sabato 25 febbraio 2023

LE VERITÀ

(La vérité di Hirokazu Kore'eda, 2019)

Con Le verità, film del 2019, si chiude idealmente la breve rassegna dedicata al cinema di Hirokazu Kore'eda messa a disposizione da Raiplay con il nome di Ritratti di famiglia. Fresco della Palma d'oro a Cannes per Un affare di famiglia il regista giapponese si trasferisce all'estero per filmare per la prima volta un'opera recitata in un'altra lingua; Kore'eda sceglie la Francia, con Le verità l'autore nipponico, pur mantenendo la sua sensibilità, realizza un film dal chiaro respiro europeo, uno di quei film all'apparenza molto eleganti e costruiti che qui da noi definiamo senza ombra di dubbio cinema d'autore (e altrettanto senza dubbi Kore'eda si può definire un autore), avvalendosi tra l'altro di due pilastri del cinema francese: l'eterna Catherine Deneuve e l'altrettanto iconica Juliette Binoche alle quali si affiancano Ludivine Sagnier, Manon Clavel e l'extracomunitario Ethan Hawke qui un po' provato dal fuso orario. Ancora una volta sotto la lente d'ingrandimento di Kore'eda finiscono i legami familiari, con Le verità è la volta di esplorare un difficile rapporto tra madre e figlia in un'ambiente alto borghese che ruota attorno al mondo del cinema; rispetto ai precedenti lavori realizzati in terra giapponese è evidente qui qualche scarto di forma, qualche variazione di stile e una sensibilità diversa nel racconto, con un regista che porta i suoi temi e la sua sensibilità a Parigi e che sembra infilarsi appieno negli umori di un certo tipo di cinema europeo elegante e a volte fin troppo pulito.

Fabienne (Catherine Deneuve) è un'attrice parigina di grande fama ormai sul viale del tramonto; l'attrice comunque lavora ancora, al momento sta girando un film di fantascienza accanto alla giovane emergente Manon (Manon Clavel) che, pur più giovane di lei di alcuni decenni, nel film interpreta sua madre. Nello stesso periodo esce nelle librerie la biografia di Fabienne scritta da lei stessa, per l'occasione vengono a trovarla dagli Stati Uniti sua figlia Lumir (Juliette Binoche), ex aspirante attrice e ora sceneggiatrice per Hollywood, suo marito Hank (Ethan Hawk) attore di secondo piano alla ricerca del suo primo ruolo da protagonista e la loro figlia Charlotte (Clémentine Grenier), una bimba che allieterà le giornate di nonna Fabienne la quale farà credere alla nipote di avere qualche potere da vecchia strega. Poco dopo si palesa in casa di Fabienne anche l'ex marito Pierre (Roger Van Hool) papà di Lumir. Fabienne è una donna molto egocentrica ed egoista che ha sempre messo al primo posto la sua vanità e la sua carriera, da quel che si può intuire da questo incontro anche a discapito di amicizie e del rapporto con una figlia che è fuggita e si è allontanata dalla madre covando un astio tenuto a bada e mai completamente espresso. L'incontro sarà occasione per qualche chiarimento e spunto per più di una riflessione.

Senza girarci troppo intorno devo ammettere che questa escursione europea di Kore'eda, pur valida e strutturata con grande intelligenza, mi ha fatto un po' rimpiangere le sue opere giapponesi; in Le verità sembra che manchi quella forza espressiva, così garbata ma altrettanto sincera, che emergeva in maniera naturale da opere come Father and son, Un affare di famiglia o da Little sister. I motivi di interesse anche qui non mancano, Kore'eda lavora molto su ciò che non viene espresso, oltre agli attori in campo è presente un'altra protagonista che non compare mai sullo schermo, Sara, una donna che apparentemente è stata molto importante per Lumir e della quale solo sul finale sapremo qualcosa di più; c'è poi il sacrificio dei legami più stretti a vantaggio di una carriera luminosa, della fama e dell'appagamento personale, scelta che rende Fabienne un personaggio da esplorare solo all'apparenza volto in un'unica direzione, la superficie può essere scalfita proprio attraverso il cinema, argomento centrale in questo Le verità così come è centrale la finzione, non solo quella del set sul quale Fabienne recita ma anche quella messa in scena sul set della vita, con una donna che spesso finge di non ricordare le cose, finge in buona misura nello scrivere la sua autobiografia, e non finge probabilmente solo quando pensa a come alcune situazioni avrebbero potuto portarle maggior vantaggio se avesse finto di più. Kore'eda si muove quasi solo in interni, nella bella casa di Fabienne e sul set, Parigi e la Francia non sono mai vere protagoniste se non attraverso i volti iconici della Deneuve e della Binoche, è stata una trasferta intima questa di Kore'eda, ne esce però un film riuscito ma un po' più ingessato e meno coinvolgente delle sue opere precedenti. Personalmente auspico un ritorno in patria.

mercoledì 22 febbraio 2023

LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI

(Night of the living dead di George A. Romero, 1968)

