martedì 29 agosto 2023

TRASH HUMPERS

(di Harmony Korine, 2009)

Primo approccio per chi scrive al cinema di Harmony Korine e la speranza che il corpo d'opera del Nostro sia di qualità decisamente migliore rispetto a questa pellicola già cerca di farsi strada a gomitate nel mezzo dello sconforto. Korine, di cui un ampio pubblico conosce almeno il più noto Spring breakers, viene considerato un nome di riferimento per il cinema indipendente americano e un cantore del degrado morale e materiale in cui versano parte del Paese e della sua popolazione, un narratore della mancanza di prospettive e di morale, di etica e di ideali, ma anche un regista capace di cogliere stralci di fascino (bellezza?) anche in queste situazioni ai limiti, come lui stesso ha dichiarato parlando proprio di questo Trash humpers. Purtroppo il film, oltre a corteggiare la noia senza scrupolo alcuno (Korine è qui estremo anche in questo), ha tanto il sapore di un qualcosa in ritardo di, chessò, tipo mezzo secolo o giù di lì? Già nel 1972 il Pink Flamingos di John Waters, qui accostamento facile e già fatto da altri, nello stesso campo di grottesco degrado, riusciva davvero a disgustare, scandalizzare e colpire il pubblico con qualcosa di più significativo, certo, anche in relazione ai tempi. Cosa cercare allora in questo Trash humpers se non v'è novità, se il tentativo di navigare nell'estremo fallisce, se l'idea di scandalo potrebbe balenare nella mente giusto di una monaca di clausura ignara del mondo all'esterno al suo convento (e forse nemmeno)? L'unica via potrebbe essere quella di leggere il tutto usando come chiave l'intenzione di Korine, la sua spinta, la sua idea...

Alcuni strani figuri tra cui una donna (Rachel Korine) si aggirano nella periferie di una città americana, probabilmente Nashville, con delle maschere da anziani grinzosi, vestiti con gusto discutibile e inanellando (rari) discorsi senza capo né coda. Una delle loro attività ricorrenti è quella di simulare atti sessuali con l'ausilio di oggetti inanimati: rapporti con cassonetti dell'immondizia, masturbazione di estremità vegetali e via di questo passo. Il gruppo di (finti nella volontà del regista?) anziani si lascia andare a diversi e ripetuti atti di vandalismo, distruzioni che avvengono in parcheggi poco battuti, in tristissime aree di raccordo, sotto la fredda luce di lampioni isolati; tutte queste azioni provocano spesso eccessi di ilarità demente da parte di alcuni di loro. Nel loro errare senza meta i protagonisti incontrano altra umanità non meno grottesca, sbandata e priva di scopo. Nei rapporti con questi altri figuri, con i quali i nostri condividono una visione simile della vita, sprezzante delle regole e delle imposizioni della società (il discorso in auto), c'è un certo senso di attiguità malsana e malata che contribuisce a creare uno strato di presenza fuori dagli schemi, uomini laterali, come marginalia ai bordi della società. Alcune sequenze smuovono il reiterarsi dell'insensato agire di questi orridi personaggi.

Da ciò che Harmony Korine ha dichiarato durante alcune interviste in merito al film, sembra che l'idea sulla (non) storia di questi personaggi nasca dai ricordi dello stesso regista, quando in un passato in quel di Nashville a Korine capitò di vedere all'opera strani figuri nelle periferie della città; a questo punto di partenza il regista unisce la volontà di andare un po' in controtendenza alla perfezione e alla pulizia delle moderne immagini digitali, sporcando il suo film con una resa analogica con tanto di grana (o effetto sgranato) a creare quella specie di nebbia a suo dire tanto affascinante e perturbante propria dei filmini amatoriali di una volta. Purtroppo in Trash humpers sembra che non ci sia neppure un singolo elemento di interesse, a fine del primo decennio del nuovo millennio queste immagini non stupiscono, non disturbano, non emozionano, non sembrano avere una valenza sociale e rispecchiano, e forse in questo il film è riuscito, il vuoto assoluto dei suoi protagonisti. L'idea di registrare su vecchie VHS usate, oltre a non essere né rivoluzionaria né innovativa, non aggiunge nulla a un film la cui colpa maggiore è quella di non avere un vero motivo di essere, non c'è narrazione, cosa che può anche andar bene, ma non c'è nemmeno null'altro. Un film fuori fuoco (letteralmente e metaforicamente), fuori tempo massimo, fuori dagli schemi ma anche fuori dal concetto di fruibilità (che non necessariamente vuol dire difficile o ostico, qui significa solo noioso), un'ora e venti di nulla che non si vede l'ora giunga al termine, nonostante l'esigua durata del materiale girato.

