domenica 30 agosto 2020

1917

 (di Sam Mendes, 2019)

1917 è un capolavoro di tecnica, soprattutto per ciò che concerne il comparto sonoro, caratteristica del film che contribuisce in maniera forte a un'esperienza sensoriale immersiva, insieme a una fotografia indovinata e ai lunghissimi pianosequenza (non è uno solo come si è detto, probabilmente anche più dei due raccordati da quella virata al nero ben visibile) che donano l'impressione, falsa, di vivere insieme ai due protagonisti la loro vicenda in tempo reale. Al netto di qualche espediente il risultato è impressionante ed encomiabile, nonostante una sceneggiatura semplicissima l'uso pregevole della tecnica insieme a un'ottima calibrazione della tensione costruisce un war movie godibilissimo e a più riprese angosciante. Proprio su questo versante gli effetti sonori contribuiscono alla tensione meglio dei più riusciti jump scare in campo horror, più di una volta si salta sulla poltrona (il film è da guardare in cuffia assolutamente) avvinti da ogni gesto, anche minimo, che può scagliare i due protagonisti improvvisamente nell'inferno scatenato dallo scenario di guerra, ogni evento, anche quelli all'apparenza lontani, può creare una situazione di pericolo potenzialmente mortale.

Prima Guerra Mondiale, territorio delle Fiandre. Ai caporali Blake (Dean-Charles Chapman) e Schofield (George MacKay) viene affidato un incarico molto importante dal Generale Erinmore (Colin Firth). All'apparenza i tedeschi battono in ritirata, in realtà una nuova linea di difesa, ben strutturata e organizzata, sta attirando in una trappola mortale il Secondo Battaglione del Devonshire, più di 1500 uomini stanno andando verso morte certa tra i quali anche il Tenente Blake (Richard Madden), fratello di uno dei due caporali che hanno il compito di raggiungere il battaglione e portare al Colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) l'ordine del Generale di cessare l'attacco.

La trama è semplicissima, una missione estremamente pericolosa attraverso le linee nemiche, due soldati con l'unico compito di non farsi ammazzare per evitare il massacro di innumerevoli loro commilitoni. Mendes parte da subito con questo fantastico pianosequenza che segue i due soldati per la quasi totalità della loro missione, lo stratagemma porta lo spettatore sul campo di battaglia, sensazione acuita dal sonoro spettacolare di cui si accennava prima e da un lavoro sopraffino sulle scenografie e le location. Lo spettatore si ritrova in mezzo al fango insieme a Blake e Schofield, in trincea, all'interno dei rifugi tedeschi, sotto un cielo solcato dai caccia da guerra, tutte le sensazioni sono vivide. 1917 mischia i sentimenti dei due caporali, quello di estrema decisione di Blake che deve avvisare suo fratello prima che incorra nella trappola mortale, in barba a tutti i rischi e i pericoli, e quello di grande timore di Schofield consapevole di essersi imbarcato in un'azione dalla quale difficilmente uscirà vivo. La camera è quasi sempre molto ravvicinata ai protagonisti, la tensione è palpabile, l'orrore della guerra, la paura di questi ragazzi emergono e colpiscono come un pugno allo stomaco, la sensazione di angoscia per le sorti di questi due giovani, più di quella degli altri 1600, è reale e concreta.

Ottimo film, seppur costruito su una trama esile assesta diversi punti di scarto anche a opere come il Dunkirk di Nolan comunque apprezzato da queste parti, coinvolgimento totale, emotivo, capace di lasciare il segno. Meritatissimi gli Oscar tecnici portati a casa dal film (fotografia, effetti speciali, sonoro), ottimo cast, insieme agli attori già nominati anche Andrew Scott e Mark Strong, regia di altissimo livello che agli Oscar non ha trionfato solo perché la cinquina era spietata (Bong Joon-ho, Tarantino, Scorsese, Mendes e il Phillips di Joker). In fondo, è anche l'ennesimo film che sottolinea, come è giusto e necessario che sia, l'orrore di una guerra che per il genere umano sembra irrimediabilmente senza fine.

giovedì 27 agosto 2020

PARNASSUS - L'UOMO CHE VOLEVA INGANNARE IL DIAVOLO

(The Imaginarium of Doctor Parnassus di Terry Gilliam, 2009)

"Nulla è per sempre, neanche la morte"

Mentre Johnny Depp recitava queste poche parole Heath Ledger ci aveva già lasciati. Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo viene ricordato più per essere l'ultimo lavoro dell'attore all'epoca sulla cresta dell'onda che non per il voluttuoso lavoro immaginifico messo in scena da Terry Gilliam. Seppur visionario, scenograficamente interessante e nel solco di alcune cose fatte in passato dall'ex Monty Phyton, l'eco del film venne indubbiamente e comprensibilmente amplificata dalla dipartita del giovane divo la cui interpretazione rimane tra le cose più belle di questo film, insieme ad altre scelte di casting, e non mi riferisco ai nomi illustri chiamati a concludere con rispetto e sincero affetto il lavoro lasciato incompiuto da Ledger (Johnny Depp, Colin Farrell e Jude Law) quanto piuttosto a Christopher Plummer nei panni del Dott. Parnassus e il mefistofelico Tom Waits in quelli del Diavolo.

Messa da parte la triste vicenda del giovane attore, che qui offre una prova che lascia un ottimo ricordo e diversi rimpianti per quel che ancora poteva essere (oltre al dolore per una morte prematura), Parnassus è il film ideale per chi ama le atmosfere costruite, teatrali, che richiamano molto il lato artigianale delle scenografia, del set, del ricreare mondi altri e smaccatamente fantastici ma allo stesso tempo posticci; devo ammettere di non rientrare tra gli ammiratori del filone e infatti, non fosse per alcune buone prove d'attore, il film raramente è riuscito a suscitare in me moti d'interesse se non per un'oggettivo apprezzamento per il lavoro delle maestranze su costumi, scenografie, luci.


