domenica 29 maggio 2022

TRUE DETECTIVE - STAGIONE 3

Nic Pizzolatto con True detective trova un'ottima via all'antologico, tre stagioni molto riuscite, almeno due non prive di difetti ma sempre di qualità alta, un percorso che seppur slegato nelle sue annate (con rimandi tra la terza e la prima a creare un universo condiviso) presenta una coesione di temi e strutture, anche di stile se vogliamo, a collegare i tre segmenti del progetto senza che questi perdano la loro propria personalità e le caratteristiche intrinseche di ogni singola stagione. È nel complesso un bel viaggio quello tra le vite e i casi di questi detective, un viaggio che anche nella seconda stagione, la più vituperata e senza dubbio meritevole di riscatto, affascina per una narrazione densa, mutevole e capace di focalizzarsi di volta in volta su aspetti diversi, in parte anche per assecondare i voleri di un pubblico esigente forse troppo ben abituato da quella prima e imprescindibile annata che da subito ha lanciato la serie nell'empireo della serialità moderna. Dopo aver imbastito una seconda stagione in fretta e furia forse proprio per soddisfare e rilanciare il successo di pubblico ottenuto con il folgorante esordio, per questa nuova indagine la produzione si prende tutto il tempo necessario, passano quattro anni tra le peripezie di Colin Farrell e Rachel McAdams e quelle di Mahershala Ali e Stephen Dorff, nuovi e al momento ultimi protagonisti di True detective, anche se ormai sembrano confermate le voci di un nuovo ritorno per lo show con (si dice) Jodie Foster protagonista affiancata da un altro detective di cui non si conosce ancora l'interprete (sarà una seconda donna pare), l'ambientazione si sposterà dal sud degli Stati Uniti alla fredda Alaska, scelta che inserirebbe un ulteriore elemento di novità nella serie.

Per questa terza stagione si torna a un'ambientazione rurale; siamo nell'altopiano di Ozark, in quella parte di territorio che rientra nei confini dell'Arkansas, stato limitrofo alla Louisiana di Cole e Hart con la quale ha diverse caratteristiche in comune. Si ripercorrono le tappe di un caso datato 1980: in una cittadina di provincia due ragazzini, Will e Julie Purcell, escono in bici per andare a giocare da un compagno di scuola con il suo nuovo cucciolo. Passata l'ora del rientro il padre Tom (Scott McNairy), che cresce i due figli da solo in uno stato di povertà evidente, avvisa la polizia della scomparsa dei ragazzi, alla chiamata risponderanno i detective Wayne Hays (Mahershala Ali) e Roland West (Stephen Dorff). Le ricerche partono ovviamente dalla famiglia, dal padre Tom e dalla madre Lucy (Mamie Gummer) ormai allontanatasi dal nucleo familiare e afflitta da diverse dipendenze, per poi allargarsi ai vicini e ai conoscenti, ai parenti come lo zio Dan (Michael Graziadei), ai ragazzi più grandi fino ad arrivare a quello che viene considerato l'emarginato della cittadina, Brett Woodard (Michael Greyeyes), un veterano della guerra in Vietnam di origini indiane (d'America) che gira per il circondario in cerca di rottami da rivendere. Il caso, che presenta dei risvolti tragici fin da subito, verrà ripreso in seguito negli anni 90 dagli stessi due detective che se ne occuperanno praticamente per tutta la loro vita, è un Wayne Hays ormai vecchio infatti quello che tenta di ricostruire l'intera vicenda, a dispetto di una memoria che ormai gioca brutti scherzi a causa di una malattia in progressione, di fronte alle telecamere di un programma televisivo cercando di ottenere nuove informazioni, più recenti, proprio dalla giornalista che sta cercando di mettere insieme i pezzi dell'intera vicenda, un po' come ha fatto per tanti anni la moglie di Hays, l'insegnante e scrittrice Amelia Reardon (Carmen Ejogo).

Data la pioggia di critiche (immeritate) ricevute dalla seconda stagione di True detective, per la terza annata Nic Pizzolatto torna alle origini riprendendo molte atmosfere e diversi schemi della stagione d'esordio. Torna centrale la ricostruzione a posteriori, la vicenda è suddivisa in maniera netta su tre piani temporali pian piano rievocati dalle parole di Hays e West, c'è tantissima attenzione alla scrittura dei protagonisti, soprattutto in quella della figura del detective Hays che oscura un poco il coprotagonista, il detective West, che diviene una sorta di comprimario di lusso del quale però c'è da dire che vengono lasciate velate alcune caratteristiche interessanti che dovrà essere lo spettatore a intuire, proprio come a un certo punto fa il partner Hays; sono cose di cui non si parla apertamente, anche perché siamo tra gli 80 e i 90 in uno degli stati del sud degli U.S.A., non proprio la più avanzata delle frontiere per quel che riguarda l'apertura mentale. Torna l'attenzione per i luoghi, indubbiamente meno affascinanti di quelli della Louisiana di Hart e Cole, tornano anche le bambole, non quelle rituali ma i riferimenti al caso di Dora Lange vengono palesati in maniera chiara (anche se mi piacerebbe fare un controllo sulle date per vedere se le cose collimano), anche quell'odore di sovrannaturale non è nuovo, qui esplicitato nelle sensazioni di incontro tra i diversi piani temporali che Hays di quando in quando percepisce in maniera evidente. Ciò che di più riuscito c'è in questa annata, al di là dell'indagine sul caso che non è la cosa più interessante e che si chiude con una rivelazione finale che probabilmente deluderà più di uno spettatore, è proprio la figura del detective Hays che grazie all'interpretazione superba di Ali e alla scrittura del personaggio giganteggia su tutto il resto pur essendo un protagonista molto trattenuto, misurato, mai esplosivo, proiettato verso l'interno e non il contrario, un uomo molto diverso dall'irresistibile Rustin Cole della prima stagione, tanto per dirne una. Non sono i classici eroi i protagonisti di True detective, Hays è un uomo irrisolto, che con la testa forse è rimasto in Vietnam e che non riesce a godere appieno nemmeno delle gioie che la vita gli presenta (la moglie, i figli), tormentato in vecchiaia da una malattia che sembra impedirgli di trovare una conclusione certa finanche a quel caso a cui ha dedicato gran parte della sua vita. L'aspetto sul quale pecca un po' questa stagione è quello del ritmo, la progressione tra le varie puntate manca un po' di mordente, la sensazione è che la narrazione abbia un'ottimo spessore, ottime trovate in alcuni particolari, nei rapporti tra i personaggi, ma che manchi di pepe nel nodo centrale, quello della ricostruzione dei fatti, pochissime le sequenze dinamiche, una sola di reale impatto. Consigliato? Certamente si, non soddisfa appieno come l'anno uno, paragone ormai scomodo e ingombrante, ma il lavoro che c'è dietro la stagione si vede tutto, magari meno adatto per chi cerca solo un semplice poliziesco, qui siamo su altre lande, più complesse, più brulle e decadenti, meno immediate ma più appaganti per i palati fini che sapranno apprezzarle.

