lunedì 30 ottobre 2017

BRADI PIT 156

Cambio d'ora.


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I ORIGINS

(di Mike Cahill, 2014)

L'impressione che si è affacciata con più forza alla mia mente in seguito alla visione di I origins è che Mike Cahill sia un regista più furbo che realmente talentuoso, almeno giudicando il suo lavoro da quest'unico film, pellicola che ha riscosso meno successo del precedente Another Earth e che qui in Italia non ha nemmeno trovato una distribuzione nelle sale cinematografiche. Cahill, autore anche di soggetto e sceneggiatura, sa quali argomenti e quali meccanismi possano catturare l'attenzione dello spettatore, magari non tutti ma almeno quelli di un certo tipo (e io mi ci metto nel mezzo), sa come andare a toccare le corde giuste a livello emotivo, maneggiando i sentimenti magari con una certa faciloneria ma in maniera comunque efficace, a dimostrarlo la toccante scena finale del film e diversi momenti ben riusciti al suo interno, primi tra tutti quelli della nascita della storia d'amore tra i protagonisti, Ian Gray (Michael Pitt) e Sofi (Àstrid Bergès-Frisbey). Si lambiscono argomenti complessi, affascinanti, con implicazioni etiche, filosofiche e religiose, trattandoli con una certa superficialità che non impedisce alla storia e al film di funzionare comunque bene, in qualche maniera il racconto prende, soprattutto se non ci fermiamo troppo a pensare alle implicazioni che potrebbero sollevare gli argomenti trattati ma godendosi invece il film per quello che è: una semplice narrazione finzionale.

Ian Gray è un biologo molecolare che studia l'occhio umano, organo che oltre ad essere la sua materia di studio è anche un'ossessione per Gray che continua a fotografare e catalogare gli occhi di una moltitudine di persone. Un giorno Ian incontra Sofi a una festa, ragazza enigmatica che porta una maschera che lascia scoperti solo due occhi bellissimi che verranno ovviamente fotografati da Ian. I due, dopo un approccio caloroso, si separeranno solo per incontrarsi di nuovo dopo una strana serie di coincidenze che coinvolgono il ricorrere di un numero preciso e proprio gli occhi di Sofi. Segno del destino? Semplici coincidenze? Qualcosa di più? Nel frattempo proseguono gli studi di Ian sull'occhio, questi insieme alla collega ricercatrice Karen (Brit Marling) porta avanti esperimenti per definire tutti gli stadi evolutivi dell'occhio umano, studio che confuterebbe diverse credenze religiose che proprio sull'inspiegabilità scientifica di alcuni fenomeni legati all'occhio umano fondano una delle tesi sull'esistenza di Dio, posizione ovviamente non accettabile per lo scienziato. Di tutt'altro parere invece è Sofi che crede nell'inspiegabile e in collegamenti remoti tra diverse vite in tempi lontani tra loro.


Tutto sembra molto complicato ma in realtà non lo è, Cahill sa come gestire la materia, sa quando inserire qualche colpo basso, sa come blandire lo spettatore con un passaggio romantico, sa come piazzare una scena ad effetto ma soprattutto costruisce un film che, nonostante gli argomenti solo all'apparenza ostici, fila dritto come un fuso senza creare inutili complicazioni. Si avvale di bei volti, un Michael Pitt adatto alla parte, la modella spagnola Àstrid Bergès-Frisbey che offre una bellezza fuori dai canoni e quella invece più canonica di Brit Marling, nel cast anche Steven Yeun, il Glenn di The walking dead. Formalmente la messa in scena non presenta sbavature ma nemmeno guizzi particolari, la confezione è quasi lussuosa e cela in parte un contenuto ben realizzato ma privo di grande spessore.

I origins è un film per un pubblico a cui piace il genere, soprattutto quel misto tra scienza, fantascienza e inspiegabile (sovrannaturale sarebbe un parolone troppo grosso in questo caso) che sfocia in storie fuori dall'ordinario, un film che può offrire un buon intrattenimento e che non lascerà deluso troppo pubblico, certo imperfetto, anche criticabile per alcuni versi ma guardandolo senza pretese sicuramente godibile.

venerdì 27 ottobre 2017

LA MECCANICA DELLE OMBRE

(La mecanique de l'ombre di Thomas Kruithof, 2017)

L'esordio del regista Thomas Kruithof avrebbe potuto tranquillamente inserirsi nel filone spionistico-cospirazionista che ha caratterizzato tanto Cinema degli anni 70, di quel Cinema La meccanica delle ombre mantiene anche il piglio e i ritmi, magari poco accattivanti per una parte di pubblico, ma questo è uno dei pochi difetti di un film in fin dei conti essenziale e abbastanza riuscito. La messa in scena di Kruithof è scarna e funzionale, un poco come ormai è anche la vita del protagonista Duval (François Cluzet), un colletto bianco vicino ai sessanta che ha perso il lavoro ed è in cerca da tempo di una nuova occupazione. Gli ultimi anni sono stati duri tra disoccupazione e problemi con l'alcool, poi un giorno, per interessamento di un conoscente (Philippe Résimont), a Duval viene offerto un lavoro dall'enigmatico signor Clément (Denis Podalydès), un uomo che dà poche spiegazioni ma che ha esigenze molto precise. Nonostante la poca chiarezza, la paga è buona e Duval accetta l'incarico. Si tratta di sbobinare nella più assoluta riservatezza dei nastri contenenti le registrazioni di alcune intercettazioni telefoniche che coinvolgono uomini politici, giornalisti e finanche agenti dei servizi segreti. Duval trascrive tutto su carta, non ha contatti con nessuno, lavora nel quartiere della Défense a Parigi, da solo, in un ufficio completamente vuoto, non può parlare con nessuno del suo incarico, una volta alla settimana trova una busta con 1.500 euro sulla sua scrivania, l'esatto importo del suo compenso, l'unica visita che riceve è quella del suo diretto superiore Gerfault (Simon Abkarian). Il nuovo lavoro diventa una routine, fino a che...