sabato 26 agosto 2023

SOCIETY - THE HORROR

(di Brian Yuzna, 1989)

Dopo poco tempo torniamo a pescare nel cestone dei b-movies di stampo horror. Se con Creepozoids, qualche settimana fa, non ci andò troppo bene, con questo Society - The horror si può dire che almeno lo sforzo della visione viene ripagato. Quasi coetaneo del film di DeCoteau (Society esce un paio di anni più tardi), la pellicola di Yuzna è meglio riuscita, più intrigante e soprattutto conta alla sua base su un'idea semplice ma molto forte che dà vita a una metafora limpidissima e sbandierata a gran voce alla luce del sole, senza nessuna sottigliezza ma con apprezzabile onestà. Rispetto al suo collega, Brian Yuzna ha lavorato meno sulla quantità, la sua filmografia conta dalla fine degli anni 80 a oggi meno di una quindicina di titoli che sono valsi al regista statunitense (nato però a Manila nelle Filippine) diversi premi in festival internazionali dedicati al genere fantastico; uno di questi premi arrivò proprio grazie a questo Society che di Yuzna è l'esordio nel lungometraggio. In precedenza Yuzna aveva già lavorato come produttore e sceneggiatore in alcuni progetti del collega Stuart Gordon e aveva siglato anche soggetto e sceneggiatura del classico di successo della Disney Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi con Rick Moranis protagonista. Il film è visibile sulla piattaforma gratuita Pluto TV: nella sezione On demand dedicata ai film è presente un catalogo abbastanza nutrito che di quando in quando vale la pena scorrere; oltre a una selezione di b-movies sono presenti film interessanti come In ordine di sparizione, Brazil di Gilliam, Fuoco cammina con me di Lynch, Americani di Foley e parecchio altro ancora, tutto gratuito.

Bill Whitney (Billy Warlock) vive a Beverly Hills, frequenta una buona scuola, la sua è una famiglia ricca, è fidanzato con la bella, bionda e un po' superficiale Shauna (Heidi Kozak) ed è anche uno dei migliori atleti del suo liceo, una specie di idolo dei suoi coetanei. Ci sarebbero per Bill tutti i presupposti per una vita felice, un'esistenza al massimo, invece Bill non dorme bene, fa spesso degli strani incubi, è anche in cura da uno psichiatra, il dottor Cleveland (Ben Slack), che cerca di mitigare il forte senso di inquietudine che accompagna le giornate (e non solo le nottate) del ragazzo. Ciò nonostante Bill continua a sentirsi fuori posto, sente che la famiglia non lo apprezza, non ama l'attenzione allo status sociale che i suoi genitori perseguono essendo di estrazione smaccatamente privilegiata, l'unica con cui riesce a parlare è sua sorella Jenny (Patrice Jennings) anche lei però molto presa dal bel mondo e pronta a debuttare in società. Quando gli incubi di Bill iniziano a diventare più che reali e ad avere ripercussioni sulle persone che gli stanno intorno, come l'impacciato Blanchard (Tim Bartell) innamorato di sua sorella, il ragazzo inizia a muoversi per vederci chiaro, si troverà coinvolto in un incubo di classe (sociale) dal cui sarà difficile venire fuori.

