domenica 12 gennaio 2025

GIURATO NUMERO 2

(Juror #2 di Clint Eastwood, 2024)

Il 31 maggio prossimo venturo Clint Eastwood compirà ben novantacinque anni. Ora cerchiamo di immaginare la quantità di energia che deve avere un uomo che a quasi novantacinque anni suonati è capace di dirigere un film come Giurato numero 2, un'opera che come ci si aspetta da Eastwood sfoggia un impianto molto classico (con alcuni scarti interessanti dalla tradizione) ma soprattutto pone lo spettatore di fronte a dilemmi etici e morali che dovrebbero essere alla base di ogni società, di ogni convivenza, di ogni sistema volto a garantire non solo (cieca) giustizia ma soprattutto giusti pesi, giuste misure e magari, dove fattibile, di offrire a tutti la possibilità di vivere senza pregiudizio le proprie seconde occasioni. Sono temi importanti, fondanti verrebbe da dire per imbastire, costruire e poi ampliare discorsi su ipotetiche società (e mondi) migliori, discorsi che oggi più di ieri sappiamo essere utopistici; nonostante questo Clint getta il sasso, prova a farci riflettere, dice la sua, ancora una volta ci propone un film profondamente morale e tra l'altro compie l'operazione senza ricorrere a toni moralistici né tantomeno paternalistici in un'apertura di riflessioni che lasciano campo aperto a ben più di un'approfondimento. Per fare tutto questo Eastwood torna a Savannah, in Georgia, luogo dove il regista già ambientò nel 1997 Mezzanotte nel giardino del bene e del male.

Justin Kemp (Nicholas Hoult) è un marito amorevole in attesa di diventare padre per la prima volta, cerca in tutti i modi di alleviare lo stress della gravidanza dalle spalle della moglie Ally (Zoey Deutch), la ragazza è infatti molto preoccupata a causa di vicende passate e dal fatto che suo marito dovrà assentarsi per qualche tempo in quanto selezionato per far parte di una giuria in un processo per probabile omicidio, proprio come prevede il sistema giudiziario americano. La vittima è una giovane donna, Kendall Carter (Francesca Eastwood), ritrovata in fondo a un dirupo ai margini di una strada poco illuminata; la ragazza era stata vista da diversi testimoni litigare in un bar in maniera veemente con il suo ragazzo, tal James Sythe (Gabriel Basso), un tipo dal passato discutibile e incline alla collera che diventa in maniera naturale l'indiziato (il colpevole?) numero uno. Dopo gli interventi del difensore d'ufficio (Chris Messina) e quelli dell'avvocato dell'accusa Faith Killbrew (una fantastica Tony Colette), la giuria, della quale Kemp è il giurato numero due del titolo, dovrà riunirsi per tirare fuori un verdetto che di primo acchito sembra essere già scritto. All'interno di un gruppo di giurati pronto a condannare Sythe le uniche voci discordi sono in parte quella del giurato di nome Harold (J. K. Simmons), non troppo convinto del fatto che la polizia abbia indagato a dovere su un caso all'apparenza semplice, e proprio quella del nostro giurato n. 2 che dopo qualche dubbio si convince dell'innocenza dell'imputato in quanto, all'insaputa di tutti (anche di sé stesso fino a quel momento), protagonista involontario e diretto della morte della giovane Kendall (non è uno spoiler, si scopre nei primissimi minuti del film). Così Kemp inizierà ad adoperarsi affinché gli altri giurati convertano il loro verdetto da colpevole a innocente nella speranza di ottenere una buona soluzione per tutti, cosa che però alcuni dei compagni di giuria non sembrano disposti a fare.

Con Giurato numero 2 siamo all'interno del filone processuale e giudiziario protagonista di tanto cinema americano (e non solo, pensiamo al recente Anatomia di una caduta), più dalle parti de La parola ai giurati (Sidney Lumet, 1957) che non da quelle di opere più votate al dibattimento in aula o al ruolo da protagonisti di avvocati e testimoni, cose alla Perry Mason giusto per intenderci. La fase in aula è ovviamente presente ma ciò che interessa davvero a Eastwood è quel che succede nella sala e nelle teste (e nei cuori e nelle pance) dei giurati, uno dei quali affronta un dilemma di coscienza insostenibile, consapevole di poter essere stato lui stesso l'involontario artefice della morte della ragazza e al contempo impossibilitato alla confessione non solo dalla legittima paura di una punizione oltremodo pesante da parte del sistema giudiziario americano a fronte di quello che a conti fatti sarebbe da considerare come un incidente (da recuperare le parole di Kiefer Sutherland, avvocato amico di Kemp, che non lasciano speranza in caso di confessione) ma anche dalla responsabilità verso una famiglia nascente che verrebbe abbandonata a sé stessa e che perderebbe il perno emotivamente più stabile in un momento di evidente stress della consorte. Su queste basi sono tantissimi gli spunti di riflessione morale che vengono sollevati nel corso dello sviluppo del film, il primo dei quali è la sufficienza con cui a volte si giudicano gli attori di questi fatti delittuosi (il true crime oggi ci ha reso anche tutti criminologhi, almeno una volta ci si limitava ad essere allenatori di calcio) qui esemplificata dalla svogliatezza di alcuni giurati che "hanno da fare", hanno famiglie che li aspettano a casa e non hanno tempo da perdere, e allora colpevole sia! In fondo è facile, sembra tutto chiaro. Purtroppo non lo è e Kemp lo sa. Il giurato numero 2 è mosso da senso di colpa, sentimento che gli altri undici giurati non provano, è lui che spingerà per rivedere con calma tutte le possibilità e non affrettare una decisione che sì gli toglierebbe le castagne dal fuoco ma che pure condannerebbe un innocente. Inoltre, in un passato ormai lontano, c'è qualcosa che potrebbe, in caso di confessione, non deporre in suo favore e aumentare l'eventuale pena, si amplifica quindi un conflitto tremendo tra colpa e paura che inizia a pesare su Kemp in maniera pesante. Dopo alcune riflessioni entra in ballo il concetto di giustizia, in maniera simbolica, anche didascalica se vogliamo, richiamato da Eastwood già nei titoli di testa, in un caso come questo è possibile davvero ottenere un verdetto giusto che non rovini inevitabilmente (e ingiustamente) la vita di qualcuno? Altro nodo focale è quanto conti la propria felicità (e quella dei propri cari) a dispetto di quella di altri, dilemma qui non solo pertinente al giurato numero due ma anche alla stessa Killbrew (l'avvocato d'accusa) in procinto di ottenere un avanzamento di carriera legato proprio alla condanna dell'imputato. E in tutto questo bailamme etico e morale possiamo dire che il sistema funzioni davvero? Che non sia fatto anche di funzionari e poliziotti svogliati, faciloni, menefreghisti, autorità pronte a far condannare un sospettato senza aver nemmeno tentato di dirimere ogni ragionevole dubbio? Clint ci lascia con un'ipotesi di chiusura ma soprattutto con tanti moniti, riflessioni aperte su valori altissimi come giustizia, verità, etica, obbligo morale e piaghe come pregiudizio e opportunismo, fermo restando la presenza di un sistema molto fallibile e molto spesso iniquo.

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