martedì 21 marzo 2023

TAXI TEHERAN

(di Jafar Panahi, 2015)

Ancora oggi in alcuni paesi, come nell'Iran di Jafar Panahi, un semplice atto culturale come quello di girare un film può essere visto come un'azione criminale nei confronti del regime reggente e venire quindi punita con diversi anni di reclusione. Il regista iraniano nato nella provincia dell'Azerbaijan Orientale nel 1960 è stato costretto a soggiornare a più riprese nelle patrie galere proprio a causa dei suoi film che a detta del regime mettono in cattiva luce il sistema (oscurantista) che governa l'Iran. Dopo brevi periodi di detenzione Jafar Panahi viene arrestato formalmente nel 2010 con l'accusa di propaganda contro il governo; il regista sconta più di due mesi di reclusione prima di poter uscire su cauzione, qualche mese più tardi la sua condanna viene confermata con una pena a sei anni di carcere e un divieto di girare o scrivere film per un periodo di vent'anni, lo stesso divieto proibisce al regista di allontanarsi dal Paese per lo stesso arco di tempo. Dopo circa un anno di reclusione viene confermata la pena in appello ma vengono concessi a Panahi gli arresti domiciliari e un certo grado di libertà di movimento pur rimanendo valido il divieto di lasciare il Paese e di dedicarsi alla sua professione. È in questi anni che Panahi si dedica al cinema in maniera clandestina, prima facendo arrivare al Festival di Cannes, nascosto in una torta, il suo This is not a film su hard disk, poi partecipando al concorso con Closed curtain, film codiretto con il regista Kambuzia Partovi, per arrivare poi a girare in maniera furtiva questo Taxi Teheran nel 2015. Per far questo Panahi usa delle piccole camere montate sul cruscotto del suo taxi improvvisato, si affida a riprese interne all'abitacolo dell'auto o realizzate dall'interno dello stesso a guardare il mondo esterno; tramite alcuni incontri, dialoghi, discussioni, Panahi tratteggia un ritratto del suo Paese lieve e frizzante ma molto, molto severo, prendendosi ancora una volta grossi rischi nel seguire la sua passione e il suo senso di verità e giustizia.

Per Taxi Teheran Jafar Panahi, nei panni di sé stesso, si improvvisa tassista e gira per la sua città accompagnando, spesso non retribuito, clientela d'ogni tipo riprendendone idee e opinioni sulla società, carpendone le astuzie messe in atto per sopravvivere, anche culturalmente, in un Paese oltremodo difficile o semplicemente fungendo da testimone a situazioni di emergenza, a strane superstizioni o a profondi drammi etici e personali. Oltre al ruolo di tassista, osservatore e regista Panahi viene qui chiamato anche a svolgere quello di zio, accompagnando a casa una sua nipotina (Hana Saeid) dalla lingua lunga e svelta. Assistiamo così a un battibecco tra un uomo che sostiene la pena di morte per i ladri (si scoprirà esso stesso essere un borseggiatore) e una donna più ragionevole che cerca di andare a fondo delle questioni e capire le motivazioni dei gesti, sul taxi guidato da Panahi salirà poi un videonoleggiatore (illegale) che spaccia dvd proibiti di film esteri e che riconosce da subito il regista iraniano proponendogli di entrare in società con lui. Seguono un ferito da portare in ospedale con la moglie piangente al seguito, due donne superstiziose convinte che il buon prosieguo delle loro vite possa dipendere dal benessere di due pesciolini rossi da portare in un certo luogo entro una data ora, poi ancora un amico d'infanzia alle prese con dilemmi etici molto, molto profondi e la simpaticissima nipotina Hana. Un ruolo di rilievo lo ricopre la signora delle rose, una donna, un avvocato, che si batte contro le ingiustizie di un Paese dove l'ingiustizia è lo status quo.

Dopo due film nei quali Panahi ha raccontato le sue angosce e le ferite dell'animo derivanti da una reclusione ingiusta e assurda, ritrovato quel minimo di mobilità e libertà, il regista iraniano realizza con questo Taxi Teheran un film capace di far riflettere lo spettatore su tutte le storture di un Paese ormai fuori controllo senza per questo appesantire la narrazione o ammantare la sua nuova esperienza di toni cupi e deprimenti. Si riflette molto su ciò che nell'Iran odierno viene punito in maniera sproporzionata e su ciò che viene punito e che in un qualsiasi paese civile non lo sarebbe, è rinfrancante constatare come nell'animo di cittadini coscienziosi si chiuda un occhio di fronte a reati subiti sapendo quali pene in caso di denuncia cadrebbero sui colpevoli (colpevoli magari per mero bisogno); il timore dello Stato non ferma però la capacità degli iraniani di arrangiarsi, trovare soluzioni, sopravvivere e tentare di vivere in un Paese che alcuni decenni orsono era decisamente più aperto e vivibile di quanto lo è oggi sotto l'attuale governo. Taxi Teheran ha un piglio vivace, confidenziale, riesce ad apparire familiare nonostante racconti una realtà per tantissimi versi a noi lontana ed estranea, ne viene fuori il grande talento di Panahi non solo come regista ma anche come sceneggiatore e tuttofare (regia, sceneggiatura, soggetto, fotografia, produzione, montaggio e ruolo da protagonista, tutto realizzato in prima persona). Quando la necessità aguzza l'ingegno e affina il talento, opera da vedere senza ripensamenti.

sabato 18 marzo 2023

NIENTE DA NASCONDERE

(Caché di Michael Haneke, 2005)