In un mondo in subbuglio, siamo nel 1968, un giovane regista con alcuni sodali realizza, in maniera in gran parte involontaria, quello che si può indicare senza timore di sprecarne la definizione come un cult movie vivo e vegeto ancora oggi (o "non morto" se preferite), cinquantacinque anni sul groppone e camionate e camionate di tecnica a sorpassare a destra senza riuscire a scalfirne l'importanza seminale. Parliamo de La notte dei morti viventi, film girato da George A. Romero con una cifra tutto sommato irrisoria anche per l'epoca e che è stato capace di rivoluzionare il modo di guardare all'horror, alla figura del non morto ma soprattutto alla valenza politica e sociale che il genere aveva (e ha) la capacità di assumere quando gestito in maniera intelligente. Il film generò poi diversi sequel, filoni paralleli, remake, rivisitazioni e chi più ne ha più ne metta, ma, almeno a sentire Romero nelle interviste da lui stesso rilasciate, gran parte di ciò che si è letto nel film, di ciò che nel film è presente ed è poi stato tramandato e sviluppato, sviscerato e santificato, nasce da un'involontario spirito di adattamento a quello che era un budget risicato, e qui sta la maestria, con il quale, senza saperlo, regista e maestranze stavano realizzando quello che diverrà un pezzo fondamentale di storia del cinema. La notte dei morti viventi è girato in un bel bianco e nero evocativo, anche inquieto, scelta indovinatissima ma un po' smitizzata dal fatto che è stata presa semplicemente perché la pellicola da 16mm a colori costava troppo, retroscena che non toglie nessun merito all'esito finale del film. Gli attori non erano volti noti, alcuni di loro non torneranno più al cinema, nessuno avrà una carriera particolarmente brillante, le comparse furono prese tra la gente del luogo prestatesi a gratis per curiosità o per lo sfizio di apparire in un film, il trucco arrangiato, gli effetti speciali realizzati con mezzi non tanto speciali. Eppure tutto sembra incastrarsi al giusto posto in maniera ineccepibile...


Barbra (Judith O'Dea) e suo fratello Johnny (Russell Streiner) sono in viaggio da diverse ore per raggiungere il cimitero dove è sepolto il padre; una volta giunti sul luogo i due incontrano uno strano figuro che da subito si rivela essere mortalmente pericoloso, da questo incontro Johnny non uscirà vivo, Barbra riuscirà a fuggire per poi rifugiarsi in una casa isolata dove l'aspetta un'altra dose di orrore. La ragazza ormai è sotto shock, per sua fortuna in casa c'è un altro estraneo, un uomo di colore di nome Ben (Duane Jones) anche lui rifugiatosi lì in quanto all'esterno qualcosa di davvero inquietante sta succedendo. La gente è diventata violenta, afflitta da istinti cannibali incontrollabili, i morti non muoiono (The dead don't die risuona nella testa, grazie Jim), il male si diffonde e ai due non resta che barricarsi in casa, una casa che nella sua cantina nasconde già i coniugi Cooper, Harry (Karl Hardman) e Helen (Marilyn Eastman) con la loro figlioletta Karen (Kyra Schon) che è stata ferita da uno dei "mostri" là fuori, e la coppia di giovani fidanzati composta da Tom (Keith Waine) e Judy (Judith Ridley). La situazione di crisi farà emergere il carattere e la forza dei vari protagonisti dando vita a dinamiche analizzate poi nel corso degli anni a venire più e più volte, ai sopravvissuti non rimane che asserragliarsi all'interno e cercare di capire quale sia la via migliore da seguire per uscire da quella terribile situazione.


A uno spettatore giovane che approcciasse oggi per la prima volta la visione de La notte dei morti viventi il film di Romero potrebbe risultare fin troppo ingenuo, in fondo nel corso dei decenni di cose ne abbiamo viste e ci siamo abituati a schermi che per impatto visivo ci propongono ben altre efferatezze. In effetti qualche ingenuità c'è: questi cadaveri ambulanti per lo più sembrano impacciati, non troppo forti, in contrasto a quella prima sequenza dove uno solo di loro riesce ad avere la meglio su un giovane Johnny, lo stesso assassino sembra essere dotato di una buona agilità mentre in seguito Ben afferma di essersi sbarazzato di diversi di loro senza grosse difficoltà. In fondo parliamo sempre di un esordio girato con pochi mezzi, eppure anche rivisto oggi nel suo complesso il film funziona molto bene e sfrutta al meglio la struttura spesso claustrofobica dell'assedio in seguito riproposta da parecchio cinema di serie B (e non solo) con ottimi risultati, pensiamo solo al Carpenter di Distretto 13 - Le brigate della morte (che a questo film deve tantissimo) o di Fantasmi da Marte (come sopra). Molte le chiavi di lettura politiche e sociali che si sono accostate all'opera di Romero, la più interessante è forse quella sul razzismo che lo stesso Romero afferma di aver percepito come tale solo a film concluso e in seguito alla notizia dell'assassinio di Martin Luther King, il suo protagonista principale è infatti un nero in un mondo che sembra fatto di soli bianchi, il finale, che qui non sveliamo in caso ci siano eventuali giovanissimi incuriositi, rimane attualissimo ancora oggi, capace di veicolare critiche e riflessioni, poco importa che siano queste state volontarie o meno al momento della realizzazione del film. Se la lettura politica rimane la più interessante, quella sociale che vuole i non morti come avidi consumatori insaziabili, metafora del capitalismo più bieco allora in piena espansione, non è da meno anche se la si riconduce in misura maggiore al secondo capitolo della saga, quello Zombi (Dawn of the dead) con le sequenze girate al centro commerciale. Valutando il rapporto tra mezzi e risultato, le dinamiche tra i protagonisti e il valore simbolico che si può dare a ognuno di loro e la nascita della figura dello zombi come tutti noi oggi la conosciamo (e che prima non esisteva), più che un ottimo film La notte dei morti viventi si può considerare ancora oggi come un piccolo miracolo del cinema, mica male per un esordio.

sabato 18 febbraio 2023

UN AFFARE DI FAMIGLIA

(Manbiki kazoku di Hirokazu Kore'eda, 2018)

Con Un affare di famiglia Hirokazu Kore'eda continua la sua esplorazione dei rapporti familiari portando a un ulteriore livello una riflessione già affrontata nel precedente Father and son, ovvero l'importanza dei legami di sangue all'interno di un nucleo familiare in contrapposizione a quelli creati invece dalla vicinanza, dall'affetto, dalle esperienze condivise e dall'amore. Se in Father and son una condizione di crisi portava a ripensare le figure paterne e i loro rapporti con i relativi figli, in questo Un affare di famiglia Kore'eda scombina le carte in misura maggiore proponendoci un'unità familiare che dei legami di sangue si preoccupa davvero poco, centrata su una dura sopravvivenza e un solidale sostegno tra i membri di questa famiglia sui generis all'interno della quale non mancano grandi dosi di sincero affetto. Si può dire quindi che bastano davvero poche opere del regista nipponico per rendersi conto di come questo persegua un discorso ben preciso mettendo in campo una cifra autoriale ben delineata sul solco di alcuni grandi classici giapponesi del passato e una sapienza che esula dal virtuosismo per trovare conforto nella sensibilità, nella verità e in uno sguardo lucido e pacato che fissa sì l'uomo ma che con la coda dell'occhio non manca mai di cogliere la società circostante e i suoi mutamenti, a partire da quelli di un'istituzione centrale come quella familiare in un paese a forti tinte tradizionaliste come il Giappone.

