sabato 17 maggio 2025

CRUISING

(di William Friedkin, 1980)

Scrivere un pezzo sul Cruising del regista di Chicago William Friedkin è stata una sorta di sfida, questo perché la copia del film in mio possesso è il riversamento di una vecchia registrazione su VHS (se ci sono lettori abbastanza giovani da non conoscere il significato della sigla alzino pure la mano) risalente a un passaggio televisivo che il film fece anni orsono su mamma RAI. Ne consegue, viste le tematiche e alcune sequenze all'epoca ritenute scabrose, che il film è passato tra le forche caudine di un'intervento censorio che ne ha minato, presumibilmente in maniera significativa, l'integrità e in qualche modo la fruibilità complessiva. La gestazione di Cruising è stata parecchio travagliata, in rete ne potete trovare resoconti più dettagliati di quello che segue, qui diamo solo qualche accenno per inquadrare più o meno in quale contesto è nata e cresciuta quest'opera prima svilita e avversata e poi, con il passare degli anni, divenuta un piccolo fenomeno cult non troppo visibile al grande pubblico. Iniziamo col dire che il film è tratto dal romanzo di Gerald Walker, giornalista del New York Times e che da principio William Friedkin questo Cruising non avrebbe nemmeno voluto girarlo. L'interesse del regista si ravvivò in seguito ad alcune situazioni venutesi a creare nella New York di quegli anni; la prima fu data da una serie di omicidi che interessarono alcuni appartenenti alla comunità gay newyorkese, uomini che frequentavano locali per omosessuali a sfondo sadomasochista, ambientazione principale di questo Cruising (che tradotto significa qualcosa tipo andare a caccia ma si può intendere anche come saltare da un posto, da un locale all'altro). La seconda fu il rapporto che Friedkin aveva con un ex poliziotto di nome Jurgensen con il quale il regista aveva già collaborato (come consulente) per la realizzazione de Il braccio violento della legge: pare che l'agente in pensione avesse agito da infiltrato nel mondo delle comunità omosessuali e ne fosse uscito abbastanza turbato, proprio quello che vediamo poi accadere ad Al Pacino, protagonista del film in origine pensato con Richard Gere come interprete principale. Terza causa/combinazione, l'arresto come sospettato per gli omicidi di cui sopra di un tal Bateson, un uomo che aveva fatto da comparsa nel più celebre film di Friedkin: L'esorcista. Leggenda (o più probabilmente verità) vuole che in seguito al concatenarsi di questi eventi Friedkin accettò di dirigere Cruising.

New York, tardi anni Settanta. Nelle acque del fiume Hudson vengono ritrovate parti di corpi martoriati; i ritrovamenti vengono collegati a una serie di omicidi a danno di frequentatori di bar per omosessuali a sfondo sadomaso avvenuti nel quartiere del Greenwich Village e che fanno pensare all'opera di un omicida seriale. Il capitano Edelson (Paul Sorvino) della polizia di New York decide così di infiltrare un suo agente nell'ambiente gay e propone il lavoro al giovane Steve Burns (Al Pacino), eterosessuale e fidanzato con la sua compagna Nancy (Karen Allen). Così Burns inizia a frequentare locali per omosessuali e a mischiarsi alla comunità gay del Greenwich iniziando a prendere contatto con quel mondo; prende in affitto un appartamento in zona e cerca di creare una sorta di amicizia con Ted (Don Scardino), un vicino di casa anche lui gay, un tipo molto tranquillo con il pallino della scrittura. Con il passare dei giorni la frequentazione dell'ambiente rende Steve sempre più teso e confuso, il rapporto con Nancy, più sporadico a causa del lavoro sotto copertura, sembra filare meno liscio di prima, la violenza della polizia stessa nei confronti degli omosessuali infastidisce l'agente sempre di più. Quella che era nata come una missione alla ricerca di un assassino sembra sempre più trasformarsi in una personale discesa all'inferno dalla quale Burns uscirà molto cambiato.

Travagliata la realizzazione di Cruising; il film fu osteggiato sia durante la fase di riprese che dopo la sua uscita nei cinema da quella parte della comunità gay definita mainstream che non accettava la visione sadomaso, nascosta, quasi illecita e sporca che a loro parere il film di Friedkin trasmetteva dell'omosessualità. L'idea poi di mettere in scena l'omicidio di soli uomini gay preoccupava e non piaceva, tutti dubbi leciti se ci si ferma a pensare alle battaglie che già all'epoca (e si era solo agli inizi) le comunità omosessuali dovevano affrontare per raggiungere un seppur minimo livello di accettazione e riconoscimento, non stupisce quindi che non vedessero di buon occhio un film che a loro dire metteva il movimento in cattiva luce. In realtà guardando Cruising (almeno nella versione scorciata delle sequenze più forti), non si ha mai l'impressione che il film si scagli contro l'ambiente omosessuale in genere, anche il protagonista, seppur scombussolato sul finale, questo sì un poco (volutamente) ambiguo, mostra solidarietà e avvicinamento al mondo dei gay newyorkesi, semmai sono la città e la corruzione della polizia violenta e sfruttatrice a non uscire bene dal lavoro di Friedkin che, aiutato dalla fotografia cupissima e lercia di Contner, pennella una New York opprimente e infernale. Ciò che indaga Friedkin, sotto al primo livello di lettura di un confuso (nelle reali colpe) thriller metropolitano, è lo spaesamento interiore di un uomo che esce da un'esperienza provante con il diverso da sé con una sorta di perdita d'identità che ricorda quella subita dai reduci del Vietnam, altro argomento più volte esplorato dal cinema dei Settanta/Ottanta. Il film è scandito da una colonna sonora di peso che vede tra gli altri contributi dei The Germs, di Willy DeVille, dei The Cripples e di John Hiatt. Si è poi molto parlato delle scene forti girate all'interno di questi "leather bar" ma purtroppo la "versione educande" in mio possesso non mi ha permesso di valutare nell'interezza il reale valore di un film che non presenta particolari motivi d'interesse sotto l'aspetto thrilling ma compensa alla grande per ambientazioni e sviluppo del protagonista. Il consiglio, che potrei dare anche a me stesso, è di tentare un recupero della sua versione integrale per meglio apprezzare un'opera che ancor oggi potrebbe avere più di qualcosa da dire.

sabato 10 maggio 2025

INIZIO DI PRIMAVERA

(Sōshun di Yasujirō Ozu, 1956)

Il corpo d'opera del regista giapponese Yasujirō Ozu si compone di circa una cinquantina di film che il maestro ha realizzato tra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Sessanta del secolo scorso; parte della sua filmografia, soprattutto per quel concerne le opere degli anni Venti e Trenta, è purtroppo andata perduta. Inizio di primavera è la prima opera successiva al film più celebre di Ozu che anche noi non ci esimiamo dal citare tutte le volte che parliamo dei film del regista: il riferimento è ovviamente a Viaggio a Tokyo dal quale passano ben tre anni prima di un ritorno del maestro proprio con questo film datato 1956. In un Giappone in profondo mutamento, come abbiamo imparato dai film precedenti, anche i gusti del pubblico iniziano a cambiare; proprio sul finire degli anni Cinquanta nasce una sorta di New Wave del cinema giapponese ispirata dal movimento francese della Nouvelle Vague i cui appartenenti (molti dei quali non riconoscevano quel movimento che andò sotto il nome di Nūberu bāgu) si concentrarono su temi e stilemi decisamente più moderni allontanandosi da quello che veniva definito, come facevano anche i francesi, il "cinema dei padri". Anche oggi in Giappone, come ci confermano Matteo Bordone e Flavio Parisi nel bel podcast Viaggio a Tokyo, in realtà il cinema di Ozu oggi non fa proprio parte della cultura popolare nipponica, è probabile che gli appassionati di cinema europei conoscano Ozu meglio di molti giapponesi stessi, non proprio un fenomeno di "dimenticanza" ma una sorta di appartenenza a un passato rispolverato nei musei, uno "sbiadimento" di cui i primi segni si iniziarono a vedere proprio nello stesso periodo in cui usciva questo Inizio di primavera. Eppure, anche in Inizio di primavera, pur rimanendo nell'impianto classico ormai noto e caro a Ozu, non manca qualche ulteriore slittamento verso una panoramica su famiglia e società che affronta temi che in effetti al moderno tendono, sempre ammantati della serena grazia con cui Ozu affronta ogni argomento.