Londra. Arriva in città il piccolo carrozzone del Dottor Parnassus che insieme alla giovane figlia Valentina (Lily Cole), all'aiutante Anton (Andrew Garfield), al nano Percy (Verne Troyer) e in seguito allo strano aspirante suicida Anthony (Heath Ledger) mette in scena uno spettacolo dagli strani risvolti. Infatti il vecchio Parnassus è uso a scommettere e giocare con il Diavolo, ma la sua ultima scommessa, pur avendolo reso felice per lungo tempo, ora deve essere pagata e a farne le spese potrebbe essere proprio la fedele Valentina in procinto di compiere il suo sedicesimo compleanno. Ma a dare una svolta alla situazione arriva proprio Anthony appeso a un cappio, ma anche sulla sua figura gli sviluppi saranno imprevedibili.


Al centro del palco del Dottor Parnassus c'è uno specchio, dietro quello specchio si aprono desideri, mondi da favola lisergica, cartoonesca, sogni a tinte pastello fatti di scarpe giganti, volti cangianti, scale infinite proiettate verso il cielo, c'è tutta la fantasia di Gilliam, lunga quanto una sfida infinita tra un uomo e un diavolo, c'è un gusto retrò e una ricerca per ciò che l'occhio vuole, poi c'è una storia, non così eccezionale, non così memorabile. Poi, purtroppo, c'è la tragedia a rendere tutto indimenticabile. Indubbiamente un bel film per chi ama questo tipo di film, per chi apprezza enormemente l'aspetto visivo dei film di Burton ad esempio, per chi ama le favole. Per tutti gli altri, insomma... poco rimane.

martedì 25 agosto 2020

LOVE AND HONOR

(Bushi no Ichibun di Yoji Yamada, 2006)

C'è una poetica nel Cinema di Yoji Yamada, sia che ci mostri il contemporaneo, il passato più recente, quello più lontano o addirittura come in questo caso decisamente un'altro periodo storico. C'è la sensibilità di mostrare il mondo, la Storia, dall'interno di una casa, partendo dal nucleo delle famiglie, da una piccola cellula il racconto si amplia per diventare metafora di un'intera società, di una comunità, di una nazione, arrivando a toccare poi temi universali. Tutto è narrato con pudore, equilibrio, grazia, quasi come se in fondo il racconto volesse rimanere vicino e rispettoso di una dimensione privata, con le sue dinamiche, i suoi dolori, le sue piccole gioie. Allo spettatore il compito poi di allargare, approfondire e contestualizzare concetti, accenni, spunti lasciati con garbo da un regista che arriva da un'altra epoca, classe 1931 e in attesa di compiere i suoi primi novant'anni.

Love and honor è parte di una trilogia recente che Yamada dedica alla figura del samurai, siamo nell'epoca Edo (nome storico della città di Tokyo), il samurai Shinnojo Mimura (Takuya Kimura) è sposato con la bella Kayo (Rei Dan), donna molto ammirata, e lavora al servizio del suo signore feudale come assaggiatore, uno dei samurai che provano il cibo del padrone per controllare che non sia avvelenato. Seppur ben retribuito, il sogno di Shinnojo è quello di lasciare quel posto al castello e aprire una scuola per insegnare il kendo ai bambini, senza fare distinzione per i suoi allievi di casta e classe sociale. Purtroppo prima che il sogno si realizzi accade l'irreparabile e Shinnojo perderà la vista a causa di un'intossicazione, verrà accudito dalla moglie e dal fedele servo Tokuhei (Takashi Sasano). Oltre al problema economico che si viene a creare per la famiglia, Shinnojo si troverà a dover difendere il suo onore di samurai e quello di Kayo, disposta a ogni sacrificio pur di aiutare l'amato marito ormai invalido.


Forse meno ricco di sfumature rispetto ad altri film di Yamada, Love and honor formalmente restituisce l'idea del set: le molte scene ambientate all'interno o nei pressi della casa dei protagonisti, casa come da tradizione giapponese costruita tutta in legno, dà proprio l'idea della classica quinta teatrale, il numero limitato delle location, l'esiguità degli esterni rafforzano l'idea del girato in studio. Non mancano come in altre occasioni le piccole critiche mosse a un passato che non è esente da errori e soprusi, non dimentichiamo che rispetto ad altri paesi il Giappone è uscito da quella che può essere paragonata alla nostra epoca medievale in tempi relativamente molto recenti, in cui convenzioni arcaiche come la divisione rigida in caste hanno caratterizzato la vita della società nipponica per moltissimo tempo. Ancora una volta l'amore è il cuore della vicenda, in questo caso evidenziato dal rapporto di grande affetto e rispetto tra Shinnojo e Kayo mentre a Tokuhei tocca la funzione di alleggerimento che non manca mai nei film di Yamada con il classico personaggio impacciato e imbranato. Da segnalare la figura del samurai cieco che ricorre nella filmografia orientale (e non solo e penso a Furia ceca).