Michael Haneke apre il suo Niente da nascondere con una delle sequenze meglio riuscite del cinema del nuovo millennio, lo fa senza dispendio di mezzi, tramite un piccolo inganno, una messa in discussione della veridicità dell'immagine, dell'occhio dello spettatore, instillando un dubbio che tornerà a ripetersi nel corso della narrazione donando al suo film fin dalle prime battute un'ambiguità che non si dissiperà fino alla fine e in realtà nemmeno allora. Camera fissa: dall'interno di una piccola strada, Rue des Iris, guardiamo la traversa prospicente e l'agglomerato urbano che la sovrasta. Di fronte una casa bassa, un cancelletto, delle automobili parcheggiate sul davanti; alle spalle alcuni condomini più alti. Su questo sfondo si compongono i credits del film, rumori di fondo, nessuna musica. Noi spettatori siamo lì, in Rue des Iris, insieme al regista guardiamo il civico 49 della strada di fronte; un uomo entra da destra nell'inquadratura, attraversa lo schermo, ne esce a sinistra. Dopo qualche istante Juliette Binoche esce di casa, si allontana nella stessa direzione verso la quale è andato l'uomo, da lì arriva un ciclista, si infila in Rue des Iris e ci passa accanto, si sentono delle voci, lui chiede "dov'era", in riferimento a qualcosa, lei risponde "in una busta di plastica davanti alla porta", la via si anima un po': un'auto, un paio di passanti. L'inquadratura si sposta, più vicina alla porta del 49, più laterale, dalla casa esce Daniel Auteuil, è evidentemente il padrone della voce maschile, subito dopo ne esce anche Juliette Binoche; ma non era già uscita qualche istante prima? Auteuil attraversa la strada, si ferma all'imbocco di Rue des Iris, guarda nella direzione in cui noi spettatori eravamo fino a pochi secondi prima, cerca perplesso qualcosa con lo sguardo, non trovandolo torna in casa insieme alla Binoche. L'inquadratura, e noi con essa, torna alla posizione originaria, la coppia scambia ancora qualche battuta fuori campo (loro ormai sono in casa). Qui cambia tutto, l'immagine si increspa, l'inquadratura è chiaramente una registrazione su videocassetta ora mandata avanti velocemente, noi spettatori non siamo mai stati in Rue des Iris, siamo sempre stati in casa anche noi, con loro, davanti al televisore a guardare la registrazione effettuata da qualcuno che da Rue des Iris ha spiato e ripreso la casa e i movimenti dei due protagonisti. Ma a che scopo?

Tutto il film di Haneke è una messa in discussione, non solo di ciò che vediamo ma anche di ciò che i protagonisti dicono, raccontano, ricordano. È una messa in discussione del loro passato, della loro onestà, dei loro rapporti. Georges (Daniel Auteuil) è un affermato conduttore televisivo, sua moglie Ann lavora nell'editoria; i due sono una coppia benestante, alta borghesia come Haneke ci fa capire dalla loro casa: benessere, pareti che straripano di cultura, familiarità, begli amici. La loro serenità è sconvolta da queste videocassette che mostrano chiaramente che qualcuno sta spiano la famiglia Laurent, Georges, Ann, ma anche loro figlio Pierrot (Lester Makedonsky). Poi arrivano i disegni, il volto di un bambino che all'apparenza sputa sangue. A questi disegni si accavallano flash enigmatici che mettono in dubbio la reale inconsapevolezza di George di fronte a questi nuovi eventi in seguito ai quali muta non solo il comportamento dell'uomo ma anche il suo rapporto con la verità, con il rimosso del suo passato, con la stessa Ann. Per Haneke il fulcro del film non sarà più (non è stato mai) lo scandagliare il mistero, la ricerca di un colpevole, di un motivo, quanto il rapporto che il suo protagonista instaurerà con gli eventi, con la nuova situazione che lo porterà a tornare alla madre, al suo passato di bambino nel quale c'era un amico di giochi che potenzialmente avrebbe potuto diventare qualcosa di più.

Haneke, come già in altre suo opere, racconta le sue storie con grande lucidità e freddezza, qui ammanta tutto in un'ambiguità celante, una sensazione di dubbio e incertezza che permarrà per tutto il film e nello spettatore anche oltre, così come alcune cose si svolgono nel film fuori dal quadro, per chi guarda alcune supposizioni si svilupperanno oltre il prodotto, a visione ultimata e digerita. Nessuna risposta, solo ipotesi, niente da nascondere ma nemmeno nulla da rivelare, almeno non apertamente. In realtà tornano i temi di una classe agiata (come in Funny games) travolta dall'esterno all'improvviso da un atto violento (sempre Funny games) anche se qui non fisico. Si sgretolano le sicurezze, le imperturbabilità, affiora un senso di minaccia, di agitazione e l'incapacità di far fronte alle crisi che l'altro ci presenta in conto (succede tutti i giorni su scala più ampia di quella familiare) da parte di una società appagata, egoista e finanche crudele nei confronti dell'altro da sé. All'apparenza Niente da nascondere può sembrare più semplice e meno finito di altre opere di Haneke, riletto a freddo si rivela invece come un'opera ricca di contenuti e incredibilmente compiuta.

martedì 14 marzo 2023

DJANGO & DJANGO - SERGIO CORBUCCI UNCHAINED

(di Luca Rea, 2021)

Sergio Corbucci è stato uno di quei registi che hanno lavorato tanto e che nel corso delle loro carriere hanno attraversato i generi, curandosi più di portare avanti un discorso su un modo di fare cinema artigianale e onesto che non di seguire un vero e proprio percorso autoriale inteso nel senso più stretto, come oggi noi lo intendiamo. Magari Corbucci in alcuni periodi autore lo è anche stato, nel novero ristretto di un genere o nell'approccio alla sua arte, non di meno il regista romano non si è fatto scrupolo di abbandonare i generi che lo hanno portato alla grande notorietà, lo spaghetti western su tutti, per inseguire le necessità di un pubblico che è sempre stato il suo primo referente. Nel 2021 arriva questo omaggio sentito e sincero a opera di Luca Rea (e Steve Della Casa) che per raccontarci il Corbucci regista, con un focus sul suo periodo western, chiama in causa quello che è senza dubbio uno dei suoi fan più affezionati, il Quentin Tarantino di Django Unchained e C'era una volta a... Hollywood che già nei suoi film ha più volte esplicitato il suo amore per il regista nostro connazionale. A dar manforte a Tarantino ci sono il regista Ruggero Deodato che con Corbucci lavorò in gioventù, e il suo attore feticcio, Franco Nero, interprete del ruolo più iconico della sua carriera e probabilmente di tutto lo spaghetti western che non fu di Sergio Leone che fu un discorso a parte. Il ruolo è ovviamente quello di Django. A tenere viva l'attenzione dello spettatore, oltre a un argomento di grande interesse non solo per chi ama il nostro western, c'è proprio la capacità affabulatoria di Tarantino che ha un talento esagerato nel raccontare i suoi punti di vista e nel trasmettere quell'amore e quella passione genuina che nutre per il cinema, per il lavoro di Corbucci e per il western, che se pure può trovare qua e là qualche forzatura non può mancare di avvincere il pubblico che un po' pende dalle sue labbra.

