domenica 27 giugno 2021

LA LUNGA MARCIA

(The long walk di Richard Bachman/Stephen King, 1979)

C'era una volta Richard Bachman. Lo scrittore in questione era un tipo schivo, defilato, un uomo nemmeno troppo simpatico si dice; Bachman vantava un passato nella marina mercantile e un paio d'anni di servizio per la Guardia Costiera statunitense, viveva in una fattoria nel New Hampshire e coltivava l'abitudine di scrivere i suoi romanzi durante le ore notturne. Richard Bachman e la moglie Claudia Inez passarono attraverso la tragedia della perdita di un figlio piccolo, morto in seguito a una caduta in un pozzo. A questo dolore, nel 1985, per la povera Claudia si aggiunge anche la perdita del marito, ucciso da tal Steve Brown, uno zelante commesso di una libreria di Washington; quest'ultimo, roso da fondati sospetti, si adoperò per fare alcune ricerche e ottenere diverse informazioni così da scoprire che i diritti d'autore dei libri di Richard Bachman finivano dritti dritti nelle tasche di Stephen King. Rendendo pubblica la notizia Brown uccise di fatto Richard Bachman. In tutto ciò la buona novella è che nessun bambino è caduto davvero nel pozzo e nessuna Claudia Inez in Bachman ne ha dovuto di conseguenza piangere la scomparsa. Come sostiene lo stesso King, Bachman è finito per morire di cancro dello pseudonimo; la seconda buona notizia in questa triste vicenda e che se lo scrittore (King, Bachman, decidete voi) non fosse stato scoperto, chissà quanti di noi i romanzi di Bachman non li avrebbero mai letti, vendendo questi giusto un decimo di quanto vendeva all'epoca uno Stephen King qualsiasi non è detto che la loro diffusione sarebbe stata esattamente la stessa. E quindi ora siamo qui con un catalogo del Re più ricco di ben cinque titoli: Ossessione (1977), La lunga marcia (1979), Uscita per l'inferno (1981), L'uomo in fuga (1982) e L'occhio del male (1984). Nell'introduzione all'edizione tascabile della Sperling de La lunga marcia Stephen King ci racconta un po' di retroscena sulla nascita e sulla morte del suo alter ego e i motivi che lo spinsero a pubblicare questi cinque romanzi a tematica prevalentemente non horror sotto pseudonimo, un'intervento parecchio sfizioso e interessante.

In uno slancio di autoanalisi lo scrittore del Maine parla di questo La lunga marcia come di un libro che presenta diversi difetti, un po' pretenzioso in alcuni passaggi, ma che tutto sommato reputa ancor oggi un buon libro al pari di Ossessione, mentre tra i romanzi firmati con il nome di Bachman elegge come migliore L'uomo in fuga e decisamente meno riusciti Uscita per l'inferno e L'occhio del male. Per quanto riguarda questo libro mi sembra che il giudizio dato dallo stesso King si possa considerare onesto e veritiero. I difetti più evidenti da rimarcare possono essere almeno due: il finale affrettato e deludente, cosa che conoscendo l'autore non stupisce più di tanto ma nemmeno intacca il piacere della lettura, e la mancanza di descrizione di un contesto allargato per inquadrare al meglio il mondo in cui si trovano ad agire i protagonisti del libro, il lettore infatti si troverà a seguire una vicenda le cui motivazioni non sono esplicitate e risultano impossibili da comprendere, si lascia alla fantasia del pubblico riempire uno sfondo che sarebbe stato interessante esplorare almeno in minima parte.

In una società che potrebbe essere simile alla nostra ma anche molto diversa, come si diceva poc'anzi non è dato saperne molto, ogni anno si corre la Lunga Marcia, una gara a eliminazione dove cento concorrenti, mediamente giovani e tutti maschi, si sfidano in una gara di resistenza in cui dal momento della partenza è vietato fermarsi, mai, nemmeno per svuotare l'intestino né per mangiare, giorno e notte in marcia, non è necessario correre ma non si può rallentare al di sotto di un'andatura minima, pena l'ammonizione. La gara è seguita e arbitrata dall'esercito capeggiato dal Maggiore, una figura misteriosa e idolatrata, il concorrente che supera le tre ammonizioni si becca il congedo, ed è un congedo permanente dalla vita, il vincitore, uno solo, l'ultimo a rimanere in piedi, la realizzazione di tutti i suoi desideri per il resto della vita. Motivazioni della gara? Impatto sulla società? Non è dato sapere.

Fin dal principio Stephen King ci fa seguire quella che sarà la drammatica esperienza nella Lunga Marcia di uno dei partecipanti, Ray Garraty, un ragazzo originario del Maine con una bella ragazza ad aspettarlo a casa, una madre preoccupata e contraria a questa follia; con il passare delle pagine conosceremo alcuni degli altri partecipanti alla marcia con i loro tratti distintivi: il leale Peter McVries, uno tra i principali compagni di viaggio per Ray, poi Art Baker, Hank Olson, l'enigmatico Stebbins, l'odioso Barkovitch e altri ancora con i quali il protagonista farà conoscenza lungo il cammino, legami destinati a spezzarsi nel giro di ore, forse giorni, in base alla resistenza di ognuno dei ragazzi. King non ci presenta tutti i partecipanti ma si concentra sulle reazioni di una selezione di questi alla straordinaria e pericolosa situazione, sui loro racconti, sulle dinamiche di gruppo ma soprattutto sul rapporto di ognuno di loro con la scelta compiuta, quella di partecipare a un gioco al massacro, sulle motivazioni che li hanno mossi a un atto quasi certamente suicida e sul rapporto degli stessi con il valore che danno alla vita e con il desiderio di sopravvivenza che sarà in tutti più forte di quello per il premio finale. I temi sono alti, lo sviluppo non così semplice e nel complesso non troppo approfondito né illuminante, però rimane di fondo una buona storia che, seguendo il ritmo della corsa, non permette rallentamenti e il libro infatti si divora in pochi giorni. Sono pochi gli elementi in campo: i concorrenti, l'esercito, la folla acclamante, la strada. Tutto si regge sul confronto tra i ragazzi, sui loro pensieri, sui rapporti tra i concorrenti, quello che può avvenire il lettore più o meno può immaginarlo, la curiosità sta tutta nel come.

