mercoledì 27 settembre 2023

IL CERCHIO DEL LUPO

(Echo Park di Michael Connelly, 2006)

A pensarci bene il 1992 non è poi così lontano, in fondo sono passati poco più di una trentina d'anni da allora, una trentina d'anni lungo i quali il nostro Michael Connelly ha scodellato nelle librerie di mezzo mondo (e anche più) quarantadue romanzi, una serie di racconti e una manciata di libri da lui stesso curati, il tutto annaffiato da un filotto di premi letterari che vanno dal Premio Bancarella all'Edgar Allan Poe Award, dal Premio Nero Wolf fino a una nutrita serie di altri riconoscimenti legati al giallo, al thriller e al mystery in generale. Non si può certo dire che il ragazzo (l'ex ragazzo) di Filadelfia se ne stia a riposare sugli allori, una produzione nutrita la sua che poggia le basi sulle precedenti esperienze che Connelly ha accumulato negli anni come reporter di cronaca nera per giornali della costa est in alcuni centri della Florida, lo Stato in cui Connelly è cresciuto, prima di trasferirsi grazie a una candidatura al Premio Pulitzer alla sezione dedicata alla criminologia del Los Angeles Times. Connelly si trova così nella città degli angeli, uno dei simboli conclamati del noir (Chandler, Ellroy), e qui crea il detective Harry Bosch, ormai una delle presenze più consolidate del genere thriller, a oggi protagonista di 24 romanzi, con comparsate in una decina d'altri libri con protagonisti altri personaggi nati dalla penna di Connelly e titolare di una serie televisiva che conta ormai sette stagioni e un significativo numero di episodi. Il cerchio del lupo è il dodicesimo romanzo in cui compare il detective Hyeronimus Bosch.

Il cerchio del lupo si apre con un Harry Bosch rientrato in servizio relativamente da poco tempo, dopo una pausa dal corpo di polizia di Los Angeles il detective viene assegnato ai cold case, vecchi casi archiviati e mai risolti che periodicamente vengono riaperti per vedere se qualche nuovo elemento possa portare alla risoluzione di qualcuno di essi. Bosch è rimasto emotivamente legato a diversi casi che non è riuscito a chiudere, tra questi c'è quello della povera Marie Gesto, una giovane ragazza della quale non fu mai ritrovato nemmeno il corpo, un caso che risale all'epoca in cui Bosch ancora non aveva come partner Kiz Rider, sua attuale compagna di lavoro, ma il collega di vecchia data Jerry Edgar. Harry è ancora in contatto con i genitori della ragazza, di quando in quando, a cadenza abbastanza regolare, Bosch richiede il fascicolo della Gesto, lo studia per l'ennesima volta, prova a risentire qualche vecchio indiziato legato alla vicenda ma sempre senza ottenere risultati. Quando un collega, Freddy Olivas, chiede a Bosch proprio il fascicolo della Gesto, a quest'ultimo si drizzano le orecchie, Bosch vuole sapere a tutti i costi il motivo di questo interesse. Viene fuori che Olivas ha per le mani un condannato a morte che per tramutare la sua pena in ergastolo acconsente a confessare alcuni delitti per i quali in passato non fu mai accusato, uno di questi pare essere proprio quello della povera Marie. L'accordo però sarà reso più complesso dal fatto che le trattative sono in mano a Rick "Ricochet" O'Shea, direttore della sezione Processi Speciali e politicante in corsa per la carica di Procuratore Distrettuale.

Al di là dell'ottima costruzione che Connelly imbastisce in ogni suo singolo romanzo, ciò che funziona nelle avventure di Harry Bosch, che andrebbero lette rigorosamente nel giusto ordine, è proprio la crescita progressiva del personaggio che libro dopo libro, caso dopo caso, evolve e acquista spessore. Le dinamiche all'interno del corpo di polizia, quelle con i colleghi e con i partner più stretti, quelle con i superiori, con i giornalisti più o meno fidati, i rapporti con le vittime e con gli assassini, le relazioni con le donne e le compagne, sono tutti elementi che contribuiscono a creare un protagonista tondo, complesso e delineato in maniera fine e coerente. Inoltre Bosch è dotato di un'umanità spiccata che riesce a non risultare mai forzata e posticcia e che porta il lettore a legare con un uomo sicuramente non perfetto ma credibile (in un contesto di finzione, of course). Connelly è uno di quegli autori di cassetta che sanno come scrivere una storia, ottimi narratori ma privi di grande stile, la lettura quindi ne esce fluida e veloce aiutata da un genere che porta a divorare capitolo dopo capitolo per la curiosità di vedere al più presto gli sviluppi della storia e a quali colpi di scena sta preparando il terreno l'autore. I romanzi di Connelly sono come le scarpe vecchie o le ciabatte soffici, magari meno preziose ed eleganti di altre ma sempre molto comode, oggetti ai quali si torna sempre più che volentieri.