Django & Django si apre con un racconto nel racconto, è quello dell'incontro tra Rick Dalton, personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio in C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino, con il regista Sergio Corbucci, un incontro che si svolge nel "dietro le quinte" del film di Tarantino e che ovviamente, essendo Dalton un personaggio fittizio, non è mai avvenuto, ma questo poco importa. Sia come sia Dalton, noto attore di western americani, convinto dal suo manager vola in Italia per rilanciare la sua carriera nello spaghetti; giunto nel bel paese Dalton incontra per una cena il grande Sergio. Convinto per errore di aver davanti Leone e non Corbucci l'attore americano, che di spaghetti western non capisce nulla, infila un paio di figure di merda non da poco, rischiando di mandare a monte l'intera operazione. Ma Corbucci è un uomo comprensivo e alla fine Dalton riuscirà a lavorare con quello che si rivelerà essere un grande maestro del genere. Questa sequenza (animata) apre il documentario di Rea e dimostra più che la grandezza di Corbucci l'amore che per lui ha Quentin Tarantino, segue una riproposizione di filmati d'epoca che ci inseriscono nel contesto, nel periodo storico, con numerosi poster dei western di quegli anni esposti davanti ai cinema, la Roma del periodo, le Fiat 600 per strada, Renzo Arbore alla radio. Quentin inizia il suo show fatto di dedizione e ammirazione per il lavoro di Corbucci nel suo "periodo western", ne ipotizza anche un percorso d'autore (tutto da verificare in realtà) che vede i western di Corbucci in chiave di critica al fascismo e alle figure autoritarie, invise in effetti al regista come da lui stesso confermato in qualche intervista d'epoca. 

Ovviamente quella che qui ascoltiamo è la versione di Quentin, un'innamorato che traccia il suo percorso critico col cuore, focalizzando l'attenzione su alcuni film, tralasciandone altri, seguendo un fil rouge basato su fatti (e film) concreti dandone un'interpretazione che lo spettatore può decidere se sposare o meno, e tutto ciò è anche un po' il bello di quell'amore che trasuda da ognuna delle parole spese da Tarantino sull'argomento. Secondo il regista di Pulp Fiction c'è un Corbucci pre Leone (e quindi pre Trilogia del dollaro) e uno successivo, il primo più vicino al western e al cinema americano, il secondo indubbiamente italiano e lanciato verso il titolo di "secondo miglior regista dello spaghetti", perché Leone era pur sempre Leone, inarrivabile. La situazione di fermento del periodo ce la illustra Ruggero Deodato con alcuni aneddoti: all'epoca si giravano talmente tanti western che se un cavallo si allontanava troppo si trovava protagonista sul set di un altro film, dice Deodato. Tema centrale è la violenza nei western di Corbucci, uno crudele come afferma Deodato che dice di aver imparato la crudeltà proprio da Corbucci, con quella ci fece poi cose come Cannibal Holocaust. Tarantino analizza anche il timbro diverso della violenza in Corbucci e in Leone, regista più epico che cattivo, descrive il lavoro fatto su protagonisti, spalle e antagonisti con teorie molto interessanti, tra personaggi sexy e caratteristiche da fumetto, mentre Franco Nero sottolinea la valenza politica dei film fatti con Corbucci; dal canto suo Rea alterna le interviste frontali a materiali di repertorio con lo stesso Corbucci, sequenze prese dai film ad analisi su singoli elementi del cinema del regista romano. Quello che ne esce è un documentario sincero, appassionato, magari non esaustivo ma sempre avvincente e divertente da seguire e rivolto non per forza ai soli cultori. Per i fan di Corbucci, ma anche per quelli di Tarantino, un appuntamento da non perdere.

domenica 12 marzo 2023

LA CONGIURA DELLA PIETRA NERA

(Jianyu di Su Chao Pin, 2010)

Il wuxia (o wuxiapian) è un genere codificato di origine cinese nato non al cinema ma in letteratura ai primi del Novecento, almeno nelle forme che, pur con qualche scarto, sono a noi familiari proprio grazie a diverse opere cinematografiche che hanno riscosso in anni recenti ottimi successi anche dalle nostre parti. In letteratura il wuxia è una sorta di mix tra il poema cavalleresco e il genere occidentale del cappa e spada, quello de I tre moschettieri ad esempio, da non confondere con il forse ancor più apprezzato chiappa e spada. Nonostante ci siano dei punti di contatto con le narrazioni cavalleresche, nel wuxia in genere i protagonisti sono eroi solitari, a volte addirittura appartenenti a congreghe non troppo specchiate, spesso di estrazione affatto nobile ma ricchi in onore, o ancora, come nel caso de La congiura della Pietra Nera, personaggi redenti; il riferimento più calzante è quello alla cultura giapponese del samurai e della via del bushido, il codice d'onore e di comportamento proprio degli uomini virtuosi. Al cinema il genere si sviluppa in Cina negli anni 20, con forme un poco diverse da quelle moderne che anche noi abbiamo imparato ad apprezzare, giunge da noi tra la fine degli anni 60 e i 70 in seguito al successo dei film di kung fu, visto l'apprezzamento che riscuotevano i primi i distributori tentarono anche la via del wuxia portando in Italia titoli che però non sono rimasti nella nostra memoria; se tutti gli appassionati di cinema probabilmente sono in grado di citare i titoli di alcuni dei film con Bruce Lee, è possibile che molti di loro (compreso chi scrive) abbiano difficoltà a nominare qualcuno dei film wuxia distribuiti in quegli anni. Sparito a fine anni 70 e riproposto con qualche timido tentativo qua e là, il wuxia ricompare e ottiene questa volta una grande visibilità nel nuovo millennio grazie a titoli come La tigre e il dragone di Ang LeeLa foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou o The assassin di Hou Hsiao-hsien arrivando in piccola parte anche a contaminare l'universo Marvel in Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli nel quale recita anche Michelle Yeoh, protagonista di questo La congiura della Pietra Nera e molto in auge in questo periodo grazie alla suo ruolo in Everything everywhere all at once. Ma veniamo a noi...

Una leggenda narra che chiunque ritrovi entrambe le parti del corpo mummificato del monaco indiano Bodhi diverrà il solo e incontrastato maestro delle arti marziali; la setta della Pietra Nera, comandata dal Re della Ruota (Wang Xueqi), è alla ricerca delle spoglie del monaco. Una volta sottrattele all'attuale proprietario, la migliore guerriera della setta, Pioggia Lieve (Kelly Lin), tradisce i suoi compagni fuggendo con il cadavere mummificato e dandosi alla macchia. Alla sua ricerca si metteranno tre assassini agli ordini del Re della Ruota e vecchi compagni di Pioggia Lieve: Lei Bing (Shawn Yue), il Mago (Leon Dai) e Foglia Turchese (Barbie Hsu), allo stesso tempo la giovane donna, per sfuggire ai suoi ex compagni, si fa cambiare i connotati da un dottore assumendo le sembianze di una donna più matura e prendendo il nome di Zeng Jing (Michelle Yeoh). Questo avviene dopo che Zeng Jing ha passato del tempo con il monaco Jian Hui (Li Zonghan) il quale ha mostrato alla guerriera una nuova via grazie alla quale Zeng Jing si è redenta e ha iniziato una nuova vita fatta di semplicità, lavoro e forse, grazie all'incontro con il semplice Ah-sheng (Jung Woo-sung), d'amore. Ma la Pietra Nera è ancora sulle sue tracce alla ricerca del corpo di Bodhi, il confronto sarà inevitabile e scoperchierà verità inaspettate.

