Sorrentino costituiscono un piccolo corpo d'opera che forse gode di meno notorietà rispetto a ciò che è venuto dopo ma che non ne teme il confronto per valore, sono questi film da riproporre e rivedere in modo che anche chi ancora non li conosce possa ritrovarli e apprezzarli quanto (e magari più) di altre sue opere più recenti.

domenica 29 settembre 2024

CAPITALISM: A LOVE STORY

(di Michael Moore, 2009)

Recupero indubbiamente tardivo ma non fuori tempo massimo questo di Capitalism. A love story del regista Michael Moore dato l'argomento purtroppo ancora tragicamente attuale. Moore arriva a questo documentario sui mali perpetrati dal capitalismo e dai suoi seguaci oltranzisti dopo aver mosso i suoi primi passi giusto venti anni prima in quel di Flint, la città dove il regista classe 1954 è nato e cresciuto, raccontandone le allora coeve vicissitudini legati all'ondata di licenziamenti messa in atto nel locale stabilimento dalla casa automobilistica General Motors nonostante l'azienda godesse all'epoca di ottima salute (è il capitalismo, baby!). I temi che stanno a cuore al regista del Michigan, soprusi aziendali a scapito dell'occupazione, delocalizzazione, prevaricazioni, tornano anche in Downsize this! e The Big One. Nel 2003 per Moore arriva anche il premio Oscar nella categoria "miglior documentario" per Bowling a Columbine; prendendo come motore scatenante la tragedia di Columbine, la quale mosse anche Gus Van Sant per il suo Elephant, Moore mette alla gogna il disagio tutto americano della fascinazione per le armi e la violenza che la loro diffusione porta nelle strade, peggio ancora nelle scuole, degli Stati Uniti d'America. Con Fahrenheit 9/11 Moore si scaglia contro la guerrafondaia amministrazione Bush e ottiene la Palma d'oro a Cannes, risultato storico per un documentario. Nel 2007, solo due anni prima di questo Capitalism. A love story il regista mette sotto accusa l'intero sistema sanitario americano con Sicko, ne tratteggia l'immoralità e la mancanza di etica che peraltro contraddistingue numerosi aspetti del Grande Paese. Capitalism. A love story è soltanto l'ultimo tassello che arriva a mettere in luce la stortura di un sistema che si vorrebbe esportare identico in tutto il mondo (il capitalismo, non la democrazia) per mantenere saldi controllo e benessere in mano a pochi eletti.

Dopo vent'anni Michael Moore ritorna a Flint, perché cos'era la vicenda del suo paese natale se non una delle tante storie di sciacallaggio aziendale tipiche e finanche perseguite dal sistema del capitale spinto così in voga negli U.S.A. almeno dai primissimi anni 80 in avanti? Moore esplora i fondamenti del capitalismo, le sue storture e le conseguenti aberrazioni prodotte ai danni dei cittadini statunitensi (e di riflesso del mondo, pensiamo solo a Lehman Brothers); per farlo parte dall'antica Roma e dai suoi privilegi per pochi eletti fino a chiudere su un commosso Franklin Delano Roosevelt, ormai malato, che propone una nuova carta dei diritti basata sul diritto alla casa per le famiglie, su un mercato libero da monopoli e giochi di forza, equo e dignitoso, su un sistema sanitario garantito, su un sistema garante delle pensioni e dell'istruzione che potesse mettere i cittadini al riparo dalla malattia, dagli eventuali infortuni e dalle perdite di lavoro. Roosevelt morì l'anno successivo, ovviamente della sua carta dei diritti non se ne fece più nulla. Quello che Moore ci mostra sono le ricadute di un sistema ormai traviato e corrotto, astratto per molti versi, sulla vita reale, sulle persone, sui loro affetti e sulle loro esistenze, mette in relazione le grandi tragedie personali con la propaganda politica e finanziaria che bombarda in America persone spesso non preparate a capire cosa stanno realmente facendo con i loro soldi, con le loro case (pensiamo a tutti i prodotti sub-prime, agli incentivi a ipotecare le case per ottenere liquidità, etc...). Sembra assurdo poi vedere come questi alfieri del capitalismo spinto, bravissimi nel farlo, abbiano nel corso dei decenni inculcato nella testa degli americani il terrore per parole come socialismo, comunista e cose del genere, probabilmente anche del colore rosso, mi chiedo se negli U.S.A. qualcuno di sua spontanea volontà si compri un'auto o un maglione di colore rosso senza cagarsi addosso o provare vergogna. E così case pignorate, disoccupazione, lavori di responsabilità pagati con sacchetti di noccioline e via discorrendo.