Society - The horror inizia quasi come una commedia adolescenziale girata senza troppi mezzi né pretese, il giovane e belloccio Billy Warlock, che acquisirà una certa popolarità più avanti partecipando alla serie tv Baywatch, potrebbe quasi essere considerato un Marty McFly sfigato ma perfetto per l'ambientazione in cui Yuzna lo ha calato. Ovviamente il termine "sfigato" nel paragone con il personaggio diventato un culto mondiale e interpretato dal grande Michael J. Fox nella trilogia di Ritorno al futuro, è calzante solo per la rispettiva importanza cinematografica dei due, il Bill Withney di Society è infatti più ricco, meglio inserito nel contesto scolastico, è un atleta vincente, etc... però nessuno spettatore lo ricorderà o lo amerà mai quanto il mitico Marty. Insomma, Yuzna parte tranquillo inserendo a poco a poco nella sua storia degli elementi di disturbo che riescono a stranire lo spettatore e a mantenere un giusto livello di interesse nella vicenda che lascia presagire via via sviluppi più morbosi e orrorifici. La metafora sullo sfruttamento da parte delle classi sociali privilegiate, i ricchi, nei confronti della forza vitale dei meno abbienti è spudorata e conflagra in un finale visivamente riuscito e disturbante, un'orgia di corpi fusi e mostruosi che repelle e diverte allo stesso tempo. Gli effetti speciali del "surrealistic make-up effecy by screaming mad George", come viene presentato nei titoli di testa il giapponese Joji Tani, lasciano il segno e si fanno ricordare, sono l'elemento per cui il film è ancora oggi indicato da molti fan (e non solo) come un'opera importante per la sua epoca, gli edonisti anni 80 che volgono ormai al termine. Yuzna si mantiene sempre in equilibrio tra toni goliardici e denuncia in salsa horror, il film poggia su un reparto attoriale non sempre di livello (presente anche la bella Devin DeVasquez, moglie di Ron Moss, il più celebre Ridge di Beautiful) e la scrittura dei dialoghi non brilla per profondità. Però Society ha quel qualcosa che cattura, indispensabile per i b-movies affinché assolvano al loro compito, a conti fatti in questo Yuzna centra il bersaglio e si garantisce un certo rispetto tra gli amanti del genere horror e fantastico, un rispetto che gli ha permesso di sviluppare una carriera nell'industria più divertente del mondo.

domenica 13 agosto 2023

THE WOLFPACK

(di Crystal Moselle, 2015)

Sulla piattaforma Mubi il documentario di Crystal Moselle The wolfpack è inserito nella sezione "film sul cinema"; in effetti per la famiglia protagonista del film, gli Angulo, il cinema, insieme alla musica, riveste un'importanza fondamentale nella vita quotidiana dei giovani del nucleo familiare. I ragazzi Angulo sono sette, sei figli maschi e una femmina, l'ultima, la piccola Visnu. Papà Oscar è un uomo di origini peruviane che non crede nel sistema americano (siamo nell'East side di New York), mamma Susanne è originaria del Michigan, è cresciuta in un paese rurale, per i suoi figli sognava un'infanzia all'aperto, tra i campi, alla luce del sole, in mezzo agli altri bambini, e invece... . Oscar è affascinato dal movimento Hare Krisha, così ha chiamato i suoi figli con nomi come Mukunda, Narayana, Govinda, Krsna, Jagadisa, Bhagavan e appunto Visnu, tutti nomi provenienti dall'antico sanscrito. Ora immaginatevi sei ragazzi (Visnu è impegnata in altro), adolescenti, che portano i nomi di Govinda, Krsna, Narayana e via discorrendo, chiusi in un piccolo appartamento in un brutto palazzone dell'East Side di New York, quartiere non proprio tranquillo, vestiti di tutto punto, con giacche e cravatte nere, camicie bianche, a impersonare Mr. Pink, Mr. Orange, Mr. White e via di questo passo, armati di pistole di carta fatte in casa con ammirevole maestria, a riprodurre le scene più memorabili de Le iene di Quentin Tarantino negli spazi ristretti di casa loro, con tanto di triello, scena dell'orecchio e dialoghi sopra le righe. È così che si apre The wolfpack, il documentario di Crystal Moselle, all'apparenza questa potrebbe sembrare una scena comica o divertente, in parte lo è, la storia degli Angulo potrebbe sembrare una storia di smodata passione per il cinema (e lo è), ma dietro tutto questo si nasconde quella che avrebbe potuto essere una piccola grande tragedia umana che si spera, con gli anni, sia destinata a trovare un lieto fine per tutti e sette questi giovani ragazzi.