mercoledì 25 maggio 2022

IL POPOLO DELL'AUTUNNO

(Something wicked this way comes di Ray Bradbury, 1962)

Per la terza uscita che la collana Urania dedica alle celebrazioni dei suoi 70 anni di storia viene dato alle stampe il romanzo Il popolo dell'autunno di Ray Bradbury, opera che in realtà con la fantascienza ha poco a che spartire, non di meno questa è tra le prime tre proposte quella più interessante e, a parere di chi scrive, anche il romanzo di maggior valore che dimostra come a Bradbury stia un po' stretta la definizione di "scrittore di fantascienza" avendo egli spaziato su più fronti e ottenuto ottimi risultati, come in questo caso, anche in altri rami della letteratura. Siamo di fronte a un romanzo che sta più dalle parti dell'horror e del fantastico, distante dalla fantascienza, con echi kinghiani che i fan del "re del brivido" non avranno difficoltà a riconoscere; ovviamente sarebbe più corretto parlare di echi bradburyani in merito ad alcuni libri di King essendo questi arrivati cronologicamente almeno un decennio più tardi rispetto a questo Il popolo dell'autunno. Con una decina di romanzi e parecchie raccolte di racconti all'attivo Bradbury viene considerato uno dei numi tutelari della fantascienza, celebri e consigliati come letture fin dalle scuole dell'obbligo almeno i suoi titoli più noti: Cronache Marziane e Fahrenheit 451. Ma di cosa parla questo Il popolo dell'autunno?

Green Town, Illinois. I tredicenni Will Halloway e Jim Nightshade sono amici per la pelle, condividono un mucchio di cose nonostante abbiano caratteri e indole diversi. Siamo alle porte di Halloween, è ottobre, alla ricorrenza manca circa una settimana, l'autunno sereno della cittadina di provincia di Green Town sta per essere travolto da un'ondata di novità all'apparenza eccitante ma in fondo, in maniera nemmeno troppo nascosta, parecchio maligna. Il cambiamento è preceduto dall'arrivo in città di un venditore di parafulmini, quello che definiremmo un buon uomo, un po' enigmatico, un uomo che anticipa tempeste a venire e offre riparo, dei parafulmini appunto, da tutto ciò che di straordinario e fuori posto la tempesta possa portare. Ed è proprio a Jim che l'uomo consegna uno dei suoi manufatti, un oggetto atto a catturare il fulmine, un costrutto in ferro cosparso dei più strani e variegati simboli di protezione capaci di imbrigliare la terribile energia della natura e tutto ciò che essa trasporta, compreso ciò che è fuori dal comune. Ma tutto questo è solo un presagio, un anticipo, un antipasto di ciò che arriverà a Green Town con quella corsa notturna, con quel treno che si fermerà vicino al prato sul bordo di quel binario morto. Da lì un Luna Park ambiguo e misterioso e terrificante che libererà per le strade di Green Town i suoi freaks, il suo popolo dell'autunno fatto di streghe e uomini elettrici, nani che prima non erano nani e uomini tatuati, esseri scheletrici e zucchero filato, giostre e labirinti di specchi. In questo calderone ribollente Will e Jim rischieranno di perdersi trascinando con loro l'anziana maestra di scuola, la signora Foley, e lo stesso padre di Will, il signor Halloway, il triste e stanco custode della biblioteca cittadina.

Al di là dei generi d'appartenenza il popolo dell'autunno è un ottimo romanzo, una narrazione venata di malinconia che riflette a più riprese sul passare del tempo, vive di un bellissimo contrasto tra i due giovani protagonisti, uno che ha fretta di crescere, l'altro che vuole godersi l'infanzia, il tempo presente, l'amicizia incondizionata, e la figura del padre di Will, un uomo solitario, in larga parte intristito da una vita non vissuta appieno e che si vede ormai vecchio, vicino al tramonto e che in qualche maniera, all'interno di questa allegoria del tempo che passa, troverà modo di tentare un tardivo riscatto. Bradbury usa una prosa affascinante e coinvolgente, il romanzo è costellato da una serie innumerevole di immagini preziose costruite con le parole, metafore che toccano nel profondo, passaggi avvolgenti, c'è inoltre quella capacità di descrivere l'età dell'infanzia e dell'adolescenza che si ritrova con eguale maestria in tantissimo King, probabilmente il re avrà letto questo romanzo di Bradbury amandolo alla follia, allo stesso modo l'età del crepuscolo non è descritta in maniera meno accurata, anzi, lo scrittore dell'Illinois dona a tutta la narrazione un sapore crepuscolare che viene spezzato solo dai passaggi più tesi nei quali dominano alcune delle passioni di Bradbury: quella per il circo e per i suoi fenomeni e quella per le atmosfere misteriose e inquiete sottolineate in misura maggiore dal titolo originale dell'opera, Something wicked this way comes.

venerdì 20 maggio 2022

AMERICA LATINA

(di Damiano e Fabio D'Innocenzo, 2021)

Terzo film per i fratelli D'Innocenzo e terza ottima prova consecutiva, ormai i due registi romani sono una realtà consolidata del cinema nostrano, quello che vale la pena d'esser seguito con attenzione. Ancora una volta i due ragazzi rimangono nella provincia laziale per una storia che affronta il ruolo del genitore solo in senso lato (tema già presente sia ne La terra dell'abbastanza che in Favolacce) mentre dal disagio sociale, da quello affettivo e dei sentimenti, si passa a un disagio che diventa nel tempo tutto interiore, scatenato da una di quelle situazioni capaci di cambiarti la vita in un singolo istante, ovviamente in peggio. È ancora una volta una storia molto cupa, con pochissimi sprazzi di luce quella costruita dai D'Innocenzo, è questa una cifra stilistica costante che però viene abilmente inserita dai registi nei loro film senza farli mai risultare troppo simili tra loro. In America Latina si percepisce una maggiore vicinanza ai generi, lambiti e adattati con maestria dagli autori (ormai è assodato che i due gemelli lo siano) che riescono a rimanere riconoscibili e personali, il film presenta alcune soluzioni appannaggio di molto horror o del thriller senza essere fino in fondo né l'uno né l'altro, ne esce una mistura dove il ruolo centrale lo gioca l'uomo, la sua mente, l'insinuarsi del sospetto, l'incrinarsi della fiducia in sé stessi e negli altri, la possibilità (forse) di forme di recupero e guarigione, da traumi personali, da quelli inflitti, ancora una volta, dai genitori (la figura del padre portata in scena da un ottimo Massimo Wertmüller).

