(It must be Heaven di Elia Suleiman, 2019)
A tutt'oggi Il paradiso probabilmente risulta essere l'ultimo lungometraggio di Elia Suleiman; presentato al Festival di Cannes ormai cinque anni orsono, a differenza di altre sue opere delle quali abbiamo già parlato in passato come Intervento divino (2002) o Il tempo che ci rimane (2009), Il paradiso probabilmente è ambientato solo in minima parte in Palestina, terra d'origine del regista di Nazareth. Per questo film Suleiman mantiene molte delle caratteristiche del suo cinema ampliandone la geografia e allestendo un movimento itinerante che da casa sua porterà il regista (attore nei panni di sé stesso) prima a Parigi, roccaforte europea, e poi a New York, città dove il regista ha risieduto per oltre dieci anni dopo aver terminato gli studi a Nazareth. Se il tono comico surreale permane con lo stesso tocco lieve ma allo stesso tempo tragico che già Suleiman aveva adottato nelle sue opere precedenti, questo ultimo lungo sembra un pochino perdere il suo centro, come se il cinema del regista, sempre e anche qui comunque apprezzabile, perdesse un poco di forza lontano da casa, anche quando i temi ricorrenti di Suleiman restano gli stessi di sempre magari solo spostati ad altre latitudini come in questo caso. Non mancano motivi di interesse nei tratteggi grotteschi che il regista per esempio offre di Parigi e New York, ciò non toglie che opere quali Intervento divino e Il tempo che ci rimane risultassero a conti fatti più ficcanti e finanche divertenti (sempre in senso lato visto ciò che sta dietro al messaggio del regista).Elia Suleiman, in qualità di protagonista del suo stesso film, non parla quasi mai, reagisce a ciò che gli accade intorno con l'osservazione, con lo sguardo. Così assiste alla quotidiana invasione del suo giardino da parte di un arrogante vicino di casa che con tutta la naturalezza del mondo gli ruba i limoni; costui però si prende anche cura dei suoi alberi e alla fine è anche bravo a farlo. Durante le sue passeggiate Suleiman si imbatte in gruppi di giovani scalmanati armati di bastoni sempre in cerca di qualcuno da picchiare, sopporta gli sfoghi verbali del suo vicino di casa un po' fuori dalle righe, vaga per il cimitero, assiste a una discussione dove due fratelli ipocritamente si ergono a consiglieri della vita della sorella e alle noncuranti malefatte della polizia. Poi parte, come a cercare una nuova dimensione altrove, prima a Parigi, poi a New York. Tra situazioni surreali e grottesche quello che Suleiman trova però continua a ricordargli la Palestina, le storture di casa sua. Allora, seppur con i dovuti distinguo, non resta che prendere atto di come stanno le cose e tornare indietro, alla sua casa, al suo giardino di limoni che il vicino (Israele?) ha depredato pur continuando a gestirlo e farlo crescere.
Ovunque si volti, che sia a casa sua, a Nazareth, in Palestina come lo stesso Suleiman dichiara a un tassista di New York con le uniche parole pronunciate nel film (ufficialmente però Nazareth è in Israele), il regista viene a confrontarsi con situazioni assurde, alcune realmente ben orchestrate e divertenti come l'arrivo di Suleiman a Parigi dove l'intera popolazione sembra muoversi per le strade della città come in un'interminabile sfilata di moda (compare anche la Delevigne) o come l'inseguimento di un piccolo malfattore in una città deserta da parte di poliziotti in monociclo che si muovono come se fossero parte di un balletto urbano. Ovunque a Parigi c'è un presidio militare, sempre divertito nella rappresentazione di Suleiman, intento in ogni tipo d'attività; tutto ciò richiama un'atmosfera che chi è stato a Parigi dopo i famosi attentati di qualche anno fa ha potuto in effetti toccare con mano. Ricorre anche il desiderio trattenuto, in patria di certo frustrato, per la figura di una donna libera e indipendente, in Europa ancora possibile; a ogni modo a Parigi il film che Suleiman sta cercando di mettere in piedi e per il quale è alla ricerca di fondi non interessa a nessuno. Quando giunge a New York, in America, il Paese delle libertà, Suleiman trova solamente persone armate fino ai denti, in un crescendo assurdo che purtroppo ci ricorda quanto gli States siano attaccati alla loro violenza atavica e al culto delle armi e della difesa personale (e dell'offesa non solo personale). Ancora una volta Suleiman tratta con tocco leggero temi scottanti dettati dalla sua geografia, dalla nascita in un territorio martoriato: Il paradiso probabilmente (che pare a questo punto non esistere, almeno non in Terra), seppur arguto e riuscito, risulta meno efficace dei film precedenti, il peregrinare del regista forse disperde un poco di energie che altrove sembravano meglio focalizzate; oltre a questa vaga sensazione di maggior debolezza il film rimane assolutamente godibile, un altro pezzo di percorso di un regista di ottima caratura.
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