Qualcuno accredita la regia di questo La congiura della Pietra Nera al solo regista taiwanese Su Chao Pin, altri indicano una co-regia dello stesso insieme al produttore John Woo, nome decisamente più blasonato e molto più noto al pubblico occidentale grazie anche (e soprattutto) al suo periodo hollywoodiano durante il quale Woo ha siglato film action molto celebri come Face/off, Mission Impossible II, Senza tregua, Windtalkers, Nome in codice: Broken Arrow e altri ancora (anche se le cose migliori le fece indubbiamente a Hong Kong). In effetti il tocco di Woo è riconoscibile in alcuni elementi del film, pensiamo solo al cambio di identità della protagonista che avviene tramite un mutamento dei lineamenti, espediente narrativo già usato da Woo nello scambio di corpi tra Nicolas Cage e John Travolta in Face/off. Divisione dei meriti a parte, La congiura della Pietra Nera è un ottimo wuxia che presenta personaggi ben delineati ognuno con le proprie peculiari caratteristiche: la singolare tecnica di spada di Zeng Jing, il lancio degli aghi di Lei Bing, i trucchi da illusionista del Mago, tutti elementi che rendono riconoscibili i protagonisti e gli scontri accattivanti; questi sono coreografati in maniera splendida, sempre dinamici e mai troppo stucchevoli. Alla base una storia semplice che si segue con piacere, con le sue piccole rivelazioni e il giusto brio. Il wuxiapian non è un genere appetibile a tutti i palati, richiede allo spettatore un certo grado di abbandono e fiducia, non di meno è un genere che quando ben fatto non manca di ripagare lo sforzo, il film di Su Chao Pin e John Woo è una buona scelta nel caso si volesse tentare l'approccio.

venerdì 10 marzo 2023

MACHETE

(di Robert Rodriguez, 2010)

Quattro musicisti bravi ma ancor di più furbi incantavano grandi platee al grido di "You wanted the best! You've got the best! The hottest band in the world, Kiss!"; i fan della band di Detroit, e non solo loro, sapevano benissimo a cosa sarebbero andati incontro lasciandosi travolgere dal carrozzone magniloquente di Gene Simmons e soci, nessun fraintendimento, tutto alla luce del sole, magari nascosto giusto un po' da una bella dose di trucco, tutto però onestissimo. Non erano la band migliore del mondo e nemmeno la più calda ma tant'è, il pubblico si divertiva (e mi ci sono divertito anche io). Allo stesso modo è bene che il pubblico (quello di passaggio, i fan già lo fanno) con lo stesso approccio si avvicini al cinema di Rodriguez che di sicuro non è qui per scrivere pagine imprescindibili e indimenticabili della settima arte; il regista di San Antonio, Texas, è qui per divertirsi, cazzeggiare e dar vita alle sue fantasie più sfrenate che a volte, come in questo caso, si traducono in scorribande tamarrissime dietro le quali si può provare a vedere dei contenuti alti solo se si è ingenui o un po' scemotti. Prendiamo questo Machete, sì, ci sono gli immigrati messicani, la prepotenza U.S.A., lo sfruttamento, tutto vero, ma qui il succo sono le stronzate, nulla più, nulla meno, filosofia che se portata avanti in maniera onesta come fa Rodriguez alla fine è anche rispettabilissima. L'idea di Machete nasce già qualche anno prima dell'uscita di questo film: ricorderanno tutti il finto trailer di una pellicola con protagonista il nostro Danny Trejo comparire tra i due episodi del progetto Grindhouse, ovvero A prova di morte di Quentin Tarantino e il Planet terror di Rodriguez, ecco, l'indole giocosa e cazzara di Rodriguez ha fatto il resto trasformando quel piccolo divertissement in un lungometraggio circa tre anni più tardi.

Machete (Danny Trejo) è un federales messicano che durante le sue indagini incrocia la strada del fetentissimo signore della malavita Rogelio Torrez (Steven Seagal), uno duro da uccidere, pestandogli i piedi e incorrendo quindi nella sua ira. Torrez di conseguenza elimina la famiglia del Nostro e tenta di uccidere lo stesso Machete. Dato per morto il federale compare qualche anno più avanti negli Stati Uniti; costretto a cercare lavoro capita nelle mire di un altro fetentissimo, un riccastro di nome Booth (Jeff Fahey) che offre a Machete 150.000 dollari per far fuori il senatore razzista McLaughling (Robert De Niro), un politico che vuole fermare l'immigrazione clandestina dei messicani togliendo così a gente come Booth la possibilità di procurarsi mano d'opera a bassissimo costo da poter sfruttare a loro piacimento. Trovandosi però incastrato per il tentato omicidio del senatore Machete sarà costretto a darsi alla macchia, tallonato non solo dai cattivoni di cui sopra ma anche dall'agente dell'immigrazione Sartana Rivera (Jessica Alba) che presto si invaghirà di questa figura sospesa tra realtà e mito. A dar manforte al messicano ci sono suo fratello Cortez (Cheech Marin), un prete molto, molto sui generis, e la giovane Luz (Michelle Rodriguez), ufficialmente una venditrice di hot dog, in realtà comandante e figura simbolo di una resistenza volta a tutelare i messicani immigrati dalle prepotenze di gente come il vigilante Von Jackson (Don Johnson).

Annegato in una fotografia torrida e in ettolitri di sangue il volto indimenticabile di Danny Trejo trova qui finalmente un ruolo da vero protagonista, una cosa che con tutta probabilità poteva accadere solo per mano di Robert Rodriguez. Machete è infatti il balocco del suo regista, forse non l'unico ma in maniera indubbia uno dei suoi più desiderati. Il film è l'elogio all'esagerazione truce, grottesca e tamarra volta al puro divertimento; se pure si volessero prendere con un minimo di serietà le vicende di immigrazione qui raccontate, bastano scene come quella in cui Machete si cala da una finestra appeso agli intestini di un ormai ex delinquente, oppure la versione armed and dangerous di Linsday Lohan vestita da suora e armata di tutto punto per demolire qualsiasi riflessione e riportare il tutto sul piano di un'exploitation ignorante alla quale il film orgogliosamente appartiene. Preso in questo senso Machete fa il suo e diverte, a Danny Trejo basta la mera presenza per iscrivere il suo personaggio nella sfera del mito, come accade nel film, il resto del cast, tutte facce indovinatissime, si diverte e diverte con ammiccamenti vari (Steven Seagal ridato al cinema in primis) e ruoli cuciti ad hoc. Siamo nel trash volontario realizzato con i giusti mezzi: sangue a fiumi, arti e teste che volano, immagini di rara demenza (le budella, le auto dei messicani) e accorgimenti come i finti segni sulla pellicola a valorizzare il tutto. Nessuna pretesa, Rodriguez ci si è divertito, noi pure, tanto basta, almeno fino al recupero di Machete kills...

