martedì 31 luglio 2018

KEN PARKER

1977, anno di fermenti, novità, movimenti, eventi; non tutti pacifici, non tutti piacevoli. Un’aria nuova si respirava un po’ in tutti gli aspetti del mondo culturale, così come rivendicazioni, agitazioni e ribellioni segnavano in maniera forte la scena politica e sociale italiana e mondiale. Nel bel mezzo di questo fervore spesso esasperato all'eccesso, anche la scena del fumetto internazionale si muoveva, proponeva vie nuove da testare e all'occorrenza seguire, non sempre vincenti, non tutte elettrizzanti, spesso originali e coraggiose. 

In America, ad esempio, le due più grandi case editrici di comics lanciavano due serie che vedevano protagonisti supereroi di colore: la Marvel Comics dedicava un albo personale al suo primo supereroe nero, Black Panther, nato sulle pagine della serie Fantastic Four già nel 1966 grazie alle menti inesauribili di Stan Lee e Jack Kirby, mentre la concorrente DC Comics dava il via libera al suo Fulmine Nero, creato da Tony Isabella, autore che già aveva lavorato sul Luke Cage di casa Marvel, altro eroe di colore proveniente dal quartiere di Harlem. Entrambe le serie non ebbero grande fortuna e chiusero i battenti abbastanza in fretta. Maggior successo arrise invece al western di Jonah Hex (DC Comics) che collezionò ben novantadue uscite… ma furono soprattutto diverse iniziative targate Marvel Comics a lasciare il segno, serie che gli appassionati del fumetto ricordano ancora oggi a distanza di quarant'anni. La prima è stata il fortunato adattamento del caso cinematografico dell’anno, la serie a fumetti dedicata a Star Wars: proseguì la sua corsa fino al settembre 1986 con centosette uscite all'attivo. Gli amanti del fantasy ricordano invece con indelebile affetto The Savage Sword of Conan e la versione del cimmero creato da Robert E. Howard disegnata dal grande John Buscema, una delle interpretazioni del personaggio più apprezzate di sempre insieme a quella del Conan di Barry Windsor Smith. In ambito supereroico fu ideata la serie What if?, una formula di successo che proponeva versioni alternative dell’universo e dei supereroi Marvel, andando a rispondere a quesiti ipotetici quali: Che cosa sarebbe successo se l’Uomo Ragno si fosse unito ai Fantastici Quattro? oppure, Che cosa sarebbe successo se Hulk avesse avuto il cervello di Bruce Banner?, o ancora, Cosa sarebbe successo se i Vendicatori non si fossero mai formati? e via di questo passo. 


In Inghilterra, figlio dei tempi, debuttava il violento e giustizialista Giudice Dredd insieme alla collana 2000AD, testata storica per il fumetto anglosassone che vide nascere sulle sue pagine alcuni dei maggiori talenti britannici poi emigrati nel mercato Statunitense. Nel dicembre del 1977 prendeva il via anche una delle più celebri e longeve produzioni indipendenti, quel Cerebus che il suo autore, Dave Sim, porterà avanti con successo e tutto da solo per ben trecento numeri, andando a creare un’opera intelligente, sferzante e critica verso diversi aspetti della società, mettendo al centro delle sue storie uno strambo oritteropo parlante che nasceva come caricatura di personaggi fantasy simili a Conan il barbaro per divenire nel corso degli anni qualcosa di unico e irripetibile. 

Sbarca in America la rivista francese Métal Hurlant, qui ribattezzata Heavy Metal, portando oltreoceano l’arte di geni creativi rivoluzionari come Moebius, Enki Bilal, Milo Manara e Tanino Liberatore solo per citarne alcuni. Impossibile qui menzionare cosa accadeva nel 1977 in tutti i mercati internazionali. Ricordiamo ancora che nemmeno il Giappone stava a guardare, proprio quell'anno esordivano due delle opere intramontabili del maestro nipponico Leiji Matsumoto, il celeberrimo Capitan Harlock e la sua serie gemella Galaxy Express 999. Insomma, nonostante la crisi e le chiusure di diverse testate, soprattutto per quel che riguarda il mercato americano, parecchio si muoveva e carne al fuoco ve n’era in abbondanza. 