La vicenda è ambientata ai giorni nostri, potremmo essere nel 2017, stesso anno di uscita del film, Duval sbobina dei nastri magnetici, informazione analogica trascritta su carta. È la chiara metafora, anche esplicitata in un dialogo tra Duval e Clément, di come il film appartenga a una tradizione del passato, vicina alla New Hollywood, richiama alla mente pellicole celebri come La conversazione di Francis Ford Coppola o I tre giorni del condor di Sydney Pollack, pur con le dovute distanze e senza bissarne gli altissimi esiti. Interessante la disamina di come facilmente l'uomo in situazione di necessità possa cadere in una spirale negativa che col passare del tempo diventa sempre più incontrollabile e senza via d'uscita, François Cluzet è il volto perfetto per dar forma a un protagonista di questo tipo, il classico signore di mezza età che potresti incontrare ogni giorno nell'ascensore, magari dopo che ha passato l'intera giornata a sbobinare audiocassette con informazioni riservate. I risvolti della vicenda, tra intercettazioni e instabilità politica, richiamano anche la realtà di tutti i giorni, diversa critica ci ha visto interessanti parallelismi con la situazione politica francese, film che affonda quindi in quella che ormai è tradizione cinematografica di diversi decenni addietro ma che riesce allo stesso tempo a parlare al tempo presente, tutto sommato esiti da non sottovalutare tenendo conto che si tratta dell'opera di un'esordiente.

Un poco sacrificate le figure di contorno e la presenza femminile qui rappresentata dalla nostra Alba Rohrwacher, per lei una parte che sul finale acquista anche una certa importanza ma che nell'economia del film appare comunque poco approfondita, così come lo è poco anche la figura di Labarthe (Sami Bouajila), uomo dei servizi, entrambe figure che catalizzano la vicenda verso un finale inaspettato (ma intuibile con un pelo d'anticipo per lo spettatore più scafato), strumenti più che veri e propri personaggi. Ad ogni modo ci troviamo di fronte a un buon film, umile nel minutaggio (cosa che non guasta), e a un autore da tenere d'occhio, con l'esperienza che va maturandosi e lo sguardo al classico, Kruithof potrebbe anche riservarci qualche bella sorpresa in un futuro abbastanza prossimo.

lunedì 23 ottobre 2017

BLACK MIRROR - STAGIONE 3

Visto l'enorme successo di critica ottenuto dalle prime due stagioni di Black Mirror si è pensato di mettere più carne al fuoco e uscire questa volta con un'annata composta da sei episodi, il doppio delle precedenti, episodi sempre autoconclusivi e slegati tra di loro se non per alcune delle tematiche trattate e per una coerenza di sguardo che accompagna tutte le singole puntate. Data la qualità altissima tenuta nelle precedenti stagioni avevo timore che il raddoppio delle puntate avrebbe potuto incidere negativamente sul risultato finale, andando a disperdere forze ed energie a scapito della buona tenuta del progetto. Nel complesso Black Mirror rimane probabilmente la serie da vedere, quella più significativa e intelligente tra tutte quelle prodotte in questi ultimi anni. Ad ogni modo una lieve flessione c'è stata in un'annata che a mio parere ha visto due episodi magnifici, uno più bello dell'altro, due di buona fattura e un paio al di sotto del livello medio imposto dalla serie.

Anche gli episodi meno riusciti, Giochi pericolosi e Gli uomini e il fuoco, hanno comunque basi interessanti sulle quali entrambi sono costruiti. Il primo preme il pedale dell'acceleratore per quel che riguarda realtà aumentata e realtà virtuale applicate ai videogiochi, tecnologie che già iniziamo a vedere anche nella nostra società grazie ai moderni visori immersivi delle console di ultima generazione. Giochi pericolosi punta molto sulla tensione, pecca in alcune sequenze nella mera realizzazione e, pur non mancando di spunti di riflessione, funziona forse più come intrattenimento puro, manca insomma di quella spinta terrificante e agghiacciante tipica di Black Mirror. L'episodio Gli uomini e il fuoco risulta invece mal bilanciato tra ritmo, durata e contenuti, spesso prevedibili anche se questi vanno a toccare, come sempre accade, tematiche importanti sulle quali porre molta attenzione: tecnologia applicata alle armi, guerre "pulite" e pulizia etnica.

Bryce Dallas Howard in Caduta libera

Il dittico composto da Caduta libera e Odio universale offre invece buoni risultati, entrambi muovono dallo spunto mutuato dai comportamenti che teniamo quando siamo a contatto con i social media (argomento principe per Black Mirror), dalle relazioni tra le persone sul web e dai fenomeni negativi che si vengono a creare in rete, a partire da quello degli haters fino alla perdita di autostima e alla nascita di sentimenti di vergogna instillati da perfetti imbecilli che spesso purtroppo sfociano in atti estremi messi in pratica da persone deboli o facilmente plagiabili. Caduta libera ci presenta una società dove ogni nostro atto, dal più semplice e quotidiano, può essere votato dagli altri ed è sottoposto a un giudizio che diventa importantissimo per stabilire lo status sociale di una persona; un gesto sbagliato e può iniziare una discesa senza ritorno che potrebbe portare all'esclusione dai giri che contano ma forse anche alla vera libertà. Odio universale porta sotto i riflettori proprio la pratica dell'odio in rete e le sue conseguenze, mischiando il tema con i rischi di hackeraggio che presentano tutte le nuove derive ipertecnologiche della società, bello il primo, parecchio interessante il secondo.

Zitto e balla è uno dei due episodi meglio riusciti di Black Mirror 3, angosciante, disturbante, capace di alzare il livello di tensione minuto dopo minuto. A causa di alcune vicende legate all'uso del web, il giovane adolescente Kenny inizia a venire ricattato da una non meglio identificata personalità anonima (un gruppo? Un singolo individuo?) che invia a Kenny degli ordini tramite cellulare da eseguire immediatamente, pena la pubblicazione di informazioni molto compromettenti sul suo conto. Gli ordini diventano sempre più difficili da eseguire e coinvolgeranno anche Hector, anche lui sotto ricatto e totalmente estraneo a Kenny. L'episodio è di un'angoscia quasi intollerabile se pensiamo che più o meno tutti i giorni, volontariamente o meno, diamo il consenso a qualcuno di violare la nostra privacy in rete, e se pensiamo all'invasività delle nuove tecnologie che ormai sono di uso quotidiano, il ritmo è serratissimo e narrativamente l'episodio è fulminante. Ottimo esito, ma non ancora il migliore.