Al centro del racconto c'è una famiglia povera di Tokyo, un gruppo di persone che vive in una vecchia casa tradizionale, dagli spazi ristretti, in un quartiere dove ormai questa è circondata da condomini e casermoni. Osamu Shibata (Lily Franky) è un operaio edile che lavora a chiamata, poco incline alla fatica preferisce trovare degli espedienti per vivacchiare e cavarsela senza spaccarsi la schiena; l'uomo ha perfezionato con l'aiuto del piccolo Shota (Jyo Kairi) un sistema di comunicazione per rubare impunemente nei supermercati, il ragazzino cresce con l'idea che la cosa, seppur da fare con prudenza, non sia del tutto sbagliata. Una sera, tornando a casa, i due si imbattono in Yuri (Miyu Sasaki), una bambina di pochi anni abbondonata al freddo su un balcone. Osamu e Shota decidono così di prendersi cura della piccola e di portarla a casa loro, vestirla, darle da mangiare. Ad attenderli qui c'è la compagna di Osamu, Nobuyo (Sakura Ando), che da prima sgriderà l'uomo per poi affezionarsi molto a questa bambina che, inizialmente non reclamata, accetterà di buon grado di rimanere con gli Shibata i quali le riversano addosso una bella dose di premure e attenzioni. Ma la vita è dura, la bambina è chiaramente stata maltrattata in passato, la stireria dove lavora Nobuyo sta tagliando il personale, la nonna Hatsue (Kirin Kiki) vive con una misera pensione, la sorella di Nobuyo, Aki (Mayu Matsuoka), guadagna qualcosa lavorando in un sex club per guardoni e quello che a tutti gli effetti è stato un "amorevole" rapimento non rimarrà taciuto a lungo. L'equilibrio di affetti creato dagli Shibata, seppur sincero, pian piano lascia intravedere alcune crepe che stanno a monte della loro unione.

Con Un affare di famiglia Kore'eda affronta in maniera decisa il tema dei legami, prendendo in considerazione un modello familiare che non è più nemmeno quello della "famiglia allargata" come abbiamo in qualche modo visto in Little sister, ma è un organico completamente (o quasi) costruito, dove il filo che tiene uniti gli elementi è sì la necessità ma anche quella voglia sincera di stare insieme, di sentirsi parte di un nucleo; il personaggio di Lily Frank ricorda per alcuni aspetti il papà amorevole e scansafatiche di Father and son ma Kore'eda sposta il ruolo di quello che è uno dei "suoi" attori (presente anche in Little sister) decisamente oltre. Un contesto nuovo nel quale tutto è rose e fiori? Certamente no, la domanda che rimane è però da non sottovalutare: "è meglio per una bambina crescere con i propri genitori quando questi la maltrattano, la abbandonano chiusa al freddo su un balcone, o forse per lei sono meglio degli estranei un po' sgangherati ma premurosi e affettuosi?". Nel continuare a indagare la famiglia Kore'eda non dimentica le immagini, pur nel suo stile garbato inanella alcune sequenze degne di nota, ad esempio la scena degli Shibata che riuniti guardano i fuochi d'artificio, ripresa dall'alto, dalla giusta distanza per ammirare il gruppo che si compone, i loro sguardi, la serenità del momento. In più, come da poco visto in Lee Chang-dong con il suo Oasis per la Corea del Sud, c'è qui anche la presa di coscienza di una società, quella giapponese in questo caso ma vale un po' per tutte, che non riesce a pensare possibili soluzioni fuori dagli schemi, se in Oasis si faceva fatica ad accettare il rapporto con un uomo di una donna portatrice di handicap, qui la società non può contemplare legami che non siano quelli sanciti dalla legge o tradizionali. Altri spunti interessanti per un film denso e riuscitissimo premiato con la Palma d'oro nell'edizione del 2018 del Festival di Cannes.

mercoledì 15 febbraio 2023

XIAO WU

(di Jia Zhang-ke, 1997)

Il 1997 è un anno di grande cambiamento per la Cina, l'evento principale per la Repubblica Popolare Cinese in quell'anno fu il ritorno sotto la sua sovranità della fino ad allora colonia britannica di Hong Kong. Per chi ha avuto modo di approfondire un poco il percorso da regista di Jia Zhang-ke è chiaro come l'interesse dell'autore sia rivolto in prima battuta proprio ai cambiamenti che attraversano il suo Paese, una nazione talmente enorme che diventa difficile da decifrare e inquadrare. Questo Xiao Wu (conosciuto in ambito internazionale anche col nome di Pickpocket) è l'esordio nel lungometraggio del regista cinese, arriva quindi ben prima di capolavori come Still life, I figli del fiume giallo o Al di là delle montagne, presenta di conseguenza una Cina che sta cambiando passo ma che ancora, almeno da ciò che si vede nel film, non sta inseguendo in modo massivo quella modernizzazione selvaggia e per molti versi anche cruenta che il regista ci mostrerà più avanti nelle opere successive. È chiaro però come fin dai primi passi il fulcro del cinema del regista di Fenyang sia legato al territorio, questo Xiao Wu, anche per motivi di budget, è girato e ambientato proprio a Fenyang, nella provincia dello Shanxi, e restituisce uno spaccato dei tempi che ha in sé già tutti i temi che faranno poi apprezzare le opere di Jia Zhang-ke in tutto il mondo.