È un buon libro La lunga marcia, come dice King funziona bene ancora oggi, non è sicuramente tra i migliori esiti del Re, indubbiamente avrebbe avuto bisogno di un maggior ricamo di contorno e di un finale meno ermetico, però, scritto da un Richard Bachman qualsiasi e piazzato sugli scaffali degli autogrill...

venerdì 25 giugno 2021

LA CRUNA DELL'AGO

(Eye of the needle di Richard Marquand, 1981)

Richard Marquand è un nome che potrebbe non dire molto anche a parecchi amanti della Settima Arte, il regista gallese scompare infatti prematuramente nemmeno cinquantenne a causa di un ictus lasciando poco più di una manciata di titoli, è uno di quei registi che hanno siglato almeno un film di grandissimo successo ma che nessuno ricorda, sua è infatti la regia de Il ritorno dello Jedi sotto la supervisione di Lucas, tra le altre sue opere quella di maggior credito è proprio questo La cruna dell'ago, un war movie di stampo spionistico tratto da uno dei meglio riusciti libri di Ken Follett grazie alla cui regia Lucas decise di scegliere proprio Marquand per il terzo (o sesto se preferite) capitolo della saga di Star Wars. La cruna dell'ago è un film di stampo molto classico che riesce a sintetizzare al meglio il libro di Follett e che ne cattura molto bene lo spirito, senza eccedere nella messa in scena e soprattutto nella descrizione dei personaggi sui quali si lavora in maniera molto accurata e con un'attenzione che veicola il coinvolgimento emotivo dello spettatore.

Seconda Guerra Mondiale. Henry Faber (Donald Sutherland) è una spia tedesca infiltrata nella società britannica; conosciuto come l'Ago per la sua abitudine a eliminare chi gli intralcia la strada con uno stiletto, Faber ha il compito di capire da dove l'esercito americano stia pianificando di sbarcare in Europa e attaccare le forze di Hitler. Dato che il fuhrer sembra fidarsi solo di lui, nel momento in cui scoprirà dello sbarco in Normandia Faber avrà il compito di portare di persona l'informazione in Germania. Nel tentativo di raggiungere un sottomarino alleato la spia fa però naufragio su un'isola abitata da sole quattro persone: un ex pilota dell'aviazione britannica ora invalido (Christopher Cazenove), sua moglie Lucy (Kate Nelligan), il vecchio e sempre ubriaco guardiano del faro Tom (Alex McCrindle) e il figlioletto ancora piccolo della coppia. Raccontata una storia di copertura la spia si troverà a dover affrontare il sospettoso ex militare e allo stesso tempo gestire un'amicizia destinata a diventare qualcosa di più con la di lui moglie, insoddisfatta del suo matrimonio e dei rapporti ormai assenti con il marito invalido, tutto mentre incombe la necessità di contattare il sottomarino alleato e non far scoprire alla coppia che lo ospita il suo secondo fine.

Oltre alla vicenda che inserisce La cruna dell'ago nel filone dei film di spionaggio, ciò che risulta interessante sono i contraddittori tra i due personaggi principali, Faber e Lucy. L'uomo è l'unico consapevole di tutti i risvolti della situazione, fino all'incontro con Lucy freddo, efficiente, calcolatore, critico con il regime di Hitler eppure fedele alla Germania nazista, aspetto che rimarrà tale per tutta la durata della storia. L'incontro con una donna inglese per cui Faber sembra provare più di qualcosa non può fermare il soldato, la spia, seppure in qualche modo Lucy riesca a fare breccia nell'uomo. Di contro Lucy è sincera, inconsapevole, il suo cruccio è tra la fedeltà a un marito distante e un uomo capace di darle le giuste attenzioni e anche quell'appagamento carnale assente da troppo tempo. Prima o poi però i nodi verranno al pettine e le carte andranno scoperte, è qui che la tensione si alza e i personaggi acquistano ancora spessore aiutati da una sceneggiatura ben calibrata e una regia diligente al servizio di personaggi e narrazione ma che non si preclude qualche sequenza più spettacolare (quella della tempesta ad esempio). Sicuramente molto classico, il film rispetta il libro pur non potendolo eguagliare, le descrizioni di alcuni passaggi messe nero su bianco da Follett donano al romanzo una maggiore profondità, nell'inevitabile cesura per il passaggio tra carta e video si è però operato un ottimo lavoro, dovendo scegliere il bilancino pende a favore del romanzo, il film però merita assolutamente una visione, magari previa lettura dove possibile.

martedì 22 giugno 2021

LUCA

(di Enrico Casarosa, 2021)

Con Luca la Pixar centra di nuovo il bersaglio; seppur lontano dalla profondità espressa in passato con opere capaci di far riflettere in maniera affatto superficiale anche gli adulti, il film del nostro connazionale Enrico Casarosa accontenta proprio tutti: gli spettatori più grandi che inevitabilmente possono trovare nel film quella vena nostalgica che appartiene a molti di noi e che si dimostra capace di riportarci indietro nel tempo, alle estati della nostra infanzia, per qualcuno rievocando addirittura luoghi, colori, sapori, esperienze e sensazioni, per i più piccoli Luca presenta una bellissima favola intrisa di amicizia, accettazione, integrazione e di quelle dinamiche ancora innocenti che caratterizzano i rapporti tra i coetanei dei protagonisti di questo bellissimo film. Il tutto è presentato con un'armonia rara tra i vari elementi tanto da valere a Luca diversi paragoni con la poetica dello Studio Ghibli di Miyazaki, cosa che a parer mio è uno dei complimenti più belli che un'opera di animazione possa ricevere. Se ci pensiamo le caratteristiche comuni ci sono tutte: una narrazione ad altezza di fanciullo, la presenza preponderante della natura, creature fantastiche, in questo caso marine come in Ponyo sulla scogliera, i valori dell'amicizia, la radicazione nel territorio (la Liguria di un ipotetico paesino che potrebbe stare nelle Cinque Terre), il verde e il blu, la libertà a rotta di collo con immersione negli spazi aperti (come in Conan il ragazzo del futuro), il parallelo tutto sommato non è per nulla campato per aria.