Siamo a Tokyo. Shoji Sugiyama (Ryô Ikebe) è sposato con Masako (Chikage Awashima); i due sono soli in quanto hanno perso a causa di una malattia il loro unico figlio quando era ancora piccolo. Shoji lavora come impiegato in una delle tante aziende in via di sviluppo nella capitale giapponese, conduce quella che iniziava a essere la vita standard degli impiegati giapponesi dell'epoca: lavoro, poche soddisfazioni, paghe non sempre abbondanti e una vita aziendale che spesso proseguiva anche oltre l'orario d'ufficio caratterizzata da uscite con i colleghi o gite domenicali con gli stessi. La vita tra Shoji e Masako, che non lavora e si occupa delle incombenze casalinghe, scorre monotona e tranquilla. In una delle varie gite con i colleghi di Shoji alla quale Masako non partecipa, l'uomo si avvicina alla collega Kaneko (Keiko Kishi), detta Pesce rosso per i suoi occhi grandi, una ragazza molto aperta e solare con la quale Shoji, tipo belloccio ma meno interessante, sembra trovarsi molto bene. Con il passare del tempo, date anche le iniziative della ragazza molto intraprendente, il rapporto tra Shoji e Kaneko diverrà un qualcosa di più di una semplice amicizia, cosa della quale ben presto anche Masako avrà evidenza e che minerà il rapporto, già un po' usurato, tra i due coniugi. Il destino e le scelte aziendali si interporranno tra i tre dando modo a tutti di valutare la situazione e prendere le dovute decisioni.

Come si accennava poc'anzi, nel momento in cui usciva Inizio di primavera si iniziava in Giappone ad avvertire il bisogno di un cinema diverso, al passo con i tempi; in realtà i temi trattati da Ozu e la mancanza di una ricerca formale volta alla spettacolarizzazione e all'eccesso delle varie situazioni sono caratteristiche che rendono il cinema del maestro "senza tempo" e buono per tutte le stagioni; occupandosi in prevalenza della realtà di piccole famiglie spesso borghesi e del loro vivere nella società del tempo Ozu racconta storie con le quali, con tutti i dovuti distinguo legati all'epoca di appartenenza, è facile trovare delle affinità ancora oggi. In questo senso con Inizio di primavera si compie ancora un passo avanti non essendo qui presente il contrasto tra giovani e generazione precedente (non si parla di matrimonio combinato ad esempio), una generazione dalla quale lo spettatore moderno si trova ovviamente molto distante. L'argomento principe, anzi gli argomenti principe, sono la crisi della coppia e l'alienazione del lavoro a salario, due temi oggi ancora attualissimi e addirittura più esasperati di allora (per quanto l'esasperazione non appartenga nella maniera più assoluta al vocabolario di Ozu che anche qui resta sempre pacato e sereno nella gestione delle vicende dei suoi protagonisti). Si inizia a intravedere un discorso sull'insoddisfazione legata alla vita quotidiana, alla routine, all'abitudine forzata che il mondo del lavoro moderno impone alle singole persone e ai nuclei familiari, si intuisce una sorta di solitudine anche all'interno della vita di coppia finora forse meno esplorata. Il cinema di Ozu si espande e rielabora quelli che sono i suoi fondamenti, vive di variazioni, a volte anche minime, di piccoli scarti, più che la nostalgia presente in opere passate qui si avverte una punta di amarezza; in occasione della morte per malattia di un ex collega dei protagonisti si riflette sul fatto di come forse, per alcuni versi, al caro estinto sia stata risparmiata una vita monotona fatta di sconforto e tristezza. Ozu forse non approfondisce a dovere i motivi reali della relazione extraconiugale tra Shoji e Kaneko che non capiamo se dettata da mero capriccio, soprattutto da parte di Shoji, o se mossa da un reale sentimento per la nuova venuta, probabilmente i tempi non sono ancora maturi per affondare il colpo in questo senso. Comunque, anche per questo che è il film più lungo realizzato da Ozu (139 minuti la versione presente su Raiplay), la visione corre in maniera più che piacevole.

giovedì 8 maggio 2025

L'OMBRA DEL GIORNO

(di Giuseppe Piccioni, 2022)

Il 18 maggio del 1907, nella piazza centrale di Ascoli Piceno (Piazza del Popolo) apre il Caffè Meletti, locale storico della città di proprietà della famiglia omonima già produttrice di liquori; nelle sale del Meletti pare siano transitate personalità quali Ernest Hemingway, Sandro Pertini, Simone de Beauvoir, Guttuso, Mascagni, Sartre e via discorrendo. È proprio all'interno di questo celebre locale che il piceno Giuseppe Piccioni, classe '53, decide di ambientare la quasi totalità di quello che a oggi è il suo ultimo film, L'ombra del giorno, una vicenda in bilico tra il melò e il ritratto storico dell'epoca fascista (siamo nel 1938, anno della promulgazione delle Leggi razziali). A portare in scena quello che è un poco il ritratto dell'Italia che vedeva andare ad affermarsi il regime fascista, c'è una coppia d'attori in parte e che rende giustizia, insieme ad altri volti molto indovinati, alla sceneggiatura dello stesso Piccioni (con Rosella ed Emdin); Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli attraversano i giorni difficili narrati ne L'ombra del giorno, l'uno con piglio più dimesso, quasi rassegnato, l'altra portando una vitalità solare pur in mezzo a un evidente dolore del passato recente (recentissimo in realtà) e a una situazione che ora dopo ora sembra farsi sempre più triste e tesa e destinata a spezzare le illusioni di ogni possibile futura felicità (o anche solo serenità).

Luciano (Riccardo Scamarcio) è un reduce della Grande Guerra tornato dal fronte con un'evidente zoppia e che ora gestisce un ristorante nella piazza principale di Ascoli. Un giorno di fronte al suo locale si ferma una giovane donna; è Anna (Benedetta Porcaroli), una giovane che sembra avere un'impellente necessità di un lavoro e di un posto dove stare. Dopo un breve colloquio Luciano, uomo all'apparenza rigido ma in fondo di buon cuore, accetta di dare una possibilità ad Anna facendola iniziare a lavorare in cucina per dare una mano al cuoco Giovanni (Vincenzo Nemolato) e a Maria (Flavia Alluzzi). Luciano sembra un uomo, seppur ancor in età affatto avanzata, un po' spento e rassegnato, di simpatie fasciste ma più per quieto vivere che non per vera convinzione, un fascista "alla leggera" non ancora consapevole di ciò che il fascismo sta per diventare per il Paese. Anna invece mostra fin da subito una profonda avversione per il fascismo, anche di fronte a un pericoloso ex commilitone di Luciano, tal Osvaldo Lucchini (Lino Musella), destinato a divenire una figura di riferimento per i fascisti della zona e purtroppo anche per il giovanissimo cameriere Corrado (Costantino Seghi). Con il passare del tempo Luciano e Anna impareranno a conoscersi meglio e tra loro nascerà un amore destinato però a trovare sulla sua strada diversi ostacoli, non ultimo quell'Ester che si scoprirà essere il vero nome di Anna e che si porta dietro tutto quel che un nome ebraico in quegli anni può voler dire.