Siamo nella provincia di Latina, Massimo Sisti (Elio Germano) è un bravo dentista con uno studio avviato, un'ottima etica professionale sia nei confronti dei suoi clienti che delle sue collaboratrici. Vive in una villa con piscina con l'amorevole moglie Alessandra (Astrid Casali) e le due figlie Laura (Carlotta Gamba) e Ilenia (Federica Pala), una adolescente alle prese con i primi ragazzi, l'altra ancora piccina. Nonostante il benessere economico e la bella casa, la zona circostante sembra una landa solitaria, abbandonata, più consona agli incontri serali di Massimo con l'amico Simone (Maurizio Lastrico) per una bevuta o due che non a una serena vita familiare. Durante una di queste serate Simone sembra preoccupato a causa di qualche guaio in cui si trova e chiede a Massimo un prestito, una cifra abbordabile che Massimo concede con serenità. Nei giorni successivi, mentre la vita di Massimo corre come al solito serena, questi si reca nella cantina della villa in cerca di una lampadina da sostituire e si trova di fronte a una scena sconvolgente che lo getta nel panico. Da quel momento la sua vita cambierà compromettendo i rapporti familiari e quell'equilibrio mentale che Massimo aveva raggiunto nonostante il pessimo rapporto con il padre, un equilibrio che ora comincia a vacillare in maniera pericolosa.

Nella struttura, nella creazione della tensione, i D'Innocenzo non costruiscono nulla di nuovo, rielaborano sapientemente cose che in maniera similare abbiamo già visto altrove, alcune sequenze sono molto riuscite, un po' per l'innegabile talento per la regia dei due fratelli un po' per la bravura di un Elio Germano che si conferma sempre ottimo. Eppure America Latina ha proprio il sapore di un film di Fabio e Damiano D'Innocenzo, a partire da quel movimento in auto in apertura di film, da quei paesaggi, da quella luce (fotografia di Paolo Carnera con loro fin dal primo film) e anche per quell'aria pesante che attanaglia il loro cinema. Si scava nella testa di un uomo, la locandina è chiarificatrice con quel cranio ammaccato come fosse un guscio d'uovo rotto da un colpo ricevuto, ed è proprio un colpo che sconvolge la vita del protagonista, i D'Innocenzo ci accompagnano alla ricerca di ciò che di quel colpo sta a monte, lo fanno con tante inquadrature strettissime, a volte sul volto di Germano, altre solo su alcuni particolari di quel volto, a stringere sempre più, facendoci vivere una casa sempre più inquietante e un protagonista che scena dopo scena perde lucidità, va in affanno, aspetti che Germano sottolinea con un gran lavoro sul respiro. Se la meccanica del film è intuibile, sicuramente a posteriori abbastanza limpida, ciò che rimane è la caduta verso il baratro della quale lo spettatore, trattenendo un po' il fiato, aspetta l'impatto finale. Niente da dire, questi due sono in gamba per davvero, si aspetta che in qualche maniera nel loro cinema filtri anche un po' di luce, giusto così, per vedere di nascosto l'effetto che fa.

mercoledì 18 maggio 2022

TRIPLE AGENT - AGENTE SPECIALE

(Triple agent di Éric Rohmer, 2004)

All'interno della filmografia di un regista come Éric Rohmer, tra i primi collaboratori dei Cahiers du cinéma e uno dei più noti esponenti della Nouvelle Vague francese, il tardo Triple agent non è forse tra i pezzi più pregiati pur rimanendo a conti fatti un esito più che interessante. Per chi volesse approcciare il cinema del maestro francese la sezione Fuori Orario di Raiplay ha messo a disposizioni alcuni tra i titoli dell'ultima fase della carriera del regista scomparso nel 2010 all'età di novant'anni, oltre a questo almeno l'ultima sua opera: Gli amori di Astrea e Céladon. Cinema formale, qualcuno potrebbe dire anche troppo, a tratti la messa in scena di Triple agent potrebbe sembrare addirittura ingessata seppur curata con attenzione nella costruzione dell'inquadratura: pochi movimenti di camera, nessuno superfluo, sceneggiatura costruita sui dialoghi e sulla recitazione di una manciata di attori che ricreano una vicenda ispirata a un reale fatto di cronaca accaduto nel settembre del 1937.

Siamo in anni di fermento politico, Fiodor (Serge Renko) è un generale russo in esilio a Parigi vicino alle correnti monarchiche in un momento storico in cui la Francia invece abbraccia il comunismo, alle elezioni del 1936 infatti trionfa il Fronte Popolare, alleanza pluripartitica che ha come scopo quello di arginare le tendenze naziste che vanno diffondendosi in Europa; nel frattempo in Spagna scoppia la guerra civile. È in questo scenario che si muovono i protagonisti di Triple agent, Fiodor lavora per l'associazione degli ex combattenti dell'esercito russo, in realtà i suoi compiti assomigliano molto a quelli di una spia, cosa che Fiodor non nega e, anzi, con la quale gioca molto volentieri. Nel condominio di Parigi dove abita con la moglie di origini greche Arsinoé (Katerina Didaskalu) i due fanno conoscenza con una coppia di francesi comunisti con la quale scambiano opinioni politiche (Fiodor è convinto che l'implosione delle rivoluzioni comuniste sia vicina) e artistiche (Picasso si, Picasso no, figurativo e astratto, etc...). A causa di una serie di accadimenti, di pulci messe nell'orecchio, di pettegolezzi riportati dall'amica Maguy (Cyrielle Clair), Arsinoé inizia a sospettare che la fedeltà del marito non sia appannaggio degli ex generali russi decaduti ma forse del partito comunista se non addirittura di quello nazista. Così tra mezze verità, spiegazioni sommarie e cose non dette il rapporto tra marito e moglie si trascinerà fino a quel settembre del 1937 dove i nodi (forse) verranno al pettine.

Grande attenzione per la scena da parte di Rohmer, costruzione a priori e pochi arzigogoli di macchina necessari; nonostante la vicenda a forti tinte dialettiche e per lo più politiche, Triple agent mantiene un buon ritmo, fermo restando la necessaria propensione dello spettatore a guardare film molto "parlati". Il regista dalle incerte origini (Rohmer era un mentitore riguardo la sua città natale) crea con i dialoghi un contesto storico preciso rafforzato da brevi inserti di cinegiornali d'epoca con i resoconti degli accadimenti europei più importanti del periodo, pretesto utile anche per staccare e "dare aria" alle varie sequenze. All'interno della Storia ci sono le storie dei protagonisti, Fiodor e sua moglie soprattutto, al centro due elementi, i più interessanti del film: il primo riguarda l'ambiguità della figura del protagonista del quale non abbiamo certezza dell'orientamento politico, non sappiamo davvero per chi lavori e fino a che punto sia disposto a spingersi per perseguire fini politici (o utilitaristici?). Il secondo affronta il tema della fiducia tra i due congiunti, dove la bella Arsinoé sembra sempre più spesso all'oscuro dei movimenti e delle azioni del marito. I dubbi rimarranno fino in fondo, nel mezzo vari incontri, situazioni conviviali e ovviamente l'aspetto politico e storico che incornicia l'intero film. Eleganti gli interpreti, Katerina Didaskalu in maniera particolare, il film per alcuni versi può essere accostato al più recente Malmkrog di Cristi Puiu sebbene Triple agent sia una visione decisamente meno impegnativa e più snella soprattutto in quanto a minutaggio. Se amate la Storia, i film da camera, i dialoghi, allora Triple agent vale il giro di giostra, in caso contrario uomo avvisato...

sabato 14 maggio 2022

È STATA LA MANO DI DIO

(di Paolo Sorrentino, 2021)

"La realtà non mi piace più. La realtà è scadente. Ecco perché voglio fare il cinema".