Luca Paguro è un giovane e tenero mostro marino, un pastore di pesci allo stesso tempo affascinato e timoroso nei confronti del mondo di superficie. La sua mamma e il suo papà sono terrorizzati dall'idea che il loro figlio possa essere tentato dal recarsi in esplorazione sulla terra emersa, molto più accomodante sull'argomento la nonna di Luca che in giovinezza deve averne combinata più d'una. L'indecisione di Luca verrà a morire grazie all'incontro con il più audace Alberto Scorfano, un mostro marino appassionato dei cimeli del mondo di sopra, soprattutto della mitica Vespa (siamo nei 50/60) con la quale vorrebbe esplorare il mondo. Alberto nel mondo degli umani è quasi di casa, Luca scopre così che ogni mostro marino passando in superficie può trasformarsi in umano a patto però di rimanere asciutto, l'acqua riporta inevitabilmente i mostri marini alla loro forma originaria. Nel paesino di Portorosso, dove vige un'antica tradizione di caccia al mostro marino, i due bambini conosceranno e faranno amicizia con Giulia, una coetanea di Genova che passa le sue estati insieme al papà pescatore che vive stabilmente nel piccolo e pittoresco borgo. Il sogno di Giulia è quello di vincere la Portorosso Cup, una competizione a squadre che prevede una prova di nuoto, una di ciclismo e una gran mangiata di pasta, finalmente quest'anno con Luca e Alberto avrà un valido team per sfidare Ercole Visconti, bulletto del paese e vera istituzione della Portorosso Cup.

Chiunque sia stato in Liguria può percepire il lavoro eccezionale fatto sulla creazione dei paesaggi e sulla tavolozza dei colori, oltre alla caratterizzazione molto simpatica e accattivante dei vari personaggi, anche questi studiati ad altezza bambino, sono proprio i fondali a riempire gli occhi, il film inoltre gode di un bel ritmo che alterna momenti d'azione a inseriti più riflessivi e commoventi e soprattutto Casarosa, aiutato dal fatto di essere italiano, pur caratterizzando molto il paesino di Portorosso, riesce a non cadere nella pletora di facili stereotipi che probabilmente ci avrebbe propinato un regista straniero ma coglie invece con sincerità tutta una serie di elementi che lavorano proprio sulla vena nostalgica che c'è in ognuno di noi facendoci pensare a tante piccole cose che hanno riempito momenti gioiosi della nostra infanzia (per me le vacanze in Liguria con i nonni e gli zii, le giornate al mare con i cugini, le focacce in spiaggia, il pesto a pranzo il gelato a merenda e via discorrendo). Ottimo il lavoro sul carattere dei personaggi e sulle dinamiche dei rapporti tra bambini, con la scoperta dell'altro, quel senso di avventura che si può provare solo fino a una certa età, le prime gelosie, i piccoli tradimenti, le riappacificazioni e soprattutto lo spirito dell'infanzia, della scoperta, della partecipazione. Molto riuscito anche il personaggio di Ercole che riesce a essere irritante e divertente allo stesso tempo. Davvero ben studiato questo Luca, un film che può facilmente tradursi in un'ondata di buonumore e in un inno a quelle amicizie che nascono in tenera età e sulle quali chi è più fortunato potrà contare anche negli anni più disincantati dell'età adulta.

sabato 19 giugno 2021

AL DI LÀ DELLE MONTAGNE

(Shānhé gùrén di Jia Zhang-ke, 2015)

Lo sguardo di Jia Zhang-ke torna ai mutamenti economici e culturali che travolgono la Cina del nuovo millennio e i suoi abitanti, discorso già intavolato in passato con altre opere come Still life del 2006, lo fa con un film tripartito che in più momenti e soprattutto sul finale riesce a commuovere nonostante una chiusa molto ironica a riprendere l'apertura del film e che dona alle note di Go west dei Pet Shop Boys un valore decisamente sardonico se non addirittura molto amaro. Tre tempi diversi, tutti prossimi al nostro presente, ognuno di questi ritratto con un formato cinematografico proprio, cosa che soprattutto all'inizio, nel segmento che torna al 4/3 abbandonato ormai da qualche anno, crea un po' di spaesamento visivo, acuito da alcune scelte del regista che gioca con i colori e con vari effetti di sfocatura dell'immagine con un ritorno straniante ma allo stesso tempo molto interessante. Si parte dal 1999, siamo alla svolta, Macao sta per tornare sotto il dominio cinese, il tanto decantato duemila è alle porte, la Cina vi si approccia con uno slancio sempre più proteso al capitale, al benessere fondato su un modello occidentale che per essere realizzato cozza e inevitabilmente abbatte cultura e tradizioni millenarie.

A Fenyang la giovane Tao (Zhao Tao) è oggetto dell'amore di due amici: Zhang Jinsheng (Zhang Yi), proprietario di una piccola stazione di servizio e deciso a sfruttare l'opportunità della nuova ondata capitalista, e il più modesto e timido Liangzi (Liang Jing-dong) che lavora come custode in una miniera. I tre sono amici da tempo, un'amicizia che si guasta proprio a causa della rivalità in amore tra i due ragazzi, Zhang con fare prepotente pretende che l'amico si faccia da parte, Tao dal canto suo fatica a scegliere, lo farà poi in favore del piccolo imprenditore destinato ad arricchirsi, questi comprerà anche la miniera dove lavora Liangzi rivelandosi un amico decisamente poco sincero. In questi tre personaggi c'è una più o meno velata metafora della situazione della Cina (Tao) contesa tra capitalismo occidentale (Zhang) e tradizione (Liangzi), la scelta che porta verso il capitale andrà a discapito dell'identità culturale del Paese e delle sue tradizioni destinate a sparire poco a poco proprio come accadrà al personaggio di Liangzi nel corso del film, Tao non troverà la felicità, il matrimonio è destinato a fallire, mentre il capitale si rivelerà cieco e autocelebrativo, disumanizzante, Zhang chiamerà il figlio che avrà da Tao con il nome emblematico di Dollar (Dong Zijan).