martedì 26 settembre 2023

BREAD AND ROSES

(di Ken Loach, 2000)

Ken Loach è un regista schierato, lo sanno tutti, è un narratore vicino alle classi sociali svantaggiate, un uomo che ha a cuore il destino degli ultimi, le sorti degli esclusi e che cerca di esplorare per quanto possibile le storture dei sistemi, per lo più di quelli legati al mondo del lavoro, sistemi che non permettono a tutta una parte di cittadinanza di condurre una vita dignitosa, un'esistenza dove le preoccupazioni dovute alla mancanza di lavoro o alle sue condizioni terribili non si mangino ogni aspetto potenzialmente positivo della loro vita. Ken Loach è un regista schierato, è un'affermazione questa che potrebbe esser letta come negativa da chi crede che il cinema, quello di impegno civile almeno, non debba dare giudizi ma illustrare, rimanere super partes, quasi fosse un servizio di cronaca e informazione. Ken Loach è un regista schierato, ed è un regista schierato dalla parte giusta, e proviamo un poco di diffidenza verso chiunque possa pensare che non sia così. In questi giorni una bella iniziativa di Raiplay mette a disposizione gratuitamente una buona parte della filmografia dell'autore inglese, ben quattordici lungometraggi che ne ripercorrono un tratto significativo di carriera, titoli ormai fondamentali del percorso di Loach insieme ad altri meno osannati (come questo) a formare un quadro abbastanza esaustivo del suo sentire e delle sue tematiche; questi i titoli: Terra e libertà (1995), My name is Joe (1998), Bread and roses (2000), Paul, Mick e gli altri (2001), Sweet sixteen (2002), Un bacio appassionato (2004), Il vento che accarezza l'erba (2006), In questo mondo libero (2007), Il mio amico Eric (2009), L'altra verità (2010), La parte degli angeli (2012), Jimmy's hole - Una storia d'amore e libertà (2014), Io, Daniel Blake (2016) e Sorry we missed you (2019), un bello scrigno dentro cui rovistare. Iniziamo da Bread and roses.

Alcuni delinquenti trasportano un carico di immigrati clandestini dal Messico verso gli Stati Uniti, tra questi c'è la giovane Maya (Pilar Padilla), una ragazza sveglia e vivace che solo grazie alla sua astuzia riesce a sfuggire alle intenzioni di abuso che i suoi "accompagnatori" hanno in mente per lei. La ragazza si riunisce così alla sorella Rosa (Elpidia Carrillo) la quale abita a Los Angeles; Rosa è sposata con Bert (Jack McGee), un uomo malato di diabete, la coppia ha anche due figli che Rosa mantiene lavorando per una società di pulizie che ha vinto un appalto in un moderno edificio dove hanno sede diverse importanti società statunitensi. Grazie all'intercessione della sorella anche Maya riuscirà a entrare nella società, alle dipendenze del signor Perez (George Lopez), un individuo gretto che non si fa scrupolo nel mortificare i suoi dipendenti e nel far valere il potere di un'azienda che ha dalla sua un sistema del tutto deregolamentato che permette minacce, soprusi e licenziamenti indiscriminati nei confronti di lavoratori che non possono permettersi per mille motivi di rimanere senza un impiego. Un giorno, sul lavoro, Maya incontra Sam (Adrien Brody), un giovane sindacalista convinto che, già come fatto in altre aziende, l'unione tra lavoratori possa portare a condizioni di vita migliori: un salario adeguato, l'assicurazione sanitaria, le ferie pagate. Ma mettere d'accordo tante teste non sarà facile, ognuno di quei lavoratori convive con le sue paure, con problemi familiari seri, con un passato doloroso con cui dover fare i conti.