Oscar e Susanne si conoscono, sono giovani, si innamorano, vanno a vivere a New York; il progetto era che quella fosse solo una tappa intermedia per trovare un modo di fare qualche soldo e poi spostarsi altrove. Oscar non ama il sistema capitalista americano, decide di combatterlo non lavorando, Susanne ha invece una licenza per fare la maestra, lei però non insegna in nessuna scuola, quando nasceranno i suoi figli, saranno sette, verrà stipendiata per fare da maestra a loro, in fondo è abilitata, in qualche modo in America si può fare. Oscar però vede New York come un calderone contenente mille pericoli, non si fida della gente, così cresce i suoi figli come dei reclusi, dei prigionieri educati con la paura verso il mondo esterno. Quando davanti alla telecamera della Moselle i più grandi tra gli Angulo (Mukunda, Narayana, Govinda) raccontano la loro storia, ci dicono di come nei loro anni fortunati siano riusciti a mettere piede fuori casa fino a nove volte, in altri anni c'è stata per loro una sola uscita, in altri ancora nessuna. Per dare un senso a una vita in una casa che in molti sensi sembra essere diventata una prigione, i giovani Angulo si appassionano al cinema, il padre Oscar in qualche modo riesce a portare a casa numerosi dvd, i ragazzi si appassionano ai generi più disparati e attraverso quei film imparano a conoscere il mondo; la loro cultura cinematografica è spropositata e le loro visioni vanno da Le iene e Pulp fiction di Tarantino al Lawrence D'Arabia di David Lean, dal Velluto blu di David Lynch a Casablanca (Michael Curtiz) fino ad arrivare al Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan. Ma gli Angulo non si limitano a guardare i film, ne scrivono le sceneggiature, studiano i personaggi e le battute, assemblano costumi e rimettono in scena, in casa ovviamente, tutti i loro film cult.

L'approccio che la regista Crystal Moselle mantiene nei confronti della storia della famiglia Angulo è molto rispettoso, sembra quasi che questo documentario siano proprio i ragazzi a costruirlo, in fondo di cinema ne sanno abbastanza. È una storia questa, a tratti molto triste, in cui il cinema riveste un'importanza grandissima, è quasi come se i film per questi ragazzi siano stati una medicina dell'anima, il mezzo che ha permesso loro di conoscere il mondo, di rimanere un gruppo unito, sei fratelli che, nonostante la loro situazione potenzialmente esplosiva, si vogliono bene e trovano l'uno nell'altro e in passioni comuni un motivo per alimentare un certo grado di serenità anche nella loro reclusione. I loro progetti comuni li hanno aiutati a tenere dritta la barra nonostante un padre padrone, forse in buona fede (avrà voce anche lui nel documentario), che ha negato loro un'infanzia normale. Sarà con l'avanzare dell'età dei ragazzi che arriveranno i primi atti di ribellione, atti che li porteranno a un'apertura graduale al mondo esterno che il padre non potrà impedire, a conoscere la Moselle e altra gente e a recuperare pian piano tutto il tempo perso, nella speranza che non restino segni indelebili di quell'infanzia senza libertà a tormentarli nella loro vita adulta. In The wolfpack ci sono alcuni passaggi realmente commoventi, in un momento di confronto frontale con la camera ad esempio, quando Mukunda racconta le sue esperienze e tenta di trattenere le lacrime, affermando con un sorriso tirato che non piangerà, ci si trova a fare con lui la stessa cosa, a chiedersi come si possa fare certe scelte per la vita dei propri figli, come si possa negare un'infanzia a quello che ha tutta l'aria di essere un gruppo di ottimi ragazzi (con un look molto cinematografico). Non c'è un giudizio univoco nello sguardo della Moselle, c'è invece la costruzione di una storia tenera e intrigante, raccontata in maniera onesta e coinvolgente, con un equilibrio di cui i documentari avrebbero sempre bisogno.