Zitto e balla

Perché il gradino più alto del podio va sicuramente a San Junipero, incredibilmente l'episodio più positivo e ottimista del lotto (per gli standard di Black Mirror), un episodio che è una poetica storia d'amore al tempo di possibilità scientifiche per noi ancora lontane ma di cui si parla da anni. Una storia d'amore a spasso nel tempo ma che vive splendidamente della nostalgia per gli eighties, fenomeno molto di moda ultimamente, per una volta intravediamo possibilità che, al netto dei soliti dilemmi etici, potrebbero rivelarsi per una volta positive se mai realmente attuabili. Lontano dagli altri episodi finora prodotti da Black Mirror, San Junipero ha quella marcia in più capace di commuoverti, farti versare qualche lacrima, far sempre riflettere e per una volta far intravedere uno squarcio di sereno all'interno dello specchio nero.

Altra ottima annata nel complesso, certo se ci fossimo limitati a tre episodi, San Junipero, Zitto e balla e magari Caduta libera, la stagione sarebbe stata perfetta. Io tornerei ai tre episodi l'anno, ma questa è solo una mia considerazione personale priva di troppo valore, comunque va bene anche così.

San Junipero

sabato 21 ottobre 2017

BLADE RUNNER 2049

(di Denis Villeneuve, 2017)

Riprendere in mano il lavoro realizzato da Ridley Scott nel lontano 1982 per Blade Runner, nonostante il benestare di Scott stesso, si sarebbe potuta rivelare un'operazione molto rischiosa, se non dal punto di vista del botteghino almeno sull'impatto potenziale che il film avrebbe potuto avere su critica e pubblico. Fortunatamente il regista Denis Villeneuve riesce a trovare il giusto equilibrio tra il suo sguardo personale, le novità apportate al mondo di Blade Runner e il rispetto dell'opera originale e dei suoi stilemi, magari allontanandosi ancora un poco da quanto scritto da Philip K. Dick nel racconto che ha ispirato il primo film ma cogliendo alcuni punti fondamentali nel corpo d'opera dello scrittore di Chicago. Volendo tirare subito le somme, anticipando le conclusioni che solitamente si trovano solo al fondo di un commento al film, possiamo dire che non solo il Blade Runner di Villeneuve non delude le aspettative ma anche che sotto alcuni aspetti potrebbe mettere a tacere una parte dei detrattori scagliatisi contro il film diretto da Scott. Come abbiamo detto qualche giorno fa a proposito del film dell'82, a questo si muovevano critiche riguardo i ritmi lenti e una trama poco articolata e intrigante. Intanto mi preme aprire una parentesi per esprimere un'opinione personale sul primo appunto, penso che i ritmi lenti non siano un difetto a priori, dovremmo sempre riflettere sul fatto che prima di oggi c'è stato tanto Cinema, di tutti i tipi, che fuori dai soliti confini noti ce n'è molto altro ancora, e che non tutto questo Cinema, pur producendo ottimi film, viaggia o ha viaggiato a 900 km/h. Da spettatori dovremmo imparare la pazienza, questa molto spesso paga (non sempre per carità, ci sono anche tantissimi prodotti lenti da cestinare senza ripensamenti). Diciamolo senza giri di parole, i ritmi lenti persistono e il film è ancora più lungo del suo predecessore (163 min.), mettetevi il cuore in pace. Si è invece costruito di più sullo sviluppo della vicenda, il lavoro fatto sulla tensione e sulla suspense potrebbe soddisfare anche il pubblico che criticò il primo film, nonostante alcuni fatti siano intuibili con un certo anticipo dallo spettatore (che rimane però sempre con il dubbio), l'ottima messa in scena di Villeneuve, graziata dalla fotografia opprimente di Roger Deakins, stimola a seguire con attenzione l'incedere (lento) della storia.


Sono passati trent'anni da quella famosa caccia ai replicanti, gli odierni esseri artificiali, modelli più avanzati dei vecchi replicanti prodotti dalla Tyrell Corporation, sono stabili e integrati nella società, alcuni di loro come l'agente K (Ryan Gosling) hanno addirittura ruoli operativi nel LAPD, nella fattispecie con il compito di rintracciare e ritirare (eliminare) i vecchi modelli Nexus, inclini alla ribellione. Durante una delle sue missioni l'agente K ritrova degli interessanti reperti che, una volta analizzati, attestano da parte dei replicanti lo sviluppo della capacità di riprodursi, scoperta questa potenzialmente in grado di dare il giro alla società che si è venuta a creare negli anni. Sul luogo del ritrovamento dei reperti K rinviene anche un'incisione con una data, una data particolare presente anche in un suo ricordo d'infanzia, ricordo che dovrebbe essere falso e impiantato dall'azienda che costruisce i nuovi replicanti e che fa capo a Niander Wallace (Jared Leto). Semplice coincidenza o qualcosa di più? Le indagini, anche non autorizzate, di K porteranno a ricollegare le vicende attuali alle figure del vecchio Rick Deckard (Harrison Ford) e della sua amata Rachael.