In una zona povera di Fenyang Xiao Wu (Wang Hongwei) vive in maniera disonesta sfilando portafogli e combinando qualche piccolo furto, il giovane, non più ragazzo e non ancora uomo, ha anche un piccolo giro di amici e collaboratori del mestiere. Il Paese però è in fermento, tira aria di cambiamento e la classe dirigente, nel quartiere rappresentata dalle forze dell'ordine, ha instituito la "tolleranza zero" nei confronti della piccola criminalità; nello Shanxi iniziano a prospettarsi le prime possibilità di fare soldi, magari con un'attività imprenditoriale, ancora limitata, abborracciata e nemmeno del tutto legale ma remunerativa, un po' come sta facendo un suo vecchio compagno di malefatte, questi per evitare di essere collegato a Xiao Wu e alla sua vita precedente "dimentica" di invitare il vecchio amico al suo matrimonio. Pian piano tutti i vecchi compagni di Xiao Wu abbandonano la vita della piccola criminalità, i rischi sono alti, gli interessi e la società cambiano; c'è chi trova una ragazza, chi prova a fare altro, Xiao Wu sembra non riuscire ad adattarsi alla nuova realtà e rimane in bilico, rifiutato dalla sua stessa famiglia e incapace di instaurare un vero rapporto con la prostituta Mei Mei (Hao Hongjian) della quale Xiao Wu si è innamorato.

Siamo nel 1997 ma per noi europei, per noi spettatori italiani, sembra di tornare alle nostre periferie del secondo dopoguerra. Xiao Wu è stato girato da un giovane Jia Zhang-ke con pochissimi mezzi: budget irrisorio, un formato in 4/3 (o simile), pellicola economica da 16mm, molta camera a mano, attori non professionisti; sia per la qualità dell'immagine, già restaurata con la collaborazione della Cineteca di Bologna, sia per l'ambientazione povera dei luoghi, sembra di trovarsi di fronte a una pellicola realizzata decisamente prima del 1997. Eppure, nonostante la miseria del contesto, sono chiari i tentativi di piccola modernità che provano a diffondersi anche a Fenyang, cose come la sala karaoke, i cercapersone, le interviste in tv, elementi quasi stridenti in una zona ancora ampiamente rurale. In un contesto di lenta apertura Xiao Wu è un resistente per indolenza, un uomo che non vuole (o non riesce ad) adattarsi a una vita diversa da quella che ha sempre fatto, il Paese si muove e lui in qualche modo resta fermo. Jia Zhang-ke mostra fin da questa sua prima opera la mano dello Stato sulle vite dei cittadini, non solo con le lecite leggi sulla criminalità (andrebbero poi approfonditi i metodi qui non esplicitati), ma anche con gli espropri delle case in previsione di raderle al suolo per costruire altro, tema che diverrà più centrale nel cinema dell'autore con il ritratto di una Cina maggiormente proiettata al futuro rispetto a quella che vediamo qui. È un film meno "collettivo" e "universale", il protagonista sembra parlare più per sé stesso che non come metaforica voce di un popolo o di gran parte di esso (seppur immerso in un contesto condiviso da milioni di cinesi), per questo in Xiao Wu è proprio il ritratto d'ambiente a essere l'aspetto più interessante di un film comunque già maturo che, in un Paese non proprio democratico e aperto, denuncia comunque povertà e disagio. Meno coinvolgente dei film successivi di Jia Zangh-ke Xiao Wu rimane un buon esempio per capire le urgenze che fin da subito hanno mosso la mano del regista cinese.

lunedì 13 febbraio 2023

LITTLE SISTER

(Umimachi diary di Hirokazu Kore'eda, 2015)

Dopo aver esplorato un dramma familiare in Father and son ponendo l'accento su figure paterne opposte e su come queste reagiscano di fronte a una situazione sconvolgente, Hirokazu Kore'eda, con questo successivo Little sister, rimane nell'ambito familiare e sulla narrazione dei rapporti interpersonali ma costruisce un film dove contrasti e drammi, presenti seppur in misura più lieve, vengono levigati dalla delicatezza delle situazioni e della narrazione, elementi che riescono a mettere lo spettatore in pace con sé stesso e con il mondo nel godere di una storia piena di tenerezza, candida, pur nascendo questa da situazioni problematiche e dolorose, almeno per alcune delle protagoniste. Il film del regista nipponico nasce dalla lettura dello stesso Kore'eda del manga di Akimi Yoshida Our little sister che il regista adatta con qualche libertà. In effetti la sensazione che a volte si prova nel guardare Little sister è la stessa che si prova di fronte ad alcuni lungometraggi d'animazione giapponese che trattano temi affini, quelli dei rapporti tra le persone, che spesso sono contraddistinti dallo stesso tocco lieve e sognante; qui in più il contributo di quattro giovani attrici che ben portano sullo schermo i diversi caratteri di queste quattro sorelle pronte a condividere almeno una parte della loro esistenza senza l'aiuto delle figure genitoriali né quello di eventuali estranei.