Come si accennava poc'anzi un film più lineare di altre opere del regista, un'altro valido tassello nella filmografia sterminata di Yamada, perde nel confronto con opere come Tokyo family o Kabei ma anche Love and honor si ritaglia il suo spazio e resta un'opera meritoria a cui concedere un'occasione.

domenica 23 agosto 2020

CUJO

 (di Stephen King, 1981)

Per chi ha iniziato ad avvicinarsi alla lettura "adulta" con i romanzi del Re, e ne conosco parecchie di persone che hanno seguito questo percorso, Castle Rock è un po' un luogo dell'anima letterario, la piccola cittadina, i suoi dintorni, i territori colmi di boschi del Maine, le sue strade poco trafficate, sono luoghi ai quali si torna sempre con grandissimo e immutato piacere, nonostante questi siano tanto belli quanto misteriosi, spesso oscuri, talvolta più banalmente pericolosi. In Cujo aleggia ancora il male associato alla figura di Frank Dodd, poliziotto assassino tra i protagonisti del precedente La zona morta; è un male vago, presente, che sembra insinuarsi negli armadi, sotto i letti, ma che non si capisce mai fino in fondo quanto abbia a che fare con la vicenda di Cujo, cane benevolo appartenente alla famiglia Camber, un San Bernardo enorme e buono che diventerà un mostro in seguito a un contagio di rabbia. L'orrore qui è nel quotidiano, con la storia di un semplice cane idrofobo, malato, ma anche con gli orrori che si annidano nelle famiglie, nei matrimoni, nei tradimenti, nell'ignoranza, nelle aspettative disattese. King qui sfoggia la prosa vivida che i suoi lettori hanno imparato ad apprezzare nei diversi capi d'opera precedenti con la consueta capacità di dare corpo a sensazioni e situazioni in maniera così sorprendentemente reale, senza ricorrere ad arzigogoli letterari, in più narra a più riprese, in soggettiva, ciò che passa nella mente del cane, oltre al punto di vista dei vari personaggi ci rende partecipi anche di quello della bestia che in questo romanzo diviene accidentalmente il male, l'avversario.

A Castle Rock è ancora vivido il ricordo delle malefatte di Dodd e all'insaputa dei suoi cittadini si sta preparando la nuova tragedia. Tad Trenton, quattro anni, figlio di Vic e Donna Trenton, inizia ad aver paura del mostro che si nasconde nel suo armadio, un normalissimo armadio vuoto; eppure anche sua madre Donna, bella e giovane donna in crisi d'identità dopo il trasferimento da New York alla piccola cittadina del Maine, sembra ogni tanto avere qualche strano sentore riguardo quell'armadio, punto della casa che mette una certa inquietudine tanto da costringere papà Vic a redigere una magica formula anti-mostro per il piccolo Tad. A qualche miglio di distanza da casa Trenton vivono i Camber, il capofamiglia Joe è il classico bifolco di campagna, ignorante, a tratti prepotente, ma sinceramente affezionato al suo bambino, Brett, dieci anni, e al suo cane Cujo. Probabilmente, a modo suo, anche alla moglie Charity, ma Joe non lo dimostra. Lei si sente ingabbiata in una vita di provincia e miseria, legata alla fattoria con l'officina nel fienile, senza prospettive, senza stimoli e terrorizzata che quella stessa vita diventi il futuro di suo figlio Brett. A fare da catalizzatori per la maggior parte degli eventi a venire ci sono Steve Kemp, un bel restauratore di mobili con poco equilibrio e un pipistrello portatore sano del virus della rabbia. Quando Steve incontra Donna e il pipistrello incontra Cujo...

Siamo sul cambio di decennio, Stephen King ha già pubblicato alcuni dei suoi capolavori: Carrie, La zona morta, L'ombra dello scorpione, Le notti di Salem, Shining e a firma Richard Bachman Ossessione e La lunga marcia. Cujo è uno dei suoi romanzi più terreni, il sovrannaturale è solo evocato, non di meno il romanzo risulta avvincente e scritto meravigliosamente, oltre alla storia di questo cane impazzito, un piccolo colosso vicino ai cento chili di peso la cui follia procurerà grossi grattacapi a più d'un abitante di Castle Rock, King delinea molto bene la situazione delle due famiglie protagoniste, i Trenton, giovane coppia con un bimbo ancora piccolo che si prepara ad affrontare un piccolo terremoto legato alle difficoltà dell'agenzia pubblicitaria di cui Vic è socio. Proprio l'attività di Vic è stata la causa del trasferimento di Donna da una grande città, la città per eccellenza, a un piccolo paesino dove Donna non ha un vero ruolo se non quello di madre che vede crescere il suo bambino e i suoi tempi morti, situazione che metterà in pericolo il menage familiare. Anche i Camber non sono tranquilli, Charity vive nella costrizione di una situazione che non sopporta più da tempo, con un marito bifolco e padrone e con la paura dell'assenza di un futuro per il figlio. Proprio in queste dinamiche si mostra tutta la maestria da grande scrittore di King, capitolo dopo capitolo, paragrafo dopo paragrafo, il lettore entra con naturalezza dentro le dinamiche familiari dei protagonisti e il romanzo, oltre ad essere una storia d'orrori reali, diventa il romanzo di molte vite, del quotidiano, dell'uomo, dove l'orrore diventa catalizzatore di cambiamento per situazioni ormai non più funzionanti. Cujo all'interno di una bibliografia ormai sterminata, è un romanzo sottostimato, pur non toccando le vette creative di alcuni dei libri sopra citati rimane un romanzo avvincente, scritto in maniera ottima e che esula dal genere per riportare uno spaccato della vita di provincia. Ormai anche i detrattori della prima ora hanno dovuto ricredersi, King è uno scrittore che di diritto sta tra i grandi della letteratura, rimane chi guarda al genere con la puzza sotto il naso, ma le atmosfere, le dinamiche, il coinvolgimento, la resa d'ambiente che sa portare il Re sulla pagina hanno davvero pochi rivali. Lunga vita al Re.

venerdì 21 agosto 2020

MARY E IL FIORE DELLA STREGA

(Meari to Majo no Hana di Hiromasa Yonebayashi, 2018)