Quello di Moore è un documentario di parte, quando guardi un lavoro di Moore sai cosa stai andando a vedere, con tutti i dovuti distinguo è un po' come guardare un film di Ken Loach, sai più o meno la direzione che prenderà il vento anche senza essere un meteorologo. Moore non condanna in toto il capitalismo, mostra alcuni esempi virtuosi dove gruppi di imprenditori/lavoratori portano avanti aziende remunerative e in attivo che credono nella redistribuzione della ricchezza a vantaggio di tutti, come sempre non è lo strumento in sé a essere sbagliato, è come lo si usa. E come lo si usa oggi nel mondo è il modo sbagliato (e spesso lo si fa con dolo in maniera criminale). Il regista come sempre mantiene un tono leggiadro e ironico che alleggerisce la visione anche quando gli argomenti trattati dovrebbero farci incazzare tutti (e spesso lo fanno, alcuni passaggi sono dolorosi, altri sono tragicomici per l'idiozia e la mancanza di vergogna che il sistema del capitale può arrivare ad assumere). Così assistiamo a esperti di finanza che non riescono a spiegare il funzionamento dei prodotti derivati (in fondo come fanno a condannarti se nessuno capisce un cazzo di quello che hai fatto?), al tentativo di Moore di andare a recuperare nelle banche i soldi dei contribuenti con tanto di sacchetti per la raccolta, lo vediamo sigillare con il celebre nastro giallo con la scritta "Crime scene do not cross" l'edificio della Citibank, ovviamente le banche e la finanza sono insieme a Wall Street l'obiettivo principale di Moore in questo Capitalism. A love story. Non c'è molto da dire, quello che ci racconta il regista è sotto gli occhi di tutti da un sacco di tempo, Moore chiude con un appello a impegnarsi nel fare tutti qualcosa al riguardo e con una dichiarazione d'intenti: "Mi rifiuto di vivere in un Paese del genere. E non me ne vado".

martedì 24 settembre 2024

ACTUAL PEOPLE

(di Kit Zauhar, 2021)

Con Actual people, opera seconda della regista ora ventinovenne Kit Zauhar, torniamo al cinema indipendente americano, quello realizzato con budget risicati, mezzi poveri e fatto principalmente di discorsi e scambi di battute tra personaggi; il film della Zauhar, nata negli States da madre cinese, può ascriversi facilmente al genere del mumblecore, questo in virtù di una vicenda portata avanti senza ricorrere alla rappresentazione di grossi eventi ma basata sulla costruzione di personaggi e situazioni nella quotidianità ottenuta facendoli parlare, portandoli a esprimere i loro dubbi e i loro malesseri, seguendoli mentre tentano di percorrere nuove strade sentimentali, mentre rimuginano sulla loro esistenza, il tutto sotto l'occhio dello spettatore che ha l'impressione di assistere in toto a uno stralcio di vita della protagonista, qui interpretata dalla stessa regista. Forse per offrire più facilmente un'impressione di realtà, forse per questioni di praticità e budget, la Zauhar sceglie un approccio autobiografico per il suo esordio nel lungo, l'assetto familiare della protagonista richiama infatti in maniera precisa quello reale della regista, la sorella per esempio è interpretata da Vivian Zauhar, facile ipotizzare sia realmente la sorella di Kit, così come nel film la madre è cinese e il padre presumibilmente americano. Girato in una decina di giorni con una spesa di circa 10.000 dollari Actual people è l'esempio di come si possa realizzare qualcosa di interessante senza dover per forza muovere capitali pari al PIL di un piccolo Stato magari situato ai margini dell'impero del capitale.