martedì 8 agosto 2023

HIGH LIFE

(di Claire Denis, 2018)

High life esce a poco tempo di distanza dal precedente lavoro di Claire Denis, L'amore secondo Isabelle di cui abbiamo parlato qualche mese addietro; il bel sole interiore della protagonista (il titolo originale è Un beau soleil intérieur) si trasforma qui nel buio totale degli spazi profondi che avvolge i protagonisti, l'abisso siderale del più grande vuoto (almeno figurativamente) che possa esserci, quello di un buco nero. Se il passare del tempo per Isabelle creava in lei la paura di un vuoto dei sentimenti, in High life il vuoto, non solo sentimentale, è pressoché assodato, nonostante la presenza ricorrente della splendida Juliette Binoche in questo come nel precedente lavoro della Denis. C'è un senso di ricerca in comune tra i due film seppur declinato in maniera molto differente, come è normale che sia non è così difficile trovare punti di contatto nei lavori dell'autrice parigina che in entrambi i casi si è fatta carico anche delle sceneggiature delle sue opere. In High life non è però la Binoche a essere la protagonista principale del film, il ruolo è bensì attribuito a Robert Pattinson (molto bravo), un uomo la cui ricerca non è quella di un modo per colmare un vuoto interiore quanto quella della mera sopravvivenza messa seriamente in discussione, e ancor più la ricerca di un equilibrio capace di consentirgli di addivenire una figura paterna valida e, per quanto possibile, amorevole, in una situazione estrema che la Denis, senza indagarla in maniera troppo esplicita, ci presenta con tutto il carico di quesiti etici e morali che si porta dietro.

A un gruppo di condannati viene commutata la pena capitale in favore della partecipazione a una spedizione scientifica a bordo di una navicella spaziale diretta verso un buco nero. Insieme ai condannati sulla nave c'è la dottoressa Dibs (Juliette Binoche) incaricata di portare avanti esperimenti sulla fecondazione artificiale e sulla nascita della vita nel vuoto dello spazio. Durante la prima sequenza è evidente come l'avventura di questo gruppo di volontari per lo spettatore si vivrà in flashback in quanto il protagonista, Monte (Robert Pattinson), sembra ormai essere l'unico sopravvissuto della spedizione insieme a una piccola bambina che scopriremo presto essere sua figlia Willow (Scarlett Londsey). L'uomo cerca di mantenere attiva l'energia della nave, di far crescere frutta e verdura in un piccolo orto di bordo e di prendersi cura in solitaria della sua piccola bambina che, incurante della situazione estrema, richiede le attenzioni di un qualsiasi infante nato da poco: cibo, contatto, sonno, coccole, stimoli. Grazie ai ricordi di Monte impareremo a conoscere alcuni dei precedenti abitanti della stazione spaziale, a partire dalla dottoressa Dibs, una donna con un'oscuro passato alle spalle, votata a una missione riproduttiva asessuata, una donna ancora piena di desiderio che sfogherà nella meccanica stanza del sesso, così come faranno altri passeggeri della nave. Ma non per tutti lo sfogo artificiale per le proprie pulsioni sarà sufficiente. Il tempo (in maniera relativa?) passa, Willow cresce, il buco nero si avvicina...