Ma cosa succedeva in Italia in quel fatidico 1977? Impossibile non citare l’arrivo della Compagnia della Forca, serie ideata da Roberto Raviola in arte Magnus, ma soprattutto quello di uno dei personaggi più importanti e maturi del western nostrano: il Ken Parker di Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo. Montana, 29 dicembre 1868… è qui che inizia l’epopea di Lungo Fucile, al secolo Kenneth “Ken” Parker, una vicenda che se spesso risulterà moderna nella visione e nei contenuti, principia invece come una classicissima storia western. Ken Parker è un trapper che si guadagna da vivere cacciando sulle montagne del Montana, in seguito a una vendita portata a termine insieme al giovane fratello Bill, Ken viene attaccato e derubato da tre ignoti assalitori i quali, oltre a portarsi via il compenso del suo lavoro, uccidono e scalpano il giovane ragazzo. Se la vendetta è il più abusato dei motori per dare il via a una storia western, i due autori, Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo, che per la loro creazione si sono ispirati al Robert Redford di Corvo rosso non avrai il mio scalpo, ci fanno da subito sapere che il loro non sarà un personaggio giustizialista, accecato dalla sete di sangue, e che il loro west sarà molto più strutturato e stratificato sia rispetto a quello del cinema classico americano, che vedeva il cowboy o il militare buono da una parte e l’indiano crudele dall'altra, sia rispetto a quello violento, cinico e bastardo dello spaghetti western. Se vogliamo questo è il western dell’integrazione, che vede il diverso attraverso gli occhi del protagonista esattamente come in uno specchio; un uomo che guarda un altro uomo, a volte può vederci del buono, a volte ci vede il peggiore dei mali. Fin da subito infatti Ken Parker apprende, leggendo le tracce nella neve, come il lavoretto compiuto sul giovane fratello sia opera di tre uomini bianchi che cercano di spacciarsi per indiani. Inizia così una caccia che porterà il trapper nei territori dei Cheyenne, in un avamposto dell’esercito dove anche i tre assassini si sono rifugiati. Per scovarli, a Ken non resterà che arruolarsi e trasformarsi da trapper a scout dell’esercito degli Stati Uniti, mostrando da subito empatia e rispetto per il dignitoso popolo Cheyenne, odio per le prepotenze perpetrate dai suoi stessi commilitoni, e la predisposizione universale a incarnare un ideale di giustizia a spese di uomini bianchi, rossi, neri o gialli indistintamente, sempre con una malcelata avversione per gli inutili spargimenti di sangue. 

I temi presenti nelle pagine del fumetto sono un modo per narrare la società contemporanea: può sembrare scontato sottolineare come molte delle violenze subite dagli uomini bianchi siano state all'epoca, proprio come accade ancora oggi, provocate dal comportamento espansionista, scellerato e incurante degli stessi nei confronti delle popolazioni indigene, con la creazione delle riserve, l’approvvigionamento alle tribù indiane di carni marce e, nel passato più remoto, con la consapevole diffusione di malattie ed epidemie mortali (le famose coperte al vaiolo per esempio). Ken Parker, il personaggio, incarna una scelta morale, etica e politica, che pur luminosa ai nostri occhi, all'apparenza di una giustezza insindacabile, non manca di rovinare più e più volte nella polvere della sconfitta. Proprio per questo il protagonista e la sua scelta ci sembrano così vivi, così veri e sono stati capaci di calamitare su di loro le attenzioni di un pubblico fedele nonostante le avversità narrative ed editoriali che hanno strapazzato nel corso degli anni l’esistenza del nostro eroe. Ken Parker è a tutti gli effetti un ponte tra le culture, tra le razze, tra i generi, tra le minoranze, è l’esempio da seguire nelle situazioni difficili, anche quando sarebbe necessario mettere a repentaglio qualcosa di proprio per cercare di migliorare una situazione, per cercare una convivenza pacifica a vantaggio di tutti, esempio che proprio come accade nella realtà spesso è destinato a cadere nel vuoto. 