Riley (Kit Zauhar) è una giovane ragazza giunta alle ultime settimane d'università; il momento della laurea si avvicina ma per lei c'è ancora lo scoglio di quell'ultimo esame non andato troppo bene che potrebbe rallentare le cose garantendo una sicura delusione ai suoi genitori. A New York, città dove frequenta i suoi corsi di studi, Riley condivide un appartamento con un ragazzo con il quale una volta ha fatto sesso e poi ha respinto e che ora non la vorrebbe più tra i piedi, frequenta un gruppetto di amiche con le quali partecipa a diverse feste durante le quali Riley cerca di sondare il terreno per un possibile nuovo aggancio sentimentale, il suo vecchio ragazzo (Randall Palmer) con il quale era stato per i primi anni di università l'ha lasciata per un altra, cosa che Riley non ha ancora dimenticato né probabilmente perdonato. A una di queste feste Riley incontra Leo (Scott Albrecht), come lei anche lui originario di Philadelphia, se ne invaghisce, ci finisce a letto e inizia a fantasticare su una relazione duratura al quale lui non sembra essere troppo interessato. Con l'avvicinarsi della fine del percorso scolastico Riley inizia a essere assalita da dubbi e ansie riguardanti il futuro: è davvero giunto il momento di diventare adulti? Con chi dividerà il suo tempo e soprattutto cosa farà da grande? Dove vivrà, a New York o a Philadelphia? A tutte queste domande Riley non sa dare nessuna risposta.

Con un film molto semplice e portato a casa con il minimo dispendio di fondi Kit Zauhar tratteggia in maniera efficace e diretta almeno una buona fetta della sua generazione ("sei proprio una millenial" la insulta il suo coinquilino). Emerge su tutto quell'incertezza e quell'ansia per il futuro, ma anche solo per la quotidianità prossima ventura, che colpisce molti giovani d'oggi: il senso di inadeguatezza, la paura di ciò che ancora non è dato, la fragilità dei rapporti sono tutti elementi d'insicurezza che ben si condensano nella scena della seduta con la psicologa messa a disposizione dall'istituzione scolastica e che per Riley sembra essere un forte punto di riferimento, almeno temporaneo, nonostante questa non sia nemmeno proprio la sua psicologa, è solo uno degli elementi che costruiscono una situazione d'insieme sempre pronta a propendere verso la disperazione o il panico. Quella della Zauhar si pone quindi come una voce interessante e schietta nel panorama cinematografico giovane, più stratificata di quel che può sembrare a un primo impatto e a una prima visione racconta con naturalezza ciò di cui ha evidentemente conoscenza e consapevolezza. Non ci sono grandi segnali di stile, si predilige un approccio naturale e spontaneo, molta camera a mano, nulla di troppo studiato (almeno all'apparenza, poi chissà), le vicende di Riley sono inframezzate da qualche video che richiama i metodi di relazione moderni e attuali, pratica che in realtà non sembra essere poi così integrata al resto del film né realmente funzionale. Nulla di rivoluzionario ma almeno Actual people presenta la freschezza e il giusto piglio necessari per mantenere vivo l'interesse per la scena indipendente U.S.A. alla quale ogni tanto fa piacere tornare.

domenica 22 settembre 2024

TRANSAMERICA

(di Duncan Tucker, 2005)

Unicum per quel che riguarda il lungometraggio, questo Transamerica è il solo film a firma Duncan Tucker, regista che dal 2005 a oggi non ha girato altro, un po' un peccato perché questo on the road sulle strade degli Stati Uniti d'America non era (non è tuttora) affatto male costituendo a tutti gli effetti un esordio davvero convincente e che dava adito a diverse speranze. E invece... e invece sembra che Tucker, dopo aver raccolto diversi riconoscimenti per la sua opera prima, si sia poi dedicato ad altre forme d'arte come la pittura e la fotografia per le quali tiene diverse mostre negli Stati Uniti. È un esordio spontaneo quello di Tucker che affronta un tema delicato, quello dell'identità transgender, in maniera diretta e senza troppe sovrastrutture, costruendo una storia in movimento dove il racconto sulla strada è catalizzatore se non proprio di una subitanea crescita almeno di un graduale e difficoltoso cambiamento, assecondando un poco il ritmo di come gli eventi della vita si muovono nella realtà. Si apprezza dell'approccio alla narrazione di Tucker la sobrietà e la volontà di non cadere nell'eccesso pur non risultando mai serioso, anzi, donando a una storia nella quale è presente una bella dose di sofferenza un piglio divertente che alleggerisce con naturalezza situazioni tese e difficili. Nel far quanto appena descritto il regista di Kansas City inserisce molti degli scenari propri del film di viaggio americano: spazi sconfinati, abitazioni isolate, posti di passaggio, aree di servizio e tutta quella mitologia geografica che proprio il cinema ci ha insegnato ad amare nel corso dei decenni.