Salto di quindici anni in avanti, siamo nel 2014, Tao è separata da Zhang che sta pensando di portare il piccolo Dollar a vivere in Australia, la separazione dalla Cina è definitiva, così come apparentemente sarà quella del bimbo dalla sua mamma, la generazione successiva rischia di non conoscere le tradizioni e il valore del proprio Paese, nel frattempo Liangzi è stato costretto ad andare a lavorare al di là delle montagne, in Afghanistan, dove lo aspetterà un figlio e qualche brutta sorpresa. Il tempo corre come l'acqua che passa sotto i ponti, elemento già usato in passato da Jia Zhang-ke come metafora del cambiamento, i legami si sfilacciano.

In un 2025 del tutto simile al nostro presente Dollar vive in Australia, parla solo inglese e ha perso ogni legame con il suo passato, non vede la madre da quando aveva otto anni, è insoddisfatto della vita infiocchettata per lui dal padre che è ormai in odore di fallimento, viene sottolineata la mancanza di comunicazione tra le generazioni dove un padre che non parla inglese è impossibilitato a comunicare con un figlio a cui è stata negata l'educazione delle proprie origini e che parla invece solo inglese, il regista ci mostra la realtà terribile dei due consanguinei che non parlano la stessa lingua e che si affidano ad una tecnologia fallace per potersi comprendere. La situazione è esplosiva e in effetti esploderà, come quelle cariche usate in miniera e che lo stesso Zhang era pronto ad adoperare per far valere le proprie ragioni, con violenza e prepotenza, come l'arroganza del capitale comanda. E poi i Pet Shop Boys.

Altro film molto bello di Jia Zhang-ke, regista da approfondire che persegue una sua poetica e un suo discorso che ha radici profonde nel proprio Paese, il cinema del regista cinese è stato osteggiato dal suo stesso governo proprio per la palese denuncia verso uno smantellamento culturale ma anche fisico (come si vede in Still Life) della Cina e delle sue tradizioni che è ormai divenuto sistematico nell'inseguire il sogno del capitale e una modernità che rischia di essere pagata a caro prezzo.

martedì 15 giugno 2021

LA DONNA ALLA FINESTRA

(The woman in the window di Joe Wright, 2021)

Per prima cosa bisogna decidere se guardare a La donna alla finestra come all'ennesimo thriller tratto da un romanzo di successo, nel qual caso il film potrebbe anche non essere così interessante in quanto totalmente derivativo, oppure se considerarlo una sorta di piccolo manuale/omaggio al cinema di questo genere, cosa che sembra apertamente dichiarata e suggerita dalle scelte dello stesso Wright; in tal caso il film acquista un suo senso ludico, affettivo e di slancio sentimentale verso un certo tipo di cinema che, mischiato alle buone soluzioni di regia di Wright, dona una luce all'opera decisamente più interessante e divertente. Sotto quest'ultimo punto di vista a mio parere il film si scopre riuscito e accattivante, senza mai avere la pretesa di spostare di una virgola quanto già detto e fatto per il thriller psicologico in interni. Il riferimento più chiaro, palesato dalla prima citazione messa in campo da Wright, è proprio a uno dei capostipiti del filone, l'intramontabile La finestra sul cortile del maestro Alfred Hitchcock che rimarrà l'ispirazione cardine dell'intero film.

Anna Fox (Amy Adams) è una psicologa infantile che soffre di agorafobia in seguito a traumi sepolti nel suo passato, è separata dal marito (Anthony Mackie) che ha in custodia la loro piccola bimba. Anna è in cura dal suo terapista, le sedute non hanno però molto successo, l'idea di uscire di casa la terrorizza e la terapia prescritta dal medico viene spesso accompagnata da abbondanti dosi di vino che non aiutano a migliorare la situazione. Anna non esce mai di casa, ogni tanto riceve qualcuno, il suo terapista o David (Wyatt Russell), l'inquilino a cui ha affittato il suo seminterrato, ma essenzialmente vive sola, guarda vecchi film di Hitchcock alla tv, beve. Per passare il tempo guarda fuori dalla finestra, osserva cosa accade negli alloggi del condominio di fronte casa sua. Quando in uno degli appartamenti sfitti si trasferisce la famiglia Russell, i vari membri vanno a trovare la nuova dirimpettaia: prima il figlio Ethan (Fred Echinger), un quindicenne non troppo sereno, proprio la materia professionale di Anna, la madre Jane (Julianne Moore), molto espansiva e fuori dalle righe, e il serioso padre Alistair (Gary Oldman). Intenta a dedicarsi alla sua pratica preferita, Anna assiste al compiersi di un delitto in casa Russell, da quel momento inizia una caduta verso il baratro tra lucidità e follia che culminerà in un finale finalmente all'aria aperta.

Joe Wright gioca a carte scoperte, la sua protagonista guarda La finestra sul cortile e il film dichiara il suo intento, ma ci sono anche sequenze più subdole da decifrare come la celebre scena realizzata per Hitchcock da Salvador Dalì per Io ti salverò che si intravede sullo schermo di Anna, anche lì c'erano thriller e psicologia, ma anche la citazione de La donna che visse due volte può trovare almeno due proiezioni ne La donna alla finestra che non approfondiamo per evitare qualsiasi tipo di spoiler. Nelle scelte di regia si perpetra l'atto di ricostruzione del genere, alcuni movimenti di camera richiamano proprio La finestra sul cortile in maniera limpida, lo stesso lavoro si legge in tutte le riprese di interno sulla casa della protagonista, anche in questo senso tutto è molto studiato, la scenografia di Thompson e la fotografia di Delbonnel rinforzano la sensazione di stare dentro un'opera prettamente cinematografica. Il versante sul quale il film pecca è indubbiamente la sceneggiatura, prevedibile e stravista, ma il punto è proprio che per godere appieno di questo film è necessario spostare l'occhio (che torna e ritorna) e assumere uno sguardo laterale, vedere questo film come un omaggio, la stessa accelerazione finale con il confronto tra Anna e XXX sembra richiamare un tipo di thriller diverso rimanendo sempre nella "scuola del cinema", nel canone, è un po' come se per creare questo film si siano uniti diversi standard amalgamati in una partitura finale che altro non è che un atto d'affetto verso il passato. Se non si tiene conto di questi aspetti il film pecca di poca originalità (e ci mancherebbe) e nella suspense.