Ken Parker, forse più di tutto il resto, è anche la traslazione su carta delle personalità, delle inquietudini e dei dubbi dei suoi due autori, ancora giovani nel 1977, di conseguenza vivono sulla loro pelle tutte le tensioni che animavano un’Italia scossa da fortissime contrapposizioni. Se il protagonista è portatore di sogni e ideali che all'epoca si credeva ancora avrebbero potuto portare a un cambiamento positivo nell'immediato futuro, è anche un uomo che si scontra con problemi simili a quelli delle contemporaneità dei suoi autori. Dopo tante peripezie editoriali, la storia di Ken Parker andò a collidere con quella reale, nella famosa sequenza dello sciopero durante il quale Ken si troverà a togliere la vita a un poliziotto. Nella storia Berardi riversa la tensione e anche il dolore vissuti sulla pelle a causa di anni durissimi e violenti. In un secondo momento arriverà anche un epilogo, amaro e disilluso, e non potrebbe essere altrimenti… chiunque può capire il perché, hanno potuto capirlo i lettori di Ken Parker semplicemente alzando il naso dalle pagine di quell'ultima storia, ancora recente, e dando un occhiata al mondo, ai risultati prodotti dallo sbiadire degli ideali di più generazioni, dall'avanzare del progresso e dai nuovi asset di una società moderna dove ogni sogno e ogni valore sono svaniti… e tutto è indubbiamente molto triste. 

Ken Parker non è Tex Willer, un grande eroe ancorato all'idea del vecchio west. Ken Parker è un uomo di oggi, che è stato ferito da quel che il mondo è diventato, che non ha perso la speranza, che guarda avanti e cerca di fare la cosa giusta, un po’ come fanno tutti i giorni gli uomini integri, che non sono eroi… rimangono solo uomini onesti, coerenti con sé stessi. Sul versante grafico Ken Parker si fa forte delle matite del suo creatore Ivo Milazzo, aiutato nel corso degli anni da disegnatori oggi di indubbia fama come Alessandrini, Ambrosini, Maraffa e Trevisan tra gli altri. Nel dare un’impronta indelebile alla sua creazione, Milazzo realizza i disegni dei primi otto albi, andando solo in seguito ad alternarsi alle matite con i suoi colleghi. È un tratto efficace quello di Milazzo che si risolve in tavole pulite, dettagliate il giusto, con un uso calibrato dei neri, un segno capace con pochi tratti di rendere al meglio l’idea di un paesaggio innevato, del mare come del calore cocente del deserto. Uno stile destinato a evolvere nel corso del tempo, alla ricerca di una sintesi in un percorso assimilabile a quello fatto da altri grandi nomi del fumetto italiano… Hugo Pratt su tutti. Questa ricerca, questa voglia di nuovo, di libertà, ha portato il disegnatore, una volta terminata definitivamente l’avventura Ken Parker, a percorrere strade diverse dal suo amico e sodale Berardi che invece è rimasto affezionato a una concezione di fumetto più artigianale e popolare, creando per la stessa Bonelli (già editrice di Ken Parker quando ancora si chiamava Cepim) il personaggio della criminologa Julia dalle fattezze della splendida Audrey Hepburn. Le recenti ristampe della serie di Ken Parker, a opera di Panini Comics prima e di Mondadori poi (con ben due edizioni all'attivo, una più lussuosa e l’altra più economica), dimostrano quanto il personaggio sia ancora oggi moderno e appetibile ma, soprattutto, quanto gli appassionati siano ancora legati a un personaggio con pochi eguali nella storia del fumetto italiano. Probabilmente Lungo Fucile regalerà nel prossimo futuro ore piacevoli e momenti di riflessione ancora a qualche altra generazione.