L'ombra del giorno è un bel film; Piccioni per esigenze di trama sembra ripartire il film in due sezioni dove la prima, quella che vede il nascere e il crescere del rapporto tra Luciano e Anna, risulta essere più coinvolgente e viva, la seconda, caratterizzata da una nuova rivelazione (dopo quella del vero nome di Anna) che qui non sveleremo, focalizzata sugli eventi più strettamente legati all'affermarsi del fascismo, cosa che smorza un poco i toni melò del racconto che a onor del vero sembrano essere anche quelli meglio riusciti. Questo grazie a due protagonisti che trovano la loro giusta misura con Scamarcio che interpreta un uomo che inizialmente sembra guardar scorrere la vita (degli altri) dalla vetrina del suo locale, avendo per vari motivi rinunciato un poco alla sua, in questo Luciano assomiglia al più celebre Titta Di Girolamo, il personaggio di Sorrentino che ne Le conseguenze dell'amore guarda scorrere la vita (degli altri) dalle vetrate dell'hotel in cui risiede. Luciano si è creato un microcosmo all'interno del locale fatto di clienti abituali e frequentatori occasionali che incarnano i vizi terribili di un'Italia in decadimento morale e che lascia campo libero a soprusi e prepotenze ma anche le strenue opposizioni, incarnate dal professore (Antonio Salines) ma anche dalla stessa Anna. Quello interpretato dalla Porcaroli è un personaggio che pur nelle sue difficoltà è la classica "botta di vita" di cui uno come Luciano aveva bisogno, la Porcaroli infonde in Anna il giusto mix di energia e consapevolezza politica e morale che la rendono speciale nel contesto dell'epoca. Da tenere d'occhio il testo del pezzo in colonna sonora del sempre interessante Andrea Laszlo De Simone.

martedì 6 maggio 2025

CINEMA SPECULATION

(di Quentin Tarantino, 2022)

È già da qualche tempo che si parla di introdurre nelle scuole l'insegnamento del cinema e dell'audiovisivo come materia utile per capire il nostro presente, per cogliere le possibilità di esprimerlo, rielaborarlo, raccontarlo e fermarlo nella memoria e, perché no, anche studiarlo (discorso questo utile anche per la storia, non solo del cinema ma tout court). Ecco, di fronte a una tale e augurata evenienza io tra i miei professori vorrei ci fosse Quentin Tarantino. Questo non perché il regista e qui scrittore sia uno degli storici del cinema più quotati e competenti (non lo è), forse non è nemmeno uno dei conoscitori più completi della materia (anche se qui credo fortemente sia messo davvero molto, molto bene); vorrei Quentin Tarantino tra i miei professori per la passione sincera che nutre per la materia e per quella capacità così accattivante e naturale che possiede di trasmettere quella stessa passione. Arriviamo così a Cinema speculation, seconda opera letteraria del Nostro dopo la trasposizione su carta di C'era una volta a... Hollywood, al momento sua ultima fatica cinematografica. Cinema speculation non è un testo che pretende di offrire ampie panoramiche su quello che è stato il cinema dai suoi albori fino a oggi, non è un viatico per conoscere i grandi movimenti della settima arte, i suoi capisaldi, i maggiori autori, non è una panoramica autorevole su quel che il cinema è stato come può essere, che so, uno Storia del cinema di Fernaldo Di GiammatteoCinema speculation è la storia del rapporto d'amore nato tra un giovane ragazzo del Tennessee e il cinema visto attraverso l'analisi puntuale (ma anche parziale) di una serie di film che hanno colpito l'immaginario del giovane Quentin in un arco temporale che va dalla fine degli anni 60 all'inizio degli 80; va da sé che il libro diventi così un mix tra un saggio su un certo cinema e il racconto personale, una storia di formazione dove sono cruciali non solo il rapporto con la sala e con i film ma anche quello con la madre e con l'assenza del padre (a volte sostituito da altre figure di riferimento bizzarre e di passaggio).

Il libro si apre con un'introduzione (I grandi film del piccolo Q) con la quale Tarantino ci illustra un poco la genesi del suo amore, e di quello di un sé stesso bambino, dai 7 anni in avanti, per i film e per le sale cinematografiche che nella sua infanzia furono per lui l'occasione imperdibile per "fare cose da grandi". Forte di una madre molto permissiva e niente affatto spaventata dall'influenza che film anche violenti avrebbero potuto avere sul figlio ancora piccolo, il giovane Quentin ebbe la possibilità di vedere film e appassionarsi a un tipo di cinema che alla maggior parte dei suoi coetanei era negato, cosa che peraltro gli fece guadagnare anche un certo rispetto tra i suoi pari. Tra i suoi primi ricordi c'è ad esempio un doppio spettacolo che presentava La guerra del cittadino Joe di John J. Avildsen e Senza un filo di classe di Carl Reiner, film oggi non proprio tra i più ricordati, cosa che appunto ci da un'idea delle pellicole di cui ci parlerà Tarantino in Cinema speculation, e sicuramente non proprio tra i più consigliati per un ragazzino, soprattutto il primo. Dopo aver gettato le basi per rendere il lettore edotto della situazione si passa a parlare di alcuni film per Quentin divenuti di riferimento; nei capitoli a essi dedicati non mancano riferimenti e approfondimenti su altre pellicole, attori, registi, sceneggiatori... e allora via con Bullit, Ispettore Callaghan: Il caso Scorpio è tuo!, Un tranquillo weekend di paura, Getaway!, Organizzazione crimini, un pezzo affettuoso sul critico cinematografico Kevin Thomas (che poco ha amato i film di Quentin), Le due sorelle, Daisy Miller, Taxi driver, Rolling thunder, Taverna Paradiso, Fuga da Alcatraz, Hardcore, Il tunnel dell'orrore e altri pezzi ancora.

Quello che ne esce è un libro estremamente divertente, coinvolgente, appassionante seppur laterale e non conforme a quella che può essere l'idea generalizzata di un cinema di serie A. Il cinema è visto prima di tutto come esperienza collettiva, come il vissuto di un ragazzino in una sala (in una dove magari è l'unico bianco presente a vedere un film della blaxploitation), come parte importante di un percorso di formazione che ha portato, insieme ad altro presumiamo, al Quentin Tarantino regista che oggi tutti noi conosciamo. Cinema speculation non è quindi un testo "assoluto" quanto piuttosto una visione personale e parziale dettata da un gusto soggettivo su di un piccolo pezzo della storia del cinema, ed essendo la storia personale di un narratore d'eccezione è quasi inevitabile che nel lettore nasca la voglia di andare a recuperarsi anche cose come l'Alligator di Lewis Teague o qualsiasi altro improbabile titolo la videoteca ideale di Tarantino contenga e alla quale qui solamente accenni. Torniamo quindi ad abbracciare quella passione che con estro, spirito e anche acume Tarantino è capace di trasmettere, non omettendo di riflettere e spendere parole, lodi e critiche su gente come Bogdanovich, Scorsese, Schrader, McQueen, Yates, Siegel, De Palma o Sam Peckinpah in una panoramica sull'epoca della sua formazione cinematografica, quella principalmente dei 70 del secolo scorso, tra le varie exploitation, New Hollywood, Movie Brats e via discorrendo. Un miscuglio quindi di cinema e ricordi dal quale è impossibile non uscire avvinti, parafrasando un più celebre slogan... "Professore subito!".