In alcune interviste successive all'uscita di È stata la mano di Dio il regista Paolo Sorrentino raccontò di come nel periodo precedente alla realizzazione del film accusasse un senso di ripetizione, come se sentisse che per le sue ultime prove (la serie The new Pope e il dittico Loro) si fosse trovato a lavorare quasi in maniera automatica, come a ripetere formule e stili ormai collaudati e che forse (aggiungo io) avevano toccato l'apice di ciò che potevano offrire a quella parte di pubblico innamorata dello stile del regista. Chi ha visto film come Il divo, La grande bellezza, Youth - La giovinezza, sa che il cinema di Sorrentino non è mai banale, anzi, la ricerca sulla messa in scena dell'autore è strabordante, capace di regalare immagini bellissime, squarci onirici, aperture di significati tutti da decifrare, scenografie e costumi sfarzosi, ammalianti, densi e capaci di tirar lo spettatore dentro ad altri mondi, ad altre vite. Certo, per ripetere un mantra banale, un cinema non per tutti, ma se per quello che riguarda la settima arte quella di Sorrentino non è proprio la mano di Dio, di certo non è nemmeno quella di un comunissimo mortale, piaccia o non piaccia Sorrentino oggi è uno dei maestri dell'arte e non solo in Italia. Per ovviare a quella che poteva essere una fase di stanchezza, per dare una cesura e una ripartenza alla sua filmografia, Sorrentino torna alle origini, non tanto del suo cinema quanto a quelle della sua vita costruendo un film diversamente autobiografico e ricominciando dalla sua Napoli da troppo tempo abbandonata (dal suo esordio) e da uno stile molto più lineare e a prima vista semplice dove non mancano i tocchi personali di un regista dallo stile riconoscibile, ma sono schizzi all'interno di un film decisamente più "classico" che ha le potenzialità per raccogliere i favori di un pubblico più vasto del solito. E se il tormentone "non ti disunire Fabio" pronunciato nel film dal regista Antonio Capuano solo ora avesse raggiunto la sua portata di significato riconducendo il giovane Fabio/l'adulto Paolo a tornare alle origini? a un cinema meno costruito, più spontaneo sebbene, forse in maniera inevitabile, più sofferto e doloroso? (un dolore alleviato dal lavorio sui ricordi, come lo stesso Sorrentino ha dichiarato).

Fabietto Schisa (Filippo Scotti) è un giovane un po' introverso ma molto innamorato della sua famiglia al cui nucleo è attaccato con amore profondo, un bellissimo rapporto con il fratello Marchino (Marlon Joubert) e due genitori splendidi: papà Saverio (Toni Servillo) e mamma Maria (Teresa Saponangelo); della sorella Daniela (Rossella Di Lucca) poco si sa, quella sta sempre chiusa in bagno. Gli Schisa sono parte di una famiglia allargata fatta di zii e parenti vari molto divertente e legata alla sensibilità tutta partenopea per un umorismo incontenibile che rende le giornate passate insieme sempre originali e portatrici di eventi spassosi da ricordare nel tempo. Poi c'è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), un poco ammattita dopo quella gravidanza andata male, una donna sensuale che spesso si concede alla nudità e che diventa per Fabietto una sorta di musa, è una donna che parla con San Gennaro (Enzo Decaro), vede il munaciello della tradizione campana e si trova molto spesso a fare questioni, come si dice a Napoli, col marito gelosissimo Franco (Massimiliano Gallo). Siamo negli anni 80, nei giorni in cui sempre più insistente si fa quella voce che vuole Maradona al Napoli contro ogni previsione (figurati se quello da Barcellona viene 'int'a 'sto cesso). Maradona arriverà davvero, un evento epocale per Fabietto e per tutta la famiglia. Poi un accadimento tragico scombinerà tutti gli equilibri, la vita diventa appunto scadente, dolorosa, per Fabietto inizia a intravedersi un futuro nel cinema, forse lontano da quella Napoli che è stata di Maradona.

Non sappiamo quanto davvero sia costato a Sorrentino in termini di emotività realizzare questo film, ciò che è certo è che con È stata la mano di Dio il regista partenopeo di emozioni riesce a regalarcene molte, si spiega qui anche la sua devozione per Maradona, che non è solo calcistica, e che viene espressa in un momento fulminante da un Renato Carpentieri che ci comunica che "è stata la mano di Dio" a cambiare la vita del regista/protagonista. Un film sincero e diretto, con tocchi di stile propri di Sorrentino ma accessibile a tutti, un film che è diviso in due parti, una prima decisamente divertente, piena di situazioni spassose, molto solare, illuminata, dove gli umori sono quelli della speranza (di un Napoli finalmente competitivo), della sensualità (la zia Patrizia) e della più genuina napoletanità con un gruppo d'attori irresistibile e gioioso ben rappresentato da mamma Maria, una donna devotissima all'arte dello scherzo. Sorprendenti anche alcuni dei personaggi di contorno: il contrabbandiere Armando (Biagio Manna), Mariettiello (l'ottimo Lino Musella) la teatrale Baronessa Focale (Betty Pedrazzi) e poi, tra i numi tutelari del nostro e tra i personaggi più importanti della seconda parte del film, quella più scura e drammatica, il regista Antonio Capuano (Ciro Capano) che instraderà in qualche modo Fabietto sulla via del cinema (fermo restando il sempiterno debito verso Fellini che anche qui non manca di esternarsi). Il cinema di Sorrentino passa dalla testa al cuore con risultati stupefacenti, a volte per fare questo è necessario tornare a casa.