Bree Osbourne (Felicity Huffman), nata Stanley Osbourne, è una transgender che sta seguendo un percorso psicologico e fisico (pastiglie di ormoni) al fine di arrivare all'operazione che le permetterà di cambiare definitivamente sesso e coronare il sogno di essere donna in maniera completa, assumendo quell'identità di genere che ha sentito sua fin da tenera età. L'ultimo ok per l'operazione deve darlo la sua psicoterapista (Elizabeth Pena) finora molto contenta del percorso effettuato da Bree. Poco tempo prima dell'intervento Bree viene contattata dal carcere dei minori di New York da un certo Toby Wilkins (Kevin Zegers), un ragazzo in stato di arresto per prostituzione e possesso di stupefacenti che dice di essere il figlio di Stanley; Bree reagisce mentendo al ragazzo dicendogli che Stanley non abita più lì. È così che Bree scopre di aver avuto un figlio da quell'unica relazione eterosessuale consumata in gioventù; quando anche la psicoterapeuta viene a conoscenza del fatto impone a Bree di affrontare il ragazzo, pena il mancato ok per l'operazione, cosa alla quale Bree tiene più che a tutto il resto. Bree si recherà così a New York e pagherà la cauzione al ragazzo senza però dirgli mai chi lei sia in realtà e nemmeno parlandogli della sua condizione in mutamento, facendosi invece passare per il membro (niente battute, please) di una chiesa che si opera per aiutare i ragazzi bisognosi. Toby non è un cattivo ragazzo nel profondo ma di certo è uno sbandato a cui mancano i legami e una famiglia (nel frattempo la madre è morta); l'interazione tra i due all'inizio non sarà facile ma il viaggio verso Los Angeles, dove Bree deve operarsi e dove Toby vorrebbe sfondare nel cinema cercando inoltre di rintracciare un padre che ha mitizzato (e che al limite ora potrebbe essere una madre), servirà ai due per conoscersi e per contribuire a dare un giro di vite, non semplice, alle loro vite che potrebbero aprirsi a un futuro migliore.

Nel costruire questo Transamerica Tucker ha l'intuizione felice di affidarsi a una perfetta Felicity Huffman per il ruolo di Bree; l'attrice nota più che altro per il ruolo di Lynette in Desperate Housewives interpreta magnificamente un uomo che a fatica cerca la sua voce vera (in tutti i sensi), quella femminile, lo fa guardando a un modello di donna antico, pulito e ricercato, una ricerca che rispecchia la profondità del desiderio di femminilità di una protagonista che avrebbe potuto scegliere una via più semplice verso l'accettazione collettiva. È fuor di dubbio lei/lui il personaggio portante di Transamerica nonostante le difficoltà di suo figlio non siano da trascurare, soprattutto in quella fantasia fanciullesca su un padre benestante che potrebbe accoglierlo in quel di L.A. (Bree tra l'altro non gode di un gran conto in banca), un padre che Toby idealizza mentre egli sta diventando una potenziale madre. Nel loro percorso, classico e sicuramente nemmeno troppo trasgressivo a livello narrativo, lungo il loro viaggio, i due affronteranno il loro rapporto ma anche quello con la famiglia d'origine di Bree (in realtà è quella di entrambi a insaputa di Toby), un nucleo famigliare che per la donna non è mai stato un nido, un porto sicuro, con una madre (Fionnula Flanagan) che continua a non accettare le predisposizioni del suo Stanley e una sorella un poco stronza (Carrie Preston). Così l'aprirsi a un futuro forse migliore passerà per forza di cose dal confronto con un passato e un presente di ingombranti tensioni. Ci si muove poi verso un'inevitabile rivelazione e un finale che non può essere altro che un inizio. Tucker dirige con mano convenzionale ma sempre mettendo in campo una giusta misura, un equilibrio magari prevedibile ma anche sincero, affronta un tema spinoso con il rispetto e la delicatezza che sicuramente non sempre accompagnano la realtà ma di cui in fondo ci sarebbe davvero bisogno.

giovedì 19 settembre 2024

L'UOMO CHE CADDE SULLA TERRA

(The man who fell to Earth di Nicolas Roeg, 1976)