L'impatto del nuovo Blade Runner sulla cultura pop non lascerà quasi certamente i segni lasciati dall'illustre predecessore, non per demerito del prodotto in sé ma più che altro per un'abitudine e un'assuefazione del pubblico all'uscita di film sempre più spesso destinati a una fruizione usa e getta, persi tra una miriade di produzioni e stimoli che tra sala, televisioni, Netflix (e simili), rete, serialità televisiva, raggiungono quantitativi impressionanti e allo stesso tempo ridicoli, insomma, se da un lato non ci neghiamo nulla, dall'altro rischiamo di non dare nemmeno il giusto valore a ciò che magari lo meriterebbe. Tra un po' di tempo probabilmente 2049 ce lo saremo già scordato, in attesa del nuovo Star Wars. Detto questo, il film è visivamente potente, cupissimo, ci permette di esplorare il mondo che c'è al di fuori della città di Los Angeles e cancella ogni barlume di luce, la speranza è tutta interiore, nascosta tra mille dilemmi, appannaggio in maniera significativa più della vita artificiale che di quella umana, ottima l'idea di sondare l'autocoscienza del sintetico (ecco prepotentemente Dick) non solo per tramite del protagonista K, ma finanche in quello che dovrebbe essere il prodotto virtuale di compagnia, di servizio, del replicante K, l'intelligenza artificiale Joi (Ana de Armas). In più due esseri sintetici tra loro fisicamente incompatibili, in qualche modo romanticamente innamorati, Villeneuve ci presenta una sequenza di tentata unione da applausi, le idee non mancano e sono portate sullo schermo con grande maestria. Ottimi i collegamenti tra i due film che, seppur diversi, non stridono affatto, Ford è ancora un Deckard credibilissimo, forse più di quanto lo era in origine grazie a una raggiunta maturità che l'attore riversa sullo schermo con sapienza, alcuni tasselli, diversi simbolismi, le stesse marche del product placement e altri piccoli rimandi sono le rifiniture capaci di riportare lo spettatore a casa, almeno quelli che più hanno amato Blade Runner. Il film c'è, Villeneuve c'è, il cast c'è, a volte non è detto che alcuni capisaldi intoccabili lo siano poi davvero fino in fondo. Si è rimesso mano alla materia con classe e soprattutto rispetto, qualcuno continuerà ad apprezzare, qualcuno a criticare, giusto, sta tutto nell'ordine delle cose. L'importante è che non si sia sciupato un ricordo solo per tirare su dei soldi, questo non è avvenuto, ed è già un grandissimo risultato.

giovedì 19 ottobre 2017

GHOST IN THE SHELL - L'ATTACCO DEI CYBORG

(Inosensu di Mamoru Oshii, 2004)

Sono passati quasi dieci anni dal primo anime del franchise Ghost in the shell e Mamoru Oshii torna a dedicarsi al mondo futuristico creato dal mangaka Masamune Shirow. Se il precedente film d'animazione diretto dallo stesso Oshii aveva lasciato un segno importante per le potenzialità d'espressione dell'animazione nipponica, sia per quel che riguarda contenuti maturi e di grande interesse sia dal punto di vista squisitamente tecnico ed estetico, il suo sequel tardivo purtroppo disattende le aspettative, almeno per quel che concerne i contenuti.

Il mondo di Ghost in the shell è un futuro remoto (ma se prendiamo in considerazione gli anni in cui è ambientata la vicenda nemmeno poi così tanto) nel quale gli uomini sono ibridati con la tecnologia, molti di loro conservano di umano solo quella che potrebbe essere considerata l'anima (il ghost) ormai inglobata in un corpo quasi completamente meccanico (lo shell), sono insomma dei cyborg a tutti gli effetti. Uno di loro, Batou, è un agente in servizio in forza alla Sezione 9, corpo governativo che si occupa di crimini importanti e fuori dal comune; Batou convive con il ricordo del suo ex superiore Motoko Kusanagi, cyborg avanzato il cui ghost, la cui anima se vogliamo, è ormai dispersa tra le infinite pieghe della rete. Se nel precedente episodio era centrale la figura di Kusanagi, qui è proprio Batou a diventare protagonista indiscusso di questo sequel affiancato dalla giovane recluta Togusa, agente dall'aspetto molto più umano di quello del suo compagno. I due sono chiamati a indagare su episodi multipli di ginoidi, cyborg dall'aspetto femminile adoperati per scopi sessuali, impazziti e divenuti improvvisamente assassini con tendenze suicide, cosa  difficilmente concepibile per dei cyborg sviluppati allo scopo di dare piacere. Dietro questi episodi si celano le macchinazioni ordite dall'azienda Locus Solus per creare profitto, andando anche contro ogni ragionevole questione etica, proprio come spesso avviene anche nel nostro più conciliante presente.


I temi più affascinanti sollevati da Ghost in the shell, quelli sull'ibridazione, sulla coscienza del sintetico, sull'umanità dell'artificiale (temi tra l'altro tornati attualissimi in questi giorni grazie a Blade Runner 2049) sono stati trattati meglio e più ampiamente nel primo capitolo della saga, ne L'attacco dei cyborg ci si ripete un poco e si punta più sulla costruzione della semplice vicenda, non sempre scorrevolissima a dire il vero e neanche troppo appassionante. Tecnicamente il film è riuscito, l'animazione ben realizzata e le sequenze più moderne all'epoca della loro uscita hanno probabilmente destato anche parecchia meraviglia, oggi risultano forse troppo fredde, la colonna sonora, sempre a opera di Kenji Kawai, sembra meno riuscita di quella realizzata per l'episodio precedente, contribuendo così a rendere un poco più soporifere alcune delle sequenze più lente. Non posso fare a meno di pensare che i fan del primo film, dopo un'attesa durata quasi una decade, siano rimasti un po' delusi da questo secondo episodio, probabilmente la scelta migliore potrebbe essere quella di godersi il Ghost in the shell del '95 e poi virare decisamente verso le pagine del manga di Masamune Shirow. In ogni caso per chi poi apprezzasse anche questo film, ricordiamo che sono state realizzate inoltre due serie d'animazione ambientate nel mondo di Ghost in the shell: Stand Alone Complex e Stand Alone Complex 2nd Gig.

mercoledì 18 ottobre 2017

BRADI PIT 155

Oh santa pazienza...