Hiromasa Yonebayashi è un esule dello Studio Ghibli all'interno del quale ha siglato come regista due ottimi lavori, Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento e Quando c'era Marnie, e ha collaborato come animatore a numerosi altri titoli di successo tra i quali Princess Mononoke, La città incantata, Ponyo sulla scogliera, Il castello errante di Howl e altri lungometraggi dello studio. Nel 2015, insieme a Yoshiaki Nishimura e ad altri animatori lascia lo studio di Miyazaki e Takahata per intraprendere una nuova avventura e fondare lo Studio Ponoc del quale questo Mary e il fiore della strega è il lungo d'esordio firmato alla regia proprio da Yonebayashi. Il film non si discosta molto dai temi cari allo Studio Ghibli e a Miyazaki, nonostante Mary e il fiore della strega si riveli un bel film d'esordio pecca un poco di scarsa originalità e sembra seguire pedissequamente i dettami costruiti negli anni all'interno di Ghibli pur non toccandone le stesse vette creative. Il target è individuato in un pubblico di età preadolescenziale, l'eroina protagonista (prima caratteristica ereditata dalle esperienze precedenti) ricorda un po' la Kiki di Consegne a domicilio - torna anche la scopa volante - per l'empatia che può creare nel pubblico giovane soprattutto femminile, è presente in maniera forte l'elemento fantastico predominante nella pellicola, altro marchio di fabbrica dello Studio Ghibli.

Il racconto è tratto dal libro La piccola scopa della scrittrice inglese Mary Stewart, nel prologo si vede una giovane strega precipitare in un bosco con la sua scopa volante e venire inghiottita dalla vegetazione circostante. Anni dopo la preadolescente Mary si trasferisce dalla vecchia zia per passare l'estate prima dell'inizio della scuola; Mary è una bimba vivace, un po' pasticciona e combinaguai che si annoia terribilmente in quel posto dove non ci sono altri bambini (tranne Peter e i suoi gatti Tib e Gib). Un giorno, inseguendo nella foresta uno dei due gatti, Mary trova uno splendido fiore blu e una vecchia scopa abbandonata, l'unione di questi due elementi donerà alla ragazza la possibilità di volare in groppa alla scopa e di raggiungere involontariamente la scuola di stregoneria di Endor, retta da Madame Mumblechook e dal Dottor Dee, personaggi fantastici intenti in strani esperimenti con la natura. Dapprincipio Mary viene scambiata per una giovane strega di grande talento, i suoi capelli rossi sono segno di potenza a Endor, finalmente Mary trova una dimensione dove viene apprezzata e si sente, dopo tanti giorni di noia, coinvolta ed entusiasta. Ma non tutto a Endor è cosi fantastico come sembra.


In Mary e il fiore della strega abbiamo molte delle caratteristiche che abbiamo imparato ad apprezzare negli anni in cui si è sviluppata la storia dello Studio Ghibli, come spesso accade nei film di Miyazaki, ma anche nei precedenti di Yonebayashi, la protagonista è una bambina immersa in un mondo fantastico, anche alcune trovate visive sono un ritorno al passato (quella sorta di pesci volanti per esempio), il romanzo di formazione della protagonista incrocia tematiche ecologiche e legate alla natura qui concretizzatesi in alcune scene zeppe di animali in fuga, l'animazione si scosta un poco dal canone e si ritaglia una cifra un pochino più personale rispetto alla narrazione, pur rimanendo nei sentieri del già noto. Nel complesso abbiamo un bel film per ragazzi apprezzabile anche per il pubblico più adulto, non particolarmente originale ma comunque sempre accattivante e ben riuscito. Il film ha avuto un buon successo di pubblico incassando più dei precedenti film del regista realizzati per lo Studio Ghibli, un buon primo passo per mettere fondamenta solide che permetteranno, si spera, allo studio Ponoc di percorrere una strada più personale. Al momento c'è stata un'altra opera uscita poco dopo questa, Eroi modesti - Ponoc short film theatre, che è una raccolta di corti, l'idea di sperimentare anche con i formati lascia ben sperare in un futuro per il quale auguro allo studio di crearsi la stessa fama del suo predecessore e ora concorrente.

domenica 16 agosto 2020

LE IDI DI MARZO

(The ides of March di George Clooney, 2011)

Calata nel mondo della politica per George Clooney qui in tripla veste di sceneggiatore, attore e regista del film. Cinema d'impegno civile che guarda ai suoi predecessori degli anni 70, film molto asciutto, coinvolgente, ottima occasione per porre l'attenzione sul come la politica, tutta, senza preferenze di parte, stia sempre più scivolando in un abisso oscuro dove onestà, buoni propositi e ideali vengono divorati, masticati e risputati dalle odiose arti del compromesso e dell'opportunismo, politico e soprattutto personale. Per costruire questa discesa verso l'abisso, della politica ma soprattutto della morale, Clooney si avvale di un cast di livello altissimo: Paul Giamatti, Ryan Gosling, Evan Rachel Wood, Marisa Tomei, lo stesso Clooney e il sempre compianto Philip Seymour Hoffman.