domenica 4 maggio 2025

SECRETARY

(di Steven Shainberg, 2002)

Secretary è un film che si porta sulle spalle ormai più di vent'anni; se un film del genere fosse stato distribuito oggi probabilmente le chiavi di lettura con le quali lavorare per interpretare l'opera di Steven Shaiberg sarebbero state diverse da quelle usate nel 2002 per commentarne l'opera, e non sono nemmeno così sicuro che il regista oggi avrebbe preso la decisione di dirigere questo film, alla luce dei vari movimenti MeToo e affini e alla questione sulla rappresentazione della figura femminile non solo al cinema ma in ogni forma d'espressione. A ben vedere in Secretary non ci sarebbero nemmeno gli estremi per far troppa polemica, al suo cuore c'è una storia d'amore cercato che potrebbe aver fatto la fortuna di una rom com classicissima se solo i due protagonisti non fossero affetti da qualche disturbo comportamentale e legati da una relazione sentimental-sessuale con dinamiche da padrone e sottomessa (accettate e volute/desiderate da entrambi i protagonisti). Ciò nonostante, oggi, questo Secretary si sarebbe potuto fare? Quesito tutto sommato molto interessante. Nel 2002 il film si fece, si ammantò da subito di una certa ambiguità che lo trasformò rapidamente in un piccolo culto (si giocò bene sulle aspettative pruriginose, ben più vagheggiate di quanto poi il film metta davvero in scena); al Sundance Film Festival dove Secretary venne presentato il presidente di giuria John Waters, avvezzo alle tematiche del film, istituì un premio ad hoc in modo da meglio promuoverlo, quello all'originalità.

Lee Holloway (Maggie Gyllenhaall) è una giovane donna cresciuta in una famiglia disfunzionale in situazioni che l'hanno portata a casi di autolesionismo e al ricovero in una clinica psichiatrica. Quando Lee viene dimessa, non completamente guarita, il ritorno a casa si rivela un piccolo trauma; la donna decide di reagire rivolgendosi al mondo del lavoro, provando a cercare un impiego e sfruttando le sue ottime doti da dattilografa. Tramite un annuncio sul giornale Lee si candida per un posto di segretaria nell'ufficio dell'avvocato E. Edward Grey (James Spader), un posto che otterrà e accetterà nonostante l'impiego potrebbe rivelarsi alla lunga noioso. Dopo aver affrontato con il suo nuovo titolare l'argomento dell'autolesionismo e averlo apparentemente superato grazie a un misto di devozione e attrazione che Lee prova per Edward, tra i due si instaura pian piano un rapporto di sottomissione della donna nei confronti del suo titolare, un uomo sessualmente inibito e attratto dalle dinamiche di dominazione che inizieranno a manifestarsi con un continuo riprendere il lavoro della sua segretaria per trasformarsi poi in qualcosa di più fisico a partire dalla famosa scena della sculacciata con la Gyllenhaall appoggiata alla scrivania del capo. In realtà, dietro questa dinamica accettata, cercata e desiderata in primis da Lee, si nasconde un'attrazione tra i due più profonda e sincera.

Il regista Steven Shainberg, che oltre a questo Secretary non vanta grandi voci in curriculum per cui essere ricordato, gestisce bene il mix che si viene a creare tra una struttura da commedia romantica e temi che una volta potevano essere considerati addirittura scabrosi; inserisce la storia d'amore tra Lee ed Edward in un contesto del tutto particolare dove si parla di disagio estremo (l'autolesionismo è una cosa che fa paura e che ancora oggi preoccupa migliaia di genitori in tutto il mondo) e di preferenze sessuali non così comuni o magari anche più comuni di quel che si possa pensare ma delle quali raramente si parla in maniera aperta; ne esce così un panorama che contempla la dominazione, le dinamiche di sottomissione, il sadomasochismo, tutte pratiche raccontate da Shainberg con una certa levità, senza mai eccedere e senza mai cadere troppo in pratiche che contemplino una vera violenza. Accompagnato dalle musiche di un Badalamenti che da sé già crea atmosfera, Shainberg gira con gusto un film dove esce bene il contrasto tra le scenografie dell'ufficio, di quel corridoio centrale, di quei colori non a caso vagamente lynchiani, e tutto ciò che c'è all'esterno di esso e che presenta tinte più marcate, quasi infantili, a tratti più irreali di quelle adoperate per rappresentare il posto di lavoro (e di sculacciate) in cui si muovono i due protagonisti. Ottima prova della Gyllenhaal che si concede senza pudori e costruisce in un ruolo non semplice una bella protagonista supportata da un decisamente funzionale James Spader, una bella coppia per una commedia romantica che, come aveva intuito John Waters, ancora oggi non possiamo che definire quantomeno originale.

venerdì 2 maggio 2025

THUNDERBOLTS*

(di Jake Schreier, 2025)

Non è la prima volta che i Marvel Studios riescono nell'impresa di portare sullo schermo con buoni risultati personaggi considerati minori, almeno per quel che riguarda l'economia del Marvel Universe classico (ci riferiamo a quello cartaceo, i cari vecchi fumetti). Il tentativo aveva avuto successo già con i Guardiani della Galassia, e se stiamo a ben pensarci anche Black Widow, Shang-Chi, Black Panther non sono proprio paragonabili ai grossi calibri come Hulk, Thor, Capitan America o Iron Man. Se per alcuni degli episodi sopra citati qualche dubbio sulla buona riuscita dell'operazione poteva anche rimanere, con Thunderbolts* il regista Jake Schreier e soci sembrano essere riusciti a lasciarsi alle spalle pesantezze e complicanze legate a tutte le varie questioni nate con il multiverso e a costruire di conseguenza un film semplice, chiaro, lineare, divertente e fruibile più o meno da tutti. L'unico piccolo neo che rimane nella gestione del Marvel Cinematic Universe è la questione legata all'amata/odiata continuity che ancora lascia la sensazione di essersi persi qualcosina se non si sono visti tutti i film precedenti dei Marvel Studios; io ad esempio non ho avuto modo di guardare ancora Marvels e Capitan America: Brave New World e in qualche passaggio, per carità nulla di irreparabile, l'impressione di riscontrare la presenza di piccoli vuoti qua e là comunque la si avverte.

Dopo la morte della sorella, Yelena Belova (Florence Pugh) ha perso interesse per il suo lavoro ed è entrata in una sorta di depressione acuita dalla lontananza dal patrigno Alexei (David Harbour), il Guardiano Rosso. La mercenaria decide così di porre fine alla serie di incarichi che sta portando avanti per la direttrice della C.I.A. Valentina Allegra de Fontaine (Julia Louis-Dreyfus) la quale è sotto processo per attività illecite svolte nell'esercizio delle sue funzioni; a tentare di provare le sue malefatte c'è anche Bucky Barnes, il Soldato d'Inverno (Sebastian Stan), ora deputato al congresso. Yelena accetta di portare a termine un'ultima missione per la de Fontaine che segretamente sta cercando di togliere di mezzo tutte le prove delle sue missioni illecite; con uno stratagemma riunisce quindi in un complesso segreto alcuni personaggi per le potenzialmente compromettenti: Yelena ma anche John Walker (il Cap dei poveri U.S. Agent interpretato da Wyatt Russell), Ghost (Hanna John-Kamen) e Taskmaster (Olga Kurylenko). Qui il gruppo di agenti a pagamento si trova intrappolato insieme a Bob (Lewis Pullmann), un ragazzo timido e introverso, evidentemente in stato confusionale, soggetto (ab)usato per portare avanti il fantomatico progetto Sentry i cui frutti si vedranno solo a film inoltrato. Il gruppo scombinato, dopo essersele date di santa ragione, si troverà a dover collaborare per sfuggire alla trappola tesa loro dalla de Fontaine prima, e ad affrontare l'involontaria minaccia di Sentry dopo, roba da far tremare le gambe anche ai più potenti tra gli AvengerZ.

