lunedì 14 ottobre 2019

THE BEATLES: EIGHT DAYS A WEEK - THE TOURING YEARS

(di Ron Howard, 2016)

I Beatles visti come unica entità, un mostro a quattro teste come scherzosamente gli stessi Fab Four si definiscono, in quelli che forse furono gli anni più felici e faticosi della loro carriera, quelli che vanno dagli inizi fino al 1966, anno in cui i quattro di Liverpool misero fine alla loro estenuante vita on tour. In quegli anni il regista Ron Howard era ancora un bambino che avrà vissuto la beatlemania ascoltando i suoi beniamini alla radio o sui vinili, quella passione di bambino si riflette nell'amore che il regista riversa in questo documentario, una bella ricostruzione che può contare su parecchio materiale inedito messo a disposizione da Paul McCartney e Ringo Starr, da Yoko Ono e dalla famiglia Harrison. Il corpo centrale del documentario, preceduto dal racconto dei primi passi mossi dalla band e dell'incontro con il quinto Beatle Brian Epstein, manager del gruppo, e seguito da un breve resoconto degli anni post Revolver, si concentra sui concerti nei piccoli club europei (Amburgo in particolare) per arrivare alla spropositata marea di pubblico gestita negli U.S.A., una folla delirante che porterà i Beatles a esibirsi in grossi stadi prima che le stesse organizzazioni fossero pronte per eventi di portata simile.


Quella che vediamo nel documentario ha l'aria di una famiglia più che quella di una band, non c'è privato per il singolo, Paul, John, George e Ringo dividono tutto, tra loro sembra esserci un'intesa e un'amicizia sincera che li porta a decidere ogni passo all'unisono, consigliati da Epstein e dal produttore George Martin. Via via che la fama del gruppo cresce aumentano gli impegni in giro per l'Europa e poi in America, è incredibile vedere come le composizioni dei Beatles prendessero forma nei ritagli di tempo con uno sforzo minimo, concentrato per risparmiare su energie, tempi di sala e sul tempo vero e proprio che non era mai troppo. Eight days a week è anche testimonianza dello scoppio della beatlesmania, un fenomeno d'isteria di massa che portò il gruppo a dover suonare in maniera sempre più intensa e continuativa, in posti sempre più grandi e in eventi logisticamente quasi impossibili da gestire per poca preparazione e perché fenomeni della portata dei Beatles ancora non se ne erano visti. È molto divertente assistere alle testimonianze di note star che in gioventù furono fan del gruppo o che addirittura ebbero la possibilità di assistere a un loro concerto, tra di essi una giovanissima Sigourney Weaver, Whoopy Goldberg, Elvis Costello e altri ancora.


Con il trascorrere degli anni Howard ci mostra come il gruppo passi da un'atmosfera rilassata, quasi goliardica, genuinamente irriverente nei rapporti con pubblico e stampa, un approccio divertito e complice con chiunque, a una situazione più tesa e logora, cambiamento avvenuto proprio a causa degli infiniti tour, sempre più impegnativi e  stressanti, organizzati in mancanza di sicurezza (vedi l'episodio "I Beatles sono più famosi di Gesù Cristo") e con mezzi inadeguati. Emblematico della situazione il concerto allo Shea Stadium di New York (casa dei Mets) nell'agosto del 1965 con il gruppo scortato in un'auto blindata costretto a suonare con un'impianto indecoroso, musica diffusa tramite gli altoparlanti dello stadio e una folla oceanica che sovrastava il suono degli strumenti. Anno dopo anno, album dopo album, assistiamo allo sviluppo della carriera della band dal punto di vista del rapporto con il pubblico e con gli show, The touring years non è tanto un documentario alla scoperta della musica dei Beatles quanto la cronaca di come questi divennero un fenomeno culturale di massa e di come questa situazione portò al logorio di alcune dinamiche.

Quello che di più bello emerge dal film è il rapporto tra quattro amici che si ritrovano a essere il più grande successo commerciale di sempre, prima ancora che il loro vero e innegabile talento venisse fuori del tutto (le loro cose migliori in fondo da questo documentario rimangono fuori). Ron Howard ha il merito di presentarci qualcosa di un pochino diverso su una band di cui si è già detto tutto e sulla quale sembrava si fosse già visto tutto quello che c'era da vedere, un'oretta e mezza piacevole non solo per i fan.

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