giovedì 12 maggio 2022

MOON KNIGHT

Spiace constatare come dall'ultima miniserie di casa Marvel venga fuori purtroppo una mezza delusione nonché una bella occasione sprecata, anzi due, forse pure tre. Andiamo a elencarle. Occasione sprecata numero uno: il personaggio. Ammetto che al trapelare dei primi annunci su una serie dedicata al cavaliere lunare, o Lunar come venne tradotto il nome del personaggio nei mitici albi dell'Editoriale Corno, un piccolo moto d'entusiasmo ha pervaso la mia persona. Moon Knight è indubbiamente uno dei personaggi più affascinanti tra le "seconde file" dell'immenso parco di characters della Marvel, l'aspettativa era quella di una serie che avesse buone probabilità di giocare con atmosfere urbane e oscure, come da interpretazione del personaggio su diversi albi della casa delle idee, c'era la possibilità di lavorare parecchio sull'ambiguità (poco sfruttata) e sulla follia (qui decisamente meglio) del personaggio, si è però deciso di dare ampio spazio alle personalità di Marc Spector e Steven Grant sacrificando parecchio proprio Moon Knight che in fondo si vede pochino, compare nelle sequenze meno interessanti della serie e visivamente devo dire che non presenta nemmeno un colpo d'occhio così entusiasmante, per fortuna il personaggio è stato affidato alle cure di Oscar Isaac che cesella un gran lavoro nel passaggio tra due personalità molto diverse tra loro anche se spesso nell'interpretazione di Steven Grant deborda oltremodo fuori dai contorni, anche un po' meno sarebbe andato bene lo stesso. Occasione sprecata numero due: "Moon Knight sarà la serie tv più violenta dei Marvel Studios". Così gli strilloni poco prima della partenza della serie. Ora uno non è che voglia per forza di cose vedere serie violente, nell'economia dei personaggi Marvel c'è da dire che abbiamo potuto godere di cose come il Daredevil di Netflix o il film Logan della 20th Century Fox (guarda caso nessuna delle due opere è targata Disney) che è indubbio abbiano tutt'altro spessore rispetto alla media dei film del Marvel Cinematic Universe, detto questo il personaggio si prestava anche molto bene a un approccio più adulto alla materia (che volendo c'è stato sul lato psicologico), una delle personalità che abitano il corpo di Spector/Grant è un mercenario, l'eroe è l'avatar del Dio Konshu, un'entità lontana dall'essere un'educanda tutta mossette e manfrine, per non accennare di colui che potrebbe avere ancora meno scrupolo di uno Spector qualsiasi nel portare a termine i piani del Dio vendicativo. Qui invece abbiamo un'entità caruccia in veste da ippopotamo con la vocina da bimbetta dell'asilo che sembra uscita dalle sequenze animate di Pomi d'ottone e manici di scopa. Comunque, se questa è la serie più violenta della Marvel i genitori possono stare abbastanza tranquilli (sempre con riserva, non sono prodotti adatti ai giovanissimi). Occasione sprecata numero tre: Jack Lockley. Qui non mi dilungo per evitare eventuali spoiler, tenendo conto che il personaggio non è stato per niente sfruttato e che non è detto che Moon Knight torni ad avere ampio spazio nei piani futuri della Marvel, che dire? Beh... peccato!

Ma veniamo alla trama. Steven Grant (Oscar Isaac) lavora al book shop della National Gallery a Londra. Steven è un uomo timido, dimesso, subisce le angherie del suo capo, è introverso con le donne, all'apparenza insicuro. Steven vive da solo, la sera, quando va a dormire, si incatena al letto, un letto circondato da un fine strato di sabbia. Una sera Steven si addormenta, al suo risveglio si ritrova in un paese sulle alpi austriache dove predica una specie di santone, Arthur Harrow (Ethan Hawk), l'uomo sembra in grado di giudicare le anime degli uomini e dare la morte a chi viene trovato non meritevole. Una situazione complicata dopo l'altra, Steven continua ad avere dei vuoti di memoria e a ritrovarsi in luoghi dove non ricorda di essersi recato nonostante la catena che la notte lo tiene legato al letto. A complicare la situazione le chiamate di una donna di nome Layla (May Calamawy) che continua a chiamarlo Marc e sostiene di essere sua moglie. Con il passare del tempo scopriremo che Marc/Steven è l'avatar del Dio lunare Konshu, una divinità in contrapposizione alla dea Ammit della quale l'avatar è proprio Harrow. Ma in una narrazione dove lo squilibrio del protagonista diventa sempre più evidente cosa può dirsi reale e cosa no?

Dopo le prime due puntate davvero efficaci, tanto da lasciar presagire lo sviluppo di una bellissima serie, la storia si affloscia tra passaggi psicologici (apprezzabile quello dell'infanzia di Marc) e sapori esotici con spruzzate di mitologia dal pantheon dell'antico Egitto. Tutto sulla carta molto affascinante se non per il fatto che ciò che coinvolge in prima persona le entità sovrannaturali è costruito in modo banale tanto da risultare un aspetto della storia di scarsissimo interesse, i punti di forza del prodotto si riducono quindi alla buona prova degli attori e alla situazione psicologica di Marc/Steven, quest'ultima resa più interessante dalle sequenze ambientate nella casa di cura, anch'essa virata sempre e totalmente al colore bianco, quello del costume di Moon Knight (ma anche di Mr. Knight), dove molte cose vengono messe in discussione. Di quello che poteva essere un antieroe, una sorta di vendicatore al servizio di Konshu c'è poca traccia, la serie inoltre sembra in alcuni passaggi perdere di direzione e l'amalgama tra i vari elementi pare non tenere, come se una dispersione di energie avesse sprecato tutto ciò che di buono un ottimo incipit aveva lasciato vedere. Non mancano i momenti di noia alternati ad altri decisamente migliori, purtroppo alla luce della partenza davvero ottima sembra proprio che la montagna abbia partorito il più classico dei topolini. La speranza è che Moon Knight sia ancora nei piani della Marvel e che si riesca a trovare a questo intrigante personaggio la giusta collocazione, al momento nessuna news su una seconda stagione o su di un film a solo, ma si sa, in casa Marvel tutto torna e quindi...

martedì 10 maggio 2022

ARIAFERMA

(di Leonardo Di Costanzo, 2021)

Fresco della vittoria di due David di Donatello (miglior sceneggiatura originale e miglior attore protagonista a Silvio Orlando) Ariaferma si conferma come uno dei film italiani più interessanti degli ultimi anni; solido di una sceneggiatura ben strutturata, forte, e di un gruppo di attori (tutti, non solo il premiato Orlando) capaci di creare insieme un complesso di caratteri davvero credibile, armonioso anche nelle loro continue opposizioni: bei volti, alcuni arcinoti (Orlando e Servillo), altri già visti (Ferracane, De Francesco) altri poco conosciuti (Pietro Giuliano), tutti in parte per una prova corale molto impegnativa. Impegnativa perché il lavoro di Di Costanzo ci scava dentro, è in cerca, e dall'animo umano tira fuori tutti i punti di contatto tra gli uomini (quello siamo, tutti) che qui stanno ai lati opposti di una barricata all'apparenza difficile da scavalcare. Alla fine ci si interroga su cosa Di Costanzo abbia voluto mettere in scena oltre a un'ottima storia, cosa nelle sue intenzioni volesse indagare, mostrare, descrivere. Forse che tutti quanti possiamo sbagliare, che le posizioni di ognuno, anche quelle più convinte e intransigenti, nella giusta situazione possono ammorbidirsi e portarci a fare un passo verso l'altro, anche se questi sembra essere molto lontano da noi e, come si vedrà nel film, i livelli di diffidenza sono molteplici, nella fattispecie secondini verso detenuti e viceversa, detenuti verso "mostri" e combinazioni assortite.