Sachi (Haruka Ayase), Yoshino (Masami Nagasawa) e Chika (Kaho) sono tre sorelle che vivono da sole nella casa di famiglia nella città di Kamakura; il loro padre molti anni prima aveva abbandonato la famiglia per iniziare una nuova convivenza, la madre delle tre ragazze lavora in una città lontana. Quando le tre sorelle apprendono della morte del padre, due di loro, le più giovani Yoshino e Chika, decidono di andare al funerale mentre Sachi, la più grande e ora figura materna di questa famiglia tutta al femminile, ricordando bene l'abbandono del padre e non avendolo del tutto superato, con la scusa del lavoro rifiuta di presenziare alla cerimonia. In realtà, forse presa dal rimorso, anche Sachi si presenterà in extremis per l'ultimo saluto al padre, qui le tre giovani scoprono di avere una sorellastra quattordicenne, Suzu (Suzu Hirose), che non è troppo amata dalla matrigna; in un'impeto di generosità e affetto Sachi propone a questa bambina gentile di andare a vivere con loro a Kamakura e Suzu senza nessuna esitazione accetta la proposta delle sue nuove sorelle. Una volta a casa il legame tra le quattro donne inizierà pian piano a farsi sempre più saldo pur non mancando preoccupazioni e dubbi nati dai rapporti di ognuna di loro con genitori ormai lontani e con le persone che ruotano attorno a questo nucleo familiare ormai allargato.

Non è a torto che il cinema di Hirokazu Kore'eda viene paragonato a quello del maestro Yasujiro Ozu o del suo più giovane discepolo Yoji Yamada, proprio con Little sister Kore'eda si avvicina molto alla sensibilità familiare degli altri due registi citati, con la naturalezza della quotidianità si mettono in scena i mutamenti della società, si pensi alle famiglie allargate in una società tradizionalista come quella giapponese, ma soprattutto i sentimenti e i conflitti generazionali come accadeva anche nel celebre Viaggio a Tokyo di Ozu. Sono narrazioni che rimangono lontane dai toni eclatanti, dalle scene madri, dai colpi di scena, si concentrano invece su piccole cose che riescono a mettere in evidenza situazioni, stati d'animo e sentimenti. La storia è supportata da una regia molto attenta di Kore'eda e da una caratterizzazione dei personaggi molto efficace, prendiamo ad esempio la scena in cui le protagoniste tornano dal funerale, scena nella quale è possibile intuire il carattere delle tre sorelle osservandone l'abbigliamento: Sachi, la più matura e responsabile, con un completo più serio ed elegante, Yoshino, più ribelle e sbarazzina, con un vestito smanicato, una gonna un poco più corta e un taglio più moderno, Chika, la più giovane, con un completo che sembra un'uniforme, uno zainetto e i calzini corti. Sono particolari che impreziosiscono la narrazione leggera del regista, non mancano però i momenti di riflessione: Suzu ha dei dubbi derivanti dal fatto che il comportamento di sua madre abbia potuto aiutare il disfacimento della famiglia delle sorelle, a volte si interroga sul fatto di meritare o meno il posto in famiglia e l'affetto delle sorelle, soprattutto quando arriverà il confronto con la madre delle tre ragazze, Sachi con la scusa della nuova responsabilità per la sorellina sta evitando il confronto decisivo con l'uomo che frequenta, anche lui sposato, un rapporto che le ricorda quello che portò il padre ad allontanarsi da casa, Yoshino cerca la sua strada ancora incerta sia nel lavoro che nel rapporto con gli uomini (e con l'alcool). I conflitti non esplodono mai, tutto è educato e il film è pervaso da una tenerezza e da una serenità che riempiono il cuore, qualcosa cova sotto la cenere ma il legame tra queste sorelle vince su tutto. Forse come temi meno ficcante del precedente Father and Son, questo Little sister gode però di una grazia che si fatica a trovare nel cinema moderno, questo approccio al cinema di Kore'eda è un dono prezioso, raro, da coltivare e conservare gelosamente. Film probabilmente sottovalutato che poco ha da invidiare ad altro cinema più rumoroso.

sabato 11 febbraio 2023

DRIVE

(di Nicolas Winding Refn, 2011)

Drive ha quella potenza che serve per far imprimere un personaggio nell'immaginario, il driver, con pochissimi elementi: un volto semi impassibile (quello splendido di Ryan Gosling), un giubbotto, un paio di guanti, uno stuzzicadenti, magari un martello (ma per quello c'era già Old boy) e un'auto del tutto anonima. In un impianto noir (o neo-noir se preferite) che batte strade già risapute, seppur con almeno una sostanziale differenza a scombinare un poco le carte, il personaggio senza nome (come lo straniero di Clint) interpretato da Gosling si rivela essere uno di quelli che non è facile dimenticare in quanto estraneo a un contesto che in realtà abbiamo già visto nei contenuti, negli sviluppi, ma in forme e sensibilità diverse; è un protagonista (post)moderno con qualcosa di ingenuo e antico a muoverne i passi, è una figura archetipica eppure macchiata dalle contraddizioni imposte da una società (o/e da un passato sconosciuto) corrotta e violenta, un mondo finzionale che guarda a un reale dove l'eroe non può più essere solo un eroe, in qualche modo non gli è permesso, perché contaminato, perché inserito in un mondo dove un uomo innamorato di una donna innamorata (bellissima la scena sul pianerottolo con Oscar Isaac terzo incomodo) non può essere felice, dove la posta in palio che interessa al protagonista e quella ambita dall'antagonista in fondo nemmeno collimano, eppure tutto va a catafascio a causa di un ambiente circostante fatto di soprusi, inganni, avidità e violenza. All'uomo innamorato non resta che tornare a essere un driver.