Ken Loach sconfina, esce dai suoi territori per una trasferta nordamericana che non produce però uno dei suoi esiti migliori. Forse il regista si sente meno a proprio agio lontano dalla sua Inghilterra, forse la scelta di adottare un registro che corteggia parecchio il lato più leggero e scanzonato della narrazione non è così funzionale al messaggio veicolato, fatto sta che Bread and roses, pur rimanendo un film discreto, non raggiunge le vette toccate altrove dall'opera di Loach, fermo restando almeno una sequenza capace di colpire e commuovere lo spettatore, quella del doloroso confronto sul pre-finale tra le due sorelle. Anche se la forma del film, la confezione e il registro di Bread and roses sembrano non essere ottimali, il contenuto e il messaggio veicolati rimangono sempre e comunque apprezzabili, lo scopo di Loach è sensibilizzare lo spettatore verso alcune realtà problematiche, in questo il regista ha pochi eguali (i Dardenne in Belgio, Brizé in Francia), anche con Bread and roses, magari in maniera più didascalica e meno ficcante che in altre occasioni, le prepotenze e le vessazioni con cui il "sistema lavoro" grava sulle persone e soprattutto sui cittadini stranieri, più ricattabili, sono chiaramente esposte e sottolineate. Loach non risparmia critiche alle istituzioni sindacali, evidenzia i conflitti alla base di una mancata unità tra lavoratori, ne comprende i motivi e ammette chiaramente che nel mondo odierno del capitale probabilmente sarà il capitale a vincere la guerra. Però, a volte, a costo di grandi sacrifici, qualche piccola battaglia si ha ancora la speranza di poterla vincere e per ottenerle queste piccole vittorie è necessario lottare e cercare di cambiare le cose un poco per volta. Magari un film dopo l'altro.

venerdì 22 settembre 2023

SOLO GLI AMANTI SOPRAVVIVONO

(Only lovers left alive di Jim Jarmusch, 2013)

Solo gli amanti sopravvivono. Come a dire che oltre all'amore non è rimasto altro. E se è pur vero che i due protagonisti del film, Adam (Tom Hiddleston) ed Eve (Tilda Swinton), si amano, e forse non potrebbe essere altrimenti, Jim Jarmusch amplia il concetto d'amore da quello interpersonale a quello per la vita, per la bellezza, per le arti, per le proprie passioni e per quelle cose che un'umanità ormai gretta e decadente ha prodotto e continua a produrre nonostante lo sfacelo contingente (Adam vive a Detroit, città simbolo della deflagrazione capitalista). Il concetto prezioso di amore per il bello è immerso da Jarmusch in un'atmosfera funerea e deprimente alimentata dalla voglia di morte corteggiata dal personaggio di Adam che solo in Eve, arrivando finalmente a un amore personale ed eterno, trova consolazione e stimolo. Only lovers left alive precede di sei anni The dead don't die del 2019, due titoli bellissimi che dialogano tra loro e che esplorano altrettante figure archetipiche dell'horror; se in I morti non muoiono Jarmusch gioca (divertendosi un mondo) con gli zombi, in questo Solo gli amanti sopravvivono lavora sulla figura del vampiro dandone un'interpretazione seria e affatto scontata, libera da derive young adult che vanno per la maggiore in tema di succhiasangue e riportandoli nel finale a una condizione di normalità sfuggita per tutto l'arco del film, un ritorno al passato, alla passione, alla vita.

Detroit. Adam è un vampiro che vive in totale isolamento; questo essere che ha attraversato i secoli è circondato ora da corruzione e decadenza, vive di una non vita incline alla depressione pur mostrando ancora attaccamento a ricordi del passato e alla bellezza che l'uomo ha saputo creare, come quella riversata nella confezione di chitarre ormai storiche, pezzi d'arte che Adam, anche musicista, riesce ancora ad apprezzare. Gli unici suoi contatti sono quelli con Ian (Anton Yelchin), un giovane che gli procura questi pezzi rari e altro ancora e quello con il Dr. Watson (Jeffrey Wright), un medico corruttibile che fornisce ad Adam riserve di sangue pulito. Tangeri. Eve vive di notte, intrattiene interessanti conversazioni con l'antico drammaturgo Christopher Marlowe (Ian Hurt) ricordando i tempi passati, le esperienze comuni e le celebrità incontrate lungo il loro lungo cammino. La donna è molto legata ad Adam e come lui ama l'arte con una predilezione per la letteratura e nutre profondo rispetto nei confronti della vita umana. In seguito a una conversazione telefonica Eve intuisce il forte stato depressivo di Adam e vola a Detroit per raggiungere il vecchio compagno.