lunedì 6 marzo 2023

LA NUBE PURPUREA

(The purple cloud di Matthew P. Shiel, 1901)

Nel complesso - parere personale - La nube purpurea è il romanzo più noioso pubblicato nella collana Urania - 70 anni di futuro almeno fino a questa undicesima uscita. La collana che celebra(va) i 70 anni di Urania in realtà ha già concluso la sua corsa con la quarantacinquesima settimana, dati però i tempi di lettura di chi scrive e l'alternanza di questi volumi con romanzi di diversa natura, qui per forza di cose si arriva a parlare de La nube purpurea con un certo ritardo, ancora non mi è possibile dire se ci saranno in futuro (o se ci sono state in passato se vogliamo abbandonarci al paradosso) all'interno della collana uscite più tediose di questa, per la mia traballante pazienza mi auguro vivamente di no. Nel dire ciò non voglio fare torto oltre misura né a Matthew P. Shiel né tantomeno alla sua opera, a cui parziale discolpa si può argomentare dicendo che in fondo trattasi di un volume pubblicato la prima volta nel 1901, ben più di un secolo fa, la sensibilità dei lettori è molto mutata da allora, l'approccio alla scrittura anche, non di meno sappiamo tutti benissimo come alcuni classici facciano ancora impallidire romanzi moderni indegni finanche di presenziare sugli stessi scaffali (e nelle stesse librerie) di alcuni dei loro illustri predecessori. Quindi sì, un occhio di riguardo ma nemmeno poi troppo. Shiel, nato britannico ma geograficamente antillano (è stato anche incoronato re di un'isola deserta dei Caraibi), vede proprio La nube purpurea come sua opera più nota, considerato uno dei primi romanzi in assoluto di stampo apocalittico.

Siamo in un periodo storico in cui impazza la febbre per la corsa al Polo Nord, le spedizioni si susseguono ma finora nessuno è stato in grado di raggiungere l'ambita meta. Il medico londinese Adam Jeffson ha dei contatti tra l'equipaggio di una delle prossime spedizioni per il Polo e così il dottore inizia a interessarsi all'argomento. Jeffson è fidanzato con la ricca e ancor più ambiziosa Clodagh, una nobile senza scrupoli molto interessata a ricchezze e posizione sociale; ora capita che il riccastro Charles P. Stickney, eccentrico come nessuno, lasci nel suo testamento un'indicibile eredità che finirà nelle tasche del primo uomo, e si badi bene non della prima spedizione, a raggiungere il Polo. La notizia farà da subito gola all'avida Clodagh che riuscirà a magheggiare affinché il suo Jeffson entri a far parte dell'equipaggio della Boreal, nave diretta proprio al Polo Nord. Nel frattempo si diffonde l'idea, perorata da alcuni predicatori, che se l'uomo ancora al Polo non ci è arrivato questo sia volere di Dio e il giungervi non potrebbe che portare distruzione e scempio all'umanità tutta. E alla fine così sarà; mentre la Boreal arriva al Polo una nube violacea si diffonde per il mondo lasciando una scia di morte ed estinguendo in breve la razza umana della quale unico esponente rimasto in vita sarà proprio Adam Jeffson che dovrà affrontare un viaggio alla ricerca di residui di vita e un percorso molto tormentato per non cadere nella più totale follia.

Il romanzo di Shiel in realtà parte con il piede giusto. L'autore originario della città fantasma di Plymouth sull'isola di Montserrat usa un espediente molto in voga nei romanzi dell'epoca a tema fantastico (perché proprio fantascienza non la si può chiamare), ovvero quello dello scrittore, lo stesso Shiel, che riceve da un conoscente un manoscritto contenente la storia che si andrà a narrare nel romanzo. Il prologo de La nube purpurea è invero parecchio affascinante come così è tutta la prima parte che descrive la spedizione al Polo ammantata da un senso di attesa che lascia presagire il meglio (o il peggio se preferite). Purtroppo nel momento in cui gli eventi precipitano inizia un peregrinare solitario del protagonista che non fa che esplorare luoghi e incontrare morte, incontrare morte ed esplorare luoghi senza soluzione di continuità. Non si mette in dubbio l'efficacia di alcune descrizioni di Shiel, degli stati d'animo di un uomo in pena, in preda a sprazzi di lucida follia, dei luoghi in cui Jeffson si trova a transitare, delle situazioni spesso uguali a loro stesse, sembra però quasi impossibile tenere a distanzia il tedio nel mezzo di questo mondo desolato, dove non ci sono stimoli né eventi. Il problema maggiore de La nube purpurea è che tutta questa parte centrale del romanzo è davvero troppo, troppo lunga, inutilmente dilatata, probabilmente uno degli effetti collaterali della nube tossica è quello di aumentarne ancora la percezione di interminabilità onestamente sfiancante. Sul finale si torna sui binari giusti grazie a un evento in particolare che dona di nuovo movimento al romanzo, a dimostrazione che sarebbe bastato poco di più per ottenere un risultato migliore. Come già detto, romanzo d'altri tempi, la noia però rischia di attanagliarci oggi, quindi uomo avvisato...

domenica 5 marzo 2023

THELMA

(di Joachim Trier, 2017)

Mentre Joachim Trier elaborava e poi girava in diversi momenti quella che è stata idealmente definita la sua Trilogia di Oslo (composta dai film Reprise del 2006, Oslo 31. August del 2011 e La persona peggiore del mondo del 2021), il regista norvegese - nato però a Copenaghen - con questo Thelma scombina un po' le carte in tavola dedicandosi a una narrazione di genere e andando a realizzare un ottimo thriller dalle tinte sovrannaturali molto ben riuscito sia dal punto di vista tecnico formale che da quello dei contenuti e della narrazione (aiutato da Eskil Vogt alla sceneggiatura). Nel farlo Trier non abbandona il focus sul personale, sulle difficoltà che l'individuo può incontrare nel sentirsi parte di una società che in qualche modo si può percepire come diversa o estranea da sé, sono sempre presenti quei percorsi intimi e per forza di cose solitari che i protagonisti di Trier si trovano ad affrontare per trovare la loro collocazione nel mondo, in questo caso a maggior ragione in quanto Thelma è una giovane donna che si trova a vivere un percorso di crescita in palese ritardo, come se il passaggio da un'adolescenza iperprotetta all'età adulta iniziasse solo nel momento in cui, causa studi universitari, diventa per lei inevitabile il confronto con gli altri con tanto di impatto con i primi traumi "da contatto", un po' quello che accade ai bambini con le malattie infettive la prima volta che si trovano a frequentare l'asilo o la scuola materna. Con Thelma Joachim Trier riesce a tenere insieme in maniera perfetta il lato emotivo e quello sovrannaturale della sua vicenda rendendo un ottimo servigio allo spettatore.