Il driver (Ryan Gosling) è un ragazzo pieno di qualità ma anche molto chiuso e riservato: lavora nell'officina dell'amico Shannon (Brian Cranston) e ha un vero talento per le auto, lavora infatti anche come stuntman nell'industria cinematografica in qualità di pilota (siamo a Los Angeles). Di quando in quando si mette a disposizione come autista in alcune rapine, un mago della fuga con le idee ben chiare e regole ferree: tu entri, il driver fa partire il cronometro, ti aspetta per cinque minuti e poi se ne va, se ci sei bene, lui ti porta lontano dalla polizia, se non ci sei lui non ti aspetta. In ballo c'è anche con Shannon il progetto di tirare su un bolide per il circuito delle corse, servono soldi e Shannon ha qualche contatto poco pulito che potrebbe finanziare, Nino (Ron Perlman) ad esempio, o Bernie (Albert Brooks). Nel condominio dove abita, il driver incontra la vicina di casa Irene (Carey Mulligan), madre del piccolo Benicio (Kaden Leos) il cui padre, Standard (Oscar Isaac) è in galera; il driver prova da subito un sentimento sincero (e platonico non dichiarato) per la donna e affetto per il bambino, quando Standard tornerà dalla galera con il fiato sul collo di gente pericolosa al driver non rimarrà che fare ancora una volta il driver per aiutare Standard e tenere al sicuro la donna e il bambino. Ma le cose non sempre filano lisce, nemmeno per lui...

Nonostante nello sviluppo Driver non ci porti nulla di davvero nuovo, Nicolas Winding Refn firma un capolavoro di estetica urbana come solo pochi riescono a fare (mi vengono in mente Mann con Collateral e non solo o anche Nolan con la sua Gotham ad esempio), estetizza e inasprisce quegli sprazzi di violenza che arrivano duri e potenti (qualcuno dice meglio il Cronenberg di A history of violence ma siamo lì) e ci regala un personaggio indimenticabile che custodisce il cuore di un bambino ma che cova sotto la cenere una furia indomita pronta ad esplodere e nessuno sa perché, magari non lo sa nemmeno Winding Refn ma questo poco importa. Un eroe romantico si è detto di questo driver, ma è davvero così? È possibile definire così un uomo capace di tanta efferatezza (seppur provocato)? Direi di sì, il finale è lì a dimostrare che cosa conta e ha contato per il nostro protagonista, quali erano le sue vere motivazioni di fronte alle quali, seppur provando anche un poco di paura nei confronti di questo "eroe", siamo disposti a giustificare questo driver e stare senza dubbi dalla sua parte. Prova di regia di grande talento, premiato a Cannes proprio per la regia, Refn riesce a mantenere in equilibrio il lato noir e quello romantico della vicenda grazie anche alla scelta di affidare a un Gosling adattissimo il ruolo del driver. Gosling riesce a mostrare tutto ciò che ha dentro il suo personaggio tramite un'impassibilità espressiva che dice tutto con variazioni minime delle linee facciali, qualche sorriso abbozzato e pochissime parole. Alla fine, quando si tirano le somme, Driver è sì un bellissimo saggio di forma e di estetica (quei titoli in rosa...) ma porta al suo interno anche qualcosa di molto sostanziale e qualcosa di nuovo nelle dinamiche action, ottime le sequenze di inseguimento ma soprattutto nella prima il driver, a differenza di altri piloti in altri film, sembra guidare con la testa più che d'impeto e d'istinto, un vero artista, uno stratega della fuga, e poi ancora quel finale che scombina le carte, quel borsone, quell'ultima scelta.

martedì 7 febbraio 2023

FATHER AND SON

(Soshite Chichi ni Naru di Hirokazu Kore'eda, 2013)

Altra bella iniziativa di Raiplay che mette a disposizione quattro film tra i più recenti della filmografia del regista giapponese Hirokazu Kore'eda raccolti all'interno di una rassegna dal titolo Ritratti di famiglia che vuole riassumere i temi portanti del cinema dell'autore che al centro dei suoi film pone da sempre i rapporti interpersonali. Le quattro opere scelte per questa breve panoramica sono Father and son (2013), Little sister (2015), Un affare di famiglia (2018) e infine Le verità (2019). Si prende quindi in esame una fase della carriera di Kore'eda nella quale il regista ha già ampiamente ottenuto il suo riconoscimento internazionale ed è ormai considerato una delle voci più interessanti e garbate del cinema nipponico; Un affare di famiglia si fregia della Palma d'oro a Cannes e del premio per il miglior film straniero ai César mentre questo Father and son vinse il premio della giuria sempre a Cannes. Ciò che più colpisce affrontando la visione di Father and son sono proprio la grazia e la naturalezza con le quali Kore'eda affronta argomenti delicati e situazioni difficili di fronte alle quali ognuno di noi cadrebbe in crisi profondissime, riuscendo a dare una forte credibilità al suo racconto e al suo incedere, per quanto alcune scelte e alcuni comportamenti di almeno uno dei suoi protagonisti possano a noi sembrare incomprensibili e finanche odiosi, è un impianto molto classico quello messo in scena da Kore'eda, privo degli eccessi che caratterizzano le narrazioni di alcuni altri autori asiatici parimenti meritevoli di attenzione.

I Nonomiya sono una famiglia benestante composta da tre membri, papà Ryota (Masaharu Fukuyama) è un uomo di successo nel campo della progettazione immobiliare, dedito completamente al lavoro e convinto che si debba a scapito di tutto mettere al primo posto la realizzazione professionale e personale, ha poco tempo quindi da dedicare alla moglie Midori (Machiko Ono) e soprattutto al piccolo Keita (Keita Ninomiya). Il bambino non ha l'indole decisa del padre, è un ragazzino gentile ed educato che però il genitore vede come un carattere arrendevole e poco deciso, cosa che porta a qualche rimprovero e a delle discussioni con la moglie Midori che in compenso concede qualche piccolo vizio al bambino. Un giorno i Nonomiya ricevono una convocazione da parte dell'ospedale in cui Keita è stato partorito, qui la coppia viene informata del fatto che all'epoca della nascita di Keita ci fu uno scambio di neonati in ospedale, per diversi motivi scoperto solo ora, che vide coinvolto proprio Keita. Il vero figlio dei Nonomiya, Ryusei (Shogen Hwang), è stato cresciuto dalla famiglia Saiki, anche questa inconsapevole dello scambio dei bambini. I Saiki sono una famiglia che vive in un quartiere povero, di una classe sociale decisamente inferiore e più alla mano anche nei modi, Ryusei è cresciuto con il padre un po' fannullone Yudai (Lily Franky), un uomo inconcludente ma che riversa tonnellate d'affetto e divertimento sui suoi bambini, la madre Yukari (Yoko Maki) e un fratello e una sorella più piccoli di lui. Quando le famiglie si incontreranno per decidere il da farsi sarà inevitabile per tutti un percorso di riflessione e di dolore che porterà a mettere in discussione relazioni e ruoli genitoriali, soprattutto per il duro e intransigente Ryota.