Che cos'è L'uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg? Certo, è un film, ma che tipo di film è L'uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg? È questa una domanda alla quale non è semplice fornire una risposta netta; è un oggetto strano quello di Roeg, difficile da inquadrare e ancor meno da incasellare in un genere (fantascienza?), ancor meno semplice è ricavarne significati e sottotesti univoci, sembra invece necessario per film come questo lasciarsi trasportare dalle immagini, dalla storia (che tra divagazioni varie è ben presente), dai personaggi, dall'interpretazione di un David Bowie all'esordio davanti alla macchina da presa in un lungometraggio e soprattutto dalle scelte tecniche operate dal regista (ed ex direttore della fotografia) e dai suoi collaboratori, su tutti Anthony Richmond alla fotografia, Graeme Clifford al montaggio e Stomu Yamashta alle musiche (che in origine avrebbero dovuto essere composte dallo stesso Bowie, soluzione poi accantonata). Ne esce un film di indubbio fascino, rafforzato dalla presenza di un Bowie straniante; la sua figura è la personificazione perfetta dell'alieno, del bizzarro: il suo pallore, la sua eterocromia, il colore vivo dei capelli, l'aspetto emaciato, donano al personaggio di Thomas Jerome Newton quella credibilità ultraterrena che regala una marcia in più all'ottimo lavoro visivo messo in campo da Roeg e dalla sua squadra.

Thomas Jerome Newton (David Bowie) è un uomo (?) caduto dal cielo, un alieno che arriva sul nostro mondo con uno scopo ben preciso. Tra i suoi primi atti sulla Terra ci sono quello di racimolare qualche dollaro impegnando un anello e quello di contattare l'avvocato newyorkese Oliver Farnsworth (Buck Henry) e depositare presso di lui tutta una serie di brevetti rivoluzionari, ottenuti grazie alle conoscenze aliene di Newton, che cambieranno per sempre alcuni settori come quello della fotografia e dell'elettronica e che faranno fare a Newton un sacco di soldi con i quali fonderà una sua azienda, la World Enterprises, impresa che gestirà con l'aiuto tecnico e finanziario di Farnsworth. L'obiettivo finale di Newton è quello di aprire un suo programma spaziale per costruire una navicella con la quale tornare a casa, un mondo arido e ormai morente, un pianeta con un disperato bisogno d'acqua sul quale Newton ha lasciato una moglie e due figli. Per realizzare il suo progetto l'alieno chiede aiuto allo scienziato Nathan Bryce (Rip Torn) il quale, come tutti gli altri, da principio ignora la provenienza extraterrestre del suo nuovo datore di lavoro. Durante la sua permanenza sulla Terra il visitatore stringerà una sorta di relazione con la cameriera Mary-Lou (Candy Clark); le cose per lui si complicheranno quando qualcuno inizierà a intuire la sua vera natura, la sua azienda, i suoi programmi e i suoi capitali attireranno anche l'attenzione della C.I.A., tutti elementi che metteranno a rischio il suo progetto di tornare a casa con delle soluzioni per il suo pianeta.

Al centro di questa storia mutuata dal romanzo omonimo di Walter Tavis, potremmo dire ci sia sopra a tutto la solitudine di un visitatore che nel nostro mondo non trova né conforto né relazioni alle quali riesca mai davvero ad aggrapparsi. Nel vagare sperso e discontinuo di questo alieno, che solo dopo buona parte del film si rivelerà nelle sue reali fattezze, risalta l'aderenza viscerale di un Bowie all'apparenza non decifrabile al suo personaggio, il senso di spaesamento e a volte di ineluttabilità ("se foste venuti voi sul nostro mondo probabilmente vi avremmo trattati allo stesso modo"), conferiscono a Thomas Jerome Newton un'aura di verità inconoscibile e allo stesso tempo indiscutibile. L'approccio alla narrazione è ondivago, non schematico né diretto, L'uomo che cadde sulla Terra è un film che va assorbito per essere apprezzato e interiorizzato, è una sensazione, un trasporto in uno strano altroquando che nasce parallelo alla New Hollywood, porta in sé un che di sperimentale e molta scelta registica, raffinata ed eclettica che apre su paesaggi e fotografie illuminanti e appaganti. Tornando alla solitudine del protagonista, lontano da casa, non capito e osteggiato, il contatto con l'altro prende forma a più riprese in sessioni di sesso esplorativo, in rapporti ambigui (quello con Bryce ad esempio), in una fragilità disarmante, fino a cedere a una rassegnazione alcolica e deteriore che nessuno potrà frenare. A conti fatti si potrebbe quasi azzardare come, con la benedizione di Roeg (fondamentale), Newton e Bowie siano il film.