Thelma (Elli Harboe) è cresciuta in una località isolata della Norvegia; papà Trond (Henrik Rafaelsen) e mamma Unni (Ellen Dorrit Petersen) sono osservanti cristiani fino all'eccesso e hanno educato la loro figlia secondo i principi della religione in maniera molto severa, cosa che ha impedito a Thelma di fare le stesse esperienze che normalmente i suoi coetanei hanno già affrontato, e non parliamo solo del sesso e dei rapporti con le altre persone, ma anche dell'esperienza di un semplice bicchiere di vino o di birra, della sigaretta o della festa in discoteca con gli amici. O ancor più semplicemente quella di avere degli amici. Ciò nonostante Thelma ha (o è convinta di avere) un rapporto con il padre molto aperto, l'uomo è molto rigido e severo ma tenta in qualche modo di proteggere la figlia dai pericoli del mondo esterno ma anche da quelli che lei stessa, inconsapevolmente, potrebbe provocare. Giunta l'età per andare all'università Thelma si trasferisce a Oslo dove non conosce nessuno. Durante una sessione di studio in una delle sale comuni dell'università Thelma viene colta da una specie di crisi epilettica durante la quale si verifica qualche strano fenomeno non colto dagli altri studenti. La ragazza viene soccorsa da un'altra studentessa di nome Anja (Kaya Wilkins); nei giorni successivi le due giovani faranno amicizia, un'amicizia che presto diverrà qualcosa di più e che porterà Thelma a fare esperienze alle quali la sua famiglia e la sua educazione non l'avevano preparata. Insieme a queste novità che mettono in subbuglio l'animo della ragazza arrivano altre crisi e altri fenomeni difficili da spiegare in maniera razionale.

Come scritto da più parti il primo riferimento che viene in mente guardando Thelma di Trier è il Carrie di De Palma; in effetti è quasi impossibile non pensare al film tratto dal libro di King, i paralleli ci sono, ma Thelma è per fortuna anche qualcosa di molto diverso. Nel raccontarci la storia di questa giovane e bella ragazza Trier offre una prova di regia di altissimo livello; l'impatto visuale del film è sempre molto interessante, alcune sequenze come quella iniziale nei boschi innevati molto belle e capaci da subito di scombinare la serenità dello spettatore, ne esce quindi un film dall'apparenza molto elegante nel quale scorre sotto la superficie un'inquietudine sempre presente e pronta a deflagrare, caratteristica dosata in modo sapiente dal regista norvegese. I temi sono diversi a partire da quello dei potenziali danni derivanti da un'educazione molto rigida che può portare a un senso di inadeguatezza una volta arrivati al confronto con una società molto più liberale (senza nessuna necessità di cadere in estremismi), c'è il percorso di crescita ritardato e reso quindi più esplosivo (e che qui si sublima nelle crisi e nel paranormale). Detto questo Trier è poi bravo ad andare a ritroso e scombinare un poco le carte quando si torna al passato di Thelma, movimento intuibile fin dalla sequenza iniziale nei boschi. C'è poi quell'amore per un'altra donna, che potrebbe essere sincero, bellissimo, ma che il pregresso condizionamento di Thelma rende difficile da accettare, molto problematico. Trier riesce a gestire materiale non banale inserendolo perfettamente nel genere, senza troppi eccessi e ipotizzando una riscrittura della realtà che apre a segni di speranza che in altri suoi film, ben più radicati nella realtà, magari non comparivano. Girato con grandissima eleganza Thelma è un thriller sovrannaturale da tenere in gran conto.

venerdì 3 marzo 2023

A SINGLE MAN

(di Tom Ford, 2009)

È un peccato che Tom Ford non si dedichi con maggiore frequenza alla regia; l'attività del "fare film" non è infatti l'occupazione principale del sessantaduenne texano il cui nome arriva al grande pubblico in qualità di stilista emergente e di rottura per la maison Gucci nel 1990, momento importante per il mondo della moda che abbiamo avuto modo di rivivere nel troppo vituperato House of Gucci di Ridley Scott. Ma è poi davvero un peccato che Ford non si dedichi di più al cinema o che addirittura non sia nato regista? Probabilmente no, sembra evidente come i suoi film (finora solo due) siano influenzati profondamente dal rapporto vitale che Tom Ford ha con l'ambiente della moda e con un gusto per l'estetica che non teme confronti nemmeno nel mondo della settima arte; sia questo A single man, sua opera prima, che il successivo (splendido) Animali notturni del 2016 con Amy Adams e Jake Gyllenhaal, si apprezzano proprio grazie al connubio che Ford riesce a creare tra la sua passione per il cinema e l'ampio bagaglio di esperienze pregresse che trasporta nelle sue realizzazioni, esperienze senza le quali il suo cinema non sarebbe così efficace, così bello da guardare, accontentiamoci quindi di poche opere ma realizzate con una sapienza tale da permettere allo stilista di lasciare segni più che apprezzabili anche in quest'arte per lui "secondaria". Come sarà poi anche per Animali notturni, la sceneggiatura di A single man è adattata da un romanzo, nella fattispecie Un uomo solo di Christopher Isherwood pubblicato per la prima volta nel 1964.

Ed è proprio agli inizi degli anni 60 che è ambientata la storia del professor George Falconer (Colin Firth), uomo elegante e colto, omosessuale non apertamente dichiarato in quanto i tempi ancora non consentivano di vivere serenamente la propria sessualità quando questa si discostava da ciò che per il sentire comune era considerato giusto e accettabile. George è un inglese trapiantato in California, qui ha convissuto per più di quindici anni con il suo compagno Jim (Matthew Goode) conosciuto ormai molti anni prima in un bar frequentato da militari. Il professor Falconer deve ora fare i conti con la morte dell'amato Jim, deceduto in un incidente d'auto, con la perdita dell'uomo che per lui è stato tutto, il vero amore di una vita, un compagno al quale non può dare nemmeno l'ultimo saluto, negatogli dalla stessa famiglia di Jim. George si balocca con una pistola, sembra mettere in atto una meticolosa ed elegantissima serie di preparativi per un suo prossimo suicidio, nel frattempo va a scuola, tiene la sua lezione, incontra la sua amica di sempre Charlotte (Julianne Moore) con la quale ebbe una breve relazione da giovane, una donna che non l'ha mai dimenticato e con la quale ha condiviso anche il dolore per la perdita di Jim, una donna che non aspetta altro che buttarsi nuovamente e per sempre tra le sue braccia se solo ce ne fosse davvero la possibilità. Poi ci sono alcuni incontri, lo studente Kenny (Nicholas Hoult), lo spagnolo Carlos (Jon Kortajarena), ci sono la disperazione e ancora il dolore per un lutto inaccettabile, il meglio e il peggio della vita in attesa che l'equilibrio tra distruzione e speranza trovi il lato da cui pendere.

