venerdì 11 ottobre 2024

MIO ZIO

(Mon oncle di Jacques Tati, 1958)

Monsieur Hulot è un personaggio di fantasia, sorta di alter ego del regista francese Jacques Tati; questo signore allampanato, un po' goffo, fumatore di pipa, portatore di cappello e amante della bicicletta compare in diversi film di Tati ed è dallo stesso interpretato, le sue peripezie si possono ammirare in Le vacanze del signor Hulot, film del 1953, nel qui descritto Mio zio (1958), forse il film più celebre e premiato tra quelli realizzati da Tati, in Play Time - Tempo di divertimento (1967) e in Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971). Il personaggio divenne talmente celebre in Francia (e oltre) da guadagnarsi anche una curiosa apparizione nel film di François Truffaut Domicile conjugale da noi tradotto con un più farsesco Non drammatizziamo... è solo questione di corna. La celebrità di Monsieur Hulot è dovuta in particolar modo a Mio zio (non a mio zio, al film Mio zio, quello di cui vorrei parlare oggi), pellicola che alla trentunesima edizione dei premi Oscar vinse la categoria per il "miglior film straniero" battendo tra l'altro anche il nostro I soliti ignoti di Monicelli, mentre a Cannes si portò a casa il Premio della giuria. Se Hulot è quasi una gloria nazionale per i cugini d'oltralpe Tati non è da meno, anche lui omaggiato da altri autori, da recuperare lo splendido film d'animazione di Sylvain Chomet, L'illusionista, costruito su un abbozzo di sceneggiatura inedita dello stesso Tati che presentava qualche sentore autobiografico, omaggio da non perdere. Ma torniamo a Mio zio (non fatemi ripetere la battutaccia di prima...).

Il piccolo Gérard Arpel (Alain Bécourt), nove anni, vive con i suoi genitori in una casa modernissima. Siamo ancora negli anni 50 ma papà Arpel (Jean-Pierre Zola), proprietario di una fabbrica all'avanguardia che produce materiale plastico, ha deciso di andare a vivere in un quartiere in via di sviluppo in una casa avveniristica. L'abitazione è di un colore uniforme, geometrica nell'aspetto, ordinatissima e minimale all'interno, dotata di un impeccabile giardino con al centro una fontana a forma di pesce che a comando sputa acqua dalla sua bocca metallica e da altre mille diavolerie al passo con i tempi, anzi finanche precorritrici degli stessi. Papà Arpel non ha molto tempo per il piccolo Gérard, tra i due corre una distanza generazionale che sembra incolmabile, mamma Arpel (Adrienne Servantie) è sempre indaffarata per tenere pulita e in ordine la casa, per mostrarla ai vicini e un poco vantarsene, nell'accendere e spegnere di continuo la fontana a seconda delle visite (per risparmiare si immagina), nello star dietro a tutte le diavolerie di questa modernità senz'anima. Gérard, va da sé, quindi si annoia. Per fortuna c'è lo zio Hulot che spesso si prende cura del bambino, lo porta in giro, lo fa giocare per strada con gli altri monelli della sua età, gli permette di sporcarsi e mangiare deliziose porcherie, in generale di assaporare la vita di un'epoca che sembra ormai al tramonto e che Monsieur Hulot (Jacques Tati) non ha nessuna intenzione di abbandonare in favore di quella più fredda e impersonale che sembra prospettarsi da lì a poco.

Jacques Tati, come è nel suo stile, struttura il suo film con pochi dialoghi e lascia il compito di esplicare le situazioni a immagini e suoni, il suo Hulot praticamente non parla mai, è qui veicolo di uno stile di vita più antico e più umano, genuino e soprattutto vivace e conviviale rispetto a quello che la vita moderna impone e che, volontariamente o meno, i suoi genitori stanno imponendo al piccolo Gérard che, vista la tenera età, di tutto ha bisogno fuorché di un ambiente glaciale e di relazioni fredde. Così, quando il bambino è con lo zio, si assiste al ritorno a quella vita di strada (ricordiamoci che siamo a fine anni 50) dove i bambini tiravano scherzetti ai passanti, si sporcavano, facevano merenda tutti insieme, avevano quei contatti umani che la visione di Tati aveva già predetto che in qualche misura sarebbero andati persi in un tempo futuro (e purtroppo il regista ci aveva visto lungo). Dal punto di vista scenografico (scenografie di Henri Schmitt) c'è un bel contrasto tra la maison futurista degli Arpel e la casa di Hulot sita in un quartiere popolare, strade in terra battuta, vicini rumorosi, bambini gioiosamente invadenti, scale, passaggi, parapetti da percorrere per raggiungere il proprio nido, tutto meno funzionale ma decisamente più romantico. È questo uno specchio della differenza tra uno stile di vita semplice, magari meno organizzato ma più sentimentale, è una modernità scandita da un progresso che già nei Cinquanta metteva davanti ai contenuti l'immagine, l'apparire. Gli Arpel hanno una bella casa da mostrare, un giardino impeccabile, l'auto nuova, l'ultima diavoleria in fatto di portoni basculanti, ma stringi stringi il loro bambino preferisce la compagnia dello zio alla loro, e quindi a che pro tutto ciò? C'è già un bel pensiero da parte di Tati, senza mai voler essere passatista, su quanto sia opportuno o meno abbracciare modernità e progresso a ogni costo, in tutti gli aspetti della vita; mentre gli incontri degli Arpel con i vicini sono per lo più freddi, quelli di Hulot con perfetti sconosciuti (vedi la scena della caduta del passante nel fiume) sono il viatico per nuove amicizie, magari anche occasionali, baldorie, bevute, occasioni conviviali delle quali si bea, senza annoiarsi finalmente, anche il piccolo Gérard. A quest'ultima visione di vita si oppone la nascente società dei consumi: lavorare, produrre, consumare (cose inutili per lo più) e tornare a lavorare; papà Arpel, invidioso dell'affetto che il figlio prova per lo zio, tenterà a più riprese di inserire Hulot in questo meccanismo deumanizzante. Per fortuna, il finale ce lo dimostra, Hulot resiste e, almeno in questo film, riesce a fare scuola tirando fuori del sangue da quella che all'apparenza sembrava una rapa. Non male per questo strambo lungagnone dal cuore tenero.

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