In un rapporto tra genitori e figli contano di più i legami di sangue, la discendenza, il patrimonio genetico o il tempo trascorso insieme, l'amore, il percorso condiviso? Domanda che suona retorica e dalla quale Kore'eda parte per costruire la sua disamina sui legami familiari, sugli affetti a volte un poco macchiati dalle aspettative, dalle direzioni che taluni genitori vorrebbero imporre ai propri figli. In contrapposizione una famiglia votata alla prosperità e una ai piccoli piaceri della vita, due figure paterne agli antipodi che dovranno affrontare insieme un percorso verso una decisione molto difficile che impatterà in maniera forte, inevitabilmente, sulla vita di due bambini (quattro se contiamo anche i due fratelli di Ryusei, ma questo è un aspetto che Kore'eda non approfondisce, scelta più che giustificata). Centrale la figura di Ryota, un uomo arrivista e ambizioso, al quale non manca l'affetto per il figlio ma che non si astiene dal mostrare un po' di delusione di fronte ai piccoli fallimenti di Keita, un padre che si rivelerà pessimo nel momento della notizia dello scambio dei bambini e che solo in parte, o per nulla, può essere giustificato dalle sue esperienze familiari. Kore'eda tratteggia questa storia che al centro ha un tema dolorosissimo con una grazia e una misura esemplari, lavora molto bene con i bambini ma soprattutto con gli adulti, personaggi che affronteranno un percorso repentino di cambiamento forzato dalla situazione. Significativo il fatto che a dare la svolta, il cambio di mentalità in alcuni dei protagonisti, sarà proprio lo sguardo di un bambino, pur tramite un'espediente indiretto ma capace di illuminare cuori e coscienze. Ottima la scelta di Raiplay nel mettere a disposizione questo assaggio dell'opera del regista giapponese sulla quale di certo torneremo a breve.

domenica 5 febbraio 2023

COMPAGNO DI SBRONZE

(Erections, ejaculations, exhibitions and general tales of ordinary madness di Charles Bukowski, 1967)

Compagno di sbronze è uno dei due volumi con i quali Feltrinelli ha editato i racconti contenuti nella compilazione originale Erections, ejaculations, exhibitions and generale tales of ordinary madness di Charles Bukowski (l'altro è Storie di ordinaria follia). Chi mastica un poco l'inglese già dal titolo originale avrà potuto intuire quali possano essere i temi che attraversano i venti racconti contenuti in questo libro, che poi sono più o meno gli stessi presenti negli scritti raccolti in Storie di ordinaria follia. Bukowski con il suo stile dissacrante, per alcuni tratti estremo e con molta probabilità disturbante per tutta una fetta di potenziali lettori, non arriva da buon primo (e probabilmente nemmeno buon ultimo) a questo tipo di approccio alla letteratura: c'era già stato infatti Henry Miller con il suo Tropico del cancro e con buoni trent'anni di anticipo, con una prosa magari anche più "alta" ma indubbiamente più pesante e di più difficile assimilazione (ne parlammo tempo addietro), c'è stata la corrente della Beat generation ad ampliare tutta una serie di discorsi, prospettive e stili, di scrittura e di vita, e ci sono stati anche alcuni suoi contemporanei, anche questi affini in qualche modo al movimento Beat, pensiamo al Richard Brautigan di Pesca alla trota in America ad esempio, libro datato 1967 proprio come questo Compagno di sbronze. Uno degli elementi sul quale si potrebbe riflettere di fronte alla produzione di Bukowski, almeno per quella relativa ai racconti (i romanzi potrebbero essere un discorso a parte), è la data di scadenza entro la quale è opportuno affrontare l'opera dell'autore statunitense (ma nato in Germania). Mi spiego, più che "è Bukowski un autore per tutti?" la domanda da porsi potrebbe essere "è Bukowski un autore per tutte le età?" o, aggiungo, "è meglio leggere le opere di Bukowski in gioventù per poterle meglio apprezzare onde evitare di leggere racconti anticonformisti quando ci si sente ormai dei (anche non troppo) vecchi barbogi?". Scherzi a parte credo che per godere appieno dell'opera di Bukowski, più che per quella di altri autori, non sia di poco peso l'età anagrafica del lettore che approccia racconti come quelli di Compagno di sbronze; se anche il lettore scafato e adulto può apprezzare quella che è una chiara critica alla società del capitale presentata in racconti come La macchina strizza fegato, scritto attuale e ancora molto divertente, lo stesso lettore potrebbe non essere più in sintonia con resoconti di ripetute bevute e anonime, e spesso squallide, scopate. Bukowski ha dalla sua la capacità di essere molto spesso divertente e allo stesso tempo capace di assestare colpi bassi mica da poco come ne Il demonio o ne L'assassinio di Ramon Vasquez, di contro presenta una certa tendenza a ripetersi (provate a leggere di fila tutti i racconti di Compagno di sbronze e Storie di ordinaria follia), uno stile di scrittura molto libero e che potrebbe non piacere proprio a tutti (vedi l'uso originale della punteggiatura, l'assenza di maiuscole, etc.), e un approccio alla figura femminile, spesso visto come oggetto di puro sfogo sessuale, che oggi forse più di allora ha il potere di suscitare mugugni e scontento. È indubbio come lo stile di Bukowski sia stato cantore fondamentale del suo tempo come lo è stato l'autore di una ricerca di un modo di vivere alternativo, non sottomesso ai dettami di una società intenzionata a incasellare e instradare gli individui verso quello che a conti fatti è divenuto il modello imperante in gran parte del globo oggi, detto questo rimango dell'idea che il vecchio sporcaccione letto da giovini abbia tutto un altro sapore, quindi cari ragazzi, se ce ne sono di fronte a queste pagine virtuali, sotto con il vecchio Buk prima che sia troppo tardi!