lunedì 16 luglio 2018

DEADWOOD DICK

(di Joe R. Lansdale, Michele Masiero e Corrado Mastantuono)

Audace è un marchio prestigioso, un marchio che agli albori della Storia del fumetto nostrano contribuì a diffondere tra gli italiani la passione per la nona arte, un marchio al quale sono legati i prodromi della nascita della Bonelli, quella che ancor oggi è la più importante e popolare casa editrice di fumetti in Italia. L'Audace nasce nel 1934 come rivista della casa editrice SAEV, già dall'anno successivo inizierà a pubblicare fumetti presentando le avventure del Brick Bradford di William Ritt e Clarence Gray, il Broncho Bill di Harry O'Neill e Radio Patrol di Ed Sullivan e Charlie Schmidt; il pezzo forte era il Tarzan di Hal Foster. Con il passare del tempo altri grossi nomi si aggiungeranno alle pubblicazioni della rivista, primo fra tutti il celebre mago Mandrake. Negli anni successivi ai personaggi internazionali si uniscono sulle pagine della rivista lavori creati da autori italiani tra i quali spiccano Carlo Cossio e proprio Gianluigi Bonelli, il futuro papà di Tex Willer. Con l'imporsi dell'ideologia fascista il materiale italiano continuerà ad aumentare a discapito dei personaggi americani, sempre più opportunità si apriranno per gli artisti italiani, la rivista diventerà pressoché autarchica con la sola eccezione di qualche episodio di Popeye, qui ribattezzato Braccio di Ferro. In seguito, per una trentina di numeri, la rivista passerà sotto l'ègida della Mondadori, altri autori si uniranno al gruppo di creativi: Federico Pedrocchi, Rino Albertarelli, Angelo Bioletto e altri ancora. Purtroppo le restrizioni fasciste e i dettami del MinCulPop (Ministero della Cultura Popolare) scombinano le carte in tavola, le vendite scemano, la rivista torna alla SAEV che senza clamore reintroduce fumetti esteri, iniziando proprio dal Tarzan questa volta di Hogarth. Sotto mentite spoglie e attribuito ad autori italiani fa il suo esordio anche il Superman di Siegel e Schuster, ribattezzato Ciclone (solo in seguito sarà Nembo Kid). Negli anni 40, tra varie vicissitudini, L'Audace (ormai solo Audace) finirà nelle mani di Gianluigi Bonelli che trasformerà la rivista in albo aumentando le pagine per numero dedicate a ogni singolo personaggio. Sono questi i primi passi che porteranno alla nascita della Bonelli che oggi tutti noi conosciamo.