Thunderbolts* non presenta nessun elemento innovativo all'interno del Marvel Cinematic Universe ma vanta almeno il merito di essere un film divertente e soprattutto non troppo cervellotico; si abbandonano quindi le trame del multiverso per costruire un nuovo gruppo di (anti)eroi che guarda al futuro, lo fa magari portandosi appresso diversi legami con il passato, senza troppo innovare ma provando anche ad affrontare oltre alle minacce di turno temi più che mai attuali e per nulla leggeri, vedi la depressione, la mancanza di direzione, i traumi capaci di condizionare un'intera esistenza e la forza che può nascere dall'aiuto e dalla vicinanza di altre persone, siano essi amici, familiari o semplicemente nuovi compagni di viaggio che la vita ci ha messo accanto per caso, nuovi compagni di dolore e disgrazia con i quali dividere e affrontare i momenti bui (e qui bui lo sono davvero). Per far questo si pesca dal catalogo infinito della Marvel Comics il personaggio di Sentry, essere potentissimo ma portatore di un lato oscuro incontrollabile che è perfetta metafora dei traumi, delle solitudini e delle depressioni dell'animo umano e che danno vita a Void, l'altra faccia della medaglia del "solare" Sentry, un essere che guarda ai disturbi che sembrano essere propri di questi tempi difficili e proprio per questo molto più spaventoso di altri. La regia di Schreier gestisce bene i momenti scanzonati (che non mancano), quelli cupi di cui abbiamo già detto organizzando un tour nelle "stanze della vergogna" dei diversi protagonisti offerto dal mite Bob, quelli tamarri (l'entrata in azione di Bucky in moto), e quelli puramente action che guardano alla tradizione Marvel all'epoca degli Avengers (*al momento non disponibili). Sul versante degli interpreti Harbour gigioneggia di classe con il suo personaggio in costante ricerca di gloria ma in fondo genuino, la Louis-Dreyfus giostra bene il suo finanche esagerato freddo distacco di fronte a ogni sorta di pericolo e accusa, la Pugh sta una spanna sopra tutti, peccato questo accento marcatissimo russo nella versione italiana che, insieme a quello del patrigno, a tratti sembra davvero forzato (bisognerebbe provare la V.O.). Nessuna rivoluzione quindi, però un film più che godibile oltre ogni più rosea aspettativa.

domenica 27 aprile 2025

IL SAPORE DEL RISO AL TÈ VERDE

(Ochazuke no aji di Yasujirō Ozu, 1952)

Continuiamo a esplorare quella porzione di catalogo messa a disposizione da Raiplay per i suoi spettatori dedicata al lavoro del maestro del cinema giapponese Yasujirō Ozu; questa volta ci soffermiamo su un film del 1952, Il sapore del riso al tè verde, opera che precede di un solo anno l'uscita del capolavoro unanimemente riconosciuto Viaggio a Tokyo ma che in realtà era già stata pensata e sceneggiata da Ozu e dal suo collaboratore Kōgo Noda già sul finire degli anni Trenta dello scorso secolo. Il progetto, nato in un'epoca in cui il controllo di Stato sulle forme di espressione culturale era più stringente, fu bloccato dalla censura a causa di motivi che oggi potremmo considerare banali o comunque non tali da bloccare l'uscita di un film (che poi è anche un prodotto commerciale): infastidiva il fatto che il matrimonio tradizionale (matrimonio combinato) venisse osteggiato dalla protagonista, la modernità di alcuni comportamenti tenuti dai diversi personaggi e addirittura la scelta di celebrare uno dei passaggi chiave del film con la preparazione del riso al tè verde, piatto considerato troppo umile e povero, visto come non degno di essere accostato a tematiche riguardanti la società giapponese, temi che comunque appartengono alla sfera del personale, del privato, e non a quella politica o di Stato, ciò dimostra come la libertà d'espressione non fosse cosa scontata e l'attenzione a quel che l'arte proponeva esageratamente alta e restrittiva.

Taeko (Michiyo Kogure) e Mokichi (Shin Saburi) sono una coppia benestante sposata e senza figli; lei è una donna esigente alla quale piacciono le comodità e i divertimenti, lui è dedito al lavoro e ha una visione della vita più semplice e agli occhi della moglie anche un poco noiosa. Quello tra i due è un matrimonio in crisi, Taeko cerca ogni scusa per allontanarsi da casa e passare del tempo con la sua amica Aya (Chikage Awashima) e con la sua giovane nipote Setsuko (Keiko Tsushima), una ragazza in età per avere delle relazioni serie ma ancora single. In almeno un'occasione, quella di una gita tra amiche alle terme programmata alle spalle del marito, Mokichi sembra intuire la volontà della moglie di allontanarsi da casa ma l'uomo non da troppo peso al comportamento della moglie. Una volta con le amiche, Taeko si sfoga lamentandosi del suo matrimonio, contratto nella tradizione dell'unione combinata, mostrando poco rispetto per il consorte. Quando anche per Setsuko si prospetta la possibilità di un matrimonio combinato la giovane si ribella facendo nascere ulteriori malumori in famiglia; dopo alcune divergenze di vedute la zia Taeko si allontana da casa senza informarne il marito che dovrà partire per un viaggio di lavoro in Uruguay senza poter avvisare e salutare la moglie.