Come già accadeva per il precedente L'amore secondo Isabelle nel film della Denis sembra che manchi qualcosa per arrivare a una piena compiutezza. All'epoca dell'uscita nelle sale di High life pare che qualcuno definì il film "un Interstellar in tono minore". L'accostamento con il film di Nolan è facile da fare; se il film della Denis non parte mai per la tangente (leggi anche: non sbraca) c'è da dire che manca però del fascino e del coinvolgimento emotivo che, almeno in tutta la prima parte, Interstellar generava senza difficoltà. Qui ci sono le idee, le riflessioni in nuce su tanti aspetti controversi di quella vita in isolamento, primo tra tutti quella di una giovane donna che si avvicina all'età della maturità sessuale e ha come unico compagno di viaggio il proprio padre (si ok, c'è anche una stanza del sesso). Queste idee, alcune situazioni anche forti, gli scoppi di violenza, la solitudine, il destino nel cosmo, tutte potenzialmente interessanti, non generano quasi mai una visione coinvolgente della vicenda da parte dello spettatore, se sul finale tutto risulta essere anche molto intrigante, il contatto con il film rimane sempre su un livello molto cerebrale. Nulla da eccepire sulla realizzazione che pur rimanendo abbastanza essenziale si porta a casa un risultato credibile e decisamente ben riuscito, Pattinson aggiunge un'altra buona prova al suo curriculum e si conferma attore capace, probabilmente anche per chi lo aveva mal bollato ai tempi di Twilight, la Denis sembra avere il giusto feeling con la Binoche, probabilmente un'attrice con la quale è difficile sbagliare. Nel gruppo dei passeggeri anche André Lauren Benjamin degli Outkast e Mia Goth. Film ben studiato con diversi spunti, ben realizzato ma che appunto sembra mancare di qualcosa...

sabato 5 agosto 2023

I RACCONTI DI PARVANA (SOTTO IL BURQA)

(The breadwinner di Nora Twomey, 2017)

I racconti di Parvana è un film del 2017 (da noi distribuito un poco più tardi) conosciuto anche come Sotto il burqa. Questo film d'animazione di Nora Twomey è stato prodotto tra gli altri dalla casa di produzione Jolie Pas di Angelina Jolie, attrice impegnata in diverse campagne sociali e attenta alle difficoltà di donne e bambini in Paesi che non garantiscono loro garanzie nel campo dei diritti umani. I racconti di Parvana, tratto dal libro Sotto il burqa dell'autrice canadese Deborah Ellis, è un chiaro manifesto, immediato, semplice, contaminato dalla fiaba, volto a tenere alta l'attenzione su ciò che le donne e le bambine afghane devono sopportare a causa del regime talebano nel Paese, in città come Kabul che culturalmente sembrano non aver mai visto i lampi di luce degli ultimi secoli, fermi a un'epoca oscura fatta di barbarie, ignoranza e violenta prevaricazione, situazione ancor più aggravata negli ultimi anni dalle scellerate scelte politiche di un occidente profittatore e meschino. Nora Twomey è una regista irlandese cofondatrice dello studio di animazione Cartoon Saloon dal quale sono usciti film come Wolfwalkers - Il popolo dei lupi e The secret of Kells, uno dei pochi baluardi rimasti a difesa dell'animazione tradizionale; il più recente film della Twomey è Il drago di mio padre arrivato nelle sale lo scorso anno e poi distribuito su Netflix.

Parvana ha undici anni e vive a Kabul con la sua famiglia; il papà è un ex insegnante e ha perso una gamba, con loro ci sono la mamma Fattema, la sorella maggiore Soraya che ormai è una donna fatta e l'ultimo arrivato, il piccolo Zaki di un paio d'anni. Ci sarebbero tutti i presupposti per una vita almeno serena ma l'Afghanistan è un Paese povero in mano al regime oscurantista dei talebani, le donne non hanno diritto all'istruzione, non hanno il permesso di uscire di casa da sole nemmeno per cose basilari come una passeggiata o andare a comprare prodotti di prima necessità come il cibo. Il papà di Parvana, Nurullah, è però un uomo illuminato, amante delle storie cerca di offrire cultura e apertura a sua figlia e per questo viene punito e incarcerato da un suo ex allievo unitosi al movimento violento dei talebani. Così la famiglia rimane senza un uomo in casa e ogni piccolo gesto, a partire dal più banale, diventa un'impresa. La possibilità di aiutare un marito ingiustamente incarcerato, l'atto di procurare da mangiare alla famiglia sono ora sfide a una quotidianità umiliante e pericolosa. La madre Fattema, con la sua bambina, si avventura in questo mondo con coraggio e con tutte le più nobili intenzioni e viene brutalmente pestata da bestie che non hanno ragione d'essere. Di fronte alla necessità, a Parvana che ancora non è sbocciata come donna, non resta che tagliarsi i capelli corti e recuperare gli abiti maschili del fratello Sulayman, morto tempo prima, e uscire per le strade facendosi passare per un ragazzo in modo da poter almeno comprare del cibo per la famiglia. Fuori incontrerà Shauzia, una sua amica, anche lei vestita da uomo in cerca di una sopravvivenza sempre più difficile.