lunedì 16 settembre 2024

GLI ULTIMI FUOCHI

(The last tycoon di Francis Scott Fitzgerald, 1941)

Francis Scott Fitzgerald muore di attacco cardiaco (il suo secondo) nel dicembre del 1940, l'anno precedente l'uscita del suo ultimo, postumo e incompiuto romanzo: Gli ultimi fuochi, The last tycoon in originale poi editato anche come The love of the last tycoon (L'amore dell'ultimo milionario in italiano). De Gli ultimi fuochi quello che rimane è una prima stesura di sei capitoli (l'ultimo incompleto) che Fitzgerald avrebbe quasi sicuramente rivisto se ne avesse avuto la possibilità, apportando chissà quali modifiche, e ampliato con capitoli successivi, episodi il cui contenuto, più che la struttura, si può solo ipotizzare grazie agli appunti e alle idee che Fitzgerald stesso lasciò su carta prima della sua dipartita. Per quel che riguarda i capitoli già scritti sono rimasti note e stralci a margine con i quali Fitzgerald esprimeva dubbi e fissava idee per eventuali modifiche da sviluppare in fase di revisione o quantomeno al momento di una ulteriore stesura; nelle intenzioni dello scrittore Gli ultimi fuochi doveva essere il romanzo della definitiva maturità, che poi dopo aver già scritto cose come Il grande Gatsby o Tenera è la notte non è che avesse ancora grandi cose da dimostrare. Sembra che Fizgerald si fosse imposto un romanzo di lunghezza non troppo estesa ma già con questi primi sei capitoli, non sufficienti ad avvicinarsi alla conclusione del romanzo, sembra avesse già superato i limiti ipotizzati dalla sua idea iniziale. Ambientato nel mondo del cinema Gli ultimi fuochi vede come protagonista il produttore Monroe Stahr, un personaggio già ben definito in questa versione del romanzo che chissà cosa sarebbe potuto diventare se a Fitzgerald fosse stato concesso il tempo materiale per lavorarci sopra come lui avrebbe voluto.

Cecilia Brady, pur non avendo a che farci direttamente, è cresciuta a stretto contatto con il mondo del cinema e degli studios di Hollywood, suo padre è difatti l'importante produttore Pat Brady. La giovane sembra consapevole che quella del cinema potrebbe non essere l'industria più salubre del mondo, la ragazza però la accetta per quella che è, ha fiducia nel padre e soprattutto nel di lui socio Monroe Stahr, uomo più grande di lei e per il quale Cecilia si è presa una discreta sbandata. Stahr però è un uomo completamente assorbito dal suo lavoro tanto che nell'ambiente si è creata attorno a lui quasi un'aura mitologica, la diffusa convinzione che sul set, così come fuori da esso, Stahr sarebbe stato capace di risolvere qualsiasi problema per portare a termine un film, a volte salvandolo dal disastro, altre portandolo a conclusione consapevolmente in perdita, forte di una lungimiranza che altri avrebbero potuto vantare solo con un senno di poi completamente inutile al momento di dover prendere decisioni così su due piedi. E alla fine Stahr dimostra di aver quasi sempre ragione. Un giorno, durante un terremoto nel quale vengono coinvolti anche gli studios, Stahr salva due fanciulle da una situazione difficile. Una di queste, l'inglese Kathleen Moore, ricorda all'uomo la sua defunta moglie, l'attrice Minna Davis. Forse proprio a causa di questa somiglianza Stahr idealizza Kathleen e si propone di conoscerla meglio aprendosi dopo tanto tempo dedicato unicamente al lavoro a un nuovo amore. Ma la vita non sempre è benevola, alla fine solo il lavoro rimane lì a riempire le giornate di questo produttore dal tocco magico.