Più affascinante e ben studiato che totalmente riuscito questo Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch, eppure gli elementi intriganti non mancano di certo. Siamo di fronte a un film elegante, per molti versi attraente, rimane l'impressione che in alcuni passaggi giri un po' a vuoto e funga da contenitore per le passioni di Jarmusch più che per gli elementi della storia narrata, però, per alcuni versi, da parte di un regista questa è una scelta che di quando in quando si può anche accettare di buon grado. "Allora è questa la tua selva oscura? Detroit". "Se ne sono andati tutti". "Cos'è quello?". "È lo stabilimento della Packard, una volta costruivano le auto più belle del mondo. Finito". "Ma questo posto si riprenderà di nuovo". "Tu dici?". "Sì, c'è acqua qui. E quando le città del sud bruceranno, questo posto riprenderà vita". Nel dialogo in auto tra Adam ed Eve, in un viaggio tra le strade notturne di Detroit, è evidente la contrapposizione tra i due personaggi, lui in crisi come la città in cui vive, lei più vitale e positiva, lui scuro con una chioma di capelli neri, lei quasi diafana con la sua capigliatura chiarissima, una dicotomia solidale che Jarmusch sottolinea anche con diverse trovate di regia. In questa sequenza, come in tutto il film, c'è una chiara metafora della decadenza della società americana (e mondiale in generale), del capitale, simboleggiata dalla chiusura della Packard, dalle strade abbruttite, da un accenno al surriscaldamento globale (?), dalla trasformazione dello storico Teatro Michigan, culla di cultura, in un vile parcheggio, più in generale dall'impossibilità per i due vampiri di bere sangue umano, ormai mortalmente corrotto. C'è però anche l'amore per l'arte, a Detroit, dice Adam, c'era la grande Motown (ma Eve preferisce la Stax, altra contrapposizione), c'è la casa di Jack White (che anche Eve adora), è qui che Ford iniziò la sua impresa, ci sono tutte le cose e i ricordi che Adam tiene in casa. Jarmusch infarcisce il film di citazioni, da Shakespeare a Mary Wollstonecraft, da Poe a Buster Keaton, da Burroughs a Neil Young, dal Dr. Faust al Dr. Caligari, è tutto il bello, tutta l'arte, tutta la musica, tutta la letteratura che possono servire a farci sopravvivere perché (non) solo gli amanti sopravvivono, e di cose da amare per fortuna ce ne sono ancora tante.

domenica 17 settembre 2023

SHOTGUN LOVESONGS

(di Nickolas Butler, 2014)

Nickolas Butler è uno scrittore statunitense cresciuto in una zona rurale del Winsconsin dove tuttora risiede insieme alla sua famiglia; la giovinezza trascorsa a Eau Claire, gli incontri fatti negli anni degli studi, la vita nella provincia americana, quella contadina e operosa, sono alcune delle caratteristiche che hanno ispirato lo scrittore e lo hanno portato al compimento del suo primo romanzo, Shotgun Lovesongs uscito per la Thomas Dunne Books nel 2014. Più o meno negli stessi anni a Eau Claire cresceva un ragazzo di nome Justin Vernon, un ragazzo che tutt'oggi risiede ancora ad Eau Claire; all'epoca Vernon fece diversi tentativi di sfondare nel campo della musica, fondando prima una band di nome Mount Vernon, poi gli DeYarmond Edison con i quali qualche piccola soddisfazione a livello locale arrivò anche. È soltanto dopo un periodo di sofferenza dovuto a problemi di salute e a una storia d'amore finita male che Justin Vernon trova di nuovo la forza di comporre e affrontare la musica, nel 2007 arriva il nuovo progetto solista di questo ragazzo di Eau Claire, un album distribuito direttamente su internet, Vernon sceglie come suo moniker Bon Iver, l'album è For Emma, forever ago, il resto è storia. Ora accade che, nell'età della loro giovinezza, presumibilmente attorno ai 16/18 anni di Butler, i due ragazzi frequentassero entrambi la Memorial High School di Eau Claire e alcuni particolari della vicenda legata all'ascesa musicale di Vernon sembra possano essere finiti, romanzati e riletti, nelle pagine di questo Shotgun Lovesongs di Nickolas Butler, infatti...