Un carcere isolato di vecchissima concezione è in via di dismissione, i detenuti vengono trasferiti in strutture più moderne in previsione della totale chiusura del penitenziario. Proprio poco prima della data fatidica sorge un problema in una delle nuove carceri, una dozzina di detenuti sarà così costretta a prolungare la permanenza nel vecchio carcere ormai quasi completamente chiuso, sorvegliati solo da una manciata di secondini che avranno la responsabilità della sicurezza di tutti per un lasso di tempo che dovrebbe risolversi nel giro di pochi giorni. La direttrice, già trasferita altrove, lascia il comando all'agente anziano Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), i dodici rei verranno trasferiti nell'area centrale del carcere, un salone circolare, la stessa zona dove staranno i secondini, accomunati per qualche giorno nella stessa routine dei condannati: mancanza di libertà, pasti schifosi, poco o niente da fare per tempi interminabili. In questo contesto nascono proteste, ci saranno delle crisi, ci si dovrà preoccupare del più giovane e fragile dei detenuti, il mite Fantaccini (Pietro Giuliano), i detenuti troveranno una rappresentanza nel camorrista Lagioia (Silvio Orlando), un uomo che sarà capace di atteggiamenti inaspettati. Proprio il confronto tra Gargiulo e Lagioia sarà il fulcro di una situazione che per una volta, in questo contesto, sembra finalmente non andare verso l'esasperazione dei toni.

C'è molto su cui riflettere, a posteriori, dopo la visione di un film come Ariaferma, questo nonostante tutta la vicenda si svolga in una location chiusa (situazione non nuova per il regista), in pochissimo tempo, in un regime di libertà ridottissima, non solo per i carcerati ma anche per i carcerieri. La prigione, data anche l'attesa del trasferimento, diventa un limbo dove tutto sembra sospeso, come la cucina fresca, come le attività dei detenuti, una sospensione di cui non si conosce il termine e all'interno della quale sarà giocoforza necessario trovare nuove dinamiche. Essendo l'azione ridotta il film si sviluppa sui dialoghi, sulle espressioni (il volto truce di Fabrizio Ferracane), sulla recitazione minima, mai così contenuto Servillo e così pure Orlando, entrambi inappuntabili. Per mantenere una situazione stabile Gargiulo decide di lavorare per piccole concessioni, con un'azione di lento avvicinamento favorita, non si sa per quale motivo, dalla disponibilità di un Lagioia che si fa cuoco per l'intera comunità. Quanto c'è di simile tra una guardia penitenziaria irreprensibile, che da principio non può ammettere punti di contatto con i reclusi, e un condannato? Quanta umanità rimane e merita colui che dagli stessi detenuti viene additato come mostro? (il personaggio di Nicola Sechi), quanta pietās è dovuta a un uomo simile e perché arriva proprio dal più fragile e spaventato della compagnia? Di Costanzo narra di moti dell'animo, progressivi spostamenti a includere, a trovare punti di contatto con chi sembra altro da noi, concetto importante e prezioso. Solo sul finale la regia stacca dai luoghi chiusi, in un'apertura verso l'esterno simbolo forse di una conciliazione prima interiore, poi verso l'altro e di tutti verso il mondo, un movimento di macchina che è speranza, costruita qui da un cast magnifico (tutto) e da un regista che ha sicuramente qualcosa da dire.

venerdì 6 maggio 2022

TRIPLO GIOCO

(The good thief di Neil Jordan, 2002)

Pur non essendo un esegeta del cinema di Neil Jordan, aperto quindi al cambiamento d'opinione e conscio che una buona manciata di titoli non facciano una filmografia intera, resta l'impressione che ai film del regista irlandese manchi sempre quel qualcosa per risultare memorabili. Prendiamo ad esempio proprio Triplo gioco: in questo film in fondo non c'è nulla che non vada, lo si guarda volentieri, non ha particolari momenti di stanca, presenta una regia anche ricercata (forse fin troppo) affatto tirata via, tutto scorre bene però... dovremmo essere nel campo del noir, Triplo gioco è in realtà una sorta di leggero heist movie scopertissimo fin dal titolo; il côté criminale del sud della Francia (siamo tra Nizza e Montecarlo), il rapporto ladro/poliziotto, i vizi della malavita, la fanciulla da salvare, sono tutti elementi che rimandano come già detto al genere noir, genere che da manuale si vorrebbe passionale, maledetto e sanguigno, non che non si possano offrire varianti al tema, anche eleganti come in questo caso, però rimane sempre quel dubbio lì, ti chiedi cosa manchi a questo film, poi magari ti viene in mente pure Olivier Marchal e allora addio, non c'è più niente da fare, buonanotte e arrivederci. Tra l'altro Triplo gioco è anche remake di Bob il giocatore, film del 1956 diretto da Jean-Pierre Melville, non proprio l'ultimo arrivato nel campo del noir...

Bob Montagnet (Nick Nolte) è un americano trapiantato a Nizza, ladro, giocatore d'azzardo, tossicodipendente, buono di cuore (il titolo originale è Il buon ladrone con tanto di riferimento biblico). In preda ai fumi di alcool e droga, durante una serata di gioco, Bob si spende per "salvare" la giovane Anne (Nutsa Kukhianidze) da un destino di prostituzione al servizio di Remi (Marc Lavoine). Poco dopo, durante un'irruzione dei flics il buon Bob toglie dai guai anche il detective Roger (Tchéky Karyo) con il quale ha un rapporto di reciproco rispetto, lo stesso detective preferirebbe non vedere Montagnet dall'altra parte delle sbarre. È un periodo dove per Bob sembra che la fortuna guardi costantemente dall'altra parte e, per un giocatore pieno di vizi come lui, questo è un bel problema. Così quando l'amico Raoul (Gèrard Damon) gli propone un grosso colpo al casinò Riviera di Montecarlo a Bob non resterà che accettare e mettere su una squadra che lavorerà su un duplice obiettivo, tra i componenti il giovane maghrebino Paulo (Saïd Taghmaoui) che perderà un po' la testa per la bella Anne, e il contatto Vladimir (Emir Kusturica), l'uomo che ha installato il sistema di sorveglianza del casinò.