Il Tom Ford regista ha la capacità di costruire dietro una forma sempre impeccabile, di un'eleganza fuori dal comune, calibratissima, anche una profondità di racconto che risulta a più riprese molto toccante e sincera, aiutato qui dalla bella interpretazione di un Colin Firth capace di farci sentire tutto il dolore provato dal suo personaggio. Non c'è nulla che appaia fuori posto in A single man, c'è nelle inquadrature un'attenzione allo stile e al dettaglio maniacale che viene riflessa anche nei comportamenti del protagonista, pensiamo alla scena in cui George mette in ordine le cose sulla sua scrivania, dove colloca con precisione anche la pistola con la quale avrebbe poi intenzione di uccidersi: ogni oggetto ci parla, si muove (o resta immobile) per comporre un quadro di perfetta bellezza, décor e protagonisti hanno eguale importanza per la macchina da presa di Ford. In questo contesto un uomo che nel suo intimo è tutto fuorché in ordine, si alza al mattino e si prepara a interpretare un ruolo dove il suo dolore non può trovare sfogo, quello di un uomo elegante e impeccabile in realtà prossimo al tracollo. Il presente si alterna ai ricordi, straziante la sequenza in cui George condivide il suo lutto con Charlotte in una scena in cui urla e pianti sono completamente ammutoliti; molto fa anche un accompagnamento musicale indovinato e reiterato che sottolinea lo stato d'animo disperato del protagonista, sullo sfondo il contesto dell'epoca: la crisi di Cuba, l'America delle villette con vialetto e giardino, delle case di lusso e del benessere, di un benpensare che mette le minoranze controcorrente (simbolica l'entrata di George all'università). Ford indugia sui particolari, come è giusto che sia, è nella sua natura, stringe su un bacio, lo frammenta, chiude sui corpi sudati dei tennisti, sugli oggetti ricercati, sugli abiti, sugli arredi, riesce a sospendere gli istanti e circondare di meraviglia i momenti peggiori della vita di un uomo, lo fa scavando, in maniera profonda, senza mai rimanere solo in superficie, dietro la facciata c'è sempre qualcosa di vero e sentito che tutto sommato non ci spiacerebbe vedere più spesso.

sabato 25 febbraio 2023

LE VERITÀ

(La vérité di Hirokazu Kore'eda, 2019)

Con Le verità, film del 2019, si chiude idealmente la breve rassegna dedicata al cinema di Hirokazu Kore'eda messa a disposizione da Raiplay con il nome di Ritratti di famiglia. Fresco della Palma d'oro a Cannes per Un affare di famiglia il regista giapponese si trasferisce all'estero per filmare per la prima volta un'opera recitata in un'altra lingua; Kore'eda sceglie la Francia, con Le verità l'autore nipponico, pur mantenendo la sua sensibilità, realizza un film dal chiaro respiro europeo, uno di quei film all'apparenza molto eleganti e costruiti che qui da noi definiamo senza ombra di dubbio cinema d'autore (e altrettanto senza dubbi Kore'eda si può definire un autore), avvalendosi tra l'altro di due pilastri del cinema francese: l'eterna Catherine Deneuve e l'altrettanto iconica Juliette Binoche alle quali si affiancano Ludivine Sagnier, Manon Clavel e l'extracomunitario Ethan Hawke qui un po' provato dal fuso orario. Ancora una volta sotto la lente d'ingrandimento di Kore'eda finiscono i legami familiari, con Le verità è la volta di esplorare un difficile rapporto tra madre e figlia in un'ambiente alto borghese che ruota attorno al mondo del cinema; rispetto ai precedenti lavori realizzati in terra giapponese è evidente qui qualche scarto di forma, qualche variazione di stile e una sensibilità diversa nel racconto, con un regista che porta i suoi temi e la sua sensibilità a Parigi e che sembra infilarsi appieno negli umori di un certo tipo di cinema europeo elegante e a volte fin troppo pulito.

Fabienne (Catherine Deneuve) è un'attrice parigina di grande fama ormai sul viale del tramonto; l'attrice comunque lavora ancora, al momento sta girando un film di fantascienza accanto alla giovane emergente Manon (Manon Clavel) che, pur più giovane di lei di alcuni decenni, nel film interpreta sua madre. Nello stesso periodo esce nelle librerie la biografia di Fabienne scritta da lei stessa, per l'occasione vengono a trovarla dagli Stati Uniti sua figlia Lumir (Juliette Binoche), ex aspirante attrice e ora sceneggiatrice per Hollywood, suo marito Hank (Ethan Hawk) attore di secondo piano alla ricerca del suo primo ruolo da protagonista e la loro figlia Charlotte (Clémentine Grenier), una bimba che allieterà le giornate di nonna Fabienne la quale farà credere alla nipote di avere qualche potere da vecchia strega. Poco dopo si palesa in casa di Fabienne anche l'ex marito Pierre (Roger Van Hool) papà di Lumir. Fabienne è una donna molto egocentrica ed egoista che ha sempre messo al primo posto la sua vanità e la sua carriera, da quel che si può intuire da questo incontro anche a discapito di amicizie e del rapporto con una figlia che è fuggita e si è allontanata dalla madre covando un astio tenuto a bada e mai completamente espresso. L'incontro sarà occasione per qualche chiarimento e spunto per più di una riflessione.

Senza girarci troppo intorno devo ammettere che questa escursione europea di Kore'eda, pur valida e strutturata con grande intelligenza, mi ha fatto un po' rimpiangere le sue opere giapponesi; in Le verità sembra che manchi quella forza espressiva, così garbata ma altrettanto sincera, che emergeva in maniera naturale da opere come Father and son, Un affare di famiglia o da Little sister. I motivi di interesse anche qui non mancano, Kore'eda lavora molto su ciò che non viene espresso, oltre agli attori in campo è presente un'altra protagonista che non compare mai sullo schermo, Sara, una donna che apparentemente è stata molto importante per Lumir e della quale solo sul finale sapremo qualcosa di più; c'è poi il sacrificio dei legami più stretti a vantaggio di una carriera luminosa, della fama e dell'appagamento personale, scelta che rende Fabienne un personaggio da esplorare solo all'apparenza volto in un'unica direzione, la superficie può essere scalfita proprio attraverso il cinema, argomento centrale in questo Le verità così come è centrale la finzione, non solo quella del set sul quale Fabienne recita ma anche quella messa in scena sul set della vita, con una donna che spesso finge di non ricordare le cose, finge in buona misura nello scrivere la sua autobiografia, e non finge probabilmente solo quando pensa a come alcune situazioni avrebbero potuto portarle maggior vantaggio se avesse finto di più. Kore'eda si muove quasi solo in interni, nella bella casa di Fabienne e sul set, Parigi e la Francia non sono mai vere protagoniste se non attraverso i volti iconici della Deneuve e della Binoche, è stata una trasferta intima questa di Kore'eda, ne esce però un film riuscito ma un po' più ingessato e meno coinvolgente delle sue opere precedenti. Personalmente auspico un ritorno in patria.