Little Wing è una cittadina di campagna dello Stato del Wisconsin, qui sono cresciuti negli anni della loro giovinezza quattro amici: Lee, Kip, Henry e Ronny. Henry è dei quattro quello che più è rimasto ancorato alle sue radici, ha sposato Beth, la fidanzatina di sempre, una delle ragazze più carine della scuola, ha ereditato la fattoria di famiglia e ora coltiva la terra e alleva bestiame cercando di barcamenarsi tra lavoro duro, due figli, problemi con le banche e crisi finanziaria, da sempre è legatissimo all'amico di una vita, Leland. Quest'ultimo, per tutti Lee, ha sempre avuto un animo malinconico, meditabondo che pian piano lo ha spinto sempre più verso la musica, un'amore esploso prima in modo privato, poi pubblico a livello locale fino a rendere con gli anni Lee una star di fama mondiale, un artista che però non ha mai dimenticato le sue origini, i suoi amici, il suo posto dell'anima. Ronny crescendo è diventato una star del rodeo in diversi Stati, un astro promettente, poi un brutto incidente ha posto fine alla sua carriera lasciandolo, a volte, un poco confuso; da quel momento in Lee scatta per l'amico un amore ancor più grande di quello che da sempre li ha uniti, con un impeto protettivo nei confronti dell'amico più sfortunato Lee diventa per Ronny una sorta di fratello maggiore non disposto a tollerare mancanze di rispetto nei confronti di Ronny. Kip invece è sempre stato quello meno legato al gruppo, un carattere più scostante, preso dalla sua idea di lasciare il paesello e fare soldi nella grande città, cose che in effetti gli riuscirà. Tornerà anni più tardi a Little Wing, benestante e con una bellissima donna, Felicia, comprerà la fabbrica di mangime abbandonata per ridare un po' di vita a Little Wing, acquistare un po' di prestigio con un gesto utile per i suoi concittadini. Ma gli anni cambiano le cose, le situazioni e i sentimenti, seppur forti, possono essere mutevoli, i quattro uomini non sono più quei quattro ragazzi.

È un bellissimo esordio quello di Nickolas Butler, Shotgun Lovesong ha un piglio sincero che enfatizza molto bene i rapporti d'amicizia, quelli consolidati in gioventù e poi portati avanti nonostante gli impedimenti che la vita pone a ostacolare la tenuta dei rapporti. Butler racconta quattro (di più in realtà) personaggi tratteggiati di fino, dando ampio spazio al rapporto d'amicizia tra Henry e Lee ma descrivendo con maestria l'indole e l'intimo di tutti i protagonisti di una storia che oscilla tra presente e passato con più di una nota nostalgica e un occhio al futuro che in maniera inevitabile non potrà essere (bello) come lo sono stati gli anni ormai trascorsi. Nel romanzo c'è un bel dipinto, forse un po' romantico, del rapporto con la propria terra e con i propri ricordi in relazione a vite ormai troppo diverse da quella ruralità contadina del Winsconsin: la fama, i soldi, il resto del mondo ampliano gli orizzonti, ma per i protagonisti sembra che il cuore resti sempre ben ancorato ai campi di Little Wing, alle sue fattorie, all'emporio, alla sua gente. Con la giusta misura Butler sa quando assestare un piccolo scossone, quando toccare le corde del cuore e quando far procedere la sua storia; ognuno dei capitoli è narrato dal punto di vista di uno dei protagonisti, espediente che dona ancora maggiore vivacità a un romanzo di per sé già parecchio coinvolgente lungo il corso del quale il lettore non mancherà di innamorarsi un pochino di questi personaggi, umani, vivi e fallibili come siamo un po' tutti quanti noi.

mercoledì 13 settembre 2023

DUE PER LA STRADA

(Two for the road di Stanley Donen, 1967)

La commedia degli anni 60 riusciva spesso a essere garbata e divertente toccando temi di interesse universale e, in taluni casi, precorrendo i tempi per quel che riguarda la possibilità di affrontare al cinema argomenti considerati tabù o più semplicemente, come accade qui, più delicati di quanto non siano oggi, ormai ampiamente sdoganati. Stanley Donen con Due per la strada costruisce una commedia romantica dove si mette in dubbio l'istituzione matrimoniale che nell'anno d'uscita del film non era vista ancora come il colabrodo che si dimostra ai giorni nostri per un numero sempre maggiore di coppie, bensì come uno dei pilastri della società civile. In quel periodo Donen era passato alla commedia pura dopo aver siglato alcuni dei musical che hanno fatto la storia del genere e hanno contribuito a rendere grande la Hollywood classica, parliamo di capisaldi quali Un giorno a New York (con Gene Kelly e Frank Sinatra), Sua altezza si sposa (Fred Astaire), Sette spose per sette fratelli (Jane Powell), Cenerentola a Parigi (di nuovo Fred Astaire e Audrey Hepburn), Il giuoco del pigiama (con Doris Day) e soprattutto l'indimenticabile Cantando sotto la pioggia con il trittico d'eccezione formato da Gene Kelly, Donald O'Connor e Debbie Reynolds. Donen è un regista che con la commedia si trova a suo agio, anche dopo essersi lasciato il musical alle spalle i risultati sono stati più che soddisfacenti, resta un mistero quella sua unica (e poco felice) incursione nella fantascienza a fine carriera con Saturno 3, un unicum all'interno di una filmografia di grande coerenza.