Rispetto ad altre opere del maestro Ozu Il riso al sapore di tè verde presenta una regia e una messa in scena più vivace e dinamica, pur rimanendo su stilemi classici e formalmente compassati. Il film si apre con un'esterna, una ripresa effettuata dall'abitacolo di un'auto tra le strade di una Tokyo moderna, viva, una visione di progresso che torna anche in altre sequenze della pellicola; si percepisce ancor più che in altre occasioni l'influenza della commedia statunitense sul girato di Ozu, altra conferma, oltre a quelle di cui è imbevuto il film, di come la cultura giapponese sia via via sempre più influenzata da quella occidentale, un aspetto che si rispecchia negli abiti delle protagoniste dove i classici outfit occidentali si alternano ai kimono della tradizione nazionale, nella presenza dei film di importazione statunitense che Setsuko alterna volentieri alle serate al teatro kabuki, e ancora nell'interesse per il gioco del baseball, nelle sortite al velodromo, tutti segnali di una quotidianità che si sta ibridando con gli stimoli provenienti da oltreoceano. Il cuore della narrazione sono ancora una volta le donne, donne moderne che pian piano si trovano in contrasto con usanze da loro ritenute ormai vetuste e moralmente sorpassate come quella del matrimonio combinato. La giovane Setsuko è alla ricerca di un'unione d'amore, spontanea, vede l'infelicità della zia Taeko come una conseguenza proprio del suo matrimonio pilotato dalle famiglie. C'è inoltre un primo sentore di un patriarcato in difficoltà, messo in discussione da mogli non più cecamente devote ai doveri coniugali; nonostante questi contrasti, nonostante queste donne che bevono, nascondono le loro azioni ai mariti, giocano a pachinko (un gioco d'azzardo giapponese), le differenze di vedute sono affrontate da Ozu e dai suoi protagonisti sempre con una certa pacatezza e in alcuni casi, come in quello della scontenta Taeko, non è detto che il proprio sentire non ritrovi la via della serenità proprio grazie alla tradizione, grazie a una piccola epifania qui visivamente resa con la splendida sequenza della preparazione improvvisata del riso al tè verde da parte di Taeko e Mokichi. Si rimane sempre in bilico tra l'accettazione del nuovo e la nostalgia per il passato, qui richiamata dall'incontro tra Mokichi e un vecchio commilitone (Chishū Ryū) ora gestore di una sala di pachinko, un uomo sofferente perché convinto che il suo nuovo lavoro, moderno e indirizzato al mero divertimento se non proprio al vizio, sia un'occupazione inutile e indegna nell'ottica della costruzione di una nuova società giapponese. Tanti i temi messi in campo da Ozu, quasi tutti ricorrenti nell'economia del suo corpo d'opera, forse Il sapore del riso al tè verde si può considerare meno incisivo dei film appartenenti alla così detta trilogia di Noriko ma rimane comunque un ulteriore e ottimo tassello da esplorare per conoscere al meglio il prezioso lavoro del regista nipponico.

sabato 26 aprile 2025

BUTTIAMO GIÙ L'UOMO

(Blow the man down di Bridget Savage Cole e Danielle Krudy, 2019)

Abbiamo da pochissimo parlato del The big white di Mark Mylod, delle sue chiare influenze mutuate dal Fargo dei fratelli Coen, che subito rilanciamo con qualcosa che per alcuni versi, ma solo per alcuni, si avvicina alle stesse atmosfere del bellissimo lavoro dei registi Joel ed Ethan. A differenza di quel che accadeva con The big white qui le suggestioni riprese dal più illustre predecessore sono sviluppate in maniera diversa e originale garantendo a questo Buttiamo giù l'uomo una migliore riuscita e una maggiore personalità, caratteristiche che lasciano ben sperare essendo quella delle due registe Bridget Savage Cole e Danielle Krudy una delle prime esperienze nel lungometraggio di finzione. Siamo anche qui nel campo del thriller che non disdegna elementi grotteschi e vicini alla commedia anche se le due registe si tengono in maggior equilibrio senza mai troppo far pendere l'ago della bilancia sul versante più lieve della vicenda ma senza nemmeno calcare troppo la mano su quello truce e delittuoso. Inoltre si torna nelle lande del nord, al freddo, questa volta non siamo proprio sommersi dalla neve (sebbene presente) ma comunque siamo vicini al Canada, ancora negli U.S.A., nel Maine, a Easter Cove, paesino che più che al Maine di Stephen King fa pensare alla celebre Cabot Cove dove risiede Jessica Fletcher (quando non è in giro a fare morti), la ormai mitica (e purtroppo defunta) protagonista de La signora in giallo.

Le sorelle Connolly, Priscilla (Sophie Lowe) e Mary Beth (Morgan Saylor), vivono nel piccolo villaggio di pescatori di Easter Cove e hanno da poco perso la madre rimanendo sole al mondo. Mary Beth è rientrata per il funerale dalla località più mondana dove frequenta l'università, Priscilla si trova nella condizione di dover mandare avanti da sola la pescheria di famiglia per far fronte alle spese e non rischiare di perdere la casa dove attualmente vive. Purtroppo per lei Mary Beth non è per nulla intenzionata a darle una mano in questo e desidera solo andarsene al più presto dal paesotto di provincia per vedere il mondo e avere una vita più piena ed emozionante. Le due sorelle hanno una specie di alterco durante il funerale della madre, Mary Beth si allontana da casa e in serata si imbatte in quello che sembra un poco di buono di nome Gorski (Ebon Moss-Bachrach). Trovatasi in una situazione potenzialmente pericolosa con questo sconosciuto ubriaco e un po' molesto, senza averne realmente l'intenzione Mary Beth lo uccide. A Priscilla, ragazza limpidissima e onesta, non resterà che calpestare la sua indole per aiutare la sorella e tenere segreto il delitto; non resta che far scomparire il cadavere e sperare. Le cose ovviamente si complicheranno e verrà fuori che in fondo anche Easter Cove nasconde da sempre una natura più torbida di quel che possa apparire a un'occhiata superficiale.

Dopo una buona accoglienza al Tribeca Film Festival del 2019, Buttiamo giù l'uomo è stato acquistato e distribuito da Prime Video; il film si apre su un coro di pescatori che canta il brano che dona il titolo originale al film, Blow the man down, la voce principale è affidata a Dave Coffin, cantante folk nato a Gloucester (quella del Massachusetts). Ma questo coro di rudi pescatori avrà poca parte nell'economia della vicenda (se non quella di funzione di coro greco), il film di Bridget Savage Cole e Danielle Krudy è infatti una vicenda di donne: donne sono le protagoniste, donne sono i motori della vicenda, delle donne anche gli intrighi e le piccole (o grandi, in base al giudizio di ognuno) immoralità nascoste sotto la superficie di un piccolo paese di provincia all'apparenza più che innocuo (ma Lynch e Twin Peaks in questo senso ci hanno insegnato a diffidare, anche se qui non siamo neanche lontanamente da quelle parti). Gli uomini sono vittime (il morto), ingenui (il poliziotto puro di cuore), o viziosi e depravati (forse tutti quelli che nel film non vediamo), e poco incidono sull'evolversi di eventi gestiti da donne anche in contrasto tra loro, d'altronde il titolo parla chiaro. Pur guardando a numi tutelari più significativi di quest'opera, Buttiamo giù l'uomo gode di una sua identità peculiare che magari rende il prodotto adatto a una nicchia di pubblico non amplissima ma che convince ben più di molti altri dozzinali prodotti derivativi e privi di personalità, questo pur rimanendo all'interno di un genere di solito molto frequentato. I personaggi, soprattutto quelli secondari, si sveleranno poco a poco alzando piano piano il tappeto sotto il quale si nasconde lo sporco, nel far questo spiccano i volti della navigata Margo Martindale e della scafata June Squibb, due garanzie che si affiancano ai bei volti delle due giovani protagoniste. Un prodotto dalla forte connotazione femminile passato un po' sotto silenzio ma che tutto sommato meriterebbe il recupero, non fosse altro che per quel senso di sgretolamento di una fermezza morale acquisita e ideale che sembra venire a crollare sotto i piedi della candida Priscilla.

mercoledì 23 aprile 2025

THE BIG WHITE

(di Mark Mylod, 2005)

Il nome di Mark Mylod, regista britannico classe '65, è poco noto al pubblico italiano (e al pubblico in generale con tutta probabilità); per il cinema Mylod ha diretto quattro film nell'arco di vent'anni dei quali nessuno è riuscito a lasciare un segno duraturo e tra questi solo l'ultimo, The menu del 2022, ha ottenuto critiche mediamente positive; più controversi gli esiti delle altre pellicole del regista: Ali G del 2002, questo The big white del 2005 e (S)Ex list del 2011. È in veste di produttore e di regista per la serialità televisiva che Mylod ha lasciato intravedere i segnali più positivi del suo passaggio raccogliendo anche diversi premi dedicati al mondo del piccolo schermo come gli Emmy ottenuti per serie parecchio note come Entourage o Succession. Se prendiamo in esame e come riferimento questo The big white, non stupisce che l'opera di Mylod sia passata più o meno sotto silenzio; The big white è una black comedy (e guardiamo alla parola "comedy" con molta generosità) di stampo assolutamente derivativo, come detto da più parti il paragone che viene naturale fare, non fosse altro che per i panorami ampli e completamente innevati, è quello con il Fargo dei fratelli Coen che però "non è lo stesso campo da gioco, non è lo stesso campionato e non è nemmeno lo stesso sport". Le similitudini non si limitano all'ambientazione, si gioca con lo stesso genere di racconto, ci sono i criminali grotteschi, sopra le righe e incapaci, c'è la provincia americana, la ricerca del denaro per dare una svolta alla propria vita, lo stesso approccio alla commedia e via di questo passo, a essere diversi sono i risultati finali che purtroppo per The big white hanno tra loro davvero poco da spartire.