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martedì 17 ottobre 2017

CAOS CALMO

(di Antonello Grimaldi, 2008)

La rappresentazione fredda e composta del dolore provato in seguito alla morte di una persona cara non è sempre facile da digerire, nemmeno in un'opera di finzione; questa riflessione mi sorse già diversi anni addietro quando vidi al cinema La stanza del figlio di Nanni Moretti, casualmente (?) qui solo attore e unico vero protagonista del film diretto da Antonello Grimaldi. Con la visione di Caos calmo quella strana sensazione si ripropone, straniante nella stessa maniera, ma in qualche modo ora più accettabile, non saprei dire se a causa della struttura di questo film o a causa del semplice passare del tempo. In fondo chi può dire quale sia il modo giusto di reagire di fronte a una perdita enorme, chi ha il diritto di sindacare su come ognuno di noi debba gestire il proprio dolore, la propria sofferenza, ammesso che si sia capaci realmente di provarla?

Pietro Paladini (Nanni Moretti) sta passando una giornata al mare insieme al fratello Carlo (Alessandro Gassmann), improvvisamente ai due capita di doversi prodigare per salvare due donne in procinto di affogare. Mentre Pietro salvava Eleonora Simoncini (Isabella Ferrari), sua moglie moriva in un incidente domestico, lasciandolo da solo a confrontarsi con il suo dolore e con la figlia Claudia (Blu Yoshimi), bimba in età elementare.


È proprio la gestione del dolore da parte di Pietro il nodo di un film esistenziale e intimista, una gestione che sembra necessitare di uno stop totale alle abitudini e alle cose della vita quotidiana ma che sembra anche essere priva di sofferenza e di dolore. Dopo aver accompagnato la figlia a scuola, Pietro promette alla bambina, per tranquillizzarla dato il trauma da poco sofferto dalla piccola, di aspettarla per tutta la mattina al giardinetto davanti alla scuola, seduto su una panchina visibile dalle finestre della classe di Claudia. La situazione si ripete, giorno dopo giorno, Pietro si prende una pausa dal lavoro in un momento importantissimo per la sua azienda, una casa di produzione cinematografica in odore di fusione con un grande colosso americano, accompagna Claudia a scuola, scambia due parole con Maria Grazia (Manuela Morabito) madre di una compagna di Claudia, si siede sulla panchina e aspetta. E non soffre, almeno all'apparenza. Piano piano la vita si riempie di altre cose, nuove, semplici, la ripetizione di un giochino quotidiano messo in atto per regalare un momento di gioia a un bambino down, le chiacchiere con il gestore del bar davanti alla scuola, lo scambio di sorrisi con la bella ragazza che porta a spasso il cane (Kasia Smutniak). Il giardino sembra divenire il centro di un piccolo mondo tra il va e vieni dei personaggi di cui sopra, quelli di Marta (Valeria Golino), la cognata mezza matta di Pietro, di Carlo ed Eleonora, dei colleghi d'azienda (Silvio Orlando, Alba Rohrwacher) fino ad arrivare al presidente dell'azienda americana, Steiner (Roman Polanski).


Il titolo del film, caos calmo, sintetizza alla perfezione lo stato delle cose, è un film di sentimenti, anche se trattenuti, inesplosi e poco mostrati, è un film tutto sommato riuscito, nonostante la regia scolastica e dal sapore molto televisivo (Grimaldi ha fatto tanta televisione e si vede), e nonostante all'epoca della sua uscita si sia parlato praticamente solo della scena di sesso tra Moretti e la Ferrari, anche audace se vogliamo, comunque giustificata ma in fondo poco significativa. Moretti accentra su di sé l'intera vicenda, involontariamente, ed è giusto così, il Moretti attore è capace di rendere l'uomo credibile, nel suo (non) dolore, nei suoi ragionamenti, nelle sue azioni. Un bel cast, ingiustificata la presenza di Polanski (da dove sarà saltato fuori?), messa in scena povera ma funzionale per un film italiano in ogni caso da tenere in considerazione per un'eventuale recupero.

sabato 14 ottobre 2017

VERY POP BLOG - I MIEI ANNI 90


E sticazzi, negli anni 90 ero già quasi un vecchio. Ma soprassediamo, che poi tra l'altro non è proprio vero. L'amico carissimo di cui ora mi sfugge il nome... ah! ovviamente sto scherzando... ricominciamo, come diceva Pappalardo, pace all'anima sua. Come? Scusate, mi dicono che Pappa non è morto, scusa anche tu Adriano. Cerchiamo di fare i seri un attimino che qui l'argomento è topico (vedi vocabolario, please). Allora, che si stava dicendo? Ah, si, ecco, giusto... l'amico Marco Grande Arbitro mi ha invitato gentilmente a partecipare a questo simpatico excursus (di nuovo il vocabolario, grazie) sul viale dei ricordi, ideuzza ideata da quell'ideale ideatore di idee malsane che va sotto il nome di Moz. Di che si tratta? Non so, aspettate un attimo che vado a documentarmi... clessidra, clessidra, clessidra... si ok rieccoci, ecco fatto. Di che si tratta dicevamo? Trattasi di rimembrare di cosa ci si beava nel decennio in questione, andando a sfruculiare tra gli argomenti più disparati e dando una visione della materia vista con gli occhi del bambino che si era allora (seee, ci piacerebbe, bambino...), bene andiamo a cominciare. Beh, è una parola, la mia memoria è bruciata, non solo quella a breve, ma dovrei essermi tatuato qualcosa per ricordare, gli anni 90, dove sono..., ecco, me li sono appuntati sul culo, non riesco a leggere... ok, prendo uno specchio. Maledetti peli. Ecco, ci siamo. Quindi? Cosa mi si chiede con precisione...? Si.



Musica: beh, si era nel periodo rock, hard rock, grunge. Il Live at Donington degli AC/DC consumato in vhs, il glam rock degli Extreme (mio primo vero concerto a Milano, tour di III sides to every story, giù il cappello boys), l'amore viscerale per i Pearl Jam e per il grunge in genere, con un occhio di riguardo a Stone Temple Pilots (ciao Scott), Soundgarden (ciao Chris) e Alice in Chains (ciao Layne), puttana Eva che tristezza, son tutti morti, compreso Kurt, ci rimane solo Eddie, Dio l'abbia in gloria e ce lo preservi. Ancora vivissimo l'amore per i Queen, prima band di cui mi innamorai, altro morto, pomeriggi interi a studiarne i dischi, ricordo vivissimo quello del Freddie Mercury Tribute, evento dopo il quale le mie allora scarse conoscenze musicali si ampliarono tantissimo, era Pasquetta ricordo, non andai fuori con i miei amici per vivermi la diretta del concerto, una roba da brividi. Poi si aprì un mondo, mica posso parlare di tutto: Metallica, Dream Theater, Faith No More, Aerosmith, Korn... in Italia giusto Litfiba e Almamegretta, altro grande amore gli Oasis con tanti ricordi dei loro pezzi legati ai due viaggi più belli della mia vita, The division bell dei Pink Floyd, Blaze Bealey negli Iron (mah!), i concerti dei Too Rude al McRyan's e tantissimo altro, dal punto di vista musicale decennio spettacolare.