Mi chiamo Sulayman
Mi chiamo Sulayman
mia madre è una scrittrice, mio padre è un maestro
le mie sorelle litigano sempre
un giorno ho trovato un giocattolo per strada
l'ho raccolto, è esploso
non ricordo cosa sia successo dopo
perché era la fine

Con uno stile di disegno molto semplice e ad altezza di bambino, Nora Twomey che nasce animatrice, ci racconta una storia molto adulta per temi narrati. Nonostante a prima vista l'impatto dei disegni possa far pensare a una semplicità mirata ai più piccoli, il racconto è molto duro, anche quando la violenza non è esibita esplicitamente, e racconta uno dei drammi più crudeli al mondo, quello di nascere in un Paese in guerra quasi costante e afflitto dalla violenza interna anche nei momenti di relativa pace. Il focus è mirato sulla terribile condizione femminile, sui soprusi che le donne sono costrette a sopportare in un Paese dove molti uomini (non tutti) sono meno che bestie nutrite da prevaricazione e odio. La storia di Parvana e della sua famiglia è accompagnata da una fiaba che la bambina racconta al fratellino più piccolo per tenerlo tranquillo e a sé stessa per farsi forza, è quella di Sulayman, un ragazzo che trova dentro di sé, affrontando le sue paure, la forza di combattere i mostri. I passaggi fiabeschi sono illustrati con una diversa tecnica d'animazione, più stilizzata, con una palette di colori più viva e che richiama l'idea delle figurine di carta ritagliate e inserite su sfondi dipinti e che ben si inserisce nel contesto della storia principale. Nonostante l'apparente semplicità dei tratti e la provenienza da uno Studio che non è PixarDisney né nessuno a loro affine per capacità economiche, c'è tantissima professionalità dietro a I racconti di Parvana, la storia è toccante e scopre ancora una volta una piaga nota a tutti alla quale sembra non si riesca a trovare una soluzione, una di quelle che ci fa chiedere se mai riusciremo a diventare migliori prima di arrivare all'estinzione.

mercoledì 2 agosto 2023

THE WALK

(di Robert Zemeckis, 2015)

Per decenni le Torri gemelle hanno segnato l'immaginario di milioni di persone, a poca distanza dal fiume Hudson hanno modellato e reso unico e riconoscibile lo skyline più celebre del mondo, quello della New York pre 11 settembre, la New York che faceva sognare gli amanti del cinema americano, quella che ancora non aveva conosciuto l'orrore supremo. Purtroppo è proprio a quell'orrore che le menti di tutti noi tornano quando si parla di World Trade Center, Twin towers, Ground zero; nel corso degli anni però le Twin towers ci hanno regalato molto in termini di cultura e immaginario. Nel 1974, poco tempo dopo la loro inaugurazione, le due torri sono state il palcoscenico di uno spettacolo incredibile, uno di quegli eventi graziati da genio e follia, nemmeno in parti uguali, probabilmente la follia prevalse di molto sul genio nel momento in cui il funambolo francese Philippe Petit, classe '49 e (spoiler) oggi ancora in buona salute, tirò un cavo d'acciaio di circa 3 cm di spessore tra la Torre Nord e la Torre Sud e ci camminò sopra, all'alba del 7 agosto, senza nessun sistema di ancoraggio di sicurezza, facendo bellamente avanti e indietro tra le due imponenti costruzioni per ben otto volte, salutando il pubblico sottostante che ormai si era assiepato per assistere a una delle performance più incredibili che il mondo avesse visto fino a quel momento, e tenendo i suoi collaboratori e New York tutta con il fiato sospeso. Arte, follia, tutto all'ennesima potenza. The walk è il racconto di questa impresa, del suo protagonista, della sua preparazione; per narrarcela Zemeckis si ispira al libro scritto dallo stesso Petit, Toccare le nuvole fra le Twin Towers. I miei ricordi di funambolo.