venerdì 3 febbraio 2023

LICORICE PIZZA

(di Paul Thomas Anderson, 2021)

Licorice Pizza è un prodotto strano per essere un film di Paul Thomas Anderson oppure è strano proprio perché di Paul Thomas Anderson? All'apparenza quest'ultima opera del regista californiano sembra essere ammantata da una leggerezza non usuale per il cinema del Nostro, eppure quello che poteva nel suo sviluppo rivelarsi come un classico coming of age, un film adolescenziale come già ne abbiamo visti molti, assume pian piano dei contorni (o ancor meglio li perde) del tutto peculiari, non definiti, come non è mai definita la storia d'amore (???) tra i due protagonisti, i bellissimi e per nulla belli Alana Kane (Alana Haim) e Gary Valentine (Cooper Hoffmann). C'è un senso di libertà e di potenzialità che pervade l'intero Licorice Pizza, protagonisti (tutti giovani) ancora di là da compiersi, con un futuro non ancora incanalato, pieno di incognite e promesse nonostante davanti a loro ci sia ad aspettarli non proprio uno dei decenni più facili della storia americana contemporanea (siamo nel '73). Lo stesso senso di libertà si respira nella struttura adottata per narrare la sua storia da Paul Thomas Anderson, uno che di esperimenti ne ha già fatti diversi, l'idea di non tracciare nulla che possa avere l'apparenza del "definitivo" accompagna con coerenza il rapporto di questi due ragazzi che non poggia su basi solide, su dichiarazioni chiare, su un legame definito e continuativo bensì su quello che è un continuo rincorrersi, un andare uno incontro all'altro sottolineato in un paio di sequenze molto belle, un andare uno dietro l'altro in altri passaggi, corse e rincorse che trovano diversi punti di contatto, di congiunzione, tra due personaggi dai caratteri diversi, dalle vite diverse, dalle età parecchio diverse.

Gary Valentine è un'adolescente con una piccola carriera da attore già avviata, è un tipo aperto che si lancia nelle cose senza stare a pensarci troppo; il giorno in cui nel suo liceo si scattano le foto per l'annuario scolastico Gary conosce Alana, l'assistente del fotografo. La ragazza ha una decina d'anni più di lui e Gary ne rimane abbagliato, tenta quindi un approccio sfrontato chiedendole di uscire, lei rifiuta ma si legge tra le righe un interesse per quel ragazzo così aperto e solare, un interesse che sfocerà in un'altalenante amicizia che sembra spesso poter essere qualcosa di più, Alana seguirà così il suo nuovo amico in giro per gli States in occasione di alcuni provini e poi si renderà disponibile a imbarcarsi in diverse avventure nelle quali Gary con entusiasmo si getta a capofitto, dalla vendita di innovativi materassi ad acqua alla gestione di una moderna sala giochi con tanto di flipper, la novità del momento, Gary riuscirà anche a convincere Alana a provare la strada del mondo dello spettacolo ottenendo per lei un provino nell'ultimo film della star Jack Holden (Sean Penn). Tutto questo in un'America afflitta dalla crisi del petrolio e nella quale va in scena in maniera grottesca la decadenza della grande Hollywood che fu.

Fin dal titolo del film, non così immediato da cogliere se non per i fini conoscitori della cultura americana del periodo messo in scena da Paul Thomas Anderson, è chiaro il forte desiderio di tornare a un'altra epoca, Licorice Pizza era infatti una catena che vendeva dischi in vinile (le pizze alla liquirizia) in auge nella California degli anni 70; in questo il lavoro del regista è fenomenale, Paul Thomas Anderson ci trasporta di peso in un'altra epoca, che tra l'altro non è nemmeno la sua, in una storia in parte sincera e plausibile in parte sognante (un adolescente potrebbe davvero gestire una sala giochi?) dove i due protagonisti sono il centro del (loro) mondo, non sono belli, non sono definiti, non sono ricchi, non sono forse nemmeno convinti di che direzione far prendere al loro rapporto eppure sono vivissimi, veri, sono il centro di uno sguardo indulgente e innamorato su un'adolescenza (o giovinezza se si pensa ad Alana) ancora capace di piccole o grandi meraviglie (guidate voi un camion senza benzina in retromarcia sulle strade in discesa della California), sguardo in contrasto a quello grottesco su una generazione decadente, qui ben radicata nel mondo del cinema, che ridicolizza se stessa, bellissimi in  questo senso i personaggi di Bradley Cooper nel ruolo del produttore John Peters (marito della Streisand), qui un vero coglionazzo, o quelli dell'accoppiata Sean Penn/Tom Waits, per non parlare di Jerry Frick (John Michael Higgins) e del suo giapponese. Licorice Pizza non si dipana con compattezza narrativa, segue invece nel suo andamento quello un po' discontinuo, un po' a scatti, della relazione tra Gary e Alana, personaggi portati sullo schermo da due esordienti promettenti: Hoffman è il figlio di Philip Seymour (sperando che i geni non mentano), la Haim è una delle Haim, gruppo musicale californiano con già tre dischi all'attivo. Licorice pizza è un film classico ma anche no, coeso ma anche no, diverso ma anche no, nostalgico forse, ma forse anche no, indubbiamente tenero e caldo come un dolce ricordo, vero o fallace che sia ha poca importanza. 

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