Tempo di elezioni, per le primarie dei democratici si affrontano il senatore Ted Pullman e il più giovane governatore Mike Morris (George Clooney), un politico onesto, ancora poco incline ai compromessi, deciso a giocare con il suo elettorato a carte scoperte e nel massimo rispetto. A capo della sua campagna elettorale ci sono il fedele e scafato Paul Zara (Philip Seymour Hoffman) e il giovane e idealista Stephen Meyers (Ryan Gosling), quest'ultimo ha ideali saldi, fiducia incrollabile nel suo candidato e soprattutto è intelligente, piace a tutti ed è il migliore addetto stampa sulla piazza, uno capace di far guadagnare punti su punti al suo candidato. C'è un bel team dietro il governatore Morris, un team che deve tenere a bada i giornalisti, soprattutto Ida Horowicz (Marisa Tomei), e Tom Duffy (Paul Giamatti), il capo della campagna di Pullman che vorrebbe Stephen dalla sua parte. La candidatura per arrivare alle presidenziali si gioca sul filo di lana tra Ohio e North Carolina, a poter spezzare l'equilibrio ci sono i voti garantiti dal senatore Thompson (Jeffrey Wright) che bisogna portare assolutamente dalla propria parte, e il coinvolgimento di Molly (Evan Rachel Wood), bella e intelligente stagista in forza alla campagna di Morris.


Sceneggiatura solidissima che fa il grosso del lavoro portato a termine da un cast impeccabile, al centro un Ryan Gosling che, al contrario di quel che accade nelle storie edificanti, non affronta un percorso di formazione bensì uno di disfacimento, messo di fronte ai tradimenti, agli errori, agli opportunismi del mondo della politica, ne uscirà non solo scottato ma completamente cambiato e veramente pronto per affrontare ogni battaglia. Sotto accusa la pratica del compromesso al fine di raggiungere il risultato, per evitare qualsiasi strumentalizzazione Clooney sceglie di mostrarci il marcio nel campo dei democratici, a sottolineare come nessuna parte sia esente da storture. Un film di dialoghi, costruito e articolato sulle scelte personali di ogni singolo protagonista, tutti impegnati in un gioco che non è per tutti e soprattutto non è per i puri e gli idealisti. Gosling costruisce un grande lavoro di mutazione, Hoffman è un grande ormai fiaccato da quel tipo di vita, pronto a cambiarla, la Tomei è una perfetta cronista d'assalto, Giamatti un manovratore fino e con pochi scrupoli. Film molto ben riuscito, calibrato al millimetro e di grande interesse, un ottimo punto a favore del Clooney regista.

martedì 11 agosto 2020

FIRST MAN - IL PRIMO UOMO

(First man di Damien Chazelle, 2018)

C'era molta attesa per il nuovo film di Damien Chazelle dopo il buon esito del brillante La la land, purtroppo con First Man il giovane regista allestisce un classico biopic di buona fattura ma che emoziona poco, non dona particolari sussulti e che può coinvolgere appieno giusto lo spettatore appassionato della figura di Neil Armstrong e della corsa alla Luna, evento da leggere più come ricerca di una supremazia d'immagine nella Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica che non come un'impresa con una reale utilità se non quella di alimentare sogni, ossessioni e desideri degli uomini coinvolti nel progetto. Certo, l'impatto culturale dell'allunaggio è stato molto importante, in fondo siamo ancora qui a parlarne, il versante più interessante del film è però proprio quello che si sofferma sui costi della corsa allo spazio, espressi in milioni di dollari (viene ripresa anche un'intervista allo scrittore Kurt Vonnegut a riguardo, e come possiamo contraddire Kurt Vonnegut?) ma soprattutto in vite umane perse. Ne è valsa davvero la pena?


Si sceglie un taglio intimista e poco spettacolare per narrare il percorso di Armstrong (Ryan Gosling) verso la Luna, un percorso che inizia ben prima delle missioni Apollo e prima che Neil Armstrong entrasse a far parte dello staff della NASA nel 1962. Si passa dai collaudi dell'aerorazzo X-15 e gli impatti con l'atmosfera alle missioni Gemini, tappe utili per creare l'esperienza necessaria per la missione spaziale più importante, e ancora le esercitazioni di aggancio, a terra come in aria, le simulazioni di atterraggio sulla Luna tenute nel deserto americano, fino ad arrivare finalmente a quel 20 Luglio 1969. Alle spalle una serie di funerali, amici morti in servizio e il lutto perpetuo per la perdita della piccola figlia malata di tumore, un'assenza che accompagnerà il pilota per sempre, fino al momento di lasciare quell'impronta sul terreno friabile del nostro satellite. Chazelle evita di usare troppe sequenze spettacolari per raccontarci le imprese in assenza di gravità, non mancano le immagini ad effetto, soprattutto quelle del suolo lunare, ma anche queste sequenze, grazie a un sapiente uso delle musiche di fondo, rientrano in un linguaggio riflessivo e intimo, lontano dallo spettacolo hollywoodiano; l'unica concessione è quella alla tensione, quella dei momenti difficili che si creano negli abitacoli delle navicelle, resi da movimenti di macchina che ricreano in maniera molto efficace le condizioni con le quali si trovavano ad avere a che fare i piloti durante le missioni.


Armstrong viene dipinto come un personaggio schivo, introspettivo, la sua dedizione alla causa è naturale, mai esagerata, non sembra essere nemmeno troppo cercata e perseguita, è difficile intuire le motivazioni dell'uomo verso l'impresa, la dedizione a un mestiere che sta mettendo in crisi il suo matrimonio con la moglie Janet (Claire Foy) che, proprio come lo spettatore, non riesce a capire fino in fondo cosa c'è dentro l'uomo che ha sposato, e alla fine l'unica risposta sembra essere il lutto per quella piccola bambina, ma come si ricollega questo al rischio di non vedere più la moglie e i suoi due figli maschi ancora in vita? Ryan Gosling recita di conseguenza, introspettivo, pochi sussulti, mette in scena un uomo compassato, estraneo agli entusiasmi, funzionale e quindi perfetto per la NASA. Nell'economia della vicenda Collins (Lukas Haas) quasi non esiste, di Aldrin (Corey Stall) non ne esce un ritratto proprio entusiasmante, per il resto tante sequenze domestiche, quotidiane, di addestramento, a tratteggiare un uomo molto lontano dalla figura dell'eroe.