La donna alla finestra è ben girato, tecnicamente molto valido, Amy Adams offre una delle sue belle prove, dolente, un po' folle, si estranea in qualche passaggio di stampo teatrale a movimentare il tutto, Gary Oldman Julianne Moore forzano la recitazione come richiesto dal copione, assecondano la struttura che si chiude in maniera abbastanza prevedibile. Allo spettatore scegliere che film guardare: se sceglierete il thriller rimarrete probabilmente delusi, se opterete per l'operazione metacinematografica allora c'è di che godere.

venerdì 11 giugno 2021

NESSUN DOVE

(Neverwhere di Neil Gaiman, 1996)

Non so quanti siano i romanzi di discreto successo derivati da una serie tv, Nessun dove è uno di questi: lanciata nel 1996 la serie Neverwhere della BBC vede tra i suoi ideatori proprio Neil Gaiman che all'epoca aveva un libro all'attivo (Buona apocalisse a tutti!) ma soprattutto era divenuto nel campo del fumetto uno dei nomi influenti grazie a opere come lo splendido Sandman per l'etichetta Vertigo della DC Comics (quanto la si rimpiange), The Books of Magik, La tragica commedia o la comica tragedia di Mr Punch e altre cose ancora. Mentre va in onda il serial viene dato alle stampe anche questo libro sul quale Gaiman tornerà poi a metter sopra le mani per arrivare più avanti a un'edizione definitiva. Con Nessun dove siamo a metà strada tra il romanzo per adulti e quello per ragazzi, troppo poco semplice per essere rivolto ai bambini, parecchio truce in alcune descrizioni per questo tipo di pubblico, presenta inoltre personaggi sfaccettati non semplici da comprendere per i più piccini, un'ottimo romanzo per gli adolescenti in quanto pur descrivendo anche alcune situazioni piuttosto cupe non è mai eccessivo e i toni più dark sono stemperati da parecchia ironia che rimette la narrazione nella giusta prospettiva per far apprezzare il romanzo a diverse fasce d'età e a diversi tipi di lettore. Come spesso accade nei racconti di Gaiman l'impianto è fantastico pur facendo riferimento alla nostra realtà, nei personaggi sono infusi grandi dosi di estro e umanità, l'ambiente è quello di Londra, ma non proprio la Londra che tutti noi conosciamo.

In realtà Richard Mayhew è scozzese, da qualche anno si è trasferito a Londra, ha un buon lavoro, una casa, una bizzarra passione per le riproduzioni di troll, una bellissima fidanzata un pizzico arrivista, Jessica, qualche buon amico. Proprio nel momento in cui Richard dovrebbe presiedere a una cena di lavoro insieme a Jessica durante la quale un importante uomo d'affari potrebbe aprire alla coppia le porte per un futuro radioso, la coppia incappa in una ragazza ferita, vittima di un'aggressione. Mentre Jessica con fare egoistico vorrebbe lasciare la giovane al suo destino, Richard si rifiuta di ignorarla e farà saltare l'importante appuntamento per soccorrere Porta (questo il nome della ragazza) causando la rottura con Jessica, ma questo sarà solo l'inizio dei guai che aspettano Richard. Porta infatti proviene da un'importante famiglia di Londra Sotto, una città che si sviluppa al di sotto di quella nota, popolata da esseri bizzarri: assassini prezzolati, angeli, vagabondi, vecchi regnanti, guardie del corpo, saltimbanchi, mercanti ed esseri magici. Quello che Richard non sa è che avendo preso contatto con la giovane, in qualche modo ora anche lui appartiene al suo mondo, cosa al quale Richard non è affatto preparato, il primo problema concreto sarà quello di affrontare, magari con l'aiuto di qualche topo, Mister Croup e Mister Vandemar, due sadici assassini sui generis.

La struttura del romanzo è abbastanza semplice, il protagonista viene inserito in un contesto che non conosce e non capisce, minaccioso, diverso, inspiegabile, e qui dovrà aiutare un gruppo di personaggi a portare a termine un percorso per salvare Porta e scoprire chi si è accanito sulla sua famiglia e perché. Ovviamente, ed è evidente dalla scelta di Richard nelle prime pagine di non ignorare chi ha bisogno di lui, al nostro toccherà il ruolo dell'eroe, un po' dimesso, parecchio spaesato e inconsapevole, ma pur sempre un'eroe. Gaiman arricchisce la storia e il mondo che va creando pagina dopo pagina con una serie di personaggi e trovate che caratterizzano la ricchezza della fantasia di questo autore; pensiamo al Mercato Fluttuante, al parallelo tra i nomi delle stazioni della metro che nel mondo di sotto danno vita alle loro trasposizioni letterali (King's Court diventa una corte di un Re, Blackfriars un monastero di Frati Neri e così via), all'irresistibile coppia di pazzi maniaci composta da Croup e Vandemar, al ponte delle ombre e a tutta una serie di invenzioni che colorano di toni cupi l'intera vicenda. Tra le righe si legge un parallelo tra questa Londra ignorata dai suoi cittadini e la vera città degli ultimi, quelli che nella nostra realtà sono gli abbandonati, gli emarginati, i senza tetto, i dimenticati, una situazione che in alcuni frangenti lo stesso Richard si trova a dover vivere. Molto malinconiche le riflessioni sulla vita perfetta che Richard va a perdere imbattendosi in Porta: un buon lavoro, soldi, una casa, una fidanzata bellissima ma pedante e materiale. E in una vena triste lo stesso Gaiman si chiede: "ma è possibile che oltre a questo non ci sia dell'altro?". Sicuramente semplice, molto spinto sul versante fantastico ma non esente da amare riflessioni, Gaiman è sempre un po' più ricco e complesso di quel che può apparire a prima vista.