Francia anni 70. Philippe Petit (Joseph Gordon Levitt) è un ragazzo con la passione per la giocoleria e il funambolismo, passioni che non lo abbandoneranno nel corso degli anni. Ciò che invece Philippe dovrà abbandonare sarà la casa paterna; il genitore infatti non accetta questo figlio che non sembra intenzionato a trovarsi un lavoro serio e un suo posto nel mondo. Trasferitosi a Parigi Philippe inizia a fare l'artista di strada; qui due incontri cambieranno in modo deciso questa fase della sua esistenza: il primo è quello con la bella Annie (Charlotte Le Bon) conosciuta mentre la ragazza si esibisce in una cover di Leonard Cohen, il secondo è quello con il maestro del circo Papa Rudy (Ben Kingsley) che col tempo si affezionerà a Philippe, riconoscendone il talento e passandogli i suoi segreti in materia di nodi, cavi, equilibrio, rispetto del pericolo e quant'altro. Un giorno, durante una visita dal dentista, Philippe legge su una rivista della costruzione delle Torri gemelle a New York; il ragazzo rimane folgorato dalla bellezza (e dall'altezza) dell'opera, da quel momento in avanti il suo sogno diverrà quello di coprire quello spazio tra i due grattacieli e camminarci nel mezzo, sospeso a più di 400 metri d'altezza. Per farlo avrà bisogno del sostegno di Annie e di una squadra di collaboratori folli messa insieme apposta per compiere l'impresa, tra questi ci sarà anche l'amico e fotografo Jean-Louis (Clément Sibony). Fatti tutti i preparativi il gruppo partirà alla volta di New York per mettere in atto il gesto artistico del secolo.

Il film di Zemeckis vive di due anime distinte, entrambe profondamente americane, compresa la prima ambientata nella provincia francese prima e a Parigi poi. Il giovane Philippe è il classico ragazzo deciso a seguire i suoi sogni, a dispetto della famiglia e delle probabilità avverse, uno di quei personaggi che tirano dritto verso l'impresa bigger than life. La struttura di tutta la prima parte del racconto è molto hollywoodiana con il protagonista che parla in macchina ripreso in cima alla Statua della Libertà, con il crescendo di esperienza nel campo del funambolismo con scarti poco lineari, in una sequenza per esempio Philippe cade dalla fune a pochi metri di altezza dentro un lago, l'impresa successiva è subito l'attraversamento tra le due torri di Notre Dame. Il racconto prende poi i toni dell'heist movie nel momento dell'assemblaggio della squadra che dovrà preparare il colpo e ne segue gli schemi per tutta la preparazione all'evento. Fino al momento in cui il gruppo arriva a New York e Philippe sale sulla Torre Nord per iniziare la traversata il film non ha davvero nulla di così eccezionale; le cose cambiano quando inizia il racconto dell'impresa. Le panoramiche in soggettiva su una New York a 400 metri più in basso dal nostro punto di osservazione sono di forte impatto (immagino cosa dev'essere stata la visione in sala in 3D) e anche il coinvolgimento emotivo, così come la tensione, si impennano in poco tempo. La narrazione di Zemeckis, pur se qui più spettacolare che nella prima parte, sembra asciugarsi dal superfluo, lassù nel cielo della Grande Mela sembra prendere un tono più genuino, ammirato da un'impresa impossibile da credere per chi, come me, non ne ha ricordo diretto. Visto oggi, a molti anni di distanza da quel gesto senza eguali, e a parecchi dalla ben nota tragedia, The walk ha la capacità di affiancare se non proprio un ricordo, almeno la conoscenza di un evento entusiasmante a quello che è stato, ed è tuttora, il nostro legame immaginifico e sentimentale con le torri.

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