(Higanbana di Yasujirō Ozu, 1958)
Fiori d’equinozio, film di Ozu del 1958, è una sorta di spartiacque nella produzione del regista giapponese, una filmografia che, dopo questa, conterà ancora solo cinque opere. Con questo film assistiamo al passaggio da parte del regista dal classico bianco e nero alla modernità del colore, tecnica in realtà giunta in Giappone già qualche anno prima. Questo cambiamento, vista la reiterata contrapposizione tra tradizione e modernità all’interno del cinema di Ozu, diviene subito tema, considerando anche che l’avvicendarsi tra b/n e colore altro non è che un passaggio dalla tradizione del cinema “dei padri” a un cinema per l’epoca contemporaneo e innovativo. Guardando Fiori d’equinozio è facile capire come la scelta di Ozu di passare al colore proprio con questo film sia stata ponderata e affatto casuale. Il tema centrale dell’opera in questione è la diatriba tra matrimonio combinato, quindi “della tradizione” e approvato dalla famiglia d’origine, e matrimonio d’amore, finalmente perorato a gran voce soprattutto dalle giovani donne, dalle nuove generazioni in cerca di una libertà sentimentale nuova e sincera, desiderio non solo lecito ma ormai dovuto in un Paese che aveva già riconosciuto diritti come quello all’aborto. Mancano qui quelle figure femminile che in altre opere del maestro, dopo tanti pensieri e tentennamenti, decidevano di ritornare alle vecchie consuetudini, al calore di un nucleo familiare noto (e assemblato da altri) ma magari stretto e in potenza poco felice; le giovani ragazze protagoniste sono qui decise e fermamente convinte nel voler sposare solo chi dicono loro (e ci mancherebbe pure), la vera novità è che anche l’andamento del film, e quindi la visione dello stesso regista, sembra finalmente dar loro ragione e condannare l’ipocrisia da vecchi barbogi della generazione precedente qui ben incarnata dall’ottimo Shin Saburi.Fiori d’equinozio si apre sulla scena di un matrimonio al quale presenzia anche il signor Wataru Hirayama (Shin Saburi), un amico dei genitori della sposa che viene invitato a dire qualche parola d’augurio alla novella coppia di sposini. Hirayama si lancia così in una lode del matrimonio d’amore, quello scelto dai due giovani che non hanno aderito a un matrimonio combinato, lasciando trasparire anche una buona dose di rimpianto, in maniera anche poco elegante vista la presenza della moglie Kiyoko (Kinuyo Tanaka), per non aver potuto in gioventù seguire la stessa strada ed essersi dovuto adeguare alle scelte impostegli dalla propria famiglia. Sono diversi gli amici e gli ex commilitoni che chiedono aiuto e consiglio a Hirayama in merito ai rapporti tra padri e figlie in un’epoca di cambiamenti difficili da gestire da questi padri così legati alle vecchie usanze (e alla società patriarcale), uno su tutti il vecchio Shukichi Mikami (Chishu Ryu) la cui figlia è andata via di casa e ha trovato lavoro in un locale di dubbia fama per poter mantenere la sua indipendenza. Hirayama a più riprese da l’impressione di essere un uomo illuminato ma quando sarà sua figlia Setsuko (Ineko Arima) a rifiutare il marito pensato per lei dal padre a favore di un altro uomo inviso a Hirayama verrà fuori l’attaccamento dell’uomo a un mondo vecchio e ormai sorpassato. Per fortuna nel cinema di Ozu le divergenze si appianano molto spesso.
Il passaggio al colore, oltre ai significati di contenuto di cui abbiamo già detto, porta con sé una ventata d’aria fresca alla visione dell’opera di Ozu che finalmente ci permette di ammirare in completezza tutto il décor e la messa in scena che con tanta precisione e accuratezza il regista si premura di allestire per le sue narrazioni; piace anche l’idea di poter gustare nello splendore dei loro colori gli abiti tradizionali delle protagoniste così come la moda del tempo nei costumi delle impiegate, dei giovani uomini, dei frequentatori dei locali. Per quel che riguarda le mere scelte di regia Ozu continua per la sua strada portando avanti un discorso ormai noto ai fan del suo lavoro senza aggiungere ulteriori stravolgimenti a quello già portato dal passaggio al colore. Fiori d’equinozio è forse il film più moderno, femminista e vicino alle nuove generazioni che Ozu ha girato finora (il riferimento è al 1958); se nei film precedenti la nostalgia del passato (ancora presente anche qui soprattutto nella sequenza finale) era dal regista in qualche modo illustrata come la “via corretta” (pensiamo alle conseguenze della modernità in Viaggio a Tokyo), qui si assiste a un cambio di prospettiva per il quale il vecchio viene visto come desueto e costrittivo in favore di usanze più moderne e più giuste per i giovani dell’epoca che iniziano a rivendicare indipendenza e diritto alle proprie scelte (pensiamo a quanto possa essere brutale l’imposizione di un/a compagno/a e la negazione di un amore sincero e sentito). Scampoli di modernità anche nel linguaggio, allusioni moderate ai rapporti sessuali, scherzi sul concepimento, locali equivoci, tutti segnali di un cambiamento e di un passo ulteriore anche per il cinema del maestro verso quell’innovazione vista finora sempre con un certo grado di sospetto.
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