Cinema: decisamente più difficile qui ricordare qualcosa in particolare, soprattutto se intendiamo il Cinema in sala (e visto che dopo c'è la più generica categoria film...), più che altro sfruttavamo con mio fratello le tessere per il noleggio delle vhs, allora esistevano ancora i videonoleggi... però ricordo un bel periodo nei 90 durante il quale uscivo con il gruppo di amici di mio cugino e si andava spesso al cinema, ora tirare fuori i titoli è dura, non li ho tatuati tutti, sicuramente vedemmo tutti insieme Indipendence Day, Sleepers e chissà cos'altro. Iniziai ad andare a vedere anche i cartoni animati al cinema nei 90, grazie alla passione di mia moglie per la Disney, non era ancora mia moglie, lo diventò nel decennio successivo e lo è ancora adesso in quello successivo ancora. Impressionante, e la chiuderei qui.

Film: come dicevo, si andava giù di vhs, anche di cinema per carità ma meno, almeno nella prima metà del decennio, poi si sfruttavano anche le sale di seconda visione (ma ce ne sono ancora?). Comunque il primo film che mi viene in mente è, forse banalmente, Pulp Fiction, insieme a Le iene lascia un segno grandissimo, poi I soliti sospetti, Seven, Magnolia, Fargo, Clerks, Il grande Lebowski, Quei bravi ragazzi, Heat - la sfida, Leon, Trainspotting, Donnie Brasco, Carlito's way e chissà quanta altra roba ancora. C'è da godere anche qui...



Comics: nei 90 si ripresero le pubblicazioni legate alla Marvel in Italia, ricordo con affetto il mensile dell'Uomo Ragno edito dalla Star Comics con in appendice le storie degli X-Men, sicuramente lessi tanto Martin Mystère, fui folgorato dall'arrivo di Lazarus Ledd, poi ci fu il materiale di qualità altalenante proveniente dalla Image Comics (Spawn, Wildcats, Stormwatch, etc...), insomma anche qui troppa roba da elencare e ridurre a pochi nomi. Menziono ancora Alpha Flight di Byrne e le cosette di Malibù e Comics Greatest World's.



Videogames: mai stato un vero appassionato di videogames, mai posseduto una console a parte la Wii che uso pochissimo (ora niente), però nei 90 avevo ancora l'Amiga, con gli amici si giocava più che altro a Sensible Soccer, da solo o con mio fratello ad altre cose (International soccer?), Monkey Island, Lemmings, Arkanoid, Cabal, Toki e diverse altre cose più becere come Final fight? Non ricordo, quei due tipi che davano mazzate con le All Star della Converse, poi ancora Last Ninja III e quell'altro, cos'era? Golden Axe forse e poi Out run, sì, alla fine si giocava parecchio :)



Televisione: Inizio 90 lo Zio Tibia, tanto Wrestling WWF quando ancora i personaggi erano dei fighi e non solo semplici lottatori in mutande, Ken il guerriero più e più volte, Holly e Benji (e mi persi la finale con la Muppet che ero in vacanza e non avevo il tv), poi che c'era nei 90 in tele? Boh...



Cibo: ora un appunto all'ideatore Moz lo devo fare... ma che cazzo di categoria è cibo? Mangiavo la pasta, la carne, quello che mangiano tutti i cristiani, ora capisco che a te piacciono i gelati e ti piace provare pure le peggio schifezze al mondo, ma che cazzo di categoria è cibo? Nei 90, dopo un'infanzia passata coi nonni, ero stabilmente tornato a casa coi miei genitori, mia madre aveva smesso di lavorare con la nascita di mio fratello e quindi si poteva stare tutti a casa. Però essendo i miei nonni, che mi hanno cresciuto, come altri genitori per me, la domenica continuavo a mangiare da loro, non con la famiglia, solo io con i nonni, allora ricordo che mi nacque l'avversione in parte viva ancora oggi per il pollo (che mia nonna mi proponeva di continuo), però ho anche bei ricordi legati a una cucina casalinga che con quei sapori lì non c'è più (perché non ci sono più i miei nonni), la fettina ai ferri, quei bellissimi piatti di pasta e fagioli, a lengua mbuttonata (la lingua ripiena), il fottutissimo pollo arrosto, i torcetti bagnati nel vino (e sticazzi), gli stick fatti in casa, le palline colorate di zucchero sulla torta, la puzza dello stock messo a bagno sul balcone... quanti ricordi. Alla fine questa categoria non era poi così male devo dire, mi sono quasi commosso a ricordare tutta questa roba, vedi il Moz che all'apparenza sembra tirare fuori minchiate ma poi la sa più lunga di tutti noi, e grazie anche al Grande Arbitro per questa bella possibilità di mettere nero su bianco un po' di passato. A proposito di passato: le rollatine nel sugo.


Libri: Stephen King principalmente, avevo più di adesso un feeling con i classici, Dostojevski ad esempio, non so perché ricordo bene Jack Frusciante è uscito dal gruppo, in generale ho sempre letto molto, a ricondurre ad anni precisi i libri letti faccio fatica, i primi di Culicchia, l'incontro con Ellroy, una marea infinita di roba...

Shopping: ora passi il cibo, ma lo shopping? Andavo a fare la spesa all'A&O. Alla Rinascente si andava a fare sega, qualche musicassetta da Maschio o da Disco Shopping in C.so Traiano, i fumetti e anche diversi libri in edicola. La carne dal macellaio, i jeans alla Facit. Questa però fa veramente schifo, vi mando allegramente e con affetto a cagare tutti e due.