Tutta questa introduzione per dire cosa? Solo per dire che Audace è tornata, non come rivista ma come sottoetichetta della Sergio Bonelli Editore, una divisione matura che dovrebbe (se le dichiarazioni d'intenti verranno confermate) presentare fumetti nuovi, freschi, meno legati a quel concetto di avventura popolare che seppur ancora attiri molti lettori, ne tiene lontani altrettanti, lettori magari interessati a un approccio più moderno e stratificato al fumetto. Allora si aprono le danze con Deadwood Dick, personaggio ideato dallo scrittore texano Joe R. Lansdale ispirato a un cowboy realmente esistito, il primo protagonista western di colore della Bonelli che nei tratti ricorda moltissimo il Jamie Foxx del Django Unchained di Tarantino. Lansdale è uno scrittore dai toni pulp, qui tradotto in sceneggiatura da Michele Masiero, l'indole ruspante e genuina dell'autore è confermata anche nell'esordio di questo fumetto che sulla notevole copertina esibisce l'inusuale bollino (almeno in Bonelli) Contenuti espliciti. L'albo si apre con il protagonista inchiodato in "una cazzo di situazione", Dick parla direttamente al lettore e con un flashback provvidenziale inizia a raccontarci la sua storia che prima o poi, lo sappiamo, lo riporterà in quella cazzo di situazione. Il linguaggio è molto diretto, le situazioni anche: Dick è in procinto di arruolarsi nei Buffalo Soldiers, le truppe composte da negri dell'esercito dell'Unione, non per amor di Patria ma per sfuggire a un linciaggio potenziale per il solo motivo d'aver guardato troppo a lungo il culo d'una bella e invitante donna bianca. In un paio di vignette si assiste a un'immaginaria scena di sesso con posizioni e impeto che difficilmente potremmo vedere in un albo di Tex, anche dialoghi, scene e descrizioni sono sopra le righe: "D'altronde negro ci sono nato: nero come un buco di culo in una notte senza Luna, secondo la definizione di mio padre, non un grande poeta, lo ammetto". Lungo le sessantasei pagine di questo primo numero impariamo a conoscere un poco il suo protagonista, un buon diavolo sicuramente non avvantaggiato nella vita dal colore della sua pelle, un uomo capace di un'ironia a volte acuta, più spesso sbracata, che da subito non potrà che risultare accattivante. Conosceremo anche il suo compagno di viaggio, incontrato nel bel mezzo d'una profumata cagata all'aria aperta (anche questa scena abbastanza inedita per il fumetto popolare), altro nero di nome Cullen al quale il Nostro si guarderà bene dallo stringergli la mano, vista l'operazione appena terminata. A controbilanciare le sequenze più divertenti ci sono comunque tematiche serie: lo schiavismo, le conseguenze non sempre facili della liberazione (la fame, la perdita di ruoli), la violenza e la guerra.


Deadwood Dick sembra un miscuglio di temi molto ben bilanciati, resi su carta con maestria innegabile da un Corrado Mastantuono in splendida forma. Le tavole, graziate da un formato leggermente più grande del classico bonelliano, si fanno ammirare per la loro qualità media davvero alta superata inoltre da alcune vignette non ingabbiate dalla griglia rigida della pagina che si aprono su panoramiche di grandissimo fascino. Anche sulla confezione di questo numero d'esordio non c'è proprio nulla di cui potersi lamentare. Salutiamo allora con favore il ritorno del marchio Audace - tra l'altro Deadwood Dick è inserito nella collana (anche questa all'esordio) che richiama un altro nome illustre del fumetto italiano: Collana Orient Express - sperando che anche le prossime proposte Audace si avvaloreranno della stessa qualità di questo avvincente esordio.

sabato 7 luglio 2018

PIANO... PIANO, DOLCE CARLOTTA

(Hush... hush, sweet Charlotte di Robert Aldrich, 1964)

Con Piano... piano, dolce Carlotta il regista Robert Aldrich tenta di pianificare a tavolino un film che possa bissare il successo commerciale di Che fine ha fatto Baby Jane? uscito nelle sale un paio di anni prima, andando a girarne quasi un ideale sequel originariamente pensato, ancora una volta, per le due attrici rivali (non si esagera dicendo che le due provassero vero odio l'una nei confronti dell'altra): Bette Davis e Joan Crawford. Per varie vicissitudini, dovute proprio alla rivalità tra le due dive, la produzione incontrò diversi problemi e per un certo periodo, a causa delle assenze della Crawford, furono sospese le riprese; questi rallentamenti portarono all'esclusione della stessa Crawford dal film, quest'ultima venne sostituita da Olivia de Havilland, grande amica della Davis. Nella prima sequenza della versione finale del film rimane ancora una scena dove compare Joan Crawford inquadrata di spalle. Archiviate le turbolenze che si trascinano ormai da anni tra le due donne, il nuovo film di Aldrich può finalmente prendere corpo.