Formalmente un bel film, Chazelle ha i numeri, ha il budget, ha gli attori, un libro da cui partire, un'impresa storica. Purtroppo il tutto si traduce in un film discreto incapace di lasciare veramente il segno, soprattutto in questi anni in cui lo spazio al Cinema l'abbiamo visto davvero in tutte le salse.

domenica 9 agosto 2020

THE BOURNE SUPREMACY

(di Paul Greengrass, 2004)

Ottimo secondo capitolo per la saga di Jason Bourne che per l'occasione passa dalle mani di Doug Liman a quelle altrettanto energiche e capaci (se non di più) di Paul Greengrass. Si riprende da dove ci eravamo lasciati nel capitolo precedente, con la memoria del protagonista ancora piena di buchi e la coppia Bourne (Matt Damon) e Marie (Franca Potente) stabilitasi in India al fine di trovare un po' di isolamento e di pace. Liquidato il contributo della Potente dopo pochi minuti di film (un po' un peccato, c'era una bella alchimia tra i due protagonisti), l'esistenza rocambolesca di Bourne riprende a ritmi serratissimi.

Da un po' di tempo qualche flash dal passato riaffiora nella testa di Jason Bourne, soprattutto in sogno, una vecchia missione per la CIA, rimembranze di un omicidio portato a termine quando l'agente ancora lavorava per Conklin e per l'Operazione Treadstone (vedi The Bourne Identity). In contemporanea, a Berlino, durante una missione dell'Agenzia diretta da Pamela Landy (Joan Allen) volta a scovare una talpa nella C.I.A. e recuperare una grossa somma di denaro sottratta all'Agenzia, un agente dei Servizi russi, Kirill (Karl Urban), lascia sul luogo delle prove che incastrano Bourne come colpevole del fallimento della stessa operazione e della morte delle relative vittime; in realtà Bourne è in India a godersi l'amata Marie. Per togliere di mezzo ogni scomodo ostacolo Kirill si recherà in India per uccidere Bourne che si troverà nuovamente coinvolto in un complotto ai suoi danni di cui dovrà venire a capo con l'astuzia e con il suo addestramento.


Il sequel mantiene intatte le caratteristiche del film capostipite della saga, ancora una volta riusciamo a godere di una spy-story comprensibile e godibile a tutto tondo, cosa non scontata per il genere, anzi, magari un filo meno lineare del film precedente ma solo perché a esso, come è normale che sia, qui c'è qualche riferimento, il consiglio è quello di guardare i film della saga di Jason Bourne (tratti da i libri di Robert Ludlum) in rapida sequenza. Regia molto dinamica e immersiva per lo spettatore, Greengrass è un'amante delle camere a mano, del punto di vista al centro dell'azione come dimostrerà poi anche in Green Zone, scenario di guerra sempre con Matt Damon, e proprio l'azione è il fulcro del film, a cercarlo ci si può trovare anche qualche riferimento politico e soprattutto, nelle sequenze finali c'è una bella presa di coscienza da parte del protagonista, ma per lo più si gioca su tensione e azione spettacolare, orchestrata magistralmente la scena di inseguimento in auto per le strade di Mosca, sequenza davvero spettacolare.

Matt Damon, pur non rientrando nell'immaginario del macho, è un ottimo action man (e un ottimo attore) e un perfetto Jason Bourne, teso dall'inizio alla fine ma capace di concedersi un paio di momenti più lievi (la scena finale con la Landy) e riflessivi (quella con Oksana Akinshina). Ottimo lavoro di scrittura e di regia che non fa rimpiangere il primo capitolo e mette addosso la giusta voglia di passare a The Bourne ultimatum.

venerdì 7 agosto 2020

KABEI - OUR MOTHER

(Kabe di Yoji Yamada, 2008)

Altra incursione negli anni 40 per Yoji Yamada al tempo del secondo conflitto sino-giapponese, contemporaneo alla Seconda Guerra Mondiale e che finirà per portare allo scontro aperto tra l'Impero Giapponese e gli Stati Uniti d'America con l'attacco di Pearl Harbor. Ancora una volta, come accadrà in seguito con The little house, Yamada ci mostra il politico attraverso il privato, in quegli anni il Giappone è retto in maniera autoritaria da un regime nazionalista che non accetta critiche e dissenso da parte dei suoi cittadini, pena la reclusione a tempo indeterminato.

Il professore di lettere Shigeru Nogami (Bando Mitsugoro X), soprannominato dalle sue due giovani figlie Tobei, viene arrestato per aver diffuso idee contrarie alla politica di regime, prelevato in casa sua nottetempo davanti alla moglie e alle sue bambine, viene tradotto in una cella dove condurrà un'esistenza sempre più insalubre e precaria. In una situazione che diventa sempre più difficile per l'assenza della figura paterna al quale le bimbe sono molto legate e per una situazione economica che per la famiglia Nogami peggiora con l'inasprirsi della guerra e con l'andare del tempo, in assenza del reddito del capofamiglia sarà la madre Kayo (Sayuri Yoshinaga), detta Kabei, a doversi far carico della situazione e del benessere delle due figlie, la preadolescente Hatsubei (Mirai Shida) e la più piccola Terubei (Miku Sato). A dar loro una mano c'è uno degli studenti del professore, molto benvoluto dai suoi alunni, il giovane Yamazaki (Tadanobu Asano), tanto gentile quanto imbranato, personaggio che per molti versi ricorda lo Shoji Itakura di The little house. Nell'orbita familiare anche la sorella del professore, una studentessa d'arte più giovane del fratello, Hisako (Rei Dan), e lo zio Senkichi (Tsurube Shofukutei) dai modi quantomeno rozzi ma di buon cuore.