Mark Wallace (Albert Finney) è un giovine amante dei viaggi in autostop lungo uno dei quali incontra un gruppo di giovani ragazze facenti parte di una corale in viaggio verso il sud della Francia. Mark posa gli occhi sulla bella Jackie (Jacqueline Bisset) ma un'improvvisa epidemia di varicella bloccherà in albergo per diversi giorni tutte le ragazze a eccezione di Joanna (Audrey Hepburn) con la quale, senza troppo interesse, Mark si trova ad affrontare un pezzo del suo itinerario. Da cosa nasce cosa, il sentimento tra i due giovani diventa presto una relazioni fatta d'amore, risate e tanto divertimento. Dopo quella prima esperienza insieme arriva il matrimonio, poi una serie di altri viaggi, un lavoro prestigioso e impegnativo per Mark alle dipendenze del facoltoso Maurice (Claude Dauphin), l'amicizia con Cathy (Eleanor Bron), una ex di Mark, e con suo marito Howard (William Daniels). Il tempo passa, il rapporto tra Mark e Joanna, ormai sposati da tempo, si raffredda, i due non sono più in sintonia, il matrimonio va in crisi ma forse, sotto la cenere, ancora cova qualcosa, oppure, ancora forse, alla crisi non c'è rimedio e i due cominceranno a guardare verso altri lidi...

Commedia sentimentale elegante (eleganza garantita anche dalla presenza della Hepburn) che Donen imbastisce lavorando molto bene sulla struttura del racconto e sulla messa in scena, giocando con la macchina cinema e con le macchine, intese come automobili. La storia di Mark e Joanna attraversa un arco di diversi anni e ci viene presentata con un alternarsi di flashback e flashforward quasi frastornante; non sempre è semplicissimo capire cosa avviene prima, cosa dopo e quando, la cronologia degli eventi è però in parte chiarita dal look dei protagonisti, dal trucco, dai costumi e dall'alternarsi delle automobili che scandiscono le epoche della vicenda che oltre a muoversi nei territori della commedia sentimentale è anche un road movie dalla geografia ristretta e limitata al sud francese. Molto riuscito l'espediente usato da Donen come raccordo ai vari segmenti della storia, passaggi affidati al transito di automobili diverse che scombinano il lineare flusso temporale del racconto e che saranno coprotagoniste dell'amore tra Joanna e Mark. Due per la strada riflette molto sul passare del tempo, sul  deteriorarsi di un'amore, sull'istituzione del matrimonio sulla quale si gioca spesso: "Che tipo di gente è quella che sta seduta al ristorante senza parlare?" "La gente sposata!". Quest'ultimo aspetto del film di Donen dona al racconto una nota amara e matura che smussa i toni della commedia rosa in favore di riflessioni universali, senza togliere il giusto brio, sempre garbato, proprio della commedia che fu.

domenica 10 settembre 2023

HUNGER

(di Steve McQueen, 2009)