Forse il limite più evidente di un film comunque ottimo si può riscontrare proprio nell'intenzione palese di ricalcare gli schemi del film precedente dal quale l'unico scarto veramente importante è il ribaltamento di ruolo affidato alla Davis che qui, ancora una volta, interpreta una donna ormai priva di lucidità e che corteggia da vicino la follia, ma allo stesso tempo ricopre anche il ruolo di vittima e non più quello di folle carceriera. Ma le similitudini tra le due pellicole non si limitano alla sola presenza dell'iconica Bette Davis. Aldrich ricorre ancora una volta all'espediente del salto temporale: la vicenda si apre nel 1927, con una Carlotta (Bette Davis) ancora giovane, innamorata di un uomo sposato, John Mayhew (Bruce Dern), il quale è destinato di lì a poco a morire di un'orrenda morte. Qui si intravede la volontà di Aldrich, regista capacissimo, di spingere un poco sul versante più spaventoso, regalando allo spettatore momenti da brivido e amputazioni assortite che per l'epoca un po' d'effetto l'avranno anche fatto. Comunque, tornando sul tema temporale, il trauma giovanile provoca ripercussioni sulla mente della giovine, si passa quindi al 1964 dove ritroviamo una Carlotta più anziana in procinto di perdere la casa di famiglia espropriatagli dallo Stato. Anche qui, come accadeva in Che fine ha fatto Baby Jane? la donna vive nella grande casa con la sola compagnia della domestica Velma (Agnes Moorehead), anche lei all'apparenza poco centrata, e ancora una volta il fulcro della vicenda sarà il rapporto con una parente, non la sorella ma la cugina Miriam Deering (Olivia de Havilland), tornata al paese d'origine proprio per star vicina a Carlotta nel momento di maggiore difficoltà.


L'interpretazione della Davis è nuovamente magistrale, i suoi occhi spiritati sono portatori di pura follia e terrore, se non si raggiunge il livello di angoscia provocato dal precedente film si apprezzano comunque lo sviluppo e la tensione crescente della storia; Aldrich conferma un uso sapiente della macchina da presa offrendo una serie di inquadrature suggestive, ancora una volta magnifiche prospettive sulle scale, particolari di oggetti d'uso domestico, un bianco e nero dai tagli netti sempre avvincente e un maggior tocco macabro. Le macchinazioni di alcuni personaggi, i segreti relativi al vecchio omicidio, la salute mentale della protagonista e alcune rivelazioni finali rendono il film ancor oggi se non proprio inquietante almeno teso e carico d'interesse nell'attesa del dipanarsi dei vari nodi del mistero.

Se si volesse mettere a confronto le due pellicole, sul piano qualitativo questo Piano... piano, dolce Carlotta forse non raggiunge il livello del suo predecessore, è però sicuramente stata un'ottima occasione per Aldrich d'aggiungere alla sua filmografia un altro pezzo da novanta, un vero classico da consegnare alla storia del Cinema dei Sessanta. Poi, come sempre, tanto lo fa il gusto personale degli spettatori, non è affatto escluso che molti di questi possano preferire questo film a Che fine ha fatto Baby Jane?, in fondo non ci sarebbe proprio nulla da poter obiettare.

venerdì 6 luglio 2018

SID E NANCY

(Sid and Nancy: love kills di Alex Cox, 1986)