Nulla da dire sotto il profilo della realizzazione tecnica, come già accennato la regia di Jordan non è per nulla noiosa, si appoggia alla fotografia originale di Chris Menges che riesce a creare diversi momenti stranianti, gioca con gli stacchi repentini garantiti dalla tecnica del freeze frame (forse se ne abusa anche un po'), valorizza la musica di Goldenthal e questa le immagini, al centro della scena un'ottimo Nick Nolte. Eppure il film non ci tocca, non lascia il segno, personaggi di contorno poco o nulla approfonditi a eccezione di un lieve tratteggio per la giovane Anne, sotto i riflettori c'è Bob con una storia che, a parte per i primi minuti di film, perde presto la sua aura maudit per entrare nel gioco intuibile dell'heist, né troppo glamour né particolarmente ficcante. Non siamo di fronte a un Ocean's eleven (e questo può essere anche un bene per un noir) ma nemmeno al cospetto di uno di quei grandi esiti di genere che il cinema francese ha saputo regalarci nel corso degli anni (il film è una coproduzione tra più paesi). Come si diceva in principio l'impressione è che manchi qualcosa, la giusta profondità, la veridicità d'ambiente nonostante il milieu multiculturale assemblato per il film, comparsata di Ralph Fiennes, abbastanza innocua anche questa, e più o meno è tutto. Visione consigliata per chi ama il genere, in fondo è giusto giudicare sempre con i propri occhi, a parere di chi scrive Triplo gioco è un film che non trova motivi per imprimersi nella memoria dello spettatore.

martedì 3 maggio 2022

THE SUICIDE SQUAD - MISSIONE SUICIDA

(The Suicide Squad di James Gunn, 2021)

Il film di supereroi, o cinecomics se preferite, l'abbiamo visto declinato ormai in molte vesti: se a volte può affiorare durante la visione di qualcuno di questi un po' di stanchezza, magari l'impressione di trovarsi troppo spesso nel campo del già visto e della ripetizione (soprattutto al cinema, con le serie si sperimenta un po' di più), non sono di certo mancati i guizzi e i prodotti capaci di spaziare dal davvero buono all'ottimo, con alcune vette assolutamente degne di nota. È un ramo della cinematografia ancora molto vivo, fondamentale per le sale e per alcune case di produzione, viatico di fama e grandi ingaggi per le star e fonte di ore e ore di sano divertimento per i fan. Questa premessa per dire che sarebbe difficile fare un discorso globale sul fenomeno in poco spazio come sarebbe ingiusto collocare indistintamente in un ipotetico calderone tutto ciò che è stato prodotto nel campo, perché se le schifezze non sono mancate (soprattutto lato D.C.), il mondo dei fumetti ci ha regalato anche grandi ispirazioni, e di nuovo possiamo rimanere in casa D.C. (ma fuori dal D.C. Extended Universe con il Joker di Todd Phillips o con il Batman di Nolan). Ora ammetto di avere una decisa propensione al lato Marvel della forza, almeno se rimaniamo nel canone e quindi, per la Distinta Concorrenza, all'interno del DCEU; i film dell'universo condiviso di casa D.C. li ho trovati quasi tutti cosparsi di difetti, spesso noiosi, poco coinvolgenti e capaci di sprecare un'iconografia forse addirittura superiore a quella Marvel: voglio dire... Batman, Superman, Flash, Wonder Woman, la Justice League, non proprio delle mezze calzette, detto questo credo proprio che Missione suicida, contro ogni previsione alla luce del fallimentare primo capitolo, possa annoverarsi tra i migliori cinecomics finora realizzati (sempre rimanendo nel canone) grazie a un piglio scanzonato che non si prende mai troppo sul serio (Snyder magari potrebbe prendere qualche appunto) e a un dosaggio di estremismo, irriverenza e violenza che, pur non sconfinando nell'esagerazione, in casa Disney/Marvel oggi ce lo possiamo sognare. Probabilmente l'aver lasciato migrare James Gunn dall'altra parte, anche se solo temporaneamente, ha dato i suoi frutti: noi abbiamo guadagnato un film parecchio divertente, il migliore dell'intero Extended Universe (1), la D.C./Warner delle buone critiche (finalmente) e  la Marvel ha parato il colpo visto che gli incassi alla fine non sono stati poi così buoni, probabilmente influenzati dal primo inutile Suicide Squad di Ayer.

Si riparte più o meno da zero, senza troppi collegamenti al passato. James Gunn apre ripetendo il concetto alla base della Suicide Squad, una squadra composta da criminali sacrificabili, intercambiabili e ricattabili (con tanto di impianto esplosivo in testa per renderli obbedienti) mandati dalla cinica e spietata Amanda Waller (Viola Davis) a compiere missioni segrete e pericolose per le quali l'intervento ufficiale degli U.S.A. è meglio che venga lasciato da parte. In questo caso sono ben due le squadre allestite dalla Waller, una con funzione di mero specchietto per le allodole, la missione sarà quella di sbarcare sull'isola di Corto Maltese e dismettere il progetto Starfish, potenzialmente molto pericoloso per gli U.S.A. e non solo, nel farlo i nostri dovranno ottenere l'aiuto forzato del dottor Greves (Peter Capaldi), uno scienziato noto come Thinker che sta cercando di sottomettere una potentissima entità aliena a forma di stella marina nell'universo D.C. nota come Starro. Dalla vecchia incarnazione della Squad tornano la meravigliosa Harley Quinn (Margot Robbie), l'unico motivo per recuperare il film di Ayer, Capitan Boomerang (Jai Courtney) e il coordinatore sul campo Rick Flag (Joel Kinnaman), con loro i nuovi innesti: il leader Bloodsport (Idris Elba), un cecchino infallibile tenuto sotto scacco con la minaccia di ripercussioni per la figlia giovane e già delinquentella, l'altro cecchino Peacemaker (John Cena) tutto giustizia malata e "prima la missione", Ratcatcher II (Daniela Melchior), una specie di pifferaio magico controlla topi, King Shark, uno squalo antropomorfo con l'intelligenza di un bimbo di due anni mediamente poco intelligente e last but not least Polka-Dot Man (David Dastmalchian), un timidone affetto da un eritema spaziale distruttivo. Saranno cazzi da cagare per tutti.

James Gunn, con lo stesso piglio che ha reso Guardiani della Galassia uno dei film più divertenti del Marvel Cinematic Universe, passa alla Distinta Concorrenza e fa di nuovo centro facendo dimenticare agli spettatori il brutto Suicide Squad (quello senza articolo) di Ayer. Si abbandonano i toni cupi che flagellano il DCEU a causa delle manie di Snyder e si confeziona un film cazzaro ma davvero indovinato, talmente squinternato da risultare credibile. Il film non vanta forse la stessa trascinante colonna sonora usata per l'Awesome Mix di Star-Lord ma anche sotto questo punto di vista non si scherza: il film si apre in carcere con Folsom Prison Blues di Johnny Cash e poi con i The Decemberists, si parte con il piede giusto, lo spettatore già si sente comodo, il personale che assembla la Squad scommette su chi schiatterà per primo, i personaggi della squadra secondaria sono uno più assurdo dell'altro (l'uomo donnola e la sua sorte sono esilaranti), si cita uno dei miti del fumetto con l'isola di Corto Maltese e si inizia poi per davvero tra scritte cool in sovrimpressione e squarci di violenza non troppo edulcorati. È un accumulo di trovate continuo quello di Gunn (l'eritema spaziale, il dramma sconclusionato di Harley, la coreografia pop della Robbie su fondo floreale, tutto ma davvero tutto ciò che riguarda King Shark, etc...) che non manca però di tenere d'occhio sempre il lato sentimentale dei personaggi, almeno quelli più umani come il Bloodsport del roccioso Idris Elba o la dolce Ratcatcher, una vera principessa dei topi (Ehi, Ratatouille!), per gli altri ci sono scene idiote ma molto divertenti, il rapporto di Polka-Dot Man con la madre per esempio, tutto gestito da una regia vivace con diversi bei momenti anche dal punto di vista visivo, uno su tutti la splendida intuizione di usare il villain Starro come un kaijū della tradizione giapponese. Dopo due ore di puro divertimento Gunn si concede anche un bel calcio nelle palle alla gestione politica degli Stati Uniti sempre bravi a gestire le loro crisi in casa d'altri. Alla fine viene fuori la potenzialità del cinecomics quando questo non è troppo imbrigliato da perbenismo e cose che non si possono dire e che non si possono fare. Il miglior film del D.C. Extended Universe senza se e senza ma.