Paul Barnell (Robin Williams) è finanziariamente nei guai: la sua agenzia viaggi sita in Anchorage, Alaska, non gira per niente bene, l'uomo deve provvedere anche a sua moglie Margaret (Holly Hunter) affetta da sindrome di Tourette, una patologia che la porta a comportamenti imprevedibili e ad attacchi di volgarità che la donna elargisce a chiunque gli capiti sotto tiro, bambini compresi. Inoltre i debiti contratti da Paul si fanno pressanti, la compagnia elettrica minaccia di staccargli la luce, ciò che potrebbe salvare Paul sarebbe riscuotere finalmente l'ingente premio dell'assicurazione sulla vita di suo fratello Raymond (Woody Harrelson) scomparso dalla circolazione ormai da più di cinque anni. Purtroppo la legge dell'Alaska dice che gli anni per dichiarare un decesso in assenza di cadavere debbano necessariamente essere almeno sette, ragion per cui l'assicurazione non è disposta a pagare il premio. Un bel giorno Paul, neanche a farlo apposta, si imbatte in un cadavere congelato gettato in un cassonetto da due bizzarri delinquenti, Gary (Tim Blake Nelson) e Jimbo (W. Earl Brown) che ovviamente dovranno recuperarlo in un secondo tempo. Paul decide così di inscenare un finto ritrovamento e far passare il cadavere per quello di suo fratello Raymond, ma non sarà così semplice convincere lo zelante perito assicurativo Ted (Giovanni Ribisi) della veridicità dei fatti raccontati da Paul per ottenere il lauto rimborso che ammonta a circa un milione di dollari.

Tutto già visto, e anche realizzato meglio peraltro. Intendiamoci, non è che The big white non si possa guardare; se vi piacciono le commedie criminali (ma qui scappa la risata una o due volte) e le ambientazioni da estremo nord innevato il lavoro di Mylod potrebbe anche rivelarsi nelle vostre corde. Il cast presenta nomi validi, Robin Williams sembra un po' in vacanza premio e pare non credere troppo nel progetto, Ribisi sta nel suo e non è neanche male, Holly Hunter ci regala qualche soddisfazione in più a partire dall'intrigante sequenza iniziale. Purtroppo The big white rimane un prodotto scialbo per quasi la sua interezza, le situazioni grottesche sembrano un poco stereotipate e non affondano mai il colpo, il film fa fatica a scrollarsi di dosso la sensazione da "brutta copia" e le similitudini con il più illustre predecessore risultano essere un po' troppe anche se graziate almeno da qualche distinguo (in Fargo si voleva inscenare un falso rapimento della moglie del protagonista, qui un falso ritrovamento del cadavere del fratello, proprio per garantire un futuro alla moglie, in entrambi i casi il leit motive è la necessità di fare soldi facili). Non c'è molto altro da aggiungere, non ci sono elementi "storti" sui quali puntare il dito, cinema medio sul quale (forse) non vale la pena investire il vostro tempo, poi se proprio amate il freddo, la neve, non potete fare a meno di Robin Williams, questo e quell'altro, allora...

domenica 20 aprile 2025

BLACK MIRROR - STAGIONE 7

Un paio di anni fa, nel 2023 per la precisione, commentando la sesta stagione del Black Mirror di Charlie Brooker ci lasciammo chiedendoci se la serie sarebbe tornata ad assolvere a uno dei suoi compiti primari, ovvero se sarebbe riuscita nuovamente a stupirci e a colpirci nel profondo come fece anni addietro all'epoca della messa online delle primissime stagioni di un show allora geniale, anticipatore, intelligente e ficcante in maniera puntuale e molto pessimistica. Oggi, a visione della settima stagione ultimata, possiamo dirci senza timore che no, Black Mirror non ha più quella capacità di stupire che aveva quando iniziò a muovere i suoi primi passi, non ha forse nemmeno più l'indole per leggere e predire il prossimo futuro e l'uso nefasto che potremmo fare delle tecnologie in via di sviluppo già nel nostro presente; ciò non toglie che la serie ideata da Charlie Brooker sia ancora capace di offrirci ottimi spunti di riflessione per leggere noi stessi e il nostro oggi, ancor più che un nostro possibile domani, nel farlo punta ancora sulle paura e sulle angosce alle quali potremmo andare incontro da qui a poco ma soprattutto preme sulle emozioni, sui sentimenti, su tutta quella sfera affettiva che si spera i device, i social network, le connessioni perenni non riusciranno mai a farci dimenticare e mettere da parte. Come già nelle scorse stagioni la qualità delle puntate è altalenante, si passa da episodi ottimamente riusciti (un paio) a passaggi più deboli che vedono almeno un episodio completamente trascurabile. Diamo un'occhiata proprio ai sei nuovi titoli rilasciati negli scorsi giorni su Netflix.

Il lotto si apre con Gente comune (Common people), probabilmente l'episodio in potenza più angosciante e che più richiama la sintesi d'intenti propria del primissimo Black Mirror. L'episodio è una triste e nerissima disamina del sopravvento del capitale sull'empatia e sul sentimento, l'azzeramento della solidarietà, dell'amore per l'altro, della pietà, tutti sentimenti nobili sconfitti di fronte all'opportunità del profitto. Amanda (Rashida Jones) e Mike (Chris O'Dowd) sono due persone comuni che si amano, due persone belle e semplici, lui operaio, lei insegnante, ancora innamorati dopo tanti anni insieme, con i loro riti, le loro difficoltà quotidiane affrontate sempre con ottimismo. Poi Amanda si ammala, un tumore al cervello che la costringe a uno stato di coma all'apparenza irreversibile. Alla disperazione di Mike sembra poter porre rimedio la RiverMind, un'azienda che si occupa di biotecnologie avanzate e che attraverso la sua rappresentante Gaynor (Tracee Ellis Ross) offre all'uomo una soluzione: un trapianto della parte lesa del cervello di Amanda con una nuova che verrà nutrita tramite una sorta di tecnologia wireless con i dati mutuati dalla vecchia, un servizio a copertura regionale (Amanda non potrà uscire dalla zona di copertura) con un canone mensile nemmeno così oneroso se confrontato alla possibilità di perdere per sempre l'amore della propria vita. Qualche sacrificio, ore di straordinario in più, ore di sonno in meno e Mike potrà riavere la sua Amanda. Ma per tutto c'è un prezzo da pagare e non sarà solo quello dell'iniziale canone mensile. Probabilmente l'episodio migliore del lotto, il più riuscito se pensiamo alla Black Mirror di cui ci siamo innamorati in quel lontano 2011, una riflessione sul cinismo aziendale pronto a calpestare la dignità di ogni essere umano visto solo come unità da spremere in nome del profitto.