Life e Ricordo dell'epoca: incontrai mia moglie, non scendiamo in dettagli, please.

Vi ricordo le regole imposte dal Moz:
1- Elencare tutto ciò che per noi sono stati gli anni '90, in base ai vari macroargomenti forniti (nota: parlare del vissuto dell'epoca, non di ciò che il decennio rappresenta per noi oggi! Chi non era ancora nato può parlare invece per esperienze indirette!);
2- Avvisare Moz dell'eventuale post realizzato, contattandolo in privato o lasciando un commento in calce allo stesso post sul suo blog
3- Taggare altri cinque bloggers, avvisandoli.

Ed ecco i cinque fortunati vincitori.
1) Urz: non è un blogger, non scrive molto, lui sa chi è, ma se avesse voglia di partecipare al gioco pubblicherò io volentieri i suoi ricordi.
2) Pensieri Cannibali
3) e quindi anche White Russian
4) Frammenti e tormenti
5) Glo di La nostra libreria

giovedì 12 ottobre 2017

BLADE RUNNER

(di Ridley Scott, 1982)

Pur non potendo negare l'aura da film di culto che Blade Runner ancora oggi sprigiona con forza, non è difficile capire perché al momento della sua uscita nelle sale la pellicola abbia diviso critica e pubblico in fazioni opposte e avverse; a trentacinque anni di distanza non si è ancora giunti a una conclusione (impossibile da raggiungere) che possa definitivamente collocare Blade Runner tra i capolavori assoluti del Cinema o semplicemente nel reparto più ristretto del cult di genere, in questo caso fantascientifico o al limite neo-noir. I detrattori imputano al film di Ridley Scott principalmente carenza di ritmo unita a una trama non troppo convincente e articolata, punto di vista tutto sommato rispettabile, e una predilezione per l'impianto visivo più che per quello narrativo, in fondo Scott arriva dalla fotografia e dalla pubblicità, e anche in questa osservazione potrebbe esserci del fondamento. Di contro i fan del film esaltano proprio la componente visiva, indubbiamente forte e vincente, unita alla profondità dei personaggi (se ne può discutere) e alle varie riflessioni esistenziali che il film può sollevare, anche questi aspetti indubbiamente interessanti e condivisibili.

A mio modesto parere, come spesso accade, la verità sta nel mezzo, e tutti gli aspetti relativi al film venuti fuori da ampie analisi critiche sono parimenti accettabili. Il ritmo della narrazione è indubbiamente lento, potrebbe far storcere il naso a più di uno spettatore "moderno" o giovane (con questo non voglio dire che...), abituato magari a ben altro incedere, teniamo però conto che parliamo di un film che non supera le due ore, è pur vero che la soglia d'attenzione umana non è altissima ma dovremmo ancora essere capaci di concentrarci per un tempo tutto sommato contenuto nonostante sullo schermo non si avvicendino a frequenza elevata scene di sesso, violenza, esplosioni, inseguimenti. Uomo, you can do it. Superato questo scoglio, passiamo alla trama. Vero anche qui che non c'è da gridare al miracolo, nulla di davvero particolare ma è anche vero che i personaggi, i replicanti nella fattispecie, sono affascinanti e sollevano dilemmi morali su argomenti quali autocoscienza dell'essere sintetico, intelligenze artificiali e compagnia cantante, temi oggi sempre più attuali e interessanti, lo facevano già nel 1982, caricando anche di una sorta di romanticismo personaggi che si rivelano tutt'altro che fredde macchine e che, anche se poco tratteggiati, riescono a lasciare il segno in poche e riuscite sequenze, e penso soprattutto al Roy Batty interpretato da Rutger Hauer che sdogana nell'essere artificiale la compassione, il perdono, l'amicizia, il dolore e la rassegnazione, personaggio additato da molti come figura metaforicamente cristologica, alcuni simbolismi confermano, forzandola un po' l'intuizione potrebbe anche essere pertinente.


Per rimanere sul pezzo: la citazione estrapolata dal contesto la conoscono anche i muri, inserite all'interno del film le parole pronunciate sul finale da Batty hanno effettivamente una carica emotiva molto forte, parole giustamente divenute eterne nell'ambito della storia del Cinema: Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi... navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser... e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo... come lacrime nella pioggia... è tempo di morire. E chinato il capo spirò. E intanto una pioggia incessante cade sul capo biondissimo di Batty, sul suo volto e sul volto del suo antagonista, il cacciatore di replicanti Rick Deckart (Harrison Ford), una colomba bianca spicca il volo, e non capiamo chi stia piangendo per chi, le lacrime si perdono davvero in una pioggia nitida della quale ci sembra di percepire ogni singola goccia, immagine perfetta. Ed è effettivamente per le immagini, per la confezione, per i tagli di luce, per le scenografie, per il connubio perfetto tra le musiche e quel che scorre sullo schermo che Blade Runner può considerarsi un vero capolavoro, da questi punti di vista il lavoro fatto da Scott e dalla sua squadra è oggettivamente inattaccabile.


Le panoramiche dall'alto sulla Los Angeles del 2019 rimandano a un futuro oscuro e cupo, tecnologizzato, scendendo verso il basso la visione della città è stupefacente tra veicoli volanti, immagini pubblicitarie iconiche (il volto della ragazza asiatica) e finanche un uso sapientissimo del product placement, credibile, anche bello e (immagino) remunerativo, tra loghi di Coca Cola, Atari e Budweiser. A livello della strada la città è sporca, ci mostra una società multiculturale a prevalenza asiatica, buia, illuminata solo dai neon delle attività commerciali, povera. Chi ha potuto è scappato sulle colonie fuori dalla Terra, luoghi dove si usano come forza lavoro i replicanti, uomini artificiali forti, resistenti e intelligenti, dalla vita però limitata nel tempo. I replicanti che evadono dalla strada per loro tracciata vengono ritirati (eliminati) dal corpo di polizia Blade Runner del quale Rick Deckart è un ex esponente ora richiamato in attività proprio per fermare quattro di questi replicanti fuggiti e ormai autocoscienti. L'incontro tra occhio e orecchio crea un piacere duplice e allo stesso tempo unisono, la colonna sonora di Vangelis è impeccabile e dona una profondità aggiuntiva alle sensazioni provocate dalle immagini del film, connubio assolutamente prezioso. Splendida la fotografia nell'uso espressivo della luce e delle ombre.