Già nelle edizioni ormai vecchiotte de Gli ultimi fuochi (ho sottomano un'edizione semidistrutta del 1959 della collana Il Bosco - Arnoldo Mondadori Editore) è possibile leggere oltre ai capitoli nella stesura di Fitzgerald anche il materiale da lui abbozzato e non ancora usato, riordinato dal critico, scrittore e amico di Fitzgerald Edmund Wilson. Si prosegue quindi con appunti e annotazioni che danno un'idea di quelle che erano le intenzioni dell'autore per il prosieguo del romanzo, e ancora schemi di struttura e approfondimenti tematici su personaggi e situazioni o sviluppi, tutto dedotto da ciò che Fitzgerald ha lasciato scritto o anche da intenzioni riferite a collaboratori e amici. Ciò che si può osservare in merito a questo Gli ultimi fuochi, a differenza di ciò che avveniva per altri romanzi dello scrittore, è come Fitzgerald abbia delineato (o abbia iniziato a delineare) un personaggio all'interno di un mondo ben preciso che non è quello all'apparenza superficiale e festaiolo di Gatsby o di Dick Diver (Tenera è la notte) bensì quello di Hollywood che, seppur ambiente anche questo che richiama il faceto e il mondano, trova in Stahr un vero lavoratore tuttofare e stakanovista della settima arte. I ben informati affermano come quello di Fitzgerald sia uno dei ritratti più arguti e veritieri dell'industria cinematografica vista dal di dentro. Il protagonista si muove quindi tra l'attaccamento al lavoro e l'apertura verso una possibile nuova storia d'amore affrontata con slancio e anche con una certa ingenuità che in altri ambiti non gli appartiene; gustose le diatribe con altri protagonisti che orbitano intorno agli studios, tutto reso con uno stile, seppur ancora in fase di elaborazione, più asciutto e diretto rispetto a quanto mostrato in passato da Fitzgerald in altre sue opere. Difficile esprimere certezze per un romanzo non finito e non completamente cesellato, il talento dello scrittore è evidente ma non è che lo si sia scoperto nel momento di quest'ultima pubblicazione, rimane il rimpianto di non aver potuto vedere la versione del romanzo che Fitzgerald avrebbe bollato come definitiva.

sabato 14 settembre 2024

DON'T WORRY DARLING

(di Olivia Wilde, 2022)

Devo ammettere che la curiosità per l'opera seconda di Olivia Wilde in veste di regista non era poca, questo soprattutto in virtù di uno degli esordi nella commedia più divertenti e ben dosati degli ultimi anni; con La rivincita delle sfigate la Wilde affrontava con piglio sciolto e diretto una commedia adolescenziale al femminile che metteva in scena situazioni e temi che il pubblico è stato abituato negli anni a vedere al cinema declinati in chiave maschile, lo faceva con intelligenza, senza troppe remore né timore reverenziale e soprattutto con un film che si rivelò divertente nella maniera più schietta possibile, una bellissima sorpresa. Con questa seconda opera che cambia completamente genere e registro la Wilde si conferma regista capace e dotata di un certo gusto per la messa in scena e per la confezione del prodotto, qui meno diretto e più "pensato" del precedente. Ciò nonostante Don't worry darling, pur affascinando e inanellando punti a favore non trascurabili, risulta meno a fuoco e riuscito del precedente lavoro della regista e attrice newyorkese, vuoi per un genere magari a lei meno congeniale (e derivativo in maniera netta e lampante), vuoi per alcune scelte in fase di sceneggiatura non completamente azzeccate nonostante alla scrittura compaia la stessa Katie Silberman già presente al tavolo de La rivincita delle sfigate. L'attesa è stata poi fomentata anche dalla curiosità "gossippara" del vedere diretto dalla Wilde la sua all'epoca nuova fiamma, il cantante Harry Styles (nulla di memorabile la sua prova a dir la verità, meglio come cantante).