Dalla fine degli anni 60 del secolo scorso e fino ad almeno la metà dei 90 (con diversi strascichi e code) la storia dell'Irlanda del Nord fu funestata da violenze e attentati che scossero gli equilibri tra la provincia dell'Ulster e il Governo Britannico, quelli tra cittadini cattolici e protestanti, quelli tra indipendentisti e lealisti in una scia di sangue e morte che nessuno, da ambo le parti della barricata, riuscì a gestire, andando a creare una situazione che anno dopo anno non faceva altro che incattivire ed esacerbare gli animi. Furono molte le mosse del Governo Britannico che invece di portare acqua al proprio mulino contribuirono ad allargare le fila dell'Irish Republican Army, l'IRA, aumentando i consensi che "l'esercito" irregolare dei repubblicani continuava a raccogliere tra una popolazione discriminata e spesso vessata dai protestanti unionisti. Negli anni 70 ai detenuti macchiatisi di atti di terrorismo venne revocato il diritto di essere considerati prigionieri politici; i membri catturati dell'IRA vennero internati in carceri speciali come quello di Long Kesh nei quali non di rado questi venivano sottoposti a pestaggi e a torture operate senza nessun accenno di umanità da parte del personale carcerario. In seguito a queste dinamiche una serie di proteste prese forma all'interno del carcere di Long Kesh, queste portarono diversi esponenti del Provisional IRA a perire per fame, situazione che smosse coscienze di politici e religiosi ma non quella della Thatcher, all'epoca primo ministro, la quale continuò con la sua linea dura priva di qualsiasi scampolo d'umanità. È in questo contesto che si muove l'esordio nel lungo del videoartista Steve McQueen, britannico, nato a Londra, ufficiale, commendatore e cavaliere dell'Impero britannico (onorificenze ottenute per meriti artistici); il regista per questo Hunger viene premiato a Cannes per la migliore opera prima con la Camera d'Or, ci troviamo di fronte in effetti a un esordio realmente inattaccabile.

Nel carcere di Long Kesh viene internato il membro dell'IRA Davey Gillen (Brian Milligan); il ragazzo si rifiuta di indossare la divisa da detenuto, viene rinchiuso nudo, fornito di una sola coperta, in una cella che il suo compagno Gerry Campbell (Liam McMohan) ha completamente imbrattato con le sue feci. Nel carcere sono in atto diverse proteste in risposta ai pestaggi subiti dai secondini e alla privazione dello status di prigionieri politici, i detenuti portano avanti il rifiuto della divisa, la protesta dello sporco e più avanti arriveranno agli scioperi della fame i quali mieteranno numerose vittime. Mentre all'interno del carcere proseguono i pestaggi e ai detenuti viene negato ogni basilare diritto, all'esterno i membri dell'IRA mettono in atto una campagna di omicidi rivolta contro le guardie penitenziarie. In questo contesto emerge nel film la figura di Bobby Sands (Michael Fassbender), sarà lui a dare il via alla protesta più dura, a quello sciopero della fame che gli strazierà le carni, che aggiungerà al dolore di una situazione tesissima quello dei suoi genitori, quello del suo confessore, padre Moran (Liam Cunningham) e quello di tutti i ragazzi che lo seguiranno nell'ultima battaglia in difesa della loro libertà.

Hunger racconta la storia vera di Bobby Sands, membro dell'IRA che divenne un simbolo contro l'oppressione tanto da venire eletto come membro del Parlamento Britannico mentre scontava la sua pena in carcere. Al sacrificio di Sands seguirono numerose manifestazioni di condanna all'operato del Governo Britannico e all'intransigenza della Thatcher. Il regista con una sequenza iniziale esplicativa ci introduce da subito nel clima di violenza e tensione tramite le ripetute inquadrature sulle nocche escoriate e insanguinate del secondino interpretato da Stuart Graham, attraverso i controlli che lo stesso compie prima di accendere la sua auto per controllare che non vi siano state piazzate bombe. Il ritratto di quella realtà da parte di McQueen è scarno, essenziale, dritto a colpire senza troppi giri di parole spettatore e nocciolo della questione, una narrazione che esplode in quella splendida ventina di minuti di confronto dialettico tra Bobby e padre Moran, un pianosequenza asciutto come ben presto diverrà il corpo di Bobby (e di Fassbender che per questa interpretazione perse circa 20 chili di peso). McQueen ha la grande capacità di trovare soluzioni efficaci senza mai dover calcare la mano su nulla: essenziale, pulito, terribile. La forza del sacrificio per una causa che si ritiene giusta, una forza che oggi forse si è un po' spenta, un mondo cattivo che invece non sembra mai poter trovare la sua pace, di tutto questo Hunger rimane una testimonianza decisa. Da vedere.

sabato 2 settembre 2023

DEATH NOTE

(di Adam Wingard, 2017)