Quindi? Capolavoro? Film di culto? Non lo so e neanche importa, sicuramente tassello importante per la fantascienza ma anche per il Cinema tutto, film indubbiamente da vedere, rivedere, magari rivalutare in attesa di dare un'occhiata al recente sequel a opera del regista Denis Villeneuve da pochi giorni nelle sale. Stay tuned.

martedì 10 ottobre 2017

BRADI PIT 154

Mallo si prende la scena!


Clicca sull'immagine per ingrandire.

Aiutaci a diffondere il verbo del Bradipo linkandolo. Fallo tu perché il Bradipo fa n'caz.

sabato 7 ottobre 2017

A-Z: ANTIMATTER - LIGHTS OUT

È una sirena d'allarme quella che ci introduce al secondo lavoro della band britannica degli Antimatter, un suono che riporta alla mente gli allarmi preposti alle evacuazioni, i segnali d'annuncio di un attacco aereo imminente, tutte cose poco serene e rassicuranti, così come non lo sono le otto tracce contenute nell'album Lights out - "Luci spente" - titolo rappresentativo di una perdita di fiducia e di speranza senza possibilità di recupero.

Il progetto Antimatter nasce nel 1998 dall'incontro del musicista Mick Moss con l'ex membro degli Anathema Duncan Patterson, entrambi compositori capaci di attingere a fonti d'ispirazione comuni nonostante la loro abitudine nel creare pezzi in maniera del tutto individuale e non collaborativa, pezzi che trovano poi, quasi incredibilmente, un amalgama perfetto all'interno di album dalla cifra stilistica assolutamente coerente. La via delle composizioni separate viene percorsa dal duo per l'assemblaggio del loro album d'esordio Saviour (2002) e riproposta l'anno successivo per questo Lights out.

L'album si apre con l'inquieta sirena già citata, il suono si scioglie progressivamente in un ingresso evocativo di tastiere ed elettronica minimale, la voce di Hayley Windsor ci introduce alle atmosfere pessimistiche delle liriche, contrastata in maniera perfetta dalle splendide chitarre acustiche di Patterson e Moss, di quando in quando il bip di uno strumento per monitorare i battiti cardiaci scandisce una tensione palpabile, fredda e rassegnata ad una visione nera dell'animo umano, puntuali raddoppi vocali e un verso significativo (Lights out and you hit the ground) chiudono la titletrack. Con Everything you know is wrong arriva il primo gioiello dell'album, giocato tra l'incedere di un piano oscuro, accenni di trip hop e voci misurate volte ad esprimere tutto il disincanto e la perdita di riferimenti che Moss, autore del brano, sintetizza in maniera ficcante nelle poche parole del titolo del pezzo che si concede anche una bella coda space rock. È ancora la voce della Windsor a illuminare l'oscura elettronica di The art of a soft landing, questo terzo pezzo conferma come l'ascolto al buio, in cuffia, sia quello migliore per apprezzare al meglio i raddoppi delle voci, le atmosfere oscure, i passaggi più tesi e corposi così come quelli più delicati di un album dal potenziale enorme, in questo brano brevi squarci industrial e passaggi che richiamano anche i Tool dello strambo (e sicuramente più ironico) Message to H.M. Expire richiama i suoni dei Massive Attack, una discesa nel disagio, forse nella follia verso una terribile soluzione finale: I've a solution, final solution. I passaggi da un brano all'altro sono calibrati alla perfezione lungo la creazione di un mosaico di pezzi dalle sfumature diverse ma con incastri a orologeria che uno dopo l'altro funzionano senza intoppi con precisione svizzera. L'uso sapiente dei tappeti elettronici e delle belle linee melodiche, le improvvise accelerate, gli ottimi inserti di basso (vedi In stone)  che contribuiscono a comporre un album di sicuro interesse, vengono compromesse soltanto, se proprio vogliamo trovare un difetto a questo Lights out, dall'assenza di luce nei toni e nei testi dei brani, composizioni di un pessimismo che potenzialmente potrebbe rivelarsi duro da digerire per diversi ascoltatori. Reality Clash segue i binari tracciati da diversi brani precedenti, presenta brevi passaggi di chitarra di forte impatto e sfocia ancora una volta in un misto di elettronica e trip hop. Con Dream, vera perla dell'album, si apprezza al meglio la seconda voce femminile presente in Lights out, quella di Michelle Richfield, fugacemente apparsa in Expire e In Stone, brano questo forse più canonico ma di grandissima bellezza. In chiusura la strumentale Terminal, pezzo che nasce delicato per andarsi via via a scomporre in passaggi più cupi e angoscianti per chiudersi ancora sul suono di un battito cardiaco filtrato da una fredda macchina.

Come sta a dimostrare la copertina del disco, la luce è flebile ed è lontana, persa in un mare d'oscurità, starà a noi trovarla in mezzo alla bellezza dei suoni oscuri propostici da Moss e Patterson, poi ci sono momenti in cui crogiolarsi in stati d'animo meno solari e sorridenti non si rivela per forza una brutta cosa. Allora, Antimatter, Lights out... spegnete le luci.



Lights out, 2003 - Prophecy

Duncan Patterson: voce, basso, chitarre, tastiera
Mick Moss: voce, basso, chitarre, tastiera
Hayley Windsor: voce (brani 1, 2, 3)
Michelle Richfield: voce (brani 4, 5, 7)
Jamie Cavanagh: percussioni addizionali

Tracklist:
01  Lights out
02  Everything you know is wrong
03  The art of a soft landing
04  Expire
05  In stone
06  Reality clash
07  Dream
08  Terminal
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