martedì 8 giugno 2021

AUTOMATA

(Autómata di Gabe Ibáñez, 2014)

Qualche giorno fa, parlando de Il mondo dei replicanti con Bruce Willis si diceva come il film fosse buono giusto per un bel ciclo fantascienza in seconda serata su Italia 1, collocazione ormai considerata non troppo lusinghiera. Diciamo che un'altra di queste ipotetiche serate potrebbe essere occupata da Automata, altro prodotto che non riesce a elevarsi al di sopra di un'onesta sufficienza pur godendo di spunti più interessanti di quello sopra menzionato. Siamo qui di fronte a una fantascienza più riflessiva e che segue una tendenza molto diffusa nel nuovo millennio, il regista Gabe Ibáñez fa di necessità virtù adoperando un budget risicato per costruire visivamente un mondo post-apocalittico con risultati anche degni di nota se rapportati al capitale investito, le scelte del regista e del suo comparto tecnico hanno la capacità di far entrare Automata nel novero di quei b-movie che riescono per lo meno a ritagliarsi una loro dignità e il loro posto in un immaginario di seconda fascia mostrando una coerenza tra intenti e risultato che rende questo film più riuscito del probabilmente più ricco Il mondo dei replicanti. Ciò nonostante siamo di fronte a un film imperfetto che non riesce ad andare a fondo e a colpire lo spettatore più di tanto, mancano gli approfondimenti sui temi ma anche svolte narrative capaci di intrigare, anche qui purtroppo tutto appare molto prevedibile.

Dopo una catastrofe ambientale dovuta in parte all'uomo e in parte alle radiazioni solari il pianeta Terra è divenuto pressoché inabitabile, la popolazione mondiale è stata decimata e i sopravvissuti sono tornati a un passato tecnologico che sa di modernariato, stipati in grossi agglomerati urbani. L'aria è carica di radiazioni, la pioggia acida, gli uomini si avvalgono di robot operai, il cui modello più diffuso è il Pilgrim 7000, per servizi di assistenza e di manutenzione. In questo scenario si muove Jacq Vaucan (Antonio Banderas), un investigatore assicurativo della Roc Robotics che verifica le lamentele dei clienti sugli androidi della compagnia, automi impossibilitati a nuocere agli uomini e a modificare loro stessi o altri robot. Durante un'indagine Vaucan si imbatte in un automa in grado di autoripararsi, a partire da questo episodio le cose iniziano a farsi strane e l'investigatore si troverà di fronte ad automi suicidi, robot del sesso e altro ancora in uno scenario che sembra configurare un salto evolutivo mai considerato finora, le sue fioche speranze in un futuro migliore, per lui, per la sua compagna e la bimba in arrivo, sembrano diventare sempre più fioche.

Si parte da Asimov adattando le leggi della robotica a questa narrazione, i principi fondanti sono quelli, ciò che si apprezza di Automata è la realizzazione in economia molto riuscita, l'ambiente è sporco il giusto dove serve, il deserto abbacinante e bianco, esteticamente richiamato anche nel design di alcuni robot, è molto efficace, anche l'aspetto retrò degli automi e in generale della tecnologia di questa nuova società crea il giusto ambiente all'interno del quale si muove un protagonista dolente, abbattuto ma ancora in grado di sognare un posto migliore (molto didascalico il regista nelle metafore), si riflette sul limite che dovrebbe avere un'intelligenza artificiale prima di poter essere considerata qualcosa di diverso, e ancora, come si è già detto più volte, ai nostri disastri non sarà il pianeta a non sopravvivere ma saremo noi a lasciar posto ad altro, e chi potrebbe prenderlo il nostro posto? I temi di base sono molto interessanti, la realizzazione artigianale anche, compare nel cast l'ex moglie di Banderas, Melanie Griffith, che a forza di ritocchini sembra un automa anche lei, insieme a Robert Forster e Dylan McDermott, i presupposti giusti c'erano tutti, purtroppo è sulla sceneggiatura che mancano le idee che possano dare una spinta in più a un film che non è da buttare ma che probabilmente cadrà nel dimenticatoio poco tempo dopo la visione.

lunedì 7 giugno 2021

RAYA E L'ULTIMO DRAGO

(Raya and the last dragon di Don Hall e Carlos Lopez Estrada, 2021)

Cinquantanovesimo classico della Disney, Raya e l'ultimo drago conferma la tendenza della compagnia di Burbank nel dedicarsi quasi esclusivamente a eroine femminili (sono poche ormai le eccezioni, nell'ultima dozzina di anni si ricordano solo Ralph, comunque coprotagonista con Vannellope e alcuni dei characters di Big hero 6), figure forti e combattenti e che in questo film sono più d'una e, spunto interessante, antagoniste invece che alleate. Al cuore di questa nuova favola Disney si può trovare una bella riflessione sulla fiducia nel prossimo, sulla cooperazione e sull'abbattimento delle barriere, tutti temi di stretta attualità che insieme al piglio femminista confermano la Disney ben piantata nel proprio tempo; abbandonate le Cenerentole e le Biancaneve abbiamo ora guerriere come Raya, avventuriere come Vaiana, supereroine come Elsa e via discorrendo. Basta tutto questo per creare un ottimo film? Ovviamente no; se i cugini della Pixar non perdono un colpo (o ne perdono veramente pochi) sul versante Disney Animation Studios ogni tanto ci si trova a corto di fiato, pur essendo questo un bel film di animazione, ottimamente realizzato e alla portata dei bambini, non riesce a stupire fino in fondo e presenta qualche passaggio dove l'interesse (per gli adulti soprattutto) tende a calare, il mio giudizio non completamente positivo si potrebbe imputare un po' all'abitudine all'eccellenza che molti prodotti d'animazione hanno ormai indotto, un po' allo schema che in casa Disney tende a ripetersi e che pare sarà riproposto anche in Encanto con la prossima eroina Disney, Mirabel, pronta a salvare la situazione, in parte nel rinnovato piacere provato di fronte a cartoni animati che propongono dinamiche diverse. Quindi? Bello ma non bellissimo!