Il Giappone è un paese molto legato al concetto d'onore, una nazione che ha avuto una storia molto particolare ed enormemente differente dallo sviluppo che hanno seguito molti paesi europei, ancor oggi si porta dietro la vergogna della sconfitta nel conflitto mondiale, quella per un'alleanza infausta e soprattutto paga ancora il trauma delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Non è facile per i giapponesi tornare con la memoria a quei tempi, anche perché, seppur di facciata, la dinastia regnante all'epoca della guerra è la stessa che rappresenta il Giappone ancora oggi. Yamada critica apertamente la gestione degli eventi storici da parte del suo Paese, lo fa narrandoci ancora una volta una storia familiare, un microcosmo che rappresenta la parte per il tutto. Sono diversi gli aspetti presi in esame da Yamada: la mancanza di libertà d'espressione che in quegli anni portava a pene severissime per i trasgressori, quanto le "colpe" dei dissidenti si riversassero sui familiari, qui vediamo ad esempio il suocero di Tobei, ufficiale di polizia, venire colpito dall'onta di avere un cognato considerato un traditore. E ancora gli stenti e soprattutto il dolore che questa guerra farà cadere sui giapponesi come un macigno, sia a causa delle perdite subite durante gli scontri con la flotta americana ma soprattutto a causa della devastazione nucleare, argomenti sempre lambiti dal regista con un tocco delicato. Anche la regia si mantiene discreta, al servizio della narrazione, senza eccessi, gioca sul bel lavoro di ricostruzione d'epoca, su luoghi e costumi, un lavoro difficile da giudicare per l'occidentale non esperto di cultura nipponica ma sicuramente funzionale e dal giusto impatto.

Il centro della narrazione sono ancora una volta le persone, la forza di una madre che si carica sulle spalle il peso della famiglia in un periodo straziante, ancora una volta affiora l'amore, come in tutti i film di Yamada visti finora, c'è il legame tra le generazioni, la famiglia, la solidarietà. Altro esito felice per questo ottantanovenne con alle spalle un mare vasto di produzioni, un altro grande vecchio che al Cinema ha lasciato tanto, qui da noi ancora tutto da riscoprire.

martedì 4 agosto 2020

RE PER UNA NOTTE

(The king of comedy di Martin Scorsese, 1983)

Re per una notte non è tra i film più celebrati di Martin Scorsese, al momento della sua uscita non riscosse grande successo né di pubblico né di critica, in realtà nemmeno il regista aveva una gran voglia di farlo questo film, già rifiutato qualche anno prima, pare sia stato proprio De Niro a convincerlo a sposare il progetto in un periodo in cui Scorsese usciva estenuato dalle riprese di Toro Scatenato, film che valse a De Niro il suo secondo Oscar (il primo da protagonista). Per venire incontro al regista si decise di spostare la location di Re per una notte da Los Angeles a New York, città d'elezione di Scorsese, e dare il via alle riprese; indubbiamente il film, che di recente è stato anche ispirazione per il Joker di Todd Phillips, non è la stella più brillante nel firmamento scorsesiano, a conti fatti però l'opera è stata in gran misura sottostimata e può contare non solo su una grande prova d'attore, quella del solito De Niro, ma anche sul contributo preziosissimo di un inedito Jerry Lewis, vero mattatore della commedia e qui decisamente contenuto, in opposizione a un De Niro strabordante. Se nel recente Joker l'impianto sociale di contorno alla vicenda è molto più visibile e marcato, qui si accenna solamente al ruolo che possono avere avuto tutta una serie di modelli sbagliati che la società dell'ego promuove nel costruire la follia di Rupert Pupkin, un uomo dissociatosi dalla realtà che cerca il suo riscatto e il suo quarto d'ora di gloria.

Rupert Pupkin (Robert De Niro) è un uomo che vive nel sogno di diventare un celeberrimo stand-up comedian e di partecipare allo show di Jerry Langford (Jerry Lewis), il più importante conduttore televisivo del momento. Pupkin si presenta insieme a una folla di cacciatori di celebrità davanti agli studi in cui si gira lo show allo scopo di incontrare Langford, con un'espediente riesce a infilarsi nell'auto del presentatore e a farsi dare un passaggio durante il quale l'uomo assillerà Langford affinché questi visioni il suo materiale, strappandogli la promessa di un appuntamento seguendolo fin sul portone del residence dove Langford risiede. Visto il protrarsi del silenzio da parte di Langford e dopo un secco rifiuto da parte dello staff del presentatore, Pupkin, insieme a una sua amica innamorata del presentatore, la facoltosa Marsha (Sandra Bernhard), cerca un'altra via per far sì che le sue richieste vengano prese in considerazione.


Scorsese riprende ancora una volta il tema della discesa nella follia come già fece per Taxi driver (altro film che si cita come fonte d'ispirazione per il Joker), questa volta ne esplora il lato meno violento e più grottesco, una follia dettata da un desiderio di celebrità in assenza di talento, il comportamento di Pupkin, convinto d'essere un grande artista, più che creare tensione imbarazza, mette lo spettatore a disagio nei confronti di un personaggio fuori fase, sconnesso dalla realtà e che vive di sole fantasie, un immaturo che vive ancora con la madre (di cui sentiamo solo la voce, un po' come la madre del Wolowitz di The Big Bang Theory) e che recita davanti a una platea di cartone come fosse sul palco del più grande show del mondo. Non viene approfondito troppo il tema della società dell'apparenza, qui Scorsese lavora più sull'uomo, appoggiato da un De Niro enorme, una prova perfetta con diverse sequenze improvvisate completamente, controbilanciata da quello che è stato per il cinema americano il vero gigante della risata: Jerry Lewis. A lui il compito di contenere De Niro, di arginare la follia di Pupkin con una prova in sottrazione che da lui non ti aspetti e che dona maggior valore alle dinamiche tra i personaggi. La riflessione sul mondo che genera questi mostri arriva sul finale, una chiusa che lascia margine allo spettatore per un'interpretazione ambivalente. Ancora la follia di Pupkin, del singolo, o la vera follia di una società che lo celebra? (e quanti casi simili abbiamo visto nella realtà).