Lo Shinigami è un dio della morte. Death note è invece un manga di grande successo realizzato da Tsugumi Ōba per quel che riguarda sceneggiatura e testi della storia e da Takeshi Obata che ne realizzò i disegni. Lo Shinigami è un po' il motore dell'intera vicenda insieme a un oggetto di sua proprietà, il Death note, che altro non è se non un "quaderno della morte" a causa del quale la persona il cui nome vi viene inscritto sopra è destinata a una prematura dipartita. Quello di Adam Wingard è un adattamento in salsa statunitense del materiale di partenza: dopo un lavoro di taglia e cuci (taglia e taglia più che altro) su quella che era la mole originaria (più ampia) del fumetto giapponese, la struttura restante viene traslata nella realtà americana con le conseguenti differenze nei confronti dell'opera di Ōba e Obata, cosa questa che ha fatto sorgere anche diverse accuse di whitewashing (sbiancamento?) nei confronti di Adam Wingard, tacciato di aver selezionato un cast composto da troppi attori bianchi. In realtà tra i protagonisti principali compaiono un asiatico e un afroamericano, ormai con questa storia del politically correct sembra sempre di stare dentro una barzelletta (ci sono un asiatico, un afroamericano, etc...); detto che queste accuse, almeno a chi scrive, sembrano davvero ridicole, rimane da dire come i problemi di Death note siano altri e di come questi poco abbiano a che spartire con il "recasting" razziale tanto sbandierato a destra e a manca. Comunque... di che parla Death note?

Light Turner (Nat Wolff) è uno studente di Seattle, frequenta una high school che come quasi tutte le scuole d'America è abitata anche da bulli e belle ragazze. Light è un tipo un po' solitario, ha perso la madre a causa di un crimine violento ed è figlio di James Turner (Shea Whigham), poliziotto che non è riuscito a risolvere il caso sulla morte della moglie. Un giorno, mentre è seduto su una panchina nelle aree esterne della sua scuola, Light vede cadere letteralmente dal cielo un quaderno; è il Death Note, un taccuino appartenente al dio della morte Ryuk (Willem Dafoe): ogni persona il cui nome vi verrà scritto sopra troverà a stretto giro la morte ad attenderla. Attenzione però, il proprietario per decretare la morte di qualcuno dovrà ovviamente conoscerne il nome ma anche il volto, il libro è corredato poi da una serie di altre regole esplicative. Dopo un primo spaventoso incontro con Ryuk, essere che solo Light in quanto possessore del quaderno può vedere, il ragazzo verificherà la veridicità delle incredibili istruzioni riportate sulla carta uccidendo uno dei bulli della scuola. Trascinata in questa strana avventura anche la bella (e più sadica di lui) Mia (Margaret Qualley), Light, sotto lo pseudonimo di Kira, inizia a giustiziare criminali e diventa una specie di idolo pubblico. Sulla sequela di strane e inspiegabili morti inizierà a indagare la polizia, avvalendosi dell'aiuto di L (Lakeith Stanfield), un giovane e misterioso investigatore dai modi strambi e dall'intelletto superiore.

Death note è un film di stampo adolescenziale venato da qualche punta horror garantita dalle varie morti, alcune delle quali fantasiose; il quaderno permette infatti anche di decidere la dinamica, o almeno la causa, dei decessi. Purtroppo nella riduzione dal manga alla versione cinematografica si perde quasi in toto il fascino che invece era presente nel fumetto, principalmente per due motivi. Il primo è l'ironica figura di Ryuk, il dio della morte, qui molto sacrificata e che purtroppo sembra sprecare l'unico grande attore "presente" nel film (Dafoe sta dietro la motion capture del dio); nel manga la figura del demone garantiva quel quid divertente in più a una storia di per sé parecchio intrigante, aspetto che non è sviluppato a dovere in questa versione per lo schermo dove tra l'altro il demone è spesso in ombra e poco visibile. Il secondo motivo è proprio la struttura del racconto che nel manga era basata su ripetute sfide di intelletto, su indagini e contro indagini, mosse e contro mosse, quasi una partita a scacchi mortale molto coinvolgente che qui viene sperperata nella fretta di chiudere il film nell'ora e quaranta della sua durata. Manca il tono di sfida tra Light ed L, nessuno dei due attori che li interpretano ha il giusto carisma per alzare il livello di un film medio che manca di punti di interesse, non sono evidenziati i dilemmi morali, la sfida con la polizia è blanda. In qualità di regista Wingard allestisce un lavoro discreto, l'attenzione ad alcuni particolari c'è, la confezione non è malaccio, Death note potrebbe anche essere una buona soluzione per adolescenti, magari fan del manga, per passare un pomeriggio tra amici con patatine e risate, pur restando la quasi certezza che anche loro resteranno un po' delusi da questa versione striminzita di un'opera decisamente meglio riuscita. Magari chi è a digiuno del fumetto potrebbe apprezzarne qualche risvolto.

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