Nell'antico regno di Kumandra vige una totale armonia tra uomini e draghi, protettori dell'equilibrio della natura. Quando la minaccia dell'entità malvagia dei Druun arriva ad abbattersi sul regno, i draghi si sacrificano per gli umani ai quali rimarrà solo una piccola parte del potere dell'ultimo drago, Sisu, concentrato in una gemma; l'avidità umana provocherà così divisioni in Kumandra che verrà scissa in cinque regioni, ognuna portante il nome di una parte del drago, regioni in lotta fra loro per il possesso della gemma custodita da Cuore, il regno a cui appartiene anche la piccola Raya. Il padre della giovane guerriera, Benja, ha il desiderio di riunire il regno e pacificare i rapporti, condividere e non dividere, a questo fine organizza un incontro con esponenti delle altre quattro casate: Artiglio, Coda, Dorso e Zanna. Durante l'incontro Raya fa amicizia con la giovane Namaari di Zanna che purtroppo tradirà la sua fiducia e provocherà la distruzione della gemma che, guarda caso, si spezzerà in cinque parti, ognuna delle quali sottratta da uno dei cinque domini. Una volta cresciuta Raya si mette alla ricerca del drago Sisu seguendo una leggenda che la indica nascosta alla foce di uno dei tanti fiumi del regno, lo scopo è quello di ridare potere ai draghi e porre rimedio ai danni provocati dai Druun che a causa della rottura della gemma avvenuta anni prima hanno pietrificato quasi l'intera popolazione dei cinque regni.

Mettendo un attimo da parte gli abiti dell'appassionato di cinema e vestendo per una volta anche su queste pagine virtuali quelli del papà, devo ammettere che tutti i film con le varie principesse o guerriere Disney che siano li guardo con (e per) mia figlia, anche lei sempre un po' più critica con l'avanzare dell'età (Raya non ha entusiasmato nemmeno lei), non li amo particolarmente (mentre invece apprezzo molto di più le eroine Ghibli ad esempio, ma è questione di narrazione) e quindi il mio giudizio si porta dietro uno scarso interesse personale che però non mi impedisce di apprezzarne la realizzazione tecnica che anche in Raya e l'ultimo drago, pur non presentando scelte grafiche innovative, si conferma di altissimo livello. Non dispiacerebbe da parte di Disney una proposta un poco più variegata, anche nell'immaginario del world building qui si guarda a Mad Max, Star Wars e a una serie di scenari noti, molto bella invece la realizzazione degli stessi così come lo studio dei personaggi di estrazione chiaramente asiatica davvero ben delineati (graficamente). Interessante il discorso sulla fiducia di Raya spezzata in maniera profonda durante l'infanzia dal tradimento di Namaari, altra giovane guerriera che è un antagonista speciale, anche lei infatti ha nel cuore buone intenzioni anche se i suoi metodi risultano discutibili, non c'è però la ricerca del potere per avidità o per fini personali, anche le sue azioni sono volte a garantire il bene del suo popolo. Gli spunti validi ci sono eppure ancora una volta resta quella sensazione di insoddisfazione e di un mancato appagamento, come se al film mancasse il guizzo, quella marcia in più per rimanere nella memoria e nel cuore come è invece accaduto per opere come Soul, Coco o Inside out per citarne alcune vicine a casa Disney. Ci riproveremo con Encanto ma le aspettative calano, anche qui si rischia che diventi tutta una questione di fiducia tradita.

domenica 6 giugno 2021

THE GIFT

(di Sam Raimi, 2000)

Sam Raimi è un regista che gode di un seguito fedele da parte di nutrite schiere di fan in virtù dell'aura di culto che i suoi primi film si sono guadagnati, parliamo di quelli dedicati alla trilogia de La casa (il film omonimo, La casa 2 e L'armata delle tenebre) e di film come quello dedicato al supereroe sui generis Darkman. In tempi non sospetti inoltre, prima dell'avvento del Marvel Cinematic Universe, Raimi sigla un'altra trilogia che oltre all'apprezzamento di fan e critica, con un lieve declino per il terzo episodio, raccoglie fior di dollari ai botteghini contribuendo a lanciare il clamoroso successo dei supereroi al cinema: stiamo ovviamente parlando dei tre film dedicati allo Spider-Man interpretato da Tobey Maguire. Dopo il grande successo la carriera di Raimi al cinema rallenta un poco per poi subire uno stop lungo, esce ancora l'horror Drag me to hell nel 2009 e il trascurabile e tedioso Il grande e potente Oz nel 2013. Poi l'assenza dalle sale, un po' di televisione (la serie Ash Vs. Evil Dead) e finalmente l'annuncio del ritorno dopo nove anni di assenza con Doctor Strange in the multiverse of madness annunciato per il 2022. Questo The gift si colloca subito prima del successo di Spider-Man, per questo film Raimi non rinuncia alla sua passione per gli elementi fantastici o sovrannaturali ma li cala in un contesto molto reale, quello della provincia americana dei paesi rurali, costruendo un discreto thriller di stampo molto classico, soprattutto nello sviluppo e nella scelta delle svolte di trama che, complice anche la sceneggiatura di Billy Bob Thornton, risultano purtroppo parecchio prevedibili.