Altro gran film di Scorsese che si affida qui agli attori più che a una regia sfarzosa e spettacolare, un film che riesce a dipingere la lucida follia senza fare ricorso alla violenza, semplicemente portandoci nella testa di un uomo scollegato dal reale, che insegue ancora un sogno di celebrità (ir)realizzabile e un'amore per la bella della scuola (Diahnne Abbott) mai veramente sbocciato.

domenica 2 agosto 2020

LA TERRA DELL'ABBASTANZA

(di Fabio e Damiano D'Innocenzo, 2018)

Dopo aver visto Favolacce dei fratelli D'Innocenzo ho voluto recuperare anche il loro esordio, La terra dell'abbastanza, film che ha fatto conoscere i due gemelli al Festival di Berlino e che valse loro diversi premi tra i quali il Nastro d'Argento come migliori registi emergenti. Anche il loro primo film si occupa di periferie e disagio sociale, lo sguardo è di profondo pessimismo, fa specie vedere come nei film di due autori così giovani sia bandita completamente la speranza. Rispetto al successivo Favolacce questo film, seppur molto duro, risulta più ricevibile in quanto sono qui assenti i più piccoli, lo sfacelo non lo vediamo arrampicarsi sulla pelle dei bambini e il contesto narrato, pur con delle interessanti differenze, l'abbiamo già visto rappresentato sugli schermi innumerevoli volte, i due registi tra l'altro sono anche sceneggiatori del cupo Dogman del loro mentore Garrone, altro film che ben si inserisce nel filone. Ancora una volta c'è un vuoto generazionale tra gli elementi cardine del film, quell'incapacità genitoriale non solo di prendersi cura in maniera dignitosa dei propri figli, qui potrebbero intervenire mille attenuanti sociali, lo sfascio è questione di Stato, ma quel vuoto educativo e d'amore è personale, un padre (un grande Max Tortora) sbagliato, una madre (Milena Mancini) incasinata e poco "figura materna", mettono l'ultimo chiodo sulla bara di due ragazzi traviati dal contesto locale e disumanizzati da una società tutta non più in grado di passare i giusti valori.


Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano) sono amici per la pelle, discutono insieme di quale sarà il loro futuro, cazzeggiano, scelgono l'indirizzo scolastico insieme per non separarsi, biascicano parole in una cadenza che a volte è tutta da decifrare (appunto mosso più volte per i due film dei D'Innocenzo, dialoghi e audio a volte difficoltosi da comprendere). Siamo in una periferia romana che offre poche opportunità, una sera i due ragazzi, durante un'uscita in auto, investono inavvertitamente un uomo uccidendolo, presi dal panico scappano senza prestargli soccorso e senza denunciare il fatto. Si rifugiano da Danilo (Max Tortora) padre di Manolo che consiglia ai ragazzi il totale silenzio. Il giorno dopo il padre di Manolo verrà a sapere che il morto è un traditore del clan locale nel quale lui stesso ha qualche conoscenza, l'uccisione dell'uomo sarà l'occasione per Manolo e suo padre di farsi belli agli occhi del piccolo boss Angelo (Luca Zingaretti) e di avere finalmente l'occasione per "svoltare". I nuovi fatti incrinano l'amicizia tra Manolo e Mirko a causa dell'esclusione di quest'ultimo dalle nuove dinamiche, ma nel giro della malavita (dis)organizzata c'è sempre bisogno di papponi e killer incoscienti.


Quello che colpisce in questo film dei D'Innocenzo è la mancanza assoluta di caratura morale di questi giovani, un'incapacità di distinguere tra bene e male e di dare valore a un gesto, alla vite delle altre persone; due ragazzi che in apertura di film ci sembrano tutto sommato ragazzi come tanti, si scoprono privi di una basilare scala di valori, dove a frenarne l'impeto in alcune situazioni sono solo l'inesperienza e la paura, mai una valutazione che dovrebbe esistere a priori della gravità di una scelta sbagliata o di una decisione immorale. A dare corpo a Mirko e Manolo due bei volti, Olivetti e Carpenzano hanno le facce e l'attitudine giusta, anche in questa occasione i registi si confermano ottimi direttori d'attori e registi capaci di un bello sguardo, caratteristica che si evolverà nel successivo Favolacce. Manca anche qui la speranza, come capita in altre storie criminali italiane che guardano alla realtà (qui si pensa a Roma Capitale, in Gomorra alla camorra e via discorrendo) mancano totalmente lo Stato e l'autorità, la deriva verso la perdizione assume un crudele tono di naturalezza, un'evolversi scontato delle cose che non dovrebbe esistere in un paese civile. La terra dell'abbastanza sembra quasi un grido d'aiuto da parte di due giovani che sappiamo bene rimarranno in questo inascoltati (il riferimento è ai registi che stanno inscenando un'importante denuncia sociale, e non ai protagonisti del film). Ottimo esordio, registi interessanti che speriamo possano trovare in futuro un briciolo di luce a illuminare la loro terza opera, una luce di qualità come quella usata per "illuminare" i loro film.

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