Avvicinandosi al film Sid e Nancy si potrebbe pensare di stare per assistere a un biopic sui Sex Pistols o quantomeno a quello su uno dei loro più carismatici componenti, l'ingestibile Sid Vicious qui interpretato da un Gary Oldman molto giovane: in realtà sembra che il fulcro dell'intera pellicola non sia proprio uno dei due sopra citati. Il film di Alex Cox, pur narrando un periodo circoscritto della vita di Sid Vicious e Nancy Spungen (Chloe Webb), la sua "compagna" del momento, sembra essere piuttosto uno di quei ritratti generazionali che mettono sotto i riflettori più uno stile di vita o la dipendenza dalle droghe, che non ad esempio l'importanza della musica o del pensiero punk; siamo sicuramente più vicini a film come Christiane F. - Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, senza raggiungerne la drammaticità né tantomeno le vette qualitative, che non al classico biopic musicale.
A dimostrazione di questa affermazione il fatto che nel film non venga usata nessuna esibizione dei Pistols né alcun brano cantato dal gruppo, le musiche sono invece affidate ad altri musicisti come Joe Strummer o i The Pogues per arrivare finanche a un paio di pezzi eseguiti dallo stesso Gary Oldman. Il tutto, quasi ovviamente, per lo sconforto molto sentito del signor John Lydon, in arte Johnny Rotten, storica voce dei Pistols qui interpretato da un acerbo e poco interessante Andrew Schofield.

Certo, nel corso della pellicola non mancano riferimenti a episodi noti della breve storia del gruppo come ad esempio quello del concerto tenutosi su un battello in navigazione sul Tamigi trasformatosi poi in un coacervo di atti osceni, ma il focus è tutto sul rapporto tra Sid e Nancy che porterà i due ad un'escalation di comportamenti autodistruttivi con conseguente morte di lei per ferita da arma bianca e a quella di lui per overdose (e non è spoiler e non è mistero, il film si apre proprio con la morte della Spungen). Oltre alle figure dei due protagonisti c'è poco altro, i restanti membri della band, il batterista Paul Cook (Perry Benson) e il chitarrista Steve Jones (Tony London), sono mera carta da parati piazzata sullo sfondo della vicenda, Johnny Rotten è fuori fuoco e per nulla approfondito, di tanto in tanto appare un Malcolm McLaren (David Hayman) che non ha mai lo spazio che il manager dei Pistols avrebbe meritato.


Decisamente più interessanti sono il contesto urbano londinese, il degrado delle periferie di metà 70, lo squallore dell'abbruttimento causato dalle droghe, temi sempre interessanti e qui ben sviluppati ma, come accennato prima, sicuramente trattati meglio e più approfonditamente altrove. E allora rimangono loro, Sid e Nancy, due personalità malate e sfiancate dall'abuso, rimane il loro rapporto a fasi alterne, idilliaco e conflittuale, conflittuale ed idilliaco, un viaggio mano nella mano verso l'ultima tragica fermata. La dinamica della morte della ragazza non è mai stata accertata al 100%, difficile ottenere ricostruzioni credibili pescando dall'ambiente della tossicodipendenza, fatto sta che l'ipotesi più plausibile sembra essere proprio l'omicidio per mano dell'amato Sid, restano testimonianze e dubbi che potrebbero perorare l'innocenza del bassista dei Pistols. Ma questo poco importa, l'ormai sfinito Sid sopravvivrà alla sua amata Nancy solo una manciata di mesi prima di trovare la morte nel suo ultimo buco nel febbraio del '79.

Gary Oldman è un ottimo attore e anche qui dimostra di essere interprete di razza pur non essendo (parole sue) particolarmente interessato dal personaggio di Vicious o dalla scena punk, la regia offre un paio di belle riprese e la giusta attenzione all'ambiente offrendo allo spettatore la possibilità di ammirare gli interni dell'ormai mitico Chelsea Hotel di New York nelle cui stanze hanno soggiornato nomi del calibro di Bob Dylan, Arthur Clarke (si dice che scrisse qui 2001: Odissea nello spazio), Janis Joplin, Dylan Thomas, Leonard Cohen e moltissimi altri, un elenco quasi enciclopedico. I motivi di interesse per guardare il film quindi non mancano, la pellicola non sarà un capolavoro ma è riuscita comunque a ritagliarsi il ruolo di piccolo cult che a conti fatti qualcosa vorrà pur dire.

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