(di James Gray, 1994)
Little Odessa è il film di un regista all'esordio che contiene in nuce gli elementi, gli stilemi e un tipo di narrazione che con maggiore maturità si concretizzeranno nelle opere successive di James Gray, autore a inizio carriera sicuramente non troppo prolifico, da questo film alla realizzazione de I padroni della notte di cui abbiamo parlato qualche giorno fa trascorrono infatti ben tredici anni, riempiti solo dall'opera seconda The Yards: tre film in quasi tre lustri, sicuramente una maturazione artistica ben ponderata. È un esordio questo molto compatto, essenziale, poco spettacolare, all'apparenza povero e stilisticamente retrodatato, un film scandito da un incedere coerente e privo di scene madri, costante nei toni, privo di esplosioni (non solo materiali) di qualsiasi tipo se non quella emozionale scatenata dalle sequenze finali. Little Odessa racconta una storia che si costruisce scena dopo scena, minuto dopo minuto, senza concedere né divagazioni né soprassalti allo spettatore, corre dritta per il suo sentiero, magari brullo e scosceso, per alcuni versi anche deprimente, racconta un mondo, un ambiente ripreso anche nei film successivi di Gray con esiti sicuramente più accattivanti.
Little Odessa è un quartiere del distretto di Brooklyn, città di New York, storicamente associato all'immigrazione di matrice russa. La famiglia Shapira, russi di religione israelita, vive nel quartiere in qualche modo governato dal boss Boris Volkov (Paul Guilfoyle) che con il primogenito di Arkady Shapira (Maximilian Schell) ha più d'un conto in sospeso. Questo figlio degenere, Joshua (Tim Roth), è un sicario a pagamento che proprio a causa dei contrasti con il boss di Little Odessa è in esilio forzato lontano da Brooklyn ormai da diverso tempo. Con l'occasione di un lavoretto da portare a termine proprio nel vecchio quartiere, Joshua torna ai suoi luoghi, non passerà molto tempo prima che qualcuno noti il ritorno del "figliol prodigo" che non ha mai perso un posto di rilievo nel cuore del fratello più giovane, l'ormai adolescente Reuben (Edward Furlong). Tra le strade di Brighton Beach Joshua troverà i suoi vecchi amici, la sua ex fiamma Alla (Moira Kelly), i contrasti con suo padre che per questo figlio prova vergogna e sconforto, l'amore del fratello e una madre malata in fin di vita (Vanessa Redgrave). Troverà anche la vendetta del boss?
Come accadrà anche per I padroni della notte, seppur con dinamiche differenti, sotto i riflettori ci sono i legami familiari, inscindibili ma portatori sempre di dolore e sofferenza. Per Joshua c'è il ricordo di un padre onesto ma violento, che disprezza il figlio e ripone le speranze nel secondogenito, un uomo stanco che accudisce una moglie morente e allo stesso tempo la tradisce con la più bella e giovane amante. Reuben è perso tra la malattia della madre, l'assenza del fratello e il dover nascondere al padre di aver ormai abbandonato la scuola. La madre, come solo le donne sanno fare, è pietosa verso tutti, compreso quel figlio assassino, nonostante il dolore del cancro. L'esistenza degli Shapira a Little Odessa ha il sapore della condanna, in una tragedia dai toni shakespeariani anche l'unica speranza per il futuro rischia di essere stroncata prima ancora di nascere.
Tutto, dalla fotografia alla regia, finanche la recitazione di attori sicuramente di razza come Tim Roth, risulta dimesso, volutamente sottotono, quasi abbruttito, opaco, privo di speranze come lo sono le vite dei protagonisti, avviate su un percorso di disillusione e dolore. Mettendo il film in prospettiva, come inizio di carriera di un regista che guarda molto al Cinema classico americano di un certo tipo, Little Odessa è da considerarsi un buon esordio, film di sicuro valore, ancora grezzo e certamente migliorabile, che però è stato utile per James Gray come affermazione di una strada artistica perseguibile, affermazione confermata dai numerosi premi ricevuti dall'opera prima, su tutti il Leone d'Argento e la Coppa Volpi per la Redgrave al Festival di Venezia. James Gray incarna la speranza di un ricambio generazionale, necessario e prezioso in vista della futura (ahimè inevitabile) dipartita di alcuni vecchi leoni ai quali noi tutti siamo sinceramente legati e che si avviano purtroppo verso un'età quanto meno veneranda. Gente insostituibile alla quale comunque probabilmente farà piacere sapere di avere qualche discepolo degno del loro nome.
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