America anni 50. Jack (Harry Styles) e Alice Chambers (Florence Pugh) sono una bella coppia di sposini che da qualche tempo si è trasferita nel paesino di Victory, una sorta di piccola comunità idilliaca sorta nel bel mezzo del deserto e che sembra soddisfare molte di quelle caratteristiche che il sogno americano di quegli anni spingeva allettando uomini e donne dell'epoca del boom economico a farne parte godendosene tutti i vantaggi. Ed è così che Jack e Alice si sono trasferiti a Victory, lui per far parte del progetto Victory, azienda di quella specie di guru futurista di Frank (Chris Pine) che dà anche nome alla cittadina, lei per seguire il suo amato maritino e sostenerlo nel perseguire i suoi sogni. I due sono inseriti in un contesto florido: belle case, vicini di casa che presto sono diventati amici come Dean (Nick Kroll) e Bunny (Olivia Wilde), auto prestanti e colorate, feste e gratitudine da parte del capo Frank, alcol, piscine, chiacchiere e per Jack (e per gli altri uomini) un lavoro entusiasmante e segretissimo. Ma sotto la superficie di questa utopia perfetta e ristretta cova qualche inquietudine. Una delle mogli di Victory, Margaret (Kiki Layne), contravviene a una delle regole basilari dettate da Frank: mai avventurarsi nel deserto per andare a curiosare dalle parti della sede dell'azienda. Nel suo peregrinare Margaret perde nel deserto suo figlio in quello che agli occhi degli altri pare essere un incidente; per la donna la scomparsa del bambino è la punizione per non aver rispettato le regole di Frank. Poco a poco Margaret viene esclusa dalla vita comune e solo Alice sembra dispiacersi per l'amica. Quando sarà proprio Alice a inoltrarsi nel deserto le cose diverranno complicate anche per lei, all'apparenza e in tempi diversi anche per Jack che si troverà in una situazione di imbarazzo nei confronti del leader della comunità e dei suoi vicini e amici. Ma Alice non mollerà, vorrà venire a capo dei misteri di Victory.

Per la sua seconda opera la Wilde sceglie di  mettere in scena un film che, senza svelarvi nulla, solo all'apparenza sembra rientrare nel genere che potremmo definire "retro fantascienza distopica". Nel ricreare l'ambiente dei 50 la Wilde ricorre a un décor impeccabile, indovinato e realizzato in maniera meravigliosa. I colori, gli abiti, i giochi di luce, alcuni momenti coreografati (gli uomini che vanno a lavoro in auto al mattino), alcune abitudini reiterate, riportano al sogno americano di quell'epoca, un salto all'indietro per un film intriso di istanze contemporanee legate in particolar modo (unicamente?) al ruolo della donna e alla sopraffazione del maschio. A Victory gli uomini lavorano, fanno parte di un progetto ambizioso e misterioso, importante: alla domanda "cosa facciamo qui?" Frank risponde "cambiamo il mondo". Niente meno, però nessuno, nemmeno lo spettatore, sa di preciso cosa facciano questi uomini a Victory. E di certo non lo sanno le loro mogli che non possono lavorare, non possono nemmeno avvicinarsi all'azienda, non si devono preoccupare degli strani tremori che si sentono ogni tanto nella cittadina; loro, le donne, possono però rifare i letti, essere perfette, vedersi con la amiche, tenersi in forma, bere whisky, preparare dei bei pranzetti e organizzare feste, tutto nell'ottica di un'organizzazione domestica e di vicinato volta a supportare il lavoro così importante dei loro mariti. Quando sono fortunate possono contare su una bella sessione di sesso orale. La Wilde mette chiara sul piatto la sua istanza femminista che prende ancor più corpo su un finale che aggrava ancor di più la situazioni di questi uomini (a questo punto tutti terribili immaginiamo, almeno per quel che si può intuire dal plot twist presentato), distruttori del libero arbitrio femminile e orchi di questa idea nostalgica di (micro)mondo che ahiloro si sgretola come oggi si sta sgretolando la virilità maschile. Ora, tralasciando la sensazione di già visto sia nella struttura del film sia nei sottotesti lampanti e davvero poco sottili, all'interno di un film peraltro per una buona parte ben costruito, ciò che lascia perplessi è una costruzione che dà l'impressione di essere non conclusa e chiarificata nonostante lo svelamento finale che invece di dare soddisfazione allo spettatore lascia un po' delusi con la voglia di tornare a quelle vaghe e pindariche supposizioni che ognuno di noi spettatori si era costruito nelle prime battute del film. Non un brutto film nel complesso, la regia della Wilde è solida l'attrice si conferma interessante forse più dietro la macchina che davanti (anche perché qui è eclissata da una Florence Pugh ancora una volta stupenda nell'inquietudine come già in Midsommar), perde un po' il polso della narrazione lungo la via, come se andando per quel deserto avesse anche lei subito un senso di smarrimento, proprio come capitato (forse) al figlio (forse) di Margaret.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...