mercoledì 22 febbraio 2023

LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI

(Night of the living dead di George A. Romero, 1968)

In un mondo in subbuglio, siamo nel 1968, un giovane regista con alcuni sodali realizza, in maniera in gran parte involontaria, quello che si può indicare senza timore di sprecarne la definizione come un cult movie vivo e vegeto ancora oggi (o "non morto" se preferite), cinquantacinque anni sul groppone e camionate e camionate di tecnica a sorpassare a destra senza riuscire a scalfirne l'importanza seminale. Parliamo de La notte dei morti viventi, film girato da George A. Romero con una cifra tutto sommato irrisoria anche per l'epoca e che è stato capace di rivoluzionare il modo di guardare all'horror, alla figura del non morto ma soprattutto alla valenza politica e sociale che il genere aveva (e ha) la capacità di assumere quando gestito in maniera intelligente. Il film generò poi diversi sequel, filoni paralleli, remake, rivisitazioni e chi più ne ha più ne metta, ma, almeno a sentire Romero nelle interviste da lui stesso rilasciate, gran parte di ciò che si è letto nel film, di ciò che nel film è presente ed è poi stato tramandato e sviluppato, sviscerato e santificato, nasce da un'involontario spirito di adattamento a quello che era un budget risicato, e qui sta la maestria, con il quale, senza saperlo, regista e maestranze stavano realizzando quello che diverrà un pezzo fondamentale di storia del cinema. La notte dei morti viventi è girato in un bel bianco e nero evocativo, anche inquieto, scelta indovinatissima ma un po' smitizzata dal fatto che è stata presa semplicemente perché la pellicola da 16mm a colori costava troppo, retroscena che non toglie nessun merito all'esito finale del film. Gli attori non erano volti noti, alcuni di loro non torneranno più al cinema, nessuno avrà una carriera particolarmente brillante, le comparse furono prese tra la gente del luogo prestatesi a gratis per curiosità o per lo sfizio di apparire in un film, il trucco arrangiato, gli effetti speciali realizzati con mezzi non tanto speciali. Eppure tutto sembra incastrarsi al giusto posto in maniera ineccepibile...


Barbra (Judith O'Dea) e suo fratello Johnny (Russell Streiner) sono in viaggio da diverse ore per raggiungere il cimitero dove è sepolto il padre; una volta giunti sul luogo i due incontrano uno strano figuro che da subito si rivela essere mortalmente pericoloso, da questo incontro Johnny non uscirà vivo, Barbra riuscirà a fuggire per poi rifugiarsi in una casa isolata dove l'aspetta un'altra dose di orrore. La ragazza ormai è sotto shock, per sua fortuna in casa c'è un altro estraneo, un uomo di colore di nome Ben (Duane Jones) anche lui rifugiatosi lì in quanto all'esterno qualcosa di davvero inquietante sta succedendo. La gente è diventata violenta, afflitta da istinti cannibali incontrollabili, i morti non muoiono (The dead don't die risuona nella testa, grazie Jim), il male si diffonde e ai due non resta che barricarsi in casa, una casa che nella sua cantina nasconde già i coniugi Cooper, Harry (Karl Hardman) e Helen (Marilyn Eastman) con la loro figlioletta Karen (Kyra Schon) che è stata ferita da uno dei "mostri" là fuori, e la coppia di giovani fidanzati composta da Tom (Keith Waine) e Judy (Judith Ridley). La situazione di crisi farà emergere il carattere e la forza dei vari protagonisti dando vita a dinamiche analizzate poi nel corso degli anni a venire più e più volte, ai sopravvissuti non rimane che asserragliarsi all'interno e cercare di capire quale sia la via migliore da seguire per uscire da quella terribile situazione.


A uno spettatore giovane che approcciasse oggi per la prima volta la visione de La notte dei morti viventi il film di Romero potrebbe risultare fin troppo ingenuo, in fondo nel corso dei decenni di cose ne abbiamo viste e ci siamo abituati a schermi che per impatto visivo ci propongono ben altre efferatezze. In effetti qualche ingenuità c'è: questi cadaveri ambulanti per lo più sembrano impacciati, non troppo forti, in contrasto a quella prima sequenza dove uno solo di loro riesce ad avere la meglio su un giovane Johnny, lo stesso assassino sembra essere dotato di una buona agilità mentre in seguito Ben afferma di essersi sbarazzato di diversi di loro senza grosse difficoltà. In fondo parliamo sempre di un esordio girato con pochi mezzi, eppure anche rivisto oggi nel suo complesso il film funziona molto bene e sfrutta al meglio la struttura spesso claustrofobica dell'assedio in seguito riproposta da parecchio cinema di serie B (e non solo) con ottimi risultati, pensiamo solo al Carpenter di Distretto 13 - Le brigate della morte (che a questo film deve tantissimo) o di Fantasmi da Marte (come sopra). Molte le chiavi di lettura politiche e sociali che si sono accostate all'opera di Romero, la più interessante è forse quella sul razzismo che lo stesso Romero afferma di aver percepito come tale solo a film concluso e in seguito alla notizia dell'assassinio di Martin Luther King, il suo protagonista principale è infatti un nero in un mondo che sembra fatto di soli bianchi, il finale, che qui non sveliamo in caso ci siano eventuali giovanissimi incuriositi, rimane attualissimo ancora oggi, capace di veicolare critiche e riflessioni, poco importa che siano queste state volontarie o meno al momento della realizzazione del film. Se la lettura politica rimane la più interessante, quella sociale che vuole i non morti come avidi consumatori insaziabili, metafora del capitalismo più bieco allora in piena espansione, non è da meno anche se la si riconduce in misura maggiore al secondo capitolo della saga, quello Zombi (Dawn of the dead) con le sequenze girate al centro commerciale. Valutando il rapporto tra mezzi e risultato, le dinamiche tra i protagonisti e il valore simbolico che si può dare a ognuno di loro e la nascita della figura dello zombi come tutti noi oggi la conosciamo (e che prima non esisteva), più che un ottimo film La notte dei morti viventi si può considerare ancora oggi come un piccolo miracolo del cinema, mica male per un esordio.

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