Si prosegue con Bestia nera, un racconto che affonda le mani in una fantascienza più estrema, anche se a un primo impatto non si direbbe, inevitabile che si perda un po' per strada quel magone che ci assale quando Black Mirror tratta temi potenzialmente a noi più vicini, più concreti, derive di una realtà oggi in nuce già presente. Qui si lavora su basi meramente teoriche per costruire un buon racconto che perde un poco sul finale, quando le carte in tavola si andranno a scoprire. Maria (Siena Kelly) si sta ritagliando una buona posizione all'interno di un'industria produttrice di cioccolato in qualità di sviluppatrice di nuovi prodotti. Durante un incontro con alcuni volontari contattati come tester per uno dei nuovi cioccolatini ideati da Maria, la ragazza riconosce tra i partecipanti una vecchia compagna di liceo, una di quelle ragazze escluse dal gruppo e da tutti considerata un po' una sfigata. Verity (Rosy McEwen), questo il nome della ragazza, riesce a guadagnarsi la simpatia di molti membri del team di Maria riuscendo a farsi assumere come nuovo membro della squadra. Maria inizia a patire un poco la competizione di Verity che sembra avere un forte ascendente non solo sulle persone che la circondano ma in qualche modo sulla realtà stessa; la rivalità tra le due andrà in crescendo, una situazione che metterà Maria in cattiva luce agli occhi dei colleghi mettendo a repentaglio la sua carriera e la sua intera esistenza. Episodio ben realizzato ma decisamente meno interessante di altri presenti in questa settima stagione.


Il terzo episodio si intitola Hotel Reverie; si torna a riflettere su questioni attuali legate allo sfruttamento digitale delle immagini, tema che già oggi crea confusione e problemi dovuti all'utilizzo improprio della tecnica del deep fake e alla mancanza di una legislazione chiara su cosa sia lecito fare con le immagini di altri, un assillo che legato al mondo dell'arte non è nemmeno più futuro ma presente assodato, pensiamo alle tecniche adoperate (in maniera lecita) nel recente Here di Zemeckis, al De Niro ringiovanito di The Irishman, insomma, da qui all'appropriarsi dell'immagine di star ormai scomparse è un attimo, discorso attualissimo per l'industria del cinema, e proprio di cinema si parla in questo episodio. Brandy Friday (Issa Rae) è un'attrice che sogna un ruolo da protagonista che possa darle qualche nuovo stimolo; quando le viene offerta la parte principale nel remake di Hotel Reverie, una sorta di Casablanca della Hollywood classica, Brandy accetta senza pensarci due volte nonostante il ruolo da protagonista in origine fosse maschile. Il nuovo Hotel Reverie non sarà però il classico remake, sotto la direzione dell'intraprendente Kimmy (Awkwafina) la star verrà immessa all'interno di una realtà virtuale nella quale Brandy avrà la possibilità di recitare sullo sfondo dello scenario originale del film interagendo con l'identità digitale ricreata dei vecchi protagonisti tra i quali spicca la bellissima e ormai defunta coprotagonista femminile Dorothy (Emma Corrin). Durante la sessione di registrazione qualcosa però andrà storto, Brandy rimarrà bloccata all'interno della simulazione innamorandosi col tempo della proiezione digitale di Dorothy. Hotel Reverie, senza raggiungerne i vertici, ricorda nell'aspetto sentimentale lo splendido episodio San Junipero; è proprio il comparto sentimentale qui a interessare nonostante il discorso sulle immagini, sulle potenzialità delle I.A e sull'aspetto tecnico sia molto attuale, l'episodio diventa una questione di cuore, meno riuscito di altri che già in passato puntarono sui sentimenti (e meno di Eulogy, ne parliamo dopo) ma comunque piacevole e toccante, anche grazie alla splendida interpretazione di una Emma Corrin sempre più brava.


Come un giocattolo sembra essere l'esito più debole di questa annata. È questo l'episodio (non l'unico) con più rimandi alle vecchie stagioni di Black Mirror, se non consideriamo ovviamente l'ultimo in programma del quale parleremo più avanti che è un vero e proprio sequel di USS Callister presente nella quarta stagione. Si torna alla Tuckersoft, l'agenzia di software che sviluppò in passato Bandersnatch e a Colin Ritman (Will Poulter) qui programmatore di Thronglets, quello che si rivelerà essere molto più che un videogioco. Cameron Walker (Peter Capaldi) è un recensore di videogiochi che da giovane (Lewis Gribben) aveva intuito, grazie all'uso dell'LSD, le vere potenzialità del nuovo gioco di Ritman, un veicolo per cambiare le sorti del genere umano. Follia, complottismo o l'inizio di una nuova era per l'umanità tutta? Sorta di fantascienza in odore di apocalisse prossima ventura, tutto sommato privo di grandi spunti di interesse e nemmeno troppo avvincente nella sua realizzazione, Come un giocattolo si conclude con un grosso mah! Abbastanza inutile.


L'altro vero pezzo forte di questa annata è Eulogy, grandissima prova d'attore di un sofferente Paul Giamatti. Anche per questo episodio il fulcro sono i sentimenti, le relazioni con le altre persone, con l'altro sesso, le letture spesso sbagliate che diamo alle azioni e alle parole dell'altro e che possono portare al fraintendimento e al deragliare di amori altrimenti potenzialmente fortissimi, magari eterni. Anche qui l'aspetto tecnologico, seppur affascinante e anche inquietante, cede il passo a quella che è una storia d'amore sofferta, spezzata, che un Giamatti fantastico riesce a farci sentire sulla pelle nella sua mancanza e nella sua interruzione forzata. I punti di vista, le convinzioni sbagliate, le gelosie, gli stupidi preconcetti che in ogni momento possono andare a rompere qualcosa che, almeno per un periodo, magari anche molto lungo, sarebbe potuto essere perfetto. Poi si può riflettere su tutto il resto ma il cuore è il cuore, quello che qui ci interessa davvero è la storia d'amore di Philip e di Carol. Per chi si lascia prendere non è esclusa la lacrimuccia finale. Forse è questa la via più interessante da seguire per un Black Mirror che fa ormai difficoltà a stupirci con le previsioni di un futuro che è già presente.


Si chiude con USS Callister: Infinity, vero e proprio sequel di USS Callister, Infinity ne riprende i temi e rilancia, andando a riflettere sulle identità digitali autocoscienti e sviluppate a partire da diverse tecnologie (qui è coinvolto il dna, il tema è presente in maniera diversa anche in Hotel Reverie), un buon intrattenimento per chi ha amato il predecessore, torna una Cristin Milioti in forte ascesa protagonista di un dittico che personalmente a chi scrive ha lasciato poco, si prosegue sulla strada già battuta senza particolari scossoni, Black Mirror è stato in passato (e a volte è ancora) molto di più.

Nel complesso una stagione che conferma il trend delle precedenti, non c'è più quello stupore che la serie provocava ai suoi esordi, rimane comunque un prodotto dalla buona qualità media che è ancora capace di affondare qualche buona zampata, soprattutto quando la serie di Brooker ci porta a riflettere sui nostri sentimenti e sui loro possibili sviluppi, a tratti ancora ci angoscia ma, appunto, questo accade solo a tratti. Nonostante tutto uno show che vale sempre la pena seguire.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...