1) Segnalo, a scanso di equivoci, di non aver visto Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn.

domenica 1 maggio 2022

APOLLO 10 E MEZZO

(Apollo 10 1⁄2: A space age childhood di Richard Linklater, 2022)

All'interno di una proposta cinematografica (le serie sono un discorso a parte) che spesso offre una pletora di prodotti medi non sempre memorabili, ogni tot di tempo Netflix ci stupisce con un botto d'autore o con opere parecchio interessanti, vengono in mente ad esempio È stata la mano di Dio di Sorrentino, il The irishman di Scorsese, anche il divertente Don't look up di McKay, le ultime cose di Spike Lee o Roma di Cuarón e via discorrendo. Ora, senza troppi clamori, arriva il turno dell'ultima opera di Richard Linklater, regista interessante che ancora una volta colpisce nel segno con un film riuscitissimo e anche parecchio originale, in parte autobiografico, almeno per quelli che sono i ricordi personali di un'epoca ormai lontana e che coglie bene non solo un momento storico, un decennio, un evento, ma anche un'età, un istante nel tempo che (forse) è stato suo così come viene narrato in Apollo 10 e mezzo, ma che sicuramente è stato di tutti nei sentimenti, nelle sensazioni, nelle esperienze, per quanto queste possano essere state dissimili per epoca e luoghi (non tutti siamo cresciuti nell'America degli anni 60 ovviamente). Sebbene ci sia uno spunto finzionale nella narrazione di Linklater, quello che esce con prepotenza lungo lo srotolarsi del film e che si prende pian piano tutta la scena, è il flusso dei ricordi di giovinezza del protagonista, Stan, un bambino che all'epoca della corsa allo spazio, siamo appunto nei 60 a Houston (abbiamo un problema), aveva circa dieci anni. La sua infanzia, quella dei suoi fratelli, quella dei ragazzi del vicinato e in generale stile e prospettive di vita degli americani dell'epoca sono il nodo focale di un'amarcord molto dolce a dispetto di tutto, questioni sociali e guerra del Vietnam compresi, perché soprattutto per i ragazzini c'era ancora quella consapevolezza che in fondo si poteva ancora "scivolare nel sonno, sapendo che tutto sarebbe andato bene".

Siamo sul finire degli anni 60, l'America, come il resto del mondo d'altronde, è in trepidante attesa del momento in cui l'uomo per la prima volta nella Storia poggerà piede sulla Luna. Stan è un bambino di circa nove anni che vive a pochi chilometri dal centro di controllo della N.A.S.A. a Houston; è proprio qui che il papà di Stan lavora, un semplice impiegato dell'ufficio acquisti. In quegli anni Houston sembra una città in piena espansione, proprio grazie all'attività spaziale sorgono nuovi quartieri residenziali, molte famiglie vi si stabiliscono, proprio come quella di Stan formata da mamma (casalinga), papà e ben sei figli Stan compreso, tre maschi e tre femmine di cui il nostro protagonista è il più giovane. Tempo di ultimi test prima della missione Apollo 11, ora accade che, per un errore di progettazione, il velivolo di test che servirà a preparare il volo di Aldrin, Armstrong e Collins venga realizzato in scala troppo ridotta per i tre astronauti adulti, le menti fini della N.A.S.A. penseranno bene di far testare il tutto a un bambino, la scelta ricadrà proprio su Stan, tutta la missione però dovrà ovviamente svolgersi nel più assoluto riserbo mentre sullo sfondo proseguono le contestazioni del '68 e i giovani americani continuano a morire in Vietnam.

La trama imbastita da Linklater, quella di un giovane Stan collaudatore per la N.A.S.A., è un mero pretesto per mettere in scena un viaggio sul viale dei ricordi, un'affettuosa e coinvolgente ricostruzione di un'epoca, di sentimenti sepolti nel passato, di un momento storico irripetibile; è questo l'aspetto del film prevalente e che si mangerà quel filo di trama assolutamente marginale, ed è anche ciò che più cattura l'attenzione dello spettatore. Voce off quasi onnipresente, è il racconto dell'autore a portarci alla sua infanzia; per rendere la meraviglia di un periodo che all'apparenza vedeva il futuro spianarsi roseo per le giovani generazioni di americani bianchi, borghesi e tutto sommato benestanti, Linklater per la terza volta nella sua filmografia ricorre alla tecnica del rotoscopio, questa permette di convertire il girato effettuato con veri attori in animazione donando all'effetto finale, almeno in questo caso, sia un tocco sognante, quasi magico, ma anche un forte approccio fotorealistico. Quella che si respira è un'aria di fiducia, di ottimismo, un'America con consumi in crescita, una società del capitale in espansione nonostante le attenzioni al risparmio (la famiglia di Stan è composta da otto persone e un solo lavoratore) e all'ecologia, in questa situazione ci sono ragazzini per lo più spensierati, attratti dalla corsa alla Luna che a Houston (un po' come in tutta la nazione) si respira più o meno ovunque, ci sono poi giovani più grandi attenti ai cambiamenti della società, alla guerra, ai nuovi fenomeni musicali e culturali.

Tecnicamente molto indovinato, la realizzazione animata restituisce un'aria sognante che ben si sposa all'ottimismo di fondo e permette tutta una serie di variazioni visive quando si passa a raccontare i filmati televisivi d'epoca, i discorsi del presidente, i reportage di guerra, l'elenco vastissimo di serial televisivi, film, giochi da tavolo e altro ancora che allietavano le giornate dei ragazzi nei 60. La forma della narrazione passa dal classico racconto a un piglio ora più documentaristico, ora più legato a un libero flusso di ricordi, è un viaggio tenerissimo quello che Linklater ci propone, il sottotitolo originale non per nulla è A space age childhood (Un'infanzia dell'epoca spaziale), un'incursione in una terra di nuove prospettive in un Paese che innocente assolutamente non era ma che ancora poteva sembrarlo agli occhi dei giovani ragazzini e a quelli di alcuni dei loro genitori.

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