Annie Wilson (Cate Blanchett) vive sola con i suoi tre figli piccoli in seguito alla morte del marito avvenuta a causa di un incidente sul lavoro. La donna si guadagna da vivere leggendo le carte Zener (quelle che usa anche Bill Murray in una delle prime sequenze di Ghostbusters) agli abitanti del suo paese, Annie infatti è una sensitiva che ha delle premonizioni sul futuro, è generalmente ben voluta dai suoi vicini ma inizia ad avere più di un problema con il violento Donnie (Keanu Reeves) che la minaccia e la accusa di voler allontanare da lui la sua ragazza Valerie (Hilary Swank) che l'uomo picchia e maltratta. Annie si è anche presa a cuore le sorti del povero Buddy (Giovanni Ribisi), il meccanico della cittadina, un ragazzo molto problematico con dei gravi traumi sepolti nel suo passato e che vede in Annie l'unica persona amica e di fiducia nell'intera Brixton. Quando la giovane e viziosa Jessica King (Katie Holmes) scompare, il riluttante sceriffo di Brixton (J. K. Simmons), su pressione del padre della ragazza, si vede costretto a chiedere l'aiuto di Annie che si troverà così a dover affrontare una situazione che per lei diverrà parecchio pericolosa.

Sono diversi i punti a favore di un film che nel complesso non si rivela poi così eccezionale, uno su tutti le belle scelte di cast, nutrito e indovinato, che donano un maggiore appeal a The gift: Cate Blanchett, qui giovane e capace di trasudare eleganza nonostante l'estrazione sociale povera del suo personaggio, tiene benissimo in piedi la baracca supportata da ottimi coprotagonisti come Ribisi, Kinnear la Swank e tutti gli altri; tenuto conto dello sviluppo solido ma tutto sommato ordinario della trama la scelta degli attori, ben diretti da Raimi, qui si rivela fondamentale. Bel lavoro sulle atmosfere e sui luoghi, la casa di Annie, la palude vicino la proprietà di Donnie, sono location che donano fascino al girato di Raimi che piazza anche un paio di buoni colpi nelle sequenze oniriche, anche l'ambiente quindi contribuisce a innalzare un poco il livello dell'opera che comunque non difetta di alcuni momenti di tensione e di atmosfere apprezzabili. Peccato solo che non ci siano sorprese nello sviluppo e che The gift rimanga all'interno di un livello medio dal quale avrebbe potuto sicuramente innalzarsi se si fosse osato un po' di più sullo script; non disprezzabile, anzi, ma sicuramente nemmeno memorabile.

martedì 1 giugno 2021

IL MONDO DEI REPLICANTI

(Surrogates di Jonathan Mostow, 2009)

Replicanti? Si, ma scordatevi Blade runner; Il mondo dei replicanti è un filmaccio buono per la seconda serata di Italia 1, magari una di quelle estive con tanto di ciclo a tema. Intendiamoci, il film lo si può pure guardare, è un B-movie con un suo perché avvolto in una confezione curata anche per benino, grossolano nei contenuti ma comunque con un suo messaggio da veicolare, risaputo, poco approfondito, che porta alle estreme conseguenze alcuni malcostumi non troppo distanti dalla società odierna che però opere di ben altro valore hanno già scandagliato al meglio e in maniera ben più convincente e approfondita, quindi le parole da tenere a mente se volete affrontare questa visione sono essenzialmente due (tre a voler fare i pignoli): intrattenimento e Bruce Willis, perché a Bruce Willis in fondo non si dice mai di no. Non ci sono altri motivi per guardare il film, quindi non cercatene e non incorrerete in delusioni, la filosofia da seguire in questo caso è quella del "non chiedete e non avrete spiacevoli risposte". Il titolo originale è traducibile con surrogati e questa scelta sarebbe stata più indovinata per la versione italiana del film di Jonathan Mostow, intanto si sarebbero evitati scomodi rimandi che alla luce della visione risultano quasi sacrileghi, in più si sarebbe centrato meglio quello che è il succo de Il mondo dei replicanti.

In un prossimo futuro prende piede in maniera massiccia la tecnologia dei surrogati, sorta di alter ego sintetici degli umani i quali possono controllare da remoto queste loro versioni artificiali e utilizzarli in situazioni delicate. Pensata inizialmente dal dottor Cantwell (James Cromwell) per ovviare ai problemi dati da alcune disabilità, questa nuova tecnologia sfugge presto di mano alla razza umana che si riduce a vivere per interposta persona e a interfacciarsi con la vita reale solo tramite i surrogati; è un'umanità ormai in preda alla paura quella ritratta, ansiosa, un'umanità che per evitare ogni tipo di rischio e pericolo, nonostante la criminalità sia ai minimi storici, si limita a vivere tramite le proprie versioni sintetiche, androidi ai quali è possibile dare l'aspetto che si vuole, simili a sé stessi ma magari con un look più giovanile, più prestanti, piacenti, curati. Sicurezza e vanità garantiscono l'esplosione di questo nuovo modo di vivere, apertamente osteggiato da una sorta di lega per l'umanità capeggiata dal Profeta (Ving Rhames) che caldeggia a viva voce un ritorno alla vita, al contatto diretto tra le persone. Quando il figlio del dottor Cantwell viene ucciso, gli agenti dell'F.B.I. Tom Greer (Bruce Willis) e Jennifer Peters (Radha Mitchell), tramite i loro surrogati, indagano sul killer e su un'arma capace di friggere gli androidi e di eliminare al contempo l'umano a loro collegato da remoto, un bel problema per l'attuale società e per la VSI, l'industria che produce i surrogati.

Nel complesso quello di Mostow è un film trascurabile, tutto già visto, temi poco approfonditi seppur in nuce interessanti, un paio di sequenze action girate in maniera degna ma ne Il mondo dei replicanti non c'è davvero nulla che tenga desta l'attenzione, un po' di curiosità la suscita il doppio look di tutti i protagonisti, compresa la moglie di Greer (Rosamunde Pike) con la quale il nostro vorrebbe riallacciare un rapporto anche carnale, aspetto ormai relegato al contatto sintetico, la metafora con la sempre crescente connessione alla rete delle nostre vite è palese e lo spunto di riflessione chiaro, si rimane in superficie e si punta al mero intrattenimento, anche su questo versante però abbiamo visto di meglio. L'approccio da tenere per accostarsi alla visione è quello relativo al B-movie, peccato l'abito pulitino, da questo punto di vista un approccio decisamente più rozzo avrebbe sicuramente giovato al film inserendolo in un contesto più